Università di Pisa
Dipartimento di Economia e Management
Corso di Laurea in Consulenza Professionale alle Aziende
Tesi di Laurea magistrale
in
Diritto Commerciale
Interessi configgenti degli amministratori nelle s.r.l.: studio
giuridico economico dei profili fisiologici e patologici della
disciplina
Relatore: Candidata:
Prof.ssa Lucia Calvosa Jessica Dal Canto
INDICE
Introduzione
...4
1. L’articolo 2391 del codice civile ed il suo antenato.
...5
1.1. Gli albori della disciplina...5
1.2. Interventi legislativi nel Novecento: dall’articolo 150 del Codice di
commercio all’articolo 2391 del Codice civile...9
1.3. Aspetti rilevanti dell’articolo 2391 ante riforma...10
1.3.1.
I doveri degli amministratori...12
1.3.2.
La responsabilità degli amministratori...15
1.3.3.
Impugnazione della delibera e opponibilità del vizio ai terzi...18
2. La scissione della disciplina di società a responsabilità limitata e
società per azioni come risultato della riforma del 2003
...26
2.1.
La ratio e le linee direttrici della riforma...26
2.2. La nuova s.r.l. alla luce della riforma del Diritto Societario:
l’avvicinamento al modello personalistico...29
2.3. Il “nuovo” articolo 2391: misura e ragioni dello scostamento dalla
formulazione originaria...33
2.4.
L’articolo 2475-ter in chiave di confronto con il suo alter ego nella
fattispecie de qua riferibile alla società per azioni...41
3. La disciplina del conflitto di interessi degli amministratori nella
Nuova società a responsabilità limitata
...50
3.1.
Caratteri comuni ai due commi dell’articolo 2475-ter...50
3.2.
Il conflitto di interessi degli amministratori con rappresentanza...64
3.2.1.
Conflitto di interessi e rappresentanza: applicabilità dei principi
generali...65
3.2.2.Ambito applicativo della disposizione...78
3.2.3.L’azione di annullamento del contratto...89
3.3.
Le decisioni dell’organo amministrativo prese col voto determinante di un
amministratore in conflitto di interessi...98
3.3.1.Ambito di applicabilità: modelli amministrativi, organi delegati e
amministratore unico...99
3.3.2.I presupposti dell’impugnazione. Focus sul danno patrimoniale...119
3.3.3.Profili problematici dell’azione di annullamento della decisione...132
3.3.4.Impugnabilità delle delibere consiliari per cause diverse dal conflitto di
interessi...147
Conclusioni
...157
Bibliografia
...160
Introduzione
Con il presente lavoro, ci proponiamo di analizzare la normativa dettata dal Legislatore al fine di disciplinare il complesso tema del conflitto di interessi degli amministratori nella società a responsabilità limitata, il quale, riguardando il rapporto fiduciario tra amministratori e soci, rappresenta un aspetto fondamentale del governo societario.
Di fronte all’ipotesi di un amministratore portatore di un interesse divergente da quello della società il nostro Legislatore ha avvertito l’esigenza di protezione dell’interesse sociale nei confronti di eventuali comportamenti opportunistici da parte dei soggetti chiamati a gestire la società.
Al fine di comprendere le scelte legislative operate al fine di prevenire o contrastare le decisioni gestorie dannose poste in essere dagli amministratori in conflitto di interessi, svilupperemo la nostra analisi a partire da un’approfondita analisi del profilo storico ed evolutivo della disciplina in esame, la quale è stata oggetto di notevoli interventi riformatori nel corso del tempo.
