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Cap 2 Disabilità e diritto: una prospettiva multilivello

1. Il quadro normativo internazionale ed europeo:

1.1. La Convenzione sul reinserimento professionale e l’occupazione delle persone disabili – Convenzione ILO

Come illustrato nelle pagine precedenti la condizione lavorativa delle persone con disabilità è stata presa in considerazione a più livelli. In ambito internazionale viene in rilievo in primo luogo quanto messo a punto in seno all’Organizzazione internazionale del lavoro (in inglese

International Labour Organization, d’ora in avanti ILO).

La Conferenza generale dell’Organizzazione internazionale del Lavoro, riunitasi a Ginevra il 1° giugno 1983, ha adottato la Convenzione sul reinserimento professionale e l’occupazione per le persone con disabilità. La Convenzione prende le mosse dalla raccomandazione relativa all’abilitazione e al reinserimento professionale degli invalidi del 1955, e da quella sulla valorizzazione delle risorse umane del 1975. Inoltre, nel 1981, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, aveva proclamato l’anno internazionale delle persone disabili, il cui tema era la “completa partecipazione ed uguaglianza”. A ciò si aggiungano i profondi mutamenti che stavano attraversando il mondo del lavoro e che richiedevano un aggiornamento delle norme internazionali. L’art. 1 della Convenzione n. 159 ci fornisce una definizione di “disabile” fortemente connessa alla dimensione lavorativa: ai sensi della disposizione in esame è infatti da considerarsi disabile “qualsiasi persona le cui prospettive di reperire e di conservare un impiego adeguato, nonché di progredire professionalmente, sono notevolmente ridotte a causa di un handicap fisico o mentale debitamente riconosciuto”. Ne consegue, all’art. 2, che lo scopo del reinserimento professionale è quello di consentire alle persone con disabilità di reperire un’occupazione adeguata, di favorirne il mantenimento e la crescita professionale al fine di facilitarne l’inserimento nella società. L’individuazione dello strumento per

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realizzare questi obiettivi è rimandata agli Stati parti, che sono chiamati ad attuare determinate politiche coordinandosi e consultandosi con le organizzazioni maggiormente rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro e delle persone disabili (art. 5). Spetta dunque alla legislazione statale l’individuazione degli strumenti adeguati, così come spetta ad essa l’individuazione delle autorità competenti chiamate ad “adottare provvedimenti al fine di fornire e valutare servizi di orientamento professionale, di formazione professionale, di collocamento, di impiego e altri servizi connessi destinati a consentire alle persone disabili di ottenere e conservare un impiego e di progredire professionalmente ; i servizi esistenti per i lavoratori in genere dovranno, ogni qualvolta ciò sia possibile ed opportuno, essere utilizzati con gli adattamenti necessari” (art.7). Nella Convenzione in questione compare il termine “adattamenti necessari”, segnale, se pur con dei limiti, della priorità che si stava attribuendo al miglioramento e all’adeguamento dell’ambiente, così come dell’organizzazione del lavoro, nella garanzia di uguaglianza per le persone con disabilità.

La Convenzione si applica solo agli Stati aderenti all’Organizzazione internazionale del Lavoro, tra di essi anche l’Italia, che, nel 2000, ha ratificato il testo in esame.

1.2. L’art. 27 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità

Abbiamo avuto modo di parlare della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e di come essa abbia influenzato tutta la produzione normativa successiva.

La convenzione ONU segna, secondo una buona parte della dottrina, il passaggio al “modello sociale” della disabilità che riconduce la condizione di disabile all’esistenza di barriere, di qualunque natura esse siano, che impediscono la partecipazione alla società in un regime di autonomia e di piena uguaglianza, sostanziale, con gli altri. La

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realizzazione della piena autonomia dell’individuo con disabilità passa inevitabilmente dalla garanzia di accessibilità ai vari ambiti di vita, dall’ambiente domestico, a quello scolastico sino a quello lavorativo, ove il lavoratore con disabilità è chiamato a realizzarsi professionalmente e quindi, umanamente, impiegando le proprie abilità residue in mansioni ad esse confacenti.

