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EPIDEMIOLOGIA DEL BURNOUT IN AMBITO ONCOLOGICO

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Academic year: 2021

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Abstract.

Questo elaborato di tesi si basa sulla descrizione e sull'indagine del fenomeno del burnout in ambito oncologico, un reparto che secondo la letteratura sembra essere particolarmente predisposto allo sviluppo di tale fenomeno; inoltre emerge come il burnout sembri essere influenzato, sia nell'insorgenza che nel decorso, da alcune variabili specifiche (professione, genere, età, anni lavorativi), oltre ad essere correlato a due patologie in particolare (ansia e depressione).

In primo luogo, in base a quanto esposto a livello letterario, sono quindi stati indagati i livelli di burnout, e in aggiunta di ansia e depressione (due patologie che risultano ad esso correlate a livello letterario) su un campione di 38 soggetti selezionati dal reparto oncologico dell'ospedale Santa Chiara, composto prevalentemente da medici ed infermieri, e successivamente abbiamo verificato sia se tali punteggi potessero essere correlati con le variabili epidemiologiche più citate dalla letteratura (genere, età, anni lavorativi, professione), sia se i punteggi ottenuti per burnout, ansia e depressione fossero o meno correlati tra di loro in base a ciò che viene affermato a livello letterario.

Con l'utilizzo del Maslach Burnout Inventory abbiamo rilevato che i soggetti presentano un livello medio (42% di soggetti) alto (34% di soggetti) di burnout, con l'utilizzo del LBQ abbiamo notato che la maggior parte dei soggetti si colloca per tutte e quattro le dimensioni nella fascia dei “punteggi preoccupanti”, ossia la fascia che indica che nei soggetti c'è un alto rischio di sviluppare una condizione di burnout.

Con l'uso del Beck Depression Inventory in questo caso abbiamo ritrovato assenza di contenuti depressivi nel 65% dei soggetti, la presenza di contenuti depressivi nel 23% e un livello moderatamente grave nel 10,53% dei soggetti. Con l'uso del Beck Anxiety Inventory nel caso dell'ansia si sono riscontrati livelli normali di ansia nel 57,89% dei soggetti, un livello medio nel 29,58%, e un alto livello nel 13,16% dei soggetti.

Per quanto riguarda la correlazione dei punteggi con le categorie di influenza di sesso, età, professione e anni lavorativi, contrariamente alla letteratura, non abbiamo trovato correlazioni significative nel caso del burnout (che quindi nel nostro campione non viene influenzato da nessuna di queste variabili); quello che è risultato significativo invece, è la relazione tra punteggi di burnout, ansia e depressione, e questo dato conferma quanto esposto in letteratura.

Identificata la correlazione significativa tra burnout, ansia e depressione è stato verificato, (per interesse e per eventuali futuri sviluppi), se le stesse variabili di influenza del burnout potessero correlare anche con ansia e depressione e l'unico dato significativo che è emerso è che i livelli di depressione aumentano all'aumentare degli anni lavorativi.

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INDICE

Introduzione. 3

1 IL BURNOUT: origini, prevalenza in ambito oncologico e modelli. 4

1.1.Origini storiche del termine; 4

1.2.Perché studiare il burnout è così importante?; 6

1.3.La prevalenza del burnout in oncologia; 7

1.4.I modelli di sviluppo del burnout; 10

1.4.1.Maslach; 10

1.4.2.Golembiewsky; 12

1.4.3.Cherniss; 14

1.4.4.Edelwich e Brodsky. 15

2 LO SVILUPPO DEL BURNOUT: epidemiologia, sintomi, 16

cause e patologie correlate. 2.1.Epidemiologia del burnout; 16

2.2.Cause specifiche del burnout in oncologia; 26

2.3.Sintomi; 31

2.4.La relazione tra burnout, ansia e depressione. 34

3 STUDIO TRASVERSALE. 38

3.1.Ipotesi e obiettivi; 38

3.2. Metodo; 39

3.2.1. Campione; 39

3.2.2.Strumenti; 39

3.3.Elaborazione dati e risultati. 41

3.4.Discussione. 60

CONCLUSIONI. 61

BIBLIOGRAFIA. 63

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Introduzione.

Il reparto di oncologia rappresenta una delle aree della medicina maggiormente sottoposte ad alti livelli di stress emotivo, in quanto gli operatori si trovano a convivere giornalmente con il tema della morte e della sofferenza, e soprattutto in questo ambito la relazione medico-paziente è particolarmente stressante; dover affrontare le tematiche connesse alla malattia oncologica, dover far fronte ai bisogni del malato e della sua famiglia, e dover spesso subire la morte del paziente, richiede il possesso di elevate competenze sia a livello tecnico che a livello psicologico da parte del medico o dell'operatore che lavora in questo campo.

Si ritiene fondamentale affrontare questo tipo di argomento viste le percentuali di prevalenza e le conseguenze che questo provoca sia sull'individuo, che sui gruppi sociali di cui fa parte oltre all'organizzazione in cui lavora.

In questo elaborato ci si propone di indagare prima di tutto i livelli e le percentuali del burnout , e secondariamente di due variabili spesso correlate ad esso, ossia la patologia ansiosa e depressiva, con l'utilizzo di appositi test di misurazione, come il Maslach Burnout Inventory, il Link Burnout Questionnaire e i test di Aaron T. Beck per l'ansia e la depressione.

Inoltre andremo ad indagare eventuali correlazioni tra il fenomeno in esame e le variabili indagate in letteratura ( genere, età, professione e anni lavorativi), e la relazione tra i punteggi ottenuti alle scale per il burnout, per l'ansia e la depressione.

Non ci si propone di confermare o escludere la presenza del fenomeno, ma di indagarne le eventuali percentuali e correlazioni.

La ricerca è stata svolta nel reparto di Oncologia dell'Ospedale Santa Chiara di Pisa su un campione di 38 soggetti prevalentemente composto da medici e infermieri.

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1 IL BURNOUT: origini, prevalenza in ambito oncologico e modelli. 1.1.Origini storiche del Burnout.

La sindrome del burnout sta raggiungendo oggigiorno percentuali elevate tra i lavoratori dei paesi occidentali e in ambiti particolari come l'oncologia lavorare con malati gravi o terminali comporta una costante esposizione a situazioni psicologicamente difficili e stressanti, che gli operatori sanitari non sempre sono in grado di gestire adeguatamente, e per questo motivo spesso finiscono col “bruciarsi” (Caruso, Tramontana, Bigazzi, 2011). Tale sindrome viene considerata come la conseguenza di uno stress da lavoro cronico, inteso come uno sbilanciamento tra le richieste provenienti dal lavoro e le capacità dell'individuo di farvi fronte; la sindrome del burnout costituisce l'ultima fase di un processo difensivo rispetto a condizioni di lavoro impegnative dal punto di vista emozionale (Caruso, Tramontana, Bigazzi, 2011).

Tale termine è stato coniato per la prima volta in ambito sociosanitario nel 1974 da Freudenberger in un articolo pubblicato sul “Journal of Social issues” in cui venne descritto l'esaurimento psichico subito da alcuni operatori che lavoravano in un'istituzione psichiatrica; secondo Freudenberger il burnout degli operatori tendeva a comparire circa un anno dopo l'inizio del lavoro e uno dei sintomi della comparsa di tale disagio sembrava essere rappresentato dalla perdita del carisma all'interno dell'équipe.

Qualche anno più tardi Freudenberger definì il burnout come “ uno stato di fatica e frustrazione nato dalla devozione ad una causa, da uno stile di vita, da una relazione

che ha mancato di produrre la ricompensa attesa” (Freudenberger , 1980).

In seguito alla pubblicazione del lavoro di Freudenberger l'attenzione intorno al fenomeno del burnout crebbe, anche se il termine venne usato spesso in maniera impropria e non adeguata attribuendogli troppi significati.

Il primo contributo in Italia deriva da Contessa (1987) che ha definito l'operatore che soffre di burnout come "cortocircuitato", riferito al fatto che dopo un certo periodo di stress tende ad esaurirsi proprio perchè il continuo contatto lavorativo con persone che presentano seri problemi, porta ad un sovraccarico causato dalla discrepanza tra energie interne e dalle richieste provenienti dall'esterno.

Tutto questo secondo l'autore si conferma nel caso in cui l'operatore che nel suo lavoro opera nel sociale, si trova in condizioni precarie di lavoro, ha poche o nulle prospettive di carriera e si svaluta quindi dal punto di vista psicosociale ( Contessa, 1987).

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Del Rio (1989) sostiene invece che la condizione del burnout non sia direttamente collegata al fatto di lavorare a stretto contatto con utenti che presentano problemi di varia natura, ma quanto più al tipo di legame affettivo e significativo che si instaura con gli stessi utenti, e che andando avanti nel tempo tende a ripercuotersi sull'operatore stesso, soprattutto per coloro che lavorano in ambito sanitario (Del Rio, 1989).