Il più radicale cambiamento è sicuramente stato determinato dalla riforma del diritto societario del 2003: muta completamente volto la società a responsabilità limitata, attraverso l’emancipazione dalla “sorella maggiore” (società per azioni) e, parallelamente, si modifica la disciplina della materia oggetto del nostro esame. Infatti, se in passato la materia del conflitto di interessi degli amministratori era disciplinata, per la società a responsabilità limitata, tramite un lapidario richiamo alla norma prevista per la società per azioni (articolo 2391 Codice civile, testo previgente), l’evoluzione dell’ordinamento, con la riforma del 2003, ha portato ad una consistente differenziazione delle due normative che oggi suscita numerosi interrogativi e questioni interpretative. Accanto all’attuale, più ricca e innovativa disciplina tracciata dal Legislatore per la società per azioni (la quale è stata elaborata con riferimento all’ipotesi, più ampia, degli interessi degli amministratori anche non confliggenti con quello sociale), la disciplina dettata con riferimento alla società a responsabilità limitata, di cui all’articolo 2475-ter, appare scarna e debole: ciò ha spinto gli interpreti ad interrogarsi sull’opportunità di differenziare le due discipline e sulle ragioni di riservare alla società a responsabilità limitata una disciplina meno rigorosa rispetto a quella della società per azioni. Come avremo modo di approfondire, tali ragioni possono essere
individuate e comprese solo leggendo la norma dettata dal Legislatore per la società a responsabilità limitata nel contesto della radicale trasformazione di questo tipo societario, al quale viene attribuita una “doppia anima”, capitalistica e personalistica. I motivi della scelta di dettare una disciplina minimale andranno dunque ricercati nella volontà di riservare alla società a responsabilità limitata uno statuto più semplice e flessibile, attribuendo ai soci, attraverso l’ampia autonomia negoziale loro concessa, la possibilità di caratterizzare la società in senso più prettamente capitalistico o personalistico.
Sulla base di quanto introdotto, si comprende la necessità di sviluppare la nostra analisi secondo una duplice prospettiva di confronto: rispetto alla disciplina previgente e, rispetto all’attuale disciplina dettata per la società per azioni.
4. L’articolo 2391 del Codice civile ed il suo antenato
1.1. Gli albori della disciplina
Al fine di comprendere l’attuale normativa dettata dal Legislatore per disciplinare la complessa tematica del conflitto di interessi degli amministratori appare opportuno soffermarci, preliminarmente, sull’analisi della sua evoluzione, la quale è stata interessata, in una prima fase, da progressivi arricchimenti e sottili modificazioni e, in una seconda fase, da una repentina deviazione dal percorso fino a quel momento intrapreso1.
Nella storia del diritto italiano il primo esempio di disciplina di conflitto di interessi degli amministratori nelle società anonime è rappresentato dall’articolo 138 del Codice civile del 1865, secondo il quale non potevano “essere amministratori della società il banchiere della
medesima, il costruttore, l’appaltatore ed il subappaltatore di materiali per essa”2. L’eccessivo rigore della norma, dato dall’individuazione di casi di incompatibilità assoluta e, il fatto che l’elencazione di un numero finito di incompatibilità non permettesse di contemplare tutti i possibili casi di sussistenza di un pericolo di conflitto di interessi, richiedevano un nuovo intervento legislativo, che non tardò molto ad arrivare. Nel 1882 infatti, con l’introduzione del Codice di commercio e la conseguente sostituzione
1 Nel corso del Novecento molti interventi riformatori (ivi compresa la stessa introduzione del Codice civile)
interessano la disciplina originariamente dettata dal Legislatore. Da una accorta analisi di essi, la quale verrà effettuata nel presente capitolo, emerge come questi fossero tesi ad un affinamento della norma originaria, rivedendo la terminologia adottata in maniera idonea a ridurre l’ambito di incertezza ad essa correlata, pur non alterandone in maniera sostanziale il contenuto. Anche quando la vecchia disciplina viene definitivamente abbandonata in favore del dettato codicistico di cui all’articolo 2391 Codice civile, si può notare come l’unica vera differenza consista nell’aggiunta di un terzo comma, in quanto i primi due continuano a riprodurre in modo sostanzialmente identico il contenuto dell’articolo 150 Codice di commercio
Diversamente, nei primi anni Duemila, la riforma che ha interessato il Diritto Societario ha introdotto un radicale e significativo cambiamento, consistente scelta del Legislatore di rinunciare al trattamento uniforme delle società di capitali in tema di conflitto di interessi degli amministratori, dettando una autonoma disciplina applicabile alla società a responsabilità limitata
2 L. ENRIQUES, Il conflitto d’interessi degli amministratori di società per azioni, Milano, Giuffrè, 2000, pp.
dell’articolo 138 con il 150 del nuovo testo normativo, possiamo assistere al primo tentativo del Legislatore di affrontare in maniera organica la tematica del conflitto di interessi con riferimento alle società anonime.