A tal fine, la Convenzione dedica al tema l’art. 27, intitolato “Lavoro e occupazione”90. La disposizione in esame può definirsi una sorta di “contenitore” di una serie di diritti e obblighi fondamentali. Prima di tutto il divieto di discriminazione nel contesto lavorativo per ragioni connesse

90 La disposizione appena menzionata recita: “Gli Stati Parti riconoscono il diritto delle

persone con disabilità al lavoro, su base di parità con gli altri; ciò include il diritto all’opportunità di mantenersi attraverso il lavoro che esse scelgono o accettano liberamente in un mercato del lavoro e in un ambiente lavorativo aperto, che favorisca l’inclusione e l’accessibilità alle persone con disabilità. Gli Stati Parti devono garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro, incluso per coloro che hanno acquisito una disabilità durante il proprio lavoro, prendendo appropriate iniziative – anche attraverso misure legislative - in particolare al fine di:

(a) Proibire la discriminazione fondata sulla disabilità con riguardo a tutte le questioni concernenti ogni forma di occupazione, incluse le condizioni di reclutamento, assunzione e impiego, il mantenimento dell’impiego, l’avanzamento di carriera e le condizioni di sicurezza e di igiene sul lavoro;

(b) Proteggere i diritti delle persone con disabilità, su base di eguaglianza con gli altri, a condizioni lavorative giuste e favorevoli, comprese l’eguaglianza delle opportunità e la parità di remunerazione per un lavoro di pari valore, condizioni di lavoro sicure e salubri, comprendendo la protezione da molestie e la composizione delle controversie;

(c) Assicurare che le persone con disabilità siano in grado di esercitare i propri diritti del lavoro e sindacali su base di eguaglianza con gli altri;

(d) Permettere alle persone con disabilità di avere effettivo accesso ai programmi di orientamento tecnico e professionale, ai servizi per l’impiego e alla formazione professionale e continua offerti a tutti;

(e) Promuovere le opportunità di impiego e l’avanzamento della carriera per le persone con disabilità nel mercato del lavoro, come pure l’assistenza nel trovare, ottenere e mantenere e reintegrarsi nel lavoro;

(f) Promuovere la possibilità di esercitare un’attività indipendente, l’imprenditorialità, l’organizzazione di cooperative e l’avvio di un’attività in proprio;

(g) Assumere persone con disabilità nel settore pubblico;

(h) Favorire l’impiego di persone con disabilità nel settore privato attraverso politiche e misure appropriate che possono includere programmi di azione positiva, incentivi e altre misure; (i) Assicurare che accomodamenti ragionevole siano forniti alle persone con disabilità nei luoghi di lavoro;

(j) Promuovere l’acquisizione, da parte delle persone con disabilità, di esperienze lavorative nel mercato aperto del lavoro; (k) Promuovere programmi di orientamento e riabilitazione professionale, 22 di mantenimento del posto di lavoro e di reinserimento al lavoro per le persone con disabilità.

2. Gli Stati Parti assicureranno che le persone con disabilità non siano tenute in schiavitù o in stato servile e siano protette, su base di parità con gli altri, dal lavoro forzato o coatto”

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allo status di disabili, e ciò vale in tutte le fasi del rapporto di lavoro. Il divieto di discriminazione assume poi i connotati di un “diritto positivo” nella garanzia della parità di trattamento, anche economico, tra lavoratori disabili e non. Altro elemento fondamentale risiede, come anticipato, nella garanzia di accessibilità, sia all’ambiente lavorativo, tramite l’imposizione di adottare soluzioni ragionevoli, sia intesa come accessibilità, in condizioni di uguaglianza, al libero mercato del lavoro. La Convenzione si riferisce sia al lavoro dipendente che al lavoro autonomo e menziona sia il settore pubblico, che privato. Per quanto concerne il settore privato, le assunzioni devono essere supportate da programmi pubblici e politiche di incentivi. Viene inoltre garantito il diritto dei lavoratori con disabilità all’esercizio dell’attività e rappresentanza sindacale. Come rilevato in sede di commento la creazione di un mercato del lavoro aperto, inclusivo ed accessibile pare richiedere un approccio più proattivo rispetto ad un approccio limitato alla previsione di meri divieti. Ciò spiega il bisogno di concentrarsi su tre aeree prioritarie consistenti nella flessibilità negli orari lavorativi e nell’accesso ai congedi, all’accessibilità degli ambienti fisici e dell’informazione e alla tutela contro i licenziamenti a causa di una ridotta capacità lavorativa. 91 In proposito si può sottolineare, come la lettera h) dell’art. 27 preveda la possibilità di azioni positive che promuovano l’impiego di persone con disabilità anche nel settore privato. L’indirizzo espresso pare compatibile con quanto previsto all’interno del nostro ordinamento, come vedremo nei paragrafi che seguono.