Rimanendo nel contesto italiano, Rossati e Magro concepiscono la sindrome del Burnout come la discrepanza che si crea tra le risorse disponibili e le richieste a cui viene sottoposto l'operatore da parte dell'azienda (Rossati e Magro, 1999).

Nonostante le interpretazioni siano diverse a seconda del periodo e del tipo di studio, si riconosce un'opinione condivisa, nella quale il fenomeno viene concepito come un processo nel quale il soggetto dedito inizialmente al proprio lavoro di assistenza all'altro , tende pian piano a disimpegnarsi a causa dello stress e delle richieste derivanti dalla propria utenza.

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1.2.Perché studiare il burnout è così importante?

Numerose ricerche hanno dimostrato durante gli anni, che le conseguenze del burnout non riguardano esclusivamente il soggetto affetto, ma anche l'intero gruppo/comunità di appartenenza e l'organizzazione in cui questo opera e lavora (Santinello, Negrisolo, 2009). Inoltre la necessità di studio e di intervento, viene resa evidente dalle conseguenze che il fenomeno provoca su più fronti:

-Riguardo al livello di salute si nota spesso lo sviluppo di:

1: problemi di salute mentale tra cui ansia, depressione, sensazioni di incapacità e fallimento, scarsa empatia e scarsa capacità d'ascolto;

2: comportamenti d'utilizzo inadeguati tra cui uso di farmaci, uso di sostanze stupefacenti, assenteismo, ritardi sul posto di lavoro, tendenza a rimandare appuntamenti, modalità standard nello svolgere il proprio ruolo.

3: complicazioni fisiche tra cui stanchezza, disturbi gastrointestinali, mal di testa, abbassamento delle difese immunitarie, frequenti influenze, insonnia, iper o ipofagia. -Riguardo al livello socio-relazionale: distacco emotivo, cinismo, mancata empatia, scarso coinvolgimento.

-Riguardo al posto di lavoro invece si verificano ritardi continui, assenteismo, scarsa collaborazione con i propri colleghi, scarso interessamento per il proprio operato.

Tutto questo dimostra chiaramente come i soggetti con burnout non rappresentino solo un rischio ed un problema per sé stessi, ma anche per i pazienti/utenti con cui vengono in contatto, per l'organizzazione in cui lavorano, per i loro familiari e per i loro colleghi. Diventa un fenomeno che si riversa quindi su tutti gli ambiti di vita e d'azione del soggetto affetto, e per questo viene ritenuto fondamentale tentare di continuare lo studio del fenomeno, per poter raggiungere una comprensione sempre più precisa riguardo i fattori di rischio, le manifestazioni, e le conseguenze (Santinello, Negrisolo, 2009).

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1.3. La prevalenza del burnout in oncologia.

L'oncologia, viene descritta come una delle aree della medicina maggiormente sottoposte a disagi emotivi e quindi ad alto rischio di sviluppo del burnout (Caruso, Tramontana, Bigazzi, 2011).

In letteratura è presente un numero elevato di studi che rilevano un' alta incidenza proprio in quest'ambito, tra cui:

- uno dei primi studi sull'argomento fu condotto nel 1991 su circa 1000 oncologi appartenenti all' American Society of Clinical Oncology; i soggetti che aderirono furono circa 598 e tra di loro il 56% dichiarò di aver subito il burnout almeno una volta nella sua carriera, in cui il sentimento prevalente nel 95% dei casi sembrò essere il sentimento di fallimento;

- Whippen nel 1991 rilevò la presenza del burnout in circa il 60% di un campione composto da 1000 oncologi a cui era stato inviato un questionario inerente aspetti dell'attività clinica connessa allo stress lavorativo;

- Ramirez (1996) ha somministrato a 1133 soggetti tra cui oncologi, gastroenterologi, radiologi il Maslach Burnout Inventory per valutare le tre componenti del burnout che sono state teorizzate da Christina Maslach; le risposte di 882 soggetti su 1133 hanno permesso di evidenziare quattro principali cause di stress associate al burnout tra cui:

-sovraccarico emotivo e i suoi effetti sulla vita familiare; -povertà di risorse e inadeguatezza organizzativa;

-difficili relazioni sul piano psicologico con pazienti gravemente sofferenti; -bassa soddisfazione nelle relazioni con lo staff.

-Grunfeld et al. nel 2000 hanno evidenziato su un campione di 1016 operatori dei maggiori servizi di oncologia medica dell'Ontario in Canada , livelli di esaurimento emozionale pari a circa il 53% dei medici rispetto al 37% degli altri operatori sanitari.

-Allegra et al., nel 2003 rilevarono la presenza di segni di burnout in più del 60% del campione composto da 1740 operatori oncologici della comunità medica degli stati Uniti.

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-Uno studio effettuato nel 2005 da Bekker, Croon e Bressers ha messo in evidenza come il burnout risulti essere la diagnosi più diffusa per quanto riguarda i disturbi psicologici, e come rappresenti contemporaneamente il fattore principale che causa assenteismo, abbandono del posto di lavoro e ritardi ( Bekker, Croon, Bressers, 2005).

- Uno studio della Mayo clinic nel 2006, commissionato dall’ASCO sulla forza lavoro in oncologia, ha coinvolto 4000 operatori oncologici ed ha messo in rilievo una caratteristica particolare ossia il peso che il lavoro di tipo burocratico ha sull’emergere del burnout: il 32% dei soggetti dichiara che almeno una volta a settimana percepisce un senso di insoddisfazione e di frustrazione, legato soprattutto al tempo e alle energie dedicati a questioni amministrative, di documentazione, di aggiornamento dei documenti e burocratiche.

Il dato interessante è che tra le nuove generazioni di oncologi si registra una minore insoddisfazione lavorativa, perché le nuove generazioni si sono formate in un’epoca di sempre crescente burocratizzazione della professione medica, pertanto non percepiscono il lavoro di tipo burocratico come carico pesante da sopportare ma come un elemento che fa parte del proprio lavoro.

-Nel 2010 uno studio presentato al trentacinquesimo Congresso dell'European Society for Medical Oncology (ESMO) in corso a Milano ha messo in luce che quasi metà degli specializzandi europei in oncologia soffre di burnout. Si tratta di un fenomeno largamente sottostimato e sottovalutato dalle autorità sanitarie, in quanto i dati affermano che il 44% degli specializzandi in Oncologia europei soffre di burnout, ma quello che è ancora più preoccupante è che il 18% di loro mostra livelli gravemente anormali sia di esaurimento emotivo sia di depersonalizzazione, e il 20% assume farmaci per cercare di risolvere il problema.

-Lo studio più ampio condotto in Europa (2015) è stato presentato di recente sempre dalla ESMO al Congresso della Società Europea di Oncologia; ha valutato la frequenza di questa forma di esaurimento, negli oncologi europei di età inferiore o uguale a 40 anni. Sono stati studiati 737 oncologi di 41 paesi europei. Il 71% degli specialisti ha mostrato la condizione di esaurimento del burnout, il 22% ha richiesto un supporto per far fronte al problema e il 74% ha dichiarato di essersi assentato dal lavoro per lo stesso motivo. La frequenza di esaurimento cambia a seconda delle diverse aree europee. Le percentuali del burnout sono

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state più elevate nella zona dell’Europa centrale (82%) mentre nel nord Europa la frequenza è minore (52%). La depersonalizzazione sembra essere più frequente nei maschi (60%), rispetto alle femmine (45%) e la differenza è risultata statisticamente significativa (p<0.0001).

Analisi successive hanno dimostrato che la frequenza dell’esaurimento dipende dalla regione Europea in cui operano gli oncologi, dalla quantità di medici e infermieri che lavoravano nel centro, dal numero settimanale di malati che ricevono, da un minor numero di ore disponibili per il riposo dei medici e durata inadeguata delle loro ferie.

Per quanto riguarda il panorama italiano gli studi del burnout in oncologia non sono numerosissimi come all'estero, ma sono comunque presenti, e ne verranno di seguito citati alcuni;

- una delle prime ricerche in questo ambito fu pubblicata da Barni nel 1996 che decise di indagare la prevalenza del distress psicologico, di ansia e depressione su diverse categorie lavorative (medici, infermieri, tecnici di radioterapia) appartenenti a diverse unità oncologiche della Lombardia.

Emerse che circa il 53% di questi soggetti presentavano punteggi elevati, prevalentemente in soggetti giovani e di sesso femminile (Barni et al., 1996).