Appare opportuno soffermarci sull’analisi dell’articolo 150 Codice di commercio, il quale suscita la nostra attenzione in quanto può essere definito un vero e proprio antenato dell’articolo 2391 Codice civile che si pone con esso in linea di continuazione diretta, tanto è vero che molte questioni interpretative e spunti di riflessione inerenti l’articolo 150 Codice di commercio vengono puntualmente riproposti per l’articolo 2391 Codice civile e continuano ancora oggi ad animare in modo ricorrente il dibattito giurisprudenziale e dottrinale.
L’articolo 150 Codice di commercio del 1882, recitava quanto segue: «L’amministratore,
che in una determinata operazione ha, in nome proprio o come rappresentante di un altro, interesse contrario a quello della società, deve darne notizia agli altri amministratori ed ai sindaci, ed astenersi da ogni deliberazione riguardante l’operazione stessa.
In questo caso, e nei casi preveduti dall’articolo precedente, quando le deliberazioni non siano approvate dai sindaci, gli amministratori che vi hanno preso parte sono responsabili delle perdite che ne derivassero alla società».
Dalla lettura dell’articolo emerge come, al primo comma, vengano esplicitamente individuati due precisi doveri gravanti sugli amministratori: il dovere di informazione e quello di astensione.
Con riferimento al primo, prevalse in dottrina l’opinione sostenuta da Vivante3, in base alla
quale il dovere dell’amministratore di informare gli altri amministratori ed i sindaci dell’interesse contrario di cui egli è portatore, sia finalizzato ad una più accorta tutela degli interessi sociali. Da questo punto di vista, al dovere di “dare notizia” può essere associata una funzione di avvertimento (il fine sarebbe quello di “mettere in guardia” gli altri amministratori portandoli a conoscenza della situazione), implicando ciò, che l’amministratore non fosse tenuto a riportare la misura ed il genere del proprio interesse, ma solo a comunicare in maniera generica il motivo all’origine della propria astensione.
Quanto al dovere di astensione, Vivante sosteneva che esso coprisse non soltanto la fase della deliberazione del consiglio (che oltre alla votazione comprendeva anche la
partecipazione alla riunione del consiglio chiamato a decidere sull’operazione, con la conseguenza che nel caso in cui fosse presente, non sarebbe potuto essere computato ai fini del quorum costitutivo) ma anche quella della sua esecuzione, ita ut relativamente a quello specifico affare l’amministratore in conflitto di interessi risultava completamente spogliato del potere di amministrare e rappresentare la società. Tale potere si concentrava dunque negli altri amministratori, con la conseguenza che se tutti gli amministratori (o la maggioranza di essi) si fossero trovati nella situazione di conflitto di interessi, il consiglio non avrebbe potuto deliberare in merito a quella operazione e la decisione avrebbe dovuto essere rimessa ai soci. Quanto al termine “deliberazione”, poteva essergli attribuito il significato di “decisione”, in quanto è logico ritenere che il legislatore volesse farvi rientrare non solo quelle adottate dal consiglio ma anche quelle eventualmente adottate dall’amministratore delegato o dall’amministratore unico.
Mentre il primo comma individua i doveri a carico degli amministratori, il secondo prevede la responsabilità di coloro che abbiano preso parte alla deliberazione, non previamente approvata dai sindaci, per le perdite eventualmente causate alla società. Tuttavia non è chiaro se tale disposizione fosse applicabile a tutti gli amministratori che avessero preso parte alla delibera, indipendentemente dal fatto che fossero in conflitto o meno, oppure se dal suo disposto dovessero escludersi gli amministratori non in conflitto.
Componendosi la norma di questi due soli commi, emerge una lacuna relativamente al destino degli atti compiuti in violazione dell’articolo 150, rispetto ai quali esso nulla dispone.