1.3 La direttiva 2000/78/CE

L’art. 19 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, come già detto disciplina il potere, attribuito al Consiglio, di prendere provvedimenti “opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul

91 M. Ventegodt Liisberg, Art. 27 [Work and Employement], in V. Della Fina, R. Cera,

G. Palmisano (a cura di). The United Nations Convention on the Rights of Persons with Disabilities. A commentary, Springer, 2017 p. 500

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sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale”92. In attuazione della presente disposizione, nel 2000, il Consiglio ha adottato la direttiva 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. La direttiva in oggetto rappresenta la legge di riferimento che impone, in ambito lavorativo, il divieto di discriminazione fondata su “diversità” soggettive. Accanto al divieto di discriminazione, la direttiva disciplina l’obbligo di adottare “accomodamenti ragionevoli” (artt. 2 e 5)93, si tratta dunque di una duplice imposizione: una negativa (il divieto di discriminazione), l’altra a contenuto positivo (obbligo di adottare soluzioni ragionevoli). Pur rappresentando un caposaldo normativo in tema di parità di trattamento e non discriminazione, la direttiva in esame manca di fornire una definizione puntuale di “handicap”, né rinvia agli stati membri perché possano individuarne una conforme alle proprie peculiarità. A tale “carenza” ha tentato di porre rimedio la Corte di Giustizia Europea, che, a partire dalla Sentenza Chacón Navas, del 11 luglio 2006, ha fornito una definizione di handicap conforme alla Convenzione ONU. La definizione della sentenza in esame è stata oggetto di un superamento, ma basti qui sottolineare come i giudici del Lussemburgo abbiano affermato che: “In tale contesto, deve intendersi che la nozione di “handicap” va intesa come un limite che deriva, in particolare, da minorazioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacola la partecipazione della persona considerata alla vita professionale”94. La scelta di non definire la disabilità, può ricondursi a quanto detto all’inizio di questo elaborato, cioè la natura di concetto in continuo divenire, sottoposto a costanti influenze date dallo sviluppo culturale, sociale, tecnologico.

92 Y. Vasini, Discriminazione per disabilità: la normativa italiana è in linea con la

normativa europea?, in il Lavoro nella giurisprudenza 3/2017, passim

93Per una migliore definizione del tema si rinvia al paragrafo successivo (3.1.3.1

sull’accomodamento ragionevole)

94 Causa C-13/05, come analizzata in L. Busatta, L’universo delle disabilità: per una

definizione unitaria di un diritto diseguale, in di F. Cortese, M. Tomasi (a cura di), Le definizioni nel diritto, Atti delle giornate di studio 30-31 ottobre 2015, Collana quaderni