- un altro studio più ampio in ambito italiano è stato condotto da Bressi (2008) su un campione di 440 soggetti tra cui medici e infermieri, operanti in diversi centri di oncoematologia del territorio italiano; i risultati sembrano essere simili a quelli di altri paesi occidentali: l'esaurimento emotivo è presente nel 32% dei soggetti, la depersonalizzazione nel 26,7% dei soggetti e la ridotta realizzazione personale nel 13,9%. Questo studio non ha evidenziato differenze significative tra medici e infermieri, ed ha rilevato che le maggiori fonti di stress derivano da un elevato ed eccessivo carico lavorativo (Bressi et al., 2008).

In generale, nonostante le percentuali riportino un valore abbastanza realistico, non è ancora del tutto chiara la reale entità del fenomeno, in quanto le ricerche e gli studi svolti differiscono soprattutto per il tipo di campioni considerati, gli strumenti di misura scelti e il basso consenso sui criteri che stabiliscono quando il soggetto si trova o meno sottoposto alla condizione del burnout (Santinello, Negrisolo, 2009), ma ciò che è evidente è che queste ricerche mostrano come l'ambito oncologico risulti essere particolarmente sottoposto allo sviluppo del burnout.

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1.4. I MODELLI DI SVILUPPO SUL BURNOUT.

Molti studi e ricerche hanno permesso durante gli anni, di superare la vaghezza del concetto e di conoscere in modo più approfondito il fenomeno, infatti nei primi anni settanta, Christina Maslach descrisse il burnout come una sindrome caratterizzata da esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale che colpisce maggiormente coloro che sono impegnati nelle helping professions.

Sono stati proposti parecchi modelli all'interno della letteratura per cercare di comprendere nel miglior modo possibile come nascono e si sviluppano le fasi del burnout; tra questi ce ne sono alcuni che negli anni sono risultati fondamentali, tra cui oltre al modello della Maslach (1982), si ha anche il modello di Golembiewsky (Golembiewsky et al.,1988), il modello di Cherniss (1980) e il modello di Edelwich e Brodsky (1980).

1.4.1.Il modello di Christina Maslach.

Secondo Christina Maslach la prima fase dell'insorgenza del burnout coincide con la comparsa dell'esaurimento emotivo dovuto a condizioni lavorative croniche stressanti che tendono, nel tempo, ad esaurire le risorse lavorative e di disponibilità dell'operatore.

Successivamente alla fase dell'esaurimento, i soggetti tendono secondo l'autrice a sviluppare una condizione di depersonalizzazione per tentare di fronteggiare la fase di esaurimento, per prendere le distanze dalla relazione con il paziente o con l'utente e cercare di risparmiare le proprie energie.

Questo fa sì che nel rapporto si sviluppi una condizione di freddezza da parte dell'operatore, il che in realtà invece di apparire come un'abile soluzione non fa altro che peggiorare la relazione e l'operato del soggetto in condizione di esaurimento emotivo. Inoltre le motivazioni e le aspirazioni iniziali, sono completamente in disaccordo con ciò che in realtà il soggetto si trova ad affrontare dopo i primi periodi lavorativi, e da questo ne scaturiscono col tempo, sentimenti continui di inadeguatezza personale e insoddisfazione professionale; questo tipo di modello vede quindi l'esaurimento emotivo come antecedente che causa, solo se interviene il fattore della depersonalizzazione, la condizione di ridotta realizzazione personale (Maslach, Leiter, 1999).

Secondo la Maslach (1992) le persone che possono manifestare la sindrome del burnout provengono da una vasta gamma di attività lavorative, tra cui assistenti sociali, insegnanti, poliziotti, infermieri, medici, psicoterapeuti, psichiatri, operatori per l'igiene mentale,

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personale di centri di detenzione ecc ecc., e benché abbiano compiti diversi, essi hanno tutti in comune il contatto con altre persone in situazioni che spesso sono connotate da una notevole carica emozionale negativa (Maslach, 1992).

In tali professioni è prevista una relazione diretta tra operatore e utente al punto che le capacità personali sono implicate più delle abilità personali; tutte queste professioni sono “high touch” ossia ad alto contatto, in quanto spesso esigono un coinvolgimento sia fisico che emotivo, che potrebbe comportare un rischio elevato di burnout (Regagliolo, 2008). Il modo in cui gran parte dei soggetti cercano di alleggerire questo pesante carico emozionale è quello di sottrarsi in parte al coinvolgimento con gli altri, riducendo al minimo il contatto con gli utenti, con i colleghi e arrivando in questo modo a classificare le persone in categorie e rispondendo col tempo più alla categoria che all'individuo; così facendo si crea un atteggiamento di distacco e di mancata empatia, che da una parte può effettivamente proteggere l'individuo dalla tensione del coinvolgimento, ma dall'altra può far arrivare al punto in cui non si verifica più il passaggio di nessun tipo di sentimento ed emozione nel rapporto con l'altro.

Lo sviluppo di questa risposta di distacco porta all'insorgenza della seconda fase del burnout: la depersonalizzazione, quel tipico atteggiamento con cui il soggetto interpreta negativamente persone, situazioni, colleghi e pazienti formulando nei loro confronti critiche negative e risposte verbali ma anche comportamentali sgarbate.

Questo comportamento connotato dalla negatività può essere :

-eterodiretto, ossia riferito al contesto lavorativo, ai pazienti o ai colleghi; -autodiretto, ossia riferito a sé stessi.

A questo punto compare il terzo aspetto tipico del burnout, il senso di ridotta realizzazione personale caratterizzato dalla percezione della propria inadeguatezza al lavoro, carenza di autostima, crescita della percezione del sentimento di insuccesso o di impotenza nel proprio lavoro; con il crollo dell'autostima va ad instaurarsi l'ultima fase del burnout ossia la depressione (Maslach, 1992).

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1.4.2.Modello di Golembiewsky.

Sempre negli stessi anni anche Golembiewsky (1988) propone un modello abbastanza diverso da quello di Christina Maslach, in cui ipotizza che il burnout derivi invece dal distacco nella relazione d'aiuto; tale distacco risulta un fattore estremamente positivo e sano nel momento in cui permette all'operatore di non lasciare influenzare il suo operato e la sua professionalità dall'emotività., ma al contempo rappresenta anche una modalità disfunzionale che crea difficoltà importanti per l'operatore, quando il distacco viene portato all'eccesso.

Andando avanti nel tempo può succedere che il distacco si trasformi in depersonalizzazione e questo costituisce un fattore di forte interferenza nella relazione, al punto che il soggetto in esame sviluppa una condizione di ridotta realizzazione personale e professionale e giunge poi successivamente all'esaurimento emotivo.

In questo caso quindi l'antecedente è la depersonalizzazione, che provoca in sequenza, la ridotta realizzazione professionale e in ultimo l'esaurimento emotivo.

Il modello di Golembiewsky è stato rielaborato successivamente attraverso una sequenza di otto fasi (Santinello, Negrisolo, 2009).

Si espongono in seguito le otto fasi:

-fase1: si ha la situazione ottimale in cui i livelli dei tre fattori cardine del burnout sono tutti e tre bassi.

-fase 2: la depersonalizzazione comincia ad avere un livello preoccupante in quanto i soggetti in esame non ricavano sufficiente soddisfazione dal lavoro che svolgono e dalla relazione con l'altro; questo porta allo sviluppo di un atteggiamento cinico.

-fase 3: si ritrova un basso livello di depersonalizzazione ed esaurimento emotivo, e un grave livello di ridotta realizzazione personale.

-fase 4: grave depersonalizzazione, ridotta realizzazione personale e una condizione non ancora totalmente deficitaria a livello dell'esaurimento emotivo.

-fase 5: basso livello di depersonalizzazione e di ridotta realizzazione personale, grave l'esaurimento emotivo.

-fase 6: grave depersonalizzazione ed esaurimento emotivo, meno grave la ridotta realizzazione personale.

-fase 7: grave esaurimento emotivo e realizzazione personale, meno grave la depersonalizzazione.

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Nel passaggio da una fase all'altra si verificano numerosi cambiamenti a livello lavorativo: diminuisce il coinvolgimento nel proprio lavoro, e si riduce la soddisfazione personale. -aumenta il turnover, che spesso si conclude con veri e propri cambi professionali. -diminuisce la coesione di gruppo e quindi di equipè.

-appaiono disturbi fisici, ed emotivi al punto da interferire con le proprie capacità lavorative.

- i rapporti sociali si deteriorano.

-aumentano i costi dell'organizzazione (assenteismo) (Santinello, Negrisolo, 2009).

Golembiewsky nel 1988, ha sottolineato come gli individui si diversifichino in base alla gamma di eventi che riescono a superare ed affrontare e come, inoltre, una stessa persona può reagire diversamente alla stessa condizione ,allo stesso stimolo, ma in periodi diversi della sua vita.