La giurisprudenza si divideva in due orientamenti: il primo negava la nullità del contratto o della delibera sociale, il secondo invece la ammetteva. Fino agli anni Trenta prevalse la tesi che asseriva la validità di questi atti e sosteneva che l’unica soluzione applicabile fosse quella espressamente contemplata dal secondo comma dell’articolo 150, vale a dire la responsabilità per le perdite sociali derivanti dall’operazione. A titolo di esempio possiamo segnalare una sentenza del Tribunale di Genova4 in cui i giudici sostennero che l’articolo
150 Codice di commercio “altra sanzione non [stabiliva] per la sua inosservanza se non che
l’obbligo del risarcimento, lasciando del tutto impregiudicata e salva la validità e l’efficacia del negozio giuridico ormai concluso”, pur riconoscendo in capo al terzo che
aveva colluso col rappresentante a danno della società rappresentata il risarcimento del danno. Nello stesso senso si espresse anche il Tribunale di Milano5, il quale arrivò a
concludere che sarebbe troppo pericoloso considerare nulle le delibere del consiglio a causa del conflitto di interessi tra un amministratore e la società, dal momento che tali delibere toccano anche diritti e interessi di terzi che, senza dubbio, devono verificare la legalità esteriore, ma non sono tenuti a scendere ad un esame più approfondito e al contempo devono essere tenuti al riparo da sgradevoli sorprese.
A partire dagli anni Trenta abbiamo però assistito ad una inversione di tendenza: nel 1936 la Cassazione6 affermò che il conflitto di interessi ex articolo 150 “produce, per regola, la
nullità del negozio rappresentativo perché il mandato, e quindi anche la procura che lo esteriorizza con la contemplatio domini, ha come elemento essenziale la attività negoziale per conto del dominus mandante. Ove risulti che si è agito invece per conto proprio, cioè che si sono attuati gli interessi personali del rappresentante, il negozio rappresentativo è nullo”. In una sentenza successiva, la corte d’appello di Fiume7, in relazione ad una
fattispecie di autocontratto, sostenne di nuovo, contro l’opinione degli appellanti secondo la quale l’articolo 150 non sanciva alcuna nullità del contratto concluso dall’amministratore con se stesso, che nel caso di conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato, “la
nullità del negozio rappresentativo, conclusosi in conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato, [scaturiva] dai principi generali del diritto; dall’essenza e dalla norma della rappresentanza in genere, e dal mandato in ispecie”, precisando inoltre che sarebbe stato
“contrario alla tecnica legislativa, che il legislatore ripetesse in una disposizione di
carattere particolare... una norma generale di diritto”. Secondo questo orientamento
dunque, l’invalidità dei contratti conclusi sulla base della delibera viziata da conflitto di interessi non derivava direttamente dall’articolo 150, che niente disponeva al riguardo, ma dal principio generale dell’invalidità del contratto concluso dal rappresentante con se stesso. Era questa la tesi che andava affermandosi in dottrina già da qualche anno, sostenuta, tra gli altri, dall’Asquini, il quale riteneva che “la partecipazione di un amministratore ad una
5 Trib. Milano, 20 gennaio 1919, Riv. dir. comm., 1919, II, pp. 652 ss.
6 Cass. Regno, udienza del 24 gennaio 1936, n. 282, Foro it., 1936, I, cc. 620 ss. 7 App. Fiume, udienza del 2 luglio 1938, Foro it., 1939, I, cc. 766 ss.
deliberazione collegiale, relativa ad una data operazione tra la società e quell’amministratore, [fosse] atto equivalente a quello di un contratto con sé medesimo”8.
La sorte degli atti viziati da conflitto di interessi ha dunque interessato il dibattito dottrinale di fine Ottocento e di buona parte della prima metà del Novecento, conoscendo finalmente la propria disciplina nel 1940, quando il Progetto preliminare del codice di commercio sancì espressamente la nullità9 della deliberazione del consiglio nel caso in cui il voto del
consigliere in conflitto fosse stato determinante, salva comunque la responsabilità dell’amministratore per le perdite che ne fossero derivate alla società.