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In relazione alla definizione di handicap, si pone anche una questione relativa alla “durata” dello stato patologico. Distinguendo tra disabilità e mera malattia, la Corte ha infatti sottolineato che, alla definizione di handicap valida ai fini dell’applicazione della direttiva, debba attribuirsi in significato di impedimento “duraturo” a svolgere un’attività lavorativa, ammettendo che possa trattarsi anche di un impedimento “parziale”. È sufficiente che sia compromessa la “piena” partecipazione alla vita professionale, per cui, ove la capacità lavorativa sia ridotta parzialmente ma in maniera duratura, si ricade nella nozione di handicap. A tale proposito si noti, il caso HK Danmark del 2011, in cui due lavoratori danesi, affetti da malattia di lunga durata, erano stati licenziati a causa del considerevole numero di assenze. I lavoratori, sostenendo che la lunga malattia fosse in realtà una disabilità, avevano impugnato il licenziamento giudicando in violazione della direttiva, la Corte di Giustizia ha affermato che “non risulta che la direttiva 2000/78 miri a coprire unicamente gli handicap congeniti o derivanti da incidenti, escludendo quelli cagionati da una malattia. Infatti, sarebbe in contrasto con la finalità stessa della direttiva in parola, che è quella di realizzare la parità di trattamento, ammettere che essa possa applicarsi in funzione della causa dell’handicap”, “si deve constatare che, se una malattia, curabile o incurabile, comporta una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori e se tale limitazione è di lunga durata, una siffatta malattia può ricadere nella nozione di “handicap” ai sensi della direttiva 2000/78” 95 . Si tratta di un’interpretazione del concetto di disabilità che sembrerebbe prescindere dalla natura dell’handicap ma che si fonda sull’effetto dell’interazione tra menomazione e ambiente esterno, in piena conformità con il paradigma sociale. Tale impostazione ha condotto la

95 Caso 335/11 HK Danmark v Dansk almennyttigt in Y. Vasini, Discriminazione per

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Corte ha ritenere, per esempio, che in particolari casi anche l’obesità possa costituire un handicap e dunque interessare l’ambito di applicazione della direttiva quadro.

All’art. 2 comma 1, è indicata la definizione di “parità di trattamento”, da intendersi come “'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all'articolo 1”. Si configura un’ipotesi di discriminazione diretta, quando, sulla base di uno dei motivi elencati all’art. 1, la persona riceve un trattamento differente di quello che avrebbe ricevuto in assenza delle predette condizioni. Per quanto concerne invece la discriminazione indiretta, essa fa riferimento ad “una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone”, ad essa la direttiva prevede delle deroghe, una trattamento differente è infatti ammesso solo quando: “tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari” e “nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi persona o organizzazione a cui si applica la presente direttiva sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all'articolo 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi”.

Il testo della direttiva si applica pertanto a tutte le persone, siano esse del settore pubblico o privato, ivi compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene le condizioni di accesso al lavoro sia dipendente che autonomo, l’accesso a tutti i livelli e a tutti i tipi di formazione professionale, perfezionamento e riqualificazione, all’occupazione a alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione; e quindi l’accesso paritario all’affiliazione e all’attività di organizzazioni di lavoratori o di datori di lavoro (art. 3). Si prevede infine

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un’eccezione per quanto riguarda le forze armate, per cui è ammesso che la direttiva, su decisione degli stati membri, non trovi applicazione limitatamente alle discriminazioni fondate su handicap ed età.

L’art. 4 prevede che gli stati membri possano, in relazione a tutte le caratteristiche espresse all’art. 1, prevedere una disparità di trattamento “laddove, per la natura di un'attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato”.

È utile comprendere quale nesso esiste tra i due principi portanti della direttiva, vale a dire il divieto di discriminazione e obbligo di adottare soluzioni ragionevoli. In realtà, nel testo in esame, non viene esplicitamente previsto che la mancata attuazione di soluzioni ragionevoli rappresenti una forma di discriminazione, sia essa diretta o indiretta. Una parte della dottrina individua però nel “momento della comparazione” tra lavoratore con disabilità e lavoratore senza disabilità, “quando si tratta cioè di stabilire se la persona e quella che non lo è sono comparabili rispetto allo svolgimento di quelle funzioni essenziali del lavoro”96 Ove l’attuazione di misure adeguate rappresenti la condicio di tale comparabilità e permetta di considerare il lavoratore con disabilità in modo analogo al non disabile, il “trattamento meno favorevole” derivato dalla sua mancata attuazione, è da considerarsi discriminazione diretta. La direttiva inserisce in un’ottica di rottura con la tradizione paternalistica che aveva caratterizzato la normativa precedente, caratterizzata dalla presenza di un modello di normalità che individuava la “diversità” in tutto ciò che da tale modello si discostava. Si trattava di un approccio di “diritto diseguale” che presupponeva una “separatezza insuperabile”. 97