Rileva inoltre, come alcuni eventi possano risultare positivi o negativi a seconda del soggetto che si trova ad affrontarli.

Quello di G.(1988) è quindi un modello vantaggioso in quanto può essere usato sia per grandi che per piccoli campioni, permette di comprendere la gravità o meno del fenomeno e di poter sviluppare interventi specifici in base alla situazione del singolo soggetto.

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1.4.3.Modello transazionale di Cherniss.

Cherniss nel 1983 sviluppa un modello sull'evoluzione del burnout che prevede tre fasi principali, grazie all'osservazione di campioni formati da operatori sociosanitari:

-fase dello stress: si crea uno squilibrio tra risorse disponibili e richieste; è una condizione che si sviluppa in qualsiasi ambito lavorativo, senza che per forza si crei una condizione di burnout.

Secondo Cherniss non c'è quindi una diretta correlazione tra stress e burnout.

-fase di esaurimento: l'organismo nei confronti di situazioni emotivamente stressanti, produce una risposta immediata caratterizzata da tensione, ansia, irritabilità, fatica, noia, apatia.

L'ambiente lavorativo viene vissuto come logorante e il soggetto vive in una condizione cronica di stress e agitazione che se non viene gestita adeguatamente porta alla disintegrazione delle proprie prospettive professionali, rendendo incapace il soggetto di saper organizzare la sua attività in base alle risorse disponibili.

-fase di difesa: si nota un cambiamento di atteggiamento da parte dell'operatore, in quanto per riuscire a fronteggiare lo stress, sviluppa rigidità e distacco emotivo per limitare i danni (Cherniss, 1983).

Cherniss definisce il burnout come una strategia di adattamento che ha ripercussioni negative sia sulla persona sia sull’organizzazione; si tratta di una modalità errata di adattamento allo stress lavorativo, messa in atto da operatori che non dispongono delle risorse appropriate per fronteggiarlo; è una sorta di ritirata psicologica dal lavoro, in risposta ad un eccessivo stress od insoddisfazione, per cui ciò che un tempo era sentito come vocazione diventa soltanto un lavoro.

Secondo l' autore il burnout è la reazione ad uno stato di tensione ed insoddisfazione che inizia a svilupparsi quando il soggetto crede che lo stress che sta provando non possa essere risolto con una soluzione attiva dei problemi che deve fronteggiare. Il risultato di questa convinzione è il tentativo di fuggire psicologicamente dalla situazione e di

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allontanare ulteriori tensioni e disagi attraverso atteggiamenti di distacco e comportamenti di evitamento (Cherniss, 1983).

1.4.4.Modello di Edelwich e Brodsky.

Gli autori nel 1980 sostengono che il burnout si svolga attraverso quattro fasi:

1) stadio dell'idealismo e dell'entusiasmo: i lavoratori investono tanto nel proprio lavoro e in questo stadio si hanno due tipi di motivazione:

-consapevole: cercare di svolgere un lavoro di prestigio,risolto cercare di migliorare se stessi ed il proprio operato.

-inconsce: conoscersi meglio e voler esercitare una certa forma di potere sugli altri. Questa fase si caratterizza per obiettivi irrealistici e fantasie di onnipotenza.

2) stadio della stagnazione: l'operatore si rende conto che il suo lavoro non gli permette di realizzare le sue aspettative e questo provoca un calo di motivazione, di aspettative e di entusiasmo; in questa fase si rendono evidenti i primi segni di fatica correlati alla discrepanza tra aspettative e risultati.

In questa fase l'energia investita non ha un corrispettivo positivo a livello di risultati. 3) stadio della frustrazione: l'operatore, in questa fase, si chiede se vale veramente la pena svolgere il proprio lavoro sotto una condizione tale di stress; è infatti una fase di transizione proprio perché il soggetto decide se continuare a lavorare cercando di modificare la causa dello stress oppure abbandonare il posto di lavoro.

A causa di tutto ciò l'operatore sperimenta sentimenti di fallimento e frustrazione e inoltre mette in discussione le proprie capacità lavorative e personali.

4) stadio dell'apatia o del disimpegno emozionale: in questa fase i lavoratori sono privi di passione, per cui lavorano spesso controvoglia ed evitano le responsabilità.

Pian piano al posto dell'empatia nel rapporto con gli altri subentra l'indifferenza (Santinello, 2009).

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2 LO SVILUPPO DEL BURNOUT: EPIDEMIOLOGIA, SINTOMI, CAUSE e PATOLOGIE CORRELATE.

2.1. Epidemiologia del burnout.

Bisognerebbe chiedersi come mai, a parità di condizioni, alcuni individui sviluppano la sindrome mentre altri no.

Questo riconduce alla considerazione dell'importanza dei fattori individuali e ambientali. Secondo i primi contributi della Maslach nel 1982, i soggetti particolarmente predisposti sembrano essere quelli con una debole e fragile personalità, con caratteristiche comportamentali ansiose, e quelli che presentano severe difficoltà nel controllo di comportamenti impulsivi, rabbiosi e frustranti (Santinello, 2009).

Tra gli aspetti epidemiologici della sindrome del Burnout descritti in letteratura, sembra esistere un accordo unanime tra i differenti autori, nel confermare un determinato livello di coincidenza per il ruolo influente di alcune variabili nell’insorgenza del burnout, tra cui si ritrovano:

- le caratteristiche demografiche come età, genere, tipo di professione svolta, titolo di studio e stato civile;

- le caratteristiche di personalità tra cui lo stile di coping, le abilità empatiche e comunicative e il locus of control;

- le aspettative, i valori personali e la loro congruenza. Età anagrafica.

Rispetto a tutte le caratteristiche associate al burnout l'età sembra essere uno dei fattori più importanti per cercare di comprendere e spiegare il fenomeno.

Molti studi sembrano confermare la correlazione tra età anagrafica, anzianità lavorativa e burnout.

Sembra che i lavoratori più giovani e con minor esperienza lavorativa siano meno sottoposti e predisposti al fenomeno; all'inizio della propria carriera il soggetto viene esposto di solito alla discrepanza tra proprie aspettative e realtà lavorativa.

Visto che il burnout non è assolutamente un fenomeno immediato ma che ha bisogno di un certo tempo di sviluppo, sembra proprio che i soggetti più a rischio siano quelli più anziani e che operano da diversi anni in un certo settore ( tra i due e i quattro anni minimo) (Santinello, Negrisolo, 2009).

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Pedrabissi e Santinello nel 1993 hanno svolto uno studio di meta-analisi in cui è risultato che non si ha una relazione diretta tra burnout ed età, ma che tale relazione lineare viene ampiamente influenzata anche da altri fattori, tra cui il tipo di contesto lavorativo in cui il soggetto opera e lo strumento utilizzato per la rivelazione del fenomeno.

Inoltre, uno studio longitudinale condotto a Padova da Santinello et al., nel 2003, conferma che il burnout non è un fenomeno statico e stabile nel tempo, ma che al contrario si tratta di una sindrome che evolve e si modifica negli anni lavorativi.

Il campione di neo infermieri presi in esame mostrarono un aumento significativo di esaurimento emotivo dopo circa tredici anni dall'inizio dell'attività lavorativa, mentre si osservarono livelli elevati di realizzazione professionale nel periodo di formazione iniziale. Questo dimostra ampiamente, come il contatto giornaliero e continuativo con le proprie difficoltà personali possa ampliare la probabilità di insorgenza del fenomeno (Santinello, Negrisolo, 2009).

Da questi studi se ne deduce quindi che il burnout non è legato all'inserimento lavorativo iniziale , ma si tratta di un fenomeno che si sviluppa e peggiora nel tempo, e si sviluppa dopo diversi anni di lavoro, e sembra proprio che quei soggetti che fanno esperienza di burnout fin dai primi tempi, abbiano molte più probabilità di abbandonare precocemente il proprio posto di lavoro.

Genere.

Inizialmente, soprattutto nei primi studi sul fenomeno, sembrava che il genere femminile fosse considerato maggiormente a rischio a causa del carico lavorativo e dello stress subito in ambito familiare, dovuto alla cura della casa.

Ci sono però risultati contrastanti riguardo a questa variabile: le prime ricerche sostenevano che l'elevato impegno femminile sia a livello organizzativo che familiare e la sensazione di sentirsi richieste da più setting contemporaneamente, e quindi il dover ricoprire più ruoli, potesse favorire l'insorgenza del burnout, mentre ad oggi altri studi ritengono che questo favorisca le capacità di fronteggiamento della donna e che in realtà il rischio sia maggiore nel genere maschile ( Maslach, Schaufeli e Leiter, 2001).