1.2. Interventi legislativi nel Novecento: dall’articolo 150 del Codice di
commercio all’articolo 2391 del Codice civile
Nei primi decenni del Novecento il Codice di commercio continuò ad essere oggetto di discussione ed interesse, nonché di iniziative governative volte alla sua riforma mediante la nomina di apposite Commissioni. Già nei primi progetti di riforma (progetto Vivante del 1922 e progetto D’Amelio) l’articolo 150 fu sottoposto ad importanti modifiche, tra le quali è doveroso evidenziare il venir meno del riferimento all’approvazione della delibera da parte dei sindaci.
A seguito della ripresa dei lavori di riforma dei Codici10, la disciplina sul conflitto di
interessi nelle società anonime continuò ad arricchirsi e a farsi più completa fino ad approdare alla formulazione dell’articolo 2391 Codice civile del testo previgente.
8 A. ASQUINI, Conflitto d’interessi tra il socio e la società nelle deliberazioni di assemblee delle società per azioni, in Riv. dir. comm., 1919, II, pp. 656 ss. In senso difforme, L. TARTUFARI, Della rappresentanza nella conclusione dei contratti, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1892, p. 555,
secondo il quale l’articolo 150 Codice di commercio “altra sanzione non istabilisce per la sua inosservanza
senonché l’obbligo del risarcimento, lasciando del tutto impregiudicata e salva la validità del negozio giuridico ormai concluso”.
9 La sanzione di nullità fu poi trasformata in quella di annullabilità nel Progetto preliminare del Libro del
Lavoro e dell’Impresa.
10 L’originario disegno di riforma dei due Codici (civile e commerciale), articolatosi in una serie di progetti
distinti, è infine confluito nell’unitario Progetto preliminare del Libro dell’impresa e del lavoro, che ha dato vita, con alcuni significativi ritocchi, all’attuale Libro V “Del lavoro” del Codice civile del 1942.
Innanzitutto, il Progetto preliminare del codice di commercio del 1940 definì, come già anticipato, il destino delle deliberazioni viziate da conflitto di interessi, prevedendone la nullità. Successivamente, alla sanzione di nullità il Progetto preliminare del Libro del Lavoro e dell’Impresa sostituì quella di annullabilità. In seguito, con il libro del Codice civile “Dell’Impresa e del Lavoro” furono introdotti (all’articolo 325) il concetto della responsabilità dell’amministratore per le perdite derivate alla società dal compimento
dell’operazione (non più quindi, come in precedenza, dalla deliberazione), il requisito della idoneità della deliberazione a recare danno alla società e, per la prima volta, il termine di
decadenza di tre mesi per l’impugnazione della delibera, specificando che erano legittimati all’impugnazione solo gli amministratori assenti o dissenzienti (ed ovviamente i sindaci) e che erano fatti salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi.
Gli ultimi ritocchi a livello formale e terminologico furono apportati in sede di coordinamento dei libri del Codice civile allorché l’espressione interesse contrario fu sostituita con quella di interesse in conflitto e l’espressione sia idonea a recare danno fu sostituita con possa recare danno. Infine, con riferimento alla situazione dei terzi si chiarì che erano fatti salvi i diritti acquistati da questi in buona fede in base ad atti compiuti in
esecuzione della deliberazione.
Dall’analisi dell’evoluzione normativa finora svolta risulta abbastanza chiaro che la disciplina dettata dal Codice civile del 1942 (all’articolo 2391) sia il frutto di una progressiva rielaborazione dell’articolo 150 Codice di commercio, con il quale si pone in rapporto di continuazione diretta.
1.3. Aspetti rilevanti dell’articolo 2391 ante riforma
Al fine di comprendere analogie e differenze che intercorrono tra la norma dettata dal Legislatore nel ’42 ed il suo antenato, procediamo all’analisi del contenuto dell’articolo 2391 Codice civile, rubricato “Conflitto di interessi” che così recitava11:
«L'amministratore, che in una determinata operazione ha, per conto proprio o di terzi, interesse in conflitto, con quello della società, deve darne notizia agli altri amministratori e
al collegio sindacale e deve astenersi dal partecipare alle deliberazioni riguardanti l'operazione stessa.