96 M.Barbera, Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Il quadro comunitario e nazionale,

Giuffrè, 2007, cit. p. 103

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1.3.1 Chacón Navas: per una (contestabile) definizione di “handicap" alla luce della direttiva 2000/78/CE

“La disabilità è un concetto in evoluzione ed è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri”; la lettera e) del preambolo della Convenzione delle Nazioni Unite del 2006. La direttiva 2000/78/CE, che abbiamo analizzato nel paragrafo precedente è silente sulla definizione di disabilità, forse, come abbiamo detto, in virtù di questa “continua evoluzione” che la caratterizza. Abbiamo anche detto però, che è per opera della Corte di Giustizia Europea se questo vuoto è stato in un certo senso compensato. Nel caso Chacón Navas, la Corte si esprime per la prima volta su quale significato debba attribuirsi al termine “handicap” nell’ambito della direttiva quadro. La signora Chacón Navas lavorava per un'impresa specializzata nel catering. Il 14 ottobre 2003 inizia un periodo di congedo per malattia, durante il quale percepiva un sussidio per incapacità lavorativa temporanea. Nel maggio 2004 veniva comunicato alla signora il licenziamento senza che fossero specificate le cause, licenziamento che è stato poi contestato davanti al Giudice in quanto “nullo per disparità di trattamento e discriminazione in quanto già da otto mesi essa si trovava in congedo malattia e era temporaneamente incapace di svolgere attività lavorativa” chiedendo di essere reintegrata nel posto di lavoro. Il Giudice a quo aveva riconosciuto l’illegittimità del licenziamento poiché, non avendo il datore di lavoro addotto motivazioni differenti e ricadendo su di lui l’onere della prova, il licenziamento veniva ritenuto discriminatorio in quanto l’unica motivazione sui cui si fondava era la malattia della ricorrente. Il Giudice di rinvio, al fine di decidere se si trattasse di licenziamento nullo o illegittimo, aveva posto due questioni pregiudiziali alla Corte riguardanti il rapporto tra malattia ed handicap e l’inclusione dei lavoratori in stato di malattia nelle tutele previste dalla Direttiva 2000/7. Le conclusioni dell’Avvocato Generale L.A. Geelhoed

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sono assai significative: “La nozione di «handicap» è una nozione giuridica indeterminata sono assai significative: “La nozione di «handicap» è una nozione giuridica indeterminata che si presta nell'applicazione pratica ad un gran numero di interpretazioni. La circostanza che l'espressione compaia nell'art. 13 CE, che riguarda il divieto di discriminazione fondata su un handicap, divieto successivamente attivato ed elaborato dalla direttiva 2000/78, impone di attribuire a tale espressione un contenuto comunitario. E tutto ciò a maggior ragione in quanto la nozione di «handicap» quale termine medico-scientifico, ma anche nel suo significato sociale, è soggetta ad un'evoluzione relativamente rapida. Non può in proposito escludersi che determinate menomazioni fisiche o psichiche presentino in un certo contesto sociale carattere di «handicap», mentre ciò non si verifica in un altro contesto. Da un lato, la mutevolezza e la contestuale sensibilità della nozione di «handicap» conducono a grandi differenze nell'interpretazione e nell'applicazione del divieto di discriminazione. Ciò depone a favore di un'interpretazione uniforme. D'altro lato, la combinazione di dinamismo e varietà che si manifesta nella percezione scientifica e nel trattamento sociale del fenomeno dell'handicap impongono prudenza nella ricerca dell'uniformità. […] Gli sviluppi nelle scienze biomediche hanno condotto ad una migliore comprensione dei disturbi fisici e psichici alla base degli handicap. Essi hanno comportato anche un ampliamento della nozione di «handicap». Una maggiore vulnerabilità nei confronti di gravi

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