Indipendentemente dal ruolo del genere nel rischio di insorgenza, uomini e donne si differenziano nei punteggi ottenuti nelle sottoscale della sindrome: la depersonalizzazione sembra essere più grave negli uomini, mentre l'esaurimento e la realizzazione personale nel genere femminile, sembrano essere più frequenti.

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Questi risultati potrebbero essere collegati sia agli stereotipi sociali relativi ai diversi ruoli nel genere, ma anche ampiamente influenzati dalla correlazione tra genere e tipo di professione; per questo risulta abbastanza complesso trarre conclusioni certe relative al ruolo di genere, visto che risulta impossibile prescindere da fattori come:

- ruolo ricoperto nel contesto familiare e delle responsabilità ad esso connesse; - tipologia di lavoro svolto;

- contesto lavorativo (Santinello, Negrisolo, 2009). Stato civile e titolo di studio.

Anche in questo caso sembra che negli anni si sia rilevata una relazione tra stato civile e sviluppo del burnout; le persone nubili sembrano essere più a rischio rispetto ai soggetti sposati e i single sono più a rischio delle persone divorziate.

Questo dimostra già come la costruzione di reti sociali, soprattutto a livello familiare possa notevolmente proteggere il soggetto dal rischio.

Nel 1994 Pedrabissi, Santinello e Vialetto hanno affermato che l'assenza di un rapporto stabile e soddisfacente sembra poter essere correlata a tutte e tre le variabili del burnout, tra cui depersonalizzazione, esaurimento emotivo e scarsa realizzazione personale; infatti le condizioni lavorative di stress possono essere controbilanciate dalla condivisione delle proprie esperienze all'interno del contesto familiare.

Per quanto riguarda invece il livello scolastico e quindi anche il livello di cultura, le persone diplomate e laureate corrono un maggior rischio di sviluppo, rispetto a soggetti con titoli inferiori, perché il livello educativo si sovrappone solitamente al ruolo occupazionale, e quindi, molto spesso, i soggetti laureati ricoprono ruoli con elevate responsabilità e nutrono aspettative maggiori nei confronti del proprio operato, tali da poter causare frustrazione e insoddisfazione ( Payne, 2011).

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Professione: il burnout negli operatori sociali.

Nonostante il fenomeno dello stress e del burnout si stia diffondendo in più contesti organizzativi, le professioni più a rischio sono quelle che offrono educazione, sostegno e cure alle persone in difficoltà, per la moltitudine di fattori e risorse emozionali messe in gioco dagli operatori.

Per Maslach e Leiter (2000), queste professioni sono high-touch, a contatto continuo, e questo implica contatti diretti e prolungati nel tempo con persone in difficoltà e che richiedono immediata assistenza.

Una delle caratteristiche più importanti che induce questi professionisti (soprattutto gli assistenti sociali, gli infermieri e gli insegnanti) a sviluppare il burnout è l'aspetto contraddittorio che vivono all’interno del sistema in cui operano, perché da un lato sentono la necessità di mettere in atto interventi di tipo contestuale per soddisfare le esigenze delle singole persone e i singoli pazienti, in quanto ognuna è portatrice di diverse storie e diversi bisogni, ma dall’altro lato l’organizzazione richiede che ci sia adattamento alla routine burocratica e questo porta spesso a mettere in atto servizi standardizzati che non rispondono efficacemente alle diverse richieste dell’utenza. Questo causa una discrepanza tra i propri bisogni e quelli dell’organizzazione.

Gli operatori sociali che Baiocco et al., (2012) citano nella loro ricerca sono soprattutto gli assistenti sociali, domiciliari e gli operatori di comunità ossia professionisti che mettono in gioco la propria persona nell’aiuto di soggetti bisognosi; in questo caso quindi, se l’organizzazione non da importanza all'aspetto umano di questo tipo di assistenza, ma si orienta soprattutto sull'obiettivo del guadagno, gli operatori offriranno un servizio inadeguato alle persone (Baiocco et al., 2012).

La ricerca eseguita da Baiocco su un campione di 177 operatori appartenenti alle tre categorie elencate precedentemente ha messo in risalto che la categoria professionale degli assistenti domiciliari è più soggetta alla sindrome del burnout; successivamente si ritrovano gli assistenti sociali e in ultimo gli operatori di comunità.

Questo perché l’assistente domiciliare spende più eneregie sia a livello fisico che psichico nel contatto con l'utenza rispetto alle altre due categorie; inoltre gli assistenti sociali e gli operatori di comunità sperimentano condizioni di burnout dopo tanti anni di lavoro rispetto agli assistenti domiciliari che sembrano soggetti a rischio di burnout soprattutto nei primi anni di attività: questo succede perchè l’assistente sociale e l’operatore di comunità hanno maggiore stabilità dentro l’organizzazione e svolgono di solito lo stesso lavoro con lo stesso tipo di pazienti, mentre questo cambia per l’assistente domiciliare che si trova ad

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assistere persone sempre diverse e non sa mai cosa aspettarsi.

Le variabili di personalità sembrano incidere significativamente sulle manifestazioni di stress e burnout. Gli operatori che manifestavano la sindrome sono stati descritti come poco stabili dal punto di vista emotivo, incapaci di prendersi cura e fornire supporto emotivo , poco aperti verso le novità e verso i propri sentimenti, mostrando depressione, stanchezza, avvilimento, aggressività e minore capacità di gestire le proprie emozioni (Baiocco et al., 2012).

Il burnout nei medici e negli infermieri.

Gli ospedali e le organizzazioni sanitarie sono considerati gli ambienti in cui è più frequente lo sviluppo della sindrome del burnout.

Negli ospedali e nelle organizzazioni le figure più a rischio sono i medici e gli infermieri perché il loro lavoro comporta il diretto contatto con la sofferenza psicofisica dei pazienti e ciò implica che non basta avere competenze tecniche, ma anche competenze relazionali, perché i malati devono essere assistiti, oltre che dal punto di vista fisico, anche da quello psicologico.

Il rapporto con i pazienti, il carico di lavoro, i turni, le mansioni da svolgere, e quindi le continue richieste dell’organizzazione, dei pazienti e anche delle loro famiglie sono tutti fattori che portano l’operatore sanitario a sperimentare gravi situazioni di stress, predisponendolo al burnout (Baiocco et al., 2012).

Medici e infermieri sono più a rischio perché è loro compito assistere il malato in tutto il periodo di cura cercando di offrire il proprio supporto e sostegno psicologico.

Baiocco sostiene che il ricevere continuamente richieste da parte di chi soffre psicologicamente può diventare stressante soprattutto per chi non riesce a controllare il proprio stato emotivo. La gestione delle emozioni potrebbe essere estremamente importante per svolgere in modo adeguato la propria professione.

Il burnout negli psicologi e psicoterapeuti.

Baiocco et al. (2012) ritengono che anche questi professionisti possano sviluppare la patologia in esame, perché il loro operato implica un continuo contatto con le esigenze delle persone. Il burnout in questi operatori si manifesta con una perdita di empatia, diminuzione delle capacità comunicative e di ascolto verso i pazienti, percezione di fallimento personale e quindi una difficoltà nello svolgere il proprio lavoro (Farber e Heifetz, 1981). Inoltre, in una delle ricerche condotte da Baiocco nel 2012 su un campione di 195 soggetti, psicologi e psicoterapeuti che lavorano in strutture pubbliche (56.4%) e

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studi privati (43.6%), sono emerse delle differenze statisticamente significative tra gli operatori che lavorano in questi due tipi di ambienti, confermando in tal modo quanto è presente in letteratura perché chi lavora in contesti pubblici sviluppa spesso l’esaurimento emotivo e la depersonalizzazione, chi lavora in ambito privato si sente più realizzato a livello professionale, inoltre più un operatore sperimenta il burnout, meno si sente realizzato a livello sia personale che professionale. Chi invece si sente realizzato in questi due aspetti dedica più tempo a se stesso ai propri hobby e alle proprie questioni private (Baiocco et al., 2012).

Il burnout negli insegnanti

Anche la figura dell'insegnante e dell'educatore contribuendo allo sviluppo delle capacità e della cultura dei bambini e ragazzi, viene considerata come una professione di aiuto, e quindi ad alto rischio burnout.

In ambito scolastico l’insorgere del burnout è influenzato da diverse variabili psicosociali e più precisamente, secondo l’analisi di Rossati e Magro (1999), dalla relazione che gli insegnanti instaurano con gli allievi, con i genitori degli allievi, con i colleghi, con i superiori, e anche dalle caratteristiche psicofisiche dell’ambiente di lavoro.