In caso d'inosservanza, l'amministratore risponde delle perdite che siano derivate alla società dal compimento dell'operazione.
La deliberazione del consiglio, qualora possa recare danno alla società, può, entro tre mesi dalla sua data, essere impugnata dagli amministratori assenti o dissenzienti e dai sindaci se, senza il voto dell'amministratore che doveva astenersi, non si sarebbe raggiunta la maggioranza richiesta. In ogni caso sono salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione».
L’articolo si compone di tre commi: i primi due ricalcano, con differenze sul solo piano terminologico12, il contenuto dell’articolo 150 Codice di commercio, mentre il terzo risolve
la questione relativa alla sorte degli atti viziati da conflitto di interessi prevedendone l’impugnabilità. Procederemo distintamente all’analisi dei tre, ponendo particolare attenzione agli elementi che hanno sollevato maggiori incertezze e dubbi di carattere interpretativo. Prima di addentrarci in detta analisi appare tuttavia opportuno cercare di definire i limiti della fattispecie presa in considerazione, dal momento che la scelta del Legislatore comporta rilevanti conseguenze sul piano dell’individuazione del fenomeno. L’interesse degli amministratori rilevante ai fini dell’applicazione della norma risulta essere esclusivamente quello confliggente con l’interesse sociale (come risulta chiaramente già dalla rubrica dell’articolo), escludendo così tutte quelle situazioni in cui il rapporto tra gli interessi in gioco si atteggi in termini di compatibilità ovvero di convergenza (non essendo possibile, in tali casi, accertare la sussistenza di un conflitto tra gli interessi). Allo stesso modo, la dottrina ha ritenuto che non integrasse gli estremi del conflitto la semplice
concorrenza tra gli interessi, poiché il rapporto concorrenziale non implica un contrasto
attuale, ma solo l’orientamento degli interessi verso il conseguimento di un medesimo obiettivo che, solo eventualmente, può sfociare in collisione. Pertanto la situazione di
12 Possiamo sottolineare ad esempio la diversa terminologia adottata in merito all’oggetto della norma, in
quanto l’articolo 150 Codice di commercio fa riferimento agli interessi contrari e, l’articolo 2391 Codice civile, agli interessi in conflitto. La scarsa rilevanza di tale distinzione risiede nel fatto che si tratti di una differenza unicamente formale, trattandosi evidentemente di due sinonimi. Diversamente, la modifica della rubrica dell’articolo in “interessi degli amministratori”, con la riforma del 2003, coinvolgerà un cambiamento di carattere contenutistico di grande rilievo.
conflitto tra gli interessi è stata interpretata come relazione di incompatibilità, ricorrente qualora gli interessi della società e degli amministratori siano orientati in direzioni opposte. Da sottolineare, al riguardo, che secondo l’interpretazione prevalente la contrapposizione degli interessi doveva essere totale, nel senso che rilevavano solamente situazioni di
incompatibilità assoluta, vale a dire caratterizzate da un’opposizione tale per cui il
perseguimento dell’interesse dell’amministratore comportasse inevitabilmente il sacrificio dell’interesse della società nella determinata operazione13.
1. 3. 1. I doveri degli amministratori
Il primo comma opera su un piano preventivo, così come faceva l’articolo 150 Codice di commercio, prevedendo, a carico degli amministratori, i doveri di comunicazione ed astensione.
Il dovere di comunicazione era finalizzato al superamento della posizione di vantaggio
informativo14 in cui si trovava l’amministratore interessato rispetto agli altri e, conseguentemente, l’obiettivo risultava quello di metterli in guardia in modo che potessero tutelare con maggior accorgimento gli interessi sociali, adottando tutte le misure necessarie ad evitare che dalla situazione di conflitto potesse derivare un danno alla società. Al fine di adempiere questo dovere, l’amministratore avrebbe dovuto adottare i mezzi da lui ritenuti più idonei ad assicurare la conoscenza della situazione agli altri amministratori (e sindaci), dal momento che la norma nulla disponeva in merito agli aspetti formali della comunicazione. Tuttavia si riteneva essenziale la tempestività15 dell’informazione,
dovendosi valutare caso per caso l’eventuale ritardo nell’adempimento (quindi, per esempio, nel caso di una deliberazione assembleare, era necessario adempiere prima della
13 S. CORSO, Gli interessi 'per conto di terzi' degli amministratori di società per azioni, G. Giappichelli,
Torino, 2016, p. 42.