La dimensione fisica e psicologica dell’ambiente scolastico, potrebbe facilitare l’insorgere dello stress nel momento in cui il docente percepisce tale ambiente come un ostacolo alla buona volontà lavorativa: la mancanza o l’inadeguatezza delle attrezzature necessarie, la burocrazia soffoca l’innovazione e la creatività dei docenti, la discrepanza tra la cultura dell’insegnante e la cultura degli studenti, il fatto che gli insegnanti in molte situazioni vedano messa in discussione la propria autorità da parte degli allievi, spesso considerati come indisciplinati, e aggressivi. Anche il rapporto con i colleghi può essere per l’insegnante sia una fonte di sostegno e di gratificazione, ma anche fonte di ulteriore conflitto se tra gli insegnanti insorge un senso di competitività (il voler fare carriera) causando stress.

Tutte queste caratteristiche, dai fattori strutturali dell’organizzazione, alle diverse relazioni che gli insegnanti instaurano nell’ambiente di lavoro, causano la perdita di energie provocando spesso sensazioni di fallimento; il soggetto si sente carente nelle capacità di fronteggiamento rispetto agli agenti stressanti e alle continue richieste che provengono dall’ambiente di lavoro (dalle famiglie, dagli stessi alunni, dall’istituzione scolastica, colleghi e dirigente). Tutto questo fa sì che gli operatori si adeguino ad un lavoro completamente routinario, e quindi questo predispone allo sviluppo del disturbo. Il burnout in campo educativo è un grosso problema perché tende ad ostacolare l’efficacia

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del processo educativo stesso (Baiocco et al., 2012). Il coping.

Anche le strategie di coping che vengono adottate dai soggetti nelle situazioni di difficoltà, sembrano essere fattori fondamentali nella genesi del fenomeno.

Il coping è stato definito da Lazarus e Folkman (1984) come l' insieme degli sforzi che il soggetto mette in atto per cercare di gestire le richieste interne e/o esterne percepite come gravose o eccessive rispetto alle risorse a disposizione.

Lazarus e Folkman nei loro studi sul coping ne distinguono due tipi:

-coping focalizzato sull'emozione: ha come scopo principale la regolazione delle reazioni emotive negative derivanti dalla situazione di stress;

-coping focalizzato sul problema: ha come scopo principale la risoluzione della situazione che in quel momento rappresenta una minaccia per l'individuo.

Tra le due, le strategie di coping centrate sul problema sembrano avere una correlazione positiva col burnout in quanto l'uso di queste strategie riduce il rischio e la probabilità di insorgenza del fenomeno, rappresentando quindi una forma di prevenzione; contrariamente quelle basate sull'emozione, sembrano invece aumentare la probabilità di insorgenza; sembra che le strategie centrate sull'emozione favoriscano una risposta individuale inadeguata rispetto alla situazione stressogena, in quanto sembrano ritardare la messa in atto di soluzioni perché si focalizzano sulla fonte di stress aumentandone l'importanza (Santinello, Negrisolo, 2009). Quindi in generale le strategie di coping più efficaci nel prevenire il fenomeno del burnout sono quelle che riguardano il coping focalizzato sul problema, cioè gli sforzi che l'individuo fa nel tentare di risolvere la situazione.

Sembra quindi che alcune strategie siano più adeguate per la prevenzione del fenomeno piuttosto che altre e questo mette in evidenza quanto potrebbe essere importante informare adeguatamente gli operatori all'uso di un'ampia possibilità di strategie da utilizzare (Santinello, Negrisolo, 2009).

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Locus of control.

Nei fattori individuali il locus of control è uno dei fattori che viene preso in considerazione; il concetto è stato introdotto per la prima volta nell'ambito della teoria dell'apprendimento sociale da Rotter, (Rotter, 1966) secondo cui i soggetti attribuiscono una diversa gradazione di controllo agli eventi che vivono e percepiscono; tale gradazione si estende su una linea che va dal controllo interno al controllo esterno.

Quindi il locus of control può essere definito come il grado di percezione che il soggetto pensa di avere su un determinato evento o su una determinata condizione e parliamo di locus of control interno quando il soggetto si riferisce ad esempio alle proprie capacità e alle proprie risorse e di locus of control esterno quando invece attribuisce un mancato controllo della situazione a fattori esterni come ad esempio al caso o ad altre persone. In particolare il locus of control esterno sembra associarsi con le dimensioni del burnout: si ritrova in associazione a bassi livelli di autorealizzazione ed alti livelli di depersonalizzazione ed esaurimento emotivo.

Non è un caso se i soggetti con locus of control interno hanno la capacità di considerare i fattori più stressanti come controllabili e quindi tendono a mettere in atto strategie basate sul problema; contrariamente i soggetti con una prevalenza di utilizzo di locus of control esterno sono molto più a rischio nello sviluppo della patologia a causa della loro vulnerabilità allo stress.

Diversi studi hanno evidenziato la relazione tra locus of control e burnout e come questa relazione vada conseguentemente a influenzare la percezione individuale dello stress che si riversa successivamente sul fenomeno in questione; si ipotizza che gli individui con bassi livelli di locus of control interno sviluppino delle strategie di coping adeguate ed efficaci rispetto alla situazione, presupponendo una carenza di rinforzi positivi ricevuti in passato relativamente alle capacità di gestire situazioni in cui era necessaria una adeguata strategia di coping (Santinello, 2009).

Circuiti e abilità relazionali.

Il contatto quotidiano è una delle caratteristiche principali che definisce la categoria delle professioni di aiuto; è qualcosa che richiede un'ampia serie di abilità relazionali che vanno oltre le competenze apprese durante gli studi e per il proprio ruolo di professionista, si tratta piuttosto di abilità sia relazionali che comunicative che si creano col tempo ed esperienza.

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operano nel settore pubblico a contatto con gli utenti, è strettamente fondamentale enfatizzare, ampliare ed esercitare le abilità comunicative e di coping dei soggetti.

Lo studioso ritiene che ci siano soprattutto tre competenze relazionali e comunicative che permettono di prevenire il fenomeno del burnout, tra cui:

- l'assertività; - l'empatia; - l'ascolto attivo.

Con assertività si intende la capacità del soggetto di riuscire ad esprimere le proprie sensazioni i propri pensieri e i propri bisogni senza violare i diritti o la libertà altrui è quindi una abilità comunicativa che permette di esprimere completamente la propria persona e le proprie sensazioni in modo aperto, senza escludere l'opinione altrui.

È stato quindi dimostrato da diversi studi (Shimizu, et al.,2003) che tentare di migliorare le abilità comunicative del soggetto soprattutto per quanto riguarda la caratteristica dell'assertività, migliora la possibilità di prevenire il fenomeno, aumentando inoltre le probabilità che il soggetto possa realizzarsi a livello personale (Santinello, Negrisolo, 2009). Per quanto riguarda l'empatia, essa può essere suddivisa in:

- condivisione delle emozioni del paziente; - preoccupazione empatica per il paziente;

- comunicazione efficace con il paziente e la sua famiglia.

Le dimensioni dell'empatia sembrano predire i livelli di burnout; ad esempio la depersonalizzazione sembra essere strettamente collegata a una bassa preoccupazione empatica per il paziente e ad una comunicazione scarsamente efficace.

La realizzazione personale del soggetto sembra essere correlata ad una scarsa comunicazione empatica e ad un'elevata condivisione delle emozioni del paziente, mentre l'esaurimento emotivo sembra essere influenzato anch'esso dalla condivisione delle emozioni del paziente.

Riferendoci all'ascolto attivo si intende la capacità del personale medico e sanitario di comprensione reciproca e intenzionale durante l'ascolto; si tratta di un'abilità strettamente connessa sia all'affettività che all'empatia. Proprio per questa connessione l'ascolto attivo influenza ed è influenzato dalle altre due abilità precedenti ed è in grado di migliorare la capacità di ascolto del soggetto nei confronti di pazienti e famiglie.

L'atteggiamento di ascolto attivo che spesso viene adottato da parte dei superiori corrisponde, nel lavoratore, alla percezione di un ambito lavorativo caratterizzato dal sostegno e collegato conseguentemente a una minor percezione dello stress; questo ovviamente, può diminuire indirettamente i livelli di burnout (Santinello, Negrisolo, 2009).

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Valori personali e aspettative.

Le aspettative e i valori personali ricoprono un ruolo fondamentale nella comprensione del fenomeno. Le aspettative iniziali riguardano aspetti relativi alle particolarità del proprio lavoro, relativi alla possibilità di raggiungere i propri scopi ed obiettivi come ad esempio la realizzazione personale e promozioni lavorative, sia relativi a un'eventuale collaborazione lavorativa con colleghi e gruppi di lavoro.

Volontariamente o involontariamente, dopo un certo periodo lavorativo il soggetto metterà a confronto le aspettative iniziali con le esperienze effettuate in ambito professionale, e si potrà riconoscere in almeno una di queste due situazioni tipiche;

-se si verificherà uno scompenso troppo marcato tra le aspettative iniziali e le condizioni reali questo potrà predisporre al burnout;

-se invece la differenza tra ciò che il soggetto si era prospettato e quello che si è successivamente verificato è minima, la persona non sarà predisposta.

Di solito chi si ritrova nella prima condizione e chi sviluppa aspettative non realistiche sarà motivato maggiormente a lavorare in modo troppo impegnativo ed esagerato sia dal punto di vista fisico, che dal punto di vista psichico che dal punto di vista emotivo, e questo predisporrà la persona allo sviluppo di esaurimento emotivo e depersonalizzazione soprattutto nel caso in cui gli sforzi non verranno adeguatamente ricompensate.

Per quanto riguarda i valori professionali riconosciamo:

-valori sociali: importanza che il lavoratore attribuisce al rapporto con superiori colleghi e utenti;

-valori estrinseci: importanza attribuita ai fattori materiali del proprio operato lavorativo come ad esempio lo stipendio;

-valori intrinseci: importanza che il lavoratore attribuisce a fattori non tangibili del proprio lavoro come l'espressione di sé.

È importante cercare di adattare i valori personali ai valori organizzativi in modo che non si crei conflitto tra questi; questo sembra essere strettamente collegato a tutte e tre le dimensioni del burnout (Maslach, Leiter, 2000).

I valori personali sono fondamentali nel predire la gravità del fenomeno perché un'ampia condivisione di valori tra l'individuo e l'organizzazione in cui opera si collega ad un alto senso di efficacia personale professionale, e bisogna anche tenere in considerazione che l'adattamento tra i due tipi di valori non è isolato, ma collegato ad altre variabili tra cui le caratteristiche di personalità o il sostegno familiare. È chiaro come la mancata coincidenza tra valori obiettivi, credenze del soggetto, e caratteristiche lavorative predisponga all'insorgenza del fenomeno (Santinello, Negrisolo, 2009).

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2.2. Cause specifiche del burnout in oncologia.

A questo punto ci si chiede quali siano i fattori che entrano in gioco nel favorire lo sviluppo della sindrome del burnout.

Diversi studiosi hanno descritto le possibili cause che potrebbero portare all'insorgenza del fenomeno sopracitato, e di seguito ritroveremo caratteristiche sia generali che specifiche che rivestono un ruolo fondamentale nel determinare la sindrome.

Maurizio Cianfarini (2012) suppone che tali fattori siano sia di tipo ambientale che di tipo individuale in quanto il medico o l'operatore possono vivere una sensazione di squilibrio tra le richieste esterne o interne e le risorse che ritengono di avere a disposizione.

Le richieste esterne possono essere legate ad un maggior carico di lavoro soprattutto se si opera in una situazione in cui il successo inteso come guarigione del paziente capita raramente, oppure può derivare da condizioni nelle quali il successo psicologico ossia la percezione di aver fatto bene il proprio lavoro è assente per un mancato feedback.

Le richieste interne come ad esempio bisogni personali e valori morali possono venir frustrate dalla discrepanza tra gli ideali o le aspettative che si sviluppano nei confronti della propria professione; questo può successivamente portare ad una perdita progressiva di idealismo, di motivazione e di autostima ( Cianfarini, 2012).

Si può sviluppare un grande stress anche quando le risorse dell'operatore superano o sono diverse dalle richieste che provengono dal proprio ambiente lavorativo o dal paziente stesso ed inoltre, alcuni fattori individuali fanno sì che un soggetto sia più a rischio di burnout rispetto ad un altro:

-soggetti con ansia nevrotica: hanno un super io rigido e punitivo si pongono degli obiettivi estremamente alti e se falliscono si puniscono in modo molto severo.

-soggetti flessibili: sono persone facilmente adattabili e la loro flessibilità li porta a svolgere compiti che non sono in linea con le loro aspirazioni, causando situazioni di stress.

-soggetti con sé debole: il lavoro che svolgono può diventare lo strumento tramite cui riescono a valorizzarsi, spesso usano la loro capacità di aiutare le persone come mezzo per potenziare la loro autostima e per ottenere l'approvazione sociale, motivo per cui aumenta sempre più il tempo passato a lavoro e diminuisce il tempo libero dedicato a sé stessi.

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Questo ovviamente porta a restringere il tempo dedicato ad attività che possono dare godimento o soddisfazioni al di fuori del contesto lavorativo.

Secondo Anita Caruso, Antonio Tramontana e Valentina Bigazzi (2011) invece l'insieme dei fattori che entrano in gioco nel favorire lo sviluppo del burnout è complesso e articolato e tra questi è possibile distinguere fattori generali e specifici.

Tra i fattori generali si ritrovano:

-le aspettative nei confronti del lavoro (significato personale che il medico attribuisce al proprio lavoro);

-le caratteristiche di personalità individuali;

-i fattori culturali ( società orientata al bisogno di successo e competitività); -i fattori istituzionali (quantità di lavoro eccessiva) .

In oncologia occorre però prendere in considerazione una serie di fattori specifici riguardanti sia la malattia in sé, sia gli interventi dei medici oncologici, sia le risposte del paziente. (Caruso, Tramontana, Bigazzi, 2011)

Tra questi si ritrovano:

- gli aspetti relativi al tipo specifico di cancro e al trattamento;

- i concetti relativi all'inguaribilità dalla malattia tumorale nonostante i progressi della ricerca e delle terapie;

- caratteristiche fondamentali della malattia tumorale come ad esempio il decorso e la risposta ai trattamenti, l'imprevedibilità dell'insorgenza ed infine la rapida ed ampia diffusione di tale tipo di malattia;

- l'avanzare del cancro nel tempo si accompagna a deterioramento psicofisico e questo diventa difficile da affrontare sia per il paziente che per il medico stesso;

- il tipo di cure utilizzate in caso di tumori come chemioterapia e radioterapia hanno spesso effetti collaterali importanti (nausea, vomito, dimagrimento, sterilità, dolore acuto, modificazione caratteriale della persona) che possono incidere emotivamente non solo sul paziente , ma anche su chi le somministra;

- la malattia del paziente inoltre, può spesso rievocare sia nel medico che in generale nell'equipè d'aiuto, esperienze personali suscitando coinvolgimenti emotivi e di conseguenza situazioni stressanti in quanto gli operatori si trovano a dover far fronte ad un turbine di emozioni che emergono dal rapporto col paziente, sentimenti comuni come

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ansia, angoscia e rabbia possono insorgere non solo nel soggetto che necessita di cure ma anche in chi le somministra.

Rabbia, delusione e senso di colpa possono derivare dall'inefficacia dei trattamenti, dal rapporto con pazienti particolarmente gravi, o da reazioni di aggressività da parte del paziente nei confronti del personale sanitario causato molto spesso dalle cure pesanti a cui si devono sottoporre (Caruso, Tramontana, Bigazzi, 2011).

- un ulteriore fattore di stress che riguarda medici e operatori è la scarsa preparazione per la presa in carico globale del paziente e dei suoi familiari, infatti ripetuti studi hanno rilevato i marcati problemi dei medici (anche con tanta esperienza clinica) nel comunicare in modo efficace ed adeguato con i pazienti;

- un' altra categoria di fattori che possono concorrere allo sviluppo di stress negli operatori è rappresentata dalle difficoltà connesse al lavoro in équipe multidisciplinari; nella cura del paziente entrano in relazione diverse figure professionali ognuna con il suo compito e con la sua storia personale, e tra di esse possono spesso generarsi conflitti (Caruso, Tramontana, Bigazzi, 2011).

Tra le cause specifiche del burnout in oncologia anche De Cesare (2013) descrive come in questo ambito il burnout assuma una serie di caratteristiche, collegate a fattori specifici come la natura della malattia oncologica, il lavoro in equipè multidisciplinari, e in gran parte alle risposte del paziente; tutte caratteristiche che nel tempo si configurano poi come cause (De Cesare, 2013).

Tra i fattori correlati alla malattia abbiamo: - un'elevata incurabilità;

- un'alta irreparabilità;

- il decorso, l'insorgenza e la risposta ai vari trattamenti somministrati sono altamente imprevedibili;

- estrema diffusione;

- patologie spesso concomitanti ad alterazioni cognitive e della personalità. Tra i fattori correlati agli interventi degli operatori oncologici ritroviamo: - la natura dei trattamenti:

1. particolarità dei trattamenti chemioterapici, radioterapici e chirurgici; 2. frequenza delle complicanze iatrogene;

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Caratteristiche relative alla relazione col paziente oncologico: 1. sentimenti di rabbia e colpa;

2. continua dedizione e accompagnamento in tutte le fasi di malattia;

3. rievocazione di esperienze personali scaturite dall'assistere pazienti bisognosi; 4. decisioni difficili da affrontare in ambito lavorativo (De Cesare, 2013).