14 L. SOLIMENA, Il conflitto di interessi dell’amministratore di società per azioni nelle operazioni con la società amministrata, Giuffrè Editore, Milano, 1999, pp. 148 ss.
15 G. CAVALLI, I sindaci, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo, Portale, Torino, 1988, p.
relativa discussione)16. Anche relativamente al contenuto della comunicazione la norma
taceva, facendo ritenere sufficiente che l’amministratore dichiarasse l’esistenza e le ragioni del proprio conflitto (rendendo gli altri in grado di operare una valutazione consapevole), senza essere tenuto a rivelare tutte le informazioni delle quali era a conoscenza in conseguenza del suo coinvolgimento personale nell’affare.
Relativamente all’ambito di applicazione della norma, la dottrina17 concordava sulla sua
estensione all’amministratore delegato con riferimento alle operazioni incluse nella delega, in modo tale che gli altri amministratori avessero la possibilità di valutare la situazione decidendo, eventualmente, di convocare il consiglio per deliberare in merito. Orientamenti discordanti potevano rinvenirsi in dottrina invece in relazione alla sua applicabilità all’amministratore unico: la tesi negativa sostenuta da Minervini, si fondava sull’interpretazione dello scopo della comunicazione, il quale consisteva, secondo l’Autore, nel sollecitare il controllo da parte dei sindaci sulla correttezza della procedura deliberativa (e nell’ipotesi di amministratore unico non vi sarebbe stata deliberazione alcuna, in caso di sua astensione)18, mentre la tesi opposta (prevalente in dottrina) era basata su un argomento
storico, legato all’interpretazione dominante dell’articolo 150 Codice di commercio che si riteneva applicabile all’amministratore unico. Questo stesso argomento veniva utilizzato anche con riferimento al secondo dovere contemplato dal primo comma (il dovere di astensione dal partecipare alle deliberazioni riguardanti l’operazione stessa), il quale si riteneva dunque generalmente applicabile non solo in caso di deliberazioni del consiglio di amministrazione, ma anche nelle altre ipotesi di formazione della volontà sociale (come nel caso di amministratore unico o amministratore delegato, che avrebbero dovuto rimettere la
16 L. ENRIQUES, op. cit., p. 223.
17 L. SOLIMENA, Il conflitto di interessi dell’amministratore di società per azioni nelle operazioni con la società amministrata, cit., p. 162; L. ENRIQUES, op. cit., p. 217; A. BELLACOSA, Il conflitto di interessi dell’amministratore di società per azioni e l’articolo 2391 Codice civile, in Giur. Comm., 1997, p. 143 ss. In
senso contrario A. MAZZOCCA, Conflitto di interessi tra amministratore e società, in Società e diritto, 1993, p. 14; il quale sostiene che l’amministratore non sarebbe tenuto al rispetto dell’articolo 2391, ma a una sorta di onere di astensione per evitare di incorrere nelle conseguenze di cui all’articolo 1394 (contratto concluso in conflitto di interessi).
18 G. MINERVINI, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1956, p. 194; in senso contrario L.
ENRIQUES, op. cit., p. 219, il quale oltre a ritenere che la comunicazione abbia anche altre funzioni (come quella di rendere possibile l’attivazione dei poteri di reazione dei sindaci), evidenzia come la tesi sostenuta da Minervini sia valida soltanto assumendo che l’amministratore unico si astenga dal compimento dell’operazione, quando non è affatto detto che ciò avvenga.