- Aspetti relativi al lavoro all'interno dell'equipè multidisciplinare: 1. difficoltà relative all'integrazione dei compiti;

2. difficoltà nel riuscire a rispettare specificatamente il proprio range di compiti e mansioni, senza invadere quello altrui.

-Fattori correlati alle risposte del paziente:

1. atteggiamento di dipendenza continua del paziente nei confronti dell'operatore;

2. reazioni del paziente nei confronti della severità o meno della patologia oncologica in corso.

3. il doversi relazionare alla morte, e al morire;

4. reazioni/manifestazione per l'ingiustizia delle sofferenze umane;

5. reazioni di adattamento alla scarsa efficacia delle terapie chemioterapiche e radioterapiche;

6. produzione di idee suicidarie (De Cesare, 2013).

L'insieme di questi fattori mette quindi in risalto la necessità di un operatore adeguatamente formato per l'ambito oncologico.

L'origine della sindrome del burnout, è come se in parte si allacciasse alle problematiche che spingono gli operatori dell'area oncologica a scegliere la propria professione.

La vocazione che spinge molti di loro alla scelta di un ambito così difficile, si inserisce spesso nel bisogno di poter controllare situazioni derivanti da sensi di colpa, di poter controllare la paura personale per la morte, oppure di poter controllare alcuni dei propri tratti ossessivi.

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Per questo sono fondamentali i momenti di alta intensità emotiva all'interno del proprio lavoro e della relazione con il paziente, la soddisfazione di sentirsi parte di un'opera sociale al servizio del malato, e il piacere di sapere di poter giocare un ruolo profondamente positivo nell'esperienza di chi ci si trova ad affrontare (De Cesare, 2013).

Maslach e Leiter nel 1999 classificano le cause del burnout in tre categorie relative a: - Sovraccarico di lavoro:

Per l'operatore professionista, con sovraccarico lavorativo si intende il dover prendersi cura di troppe persone in troppo poco tempo, e il non riuscire a soddisfare adeguatamente le loro esigenze. Inoltre succede spesso che gli operatori vivano in condizioni di lavoro che non consentono interruzioni dal rapporto stressante con gli utenti e per questo motivo il sovraccarico di lavoro comporta segni focali del burnout come esaurimento emozionale, sentimenti negativi verso gli altri, ridotto senso di realizzazione personale.

- Perdita del controllo:

Il grado di burnout diventa elevato quando l'operatore perde la sensazione di avere sotto controllo il tipo di cura e assistenza che fornisce, e questo successivamente porta all'insorgere di sentimenti di frustrazione , di collera, di fallimento e di inefficienza.

- Relazione con i colleghi :

Spesso può succedere che nella cura di un paziente oncologico, la relazione con i colleghi all'interno dell'équipe si alteri e diventi di conseguenza, un'importante fonte di stress emozionale che contribuisce allo sviluppo del burnout.

Maslach e Leiter (1999) sottolineano che spesso tra i colleghi di un' équipe la difficoltà a chiedere aiuto o la capacità di condividere i propri sentimenti possano assumere un peso rilevante, perché c'è sempre la paura e il timore che l'espressione di contenuti emozionali possa venire intesa come una debolezza del soggetto o come una sua mancanza di competenza e professionalità. Questo aspetto ovviamente si amplifica quando le responsabilità non vengono condivise e quando c'è mancanza del lavoro di équipe, facendo sì che ogni singolo operatore sia così sottoposto a maggiori pressioni emozionali.

Come si può notare non si tratta di una singola caratteristica causale, ma di una molteplicità di fattori, che interagendo tra di loro e protraendosi nel tempo danno luogo al burnout.

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2.3.Sintomi.

Parlare della sintomatologia del burnout significa individuare quali sono i segni con cui l'operatore sanitario manifesta il suo disagio professionale; i sintomi possono manifestarsi sia a livello fisico che a livello psicologico e comportamentale e possono variare da soggetto a soggetto.

Per definire una condizione patologica occorre che tutte le componenti siano compromesse nel soggetto in questione.

A livello fisico l'esaurimento di energie e di capacità si rende evidente con frequenti mal di testa e disturbi gastrointestinali, insonnia, respiro corto, fatica, disturbi psicosomatici come ulcere, bassa pressione, mal di schiena, influenze, cambiamento delle abitudini alimentari, pensieri tormentosi e intrusivi.

In generale le persone riferiscono di sentirsi stanche, sfinite e di non riuscire ad affrontare una nuova giornata ;per questo le soluzioni che adottano sono di solito tranquillanti, droghe, alcol e sostanze che sembrano apparentemente migliorare la situazione ma che in realtà non fanno altro che favorire l'instaurarsi della patologia a livello cronico (Maslach, Leiter, 2000).

A livello psicologico i sintomi sono costituiti dall'isolamento, dal negativismo, da depressione, da ansia, inflessibilità, rigidità di pensiero; si riconosce quindi in generale, un'alterazione del tono dell'umore che si accompagna spesso alla scarsa fiducia in sé (Cherniss 1983).

A questi segni seguono poi successivamente delle reazioni comportamentali negative verso sé stessi, verso gli altri e verso il proprio lavoro come ad esempio assenteismo, ritardi al lavoro, ricorso a procedure standardizzate a livello lavorativo per la scarsa fantasia, per giungere poi ad un totale distacco emotivo nei confronti dei propri colleghi, del proprio operato e nei confronti degli utenti.

Questi da una parte sono comportamenti che il soggetto utilizza per difendersi dalla condizione stressante del proprio lavoro, ma che allo stesso tempo rappresentano uno dei fattori di rischio nel peggiorare la condizione, soprattutto quando vengono utilizzati con una certa frequenza e una certa intensità.

Si esporranno in seguito le categorie relative ai sintomi, in modo più specifico (Baiocco et al, 2012).

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-SINTOMI SOMATICI . disfunzioni gastrointestinali;

. disfunzioni a carico del sistema nervoso centrale; . . disfunzioni sessuali;

. malattie della pelle; . allergie;

. asma;

. disturbi del sonno;

. disturbi dell'alimentazione. -SINTOMI PSICOLOGICI

Sono i più importanti e investono sia la sfera cognitiva che quella emotiva.

C. Maslach descrive tre gruppi di sintomi tra cui esaurimento emotivo, depersonalizzazione, ridotta realizzazione professionale.

Folgherhaiter nel 1994 aggiunge a questa lista, sintomi descrivibili come “perdita di controllo” raggruppati in quattro categorie:

. collasso delle energie psichiche; . collasso della motivazione; . caduta dell'autostima; . perdita di controllo;

-SINTOMI COMPORTAMENTALI E SOCIALI

La situazione di disagio può spesso stimolare comportamenti dannosi per la salute come il ricorrere al tabagismo, assumere sostanze psicoattive, cercare conforto nel cibo, sviluppare comportamenti aggressivi, violenti o rabbiosi, “fuggire dalla relazione con i colleghi” cercando di trascorrere più tempo possibile in attività che non richiedano il contatto con utenti o personale (Cherniss, 1983).

-INFERENZE SUL LAVORO .calo della qualità del lavoro svolto; .assenteismo;

.deterioramento dell'ambiente di lavoro; .abbandono del lavoro.

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Le possibili manifestazioni del burnout secondo Cherniss possono essere divise in quattro gruppi:

1. Sintomi Fisici:

Fatica e senso di stanchezza, frequenti mal di testa e disturbi gastrointestinali, raffreddori e influenze, cambiamenti delle abitudini alimentari, insonnia e uso di farmaci.

2. Sintomi Psicologici:

Quali senso di colpa, negativismo, sensazioni di fallimento ed immobilismo, alterazioni dell’umore, irritabilità, scarsa fiducia in sé, scarsa empatia e capacità d’ascolto.

3. Reazioni Comportamentali:

Alta resistenza ad andare al lavoro, assenteismo e ritardi, tendenza ad evitare o rimandare i contatti con gli utenti, ricorso a procedure standardizzate.

4. Cambiamenti di atteggiamento con gli utenti:

Verso cui si dimostra chiusura difensiva ai contatti, cinismo, perdita di disponibilità all’ascolto, distacco emotivo, indifferenza, colpevolizzazione; utilizzo di misure di controllo comportamentale come l’uso di tranquillanti; atteggiamenti sospettosi o paranoidi. Anche con i colleghi si sviluppano atteggiamenti di evitamento dei contatti e di risentimento.

Questi sintomi si configurano, secondo la definizione di Cherniss (1988), come la risposta data ad una situazione di lavoro sentita come intollerabile.

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