deliberazione al comitato esecutivo, al consiglio di amministrazione o all’assemblea). Relativamente al dovere di astensione, inoltre, dobbiamo domandarci a quale aspetto del processo deliberativo esso esattamente si riferisca: secondo l’orientamento prevalente in dottrina, esso concerneva solamente il momento della votazione, non la discussione o la semplice presenza alla riunione, in quanto una norma che precludesse all’amministratore la stessa partecipazione alla riunione sarebbe comunque risultata inadeguata al fine di garantire il buon funzionamento del consiglio di amministrazione impedendo all’amministratore interessato di influenzare gli altri consiglieri, dal momento che quest’ultimo avrebbe potuto esercitare la propria influenza anche prima dell’inizio della riunione19. Anche con riferimento all’esclusione dal voto tuttavia dobbiamo compiere
alcune considerazioni, in quanto c’era chi sosteneva che una corretta interpretazione del primo comma dell’articolo 2391 non comportasse la perdita della legittimazione al voto, richiedendo piuttosto all’amministratore di votare in senso opposto al proprio interesse ed in conformità a quello sociale20. Una interpretazione di questo tipo avrebbe spogliato il
presidente del consiglio del potere di escludere dal voto l’amministratore in conflitto, privandolo così della possibilità di prevenire eventuali abusi. Secondo Enriques invece, questa tesi era da considerarsi valida, ma solo nella misura in cui non la si ritenesse incompatibile con il riconoscimento di un potere di esclusione in capo al presidente, nel senso di un potere-dovere di non considerare nel computo del risultato della delibera il voto espresso dall’amministratore in conflitto che non vada in direzione palesemente contraria al suo interesse21.
Ultimo aspetto da considerare è quello relativo alle conseguenze nel caso in cui portatore dell’interesse confliggente con quello sociale sia l’amministratore unico oppure l’intero consiglio (o anche la sua maggioranza). Al riguardo, la dottrina riteneva che fosse suo compito sottoporre la questione all’esame dell’assemblea in ottemperanza al dovere di perseguire l’interesse sociale e del principio di buona fede. Inoltre, al fine di garantire la correttezza del processo deliberativo, l’amministratore-socio avrebbe dovuto adempiere il
19 Era quindi minoritaria l’opinione opposta, per cui all’amministratore sarebbe stata preclusa anche la
partecipazione alla riunione. In questo senso V. SALAFIA, Il conflitto di interessi nelle società di capitali, in
Società, 1996, p. 395.
20 M. ROMANO, Profili penalistici del conflitto di interessi dell’amministratore di società per azioni,
Milano, 1967, p. 108.
dovere di comunicazione di cui all’articolo 2391 Codice civile nei confronti dei soci, così come quello di astensione dalla deliberazione assembleare in cui fosse interessato22.
1. 3. 2. La responsabilità degli amministratori
Mentre il primo comma dell’articolo oggetto di analisi opera su un piano preventivo, il secondo opera su un piano risarcitorio, prevedendo la responsabilità dell’amministratore per le perdite derivate alla società dal compimento dell’operazione, nel caso in cui egli non osservi i due doveri previsti dal primo comma (o soltanto uno di essi, dal momento che deve dare notizia e astenersi).
Alcuni Autori sostenevano che la previsione di cui al secondo comma introducesse una “presunzione assoluta di colposità del comportamento e di sussistenza del nesso causale tra
questo e il risultato pregiudizievole dell’operazione”23. Di avviso parzialmente diverso
appariva Enriques24, il quale riteneva che, tanto la prima quanto la seconda presunzione, non
fossero da considerarsi il risultato di una attenta lettura dell’articolo 2391, ma trovassero la propria origine nella più generale disciplina dettata dal Codice civile in materia di responsabilità per inadempimento e responsabilità degli amministratori. Secondo questo Autore, non era corretto parlare di presunzione di colpa, trattandosi invece di una colpa specifica: dal momento che l’articolo 2391 Codice civile poneva due specifici obblighi a carico degli amministratori, la dimostrazione del loro mancato adempimento avrebbe rappresentato prova sufficiente di colpa, in base ai principi generali in materia di responsabilità. Inoltre, secondo questi stessi principi, occorreva consentire all’amministratore di dimostrare che l’inadempimento era stato determinato da impossibilità della prestazione per causa a lui non imputabile (poteva ad esempio dimostrare di aver ignorato, senza colpa, l’esistenza del suo interesse nell’operazione o il potenziale conflitto
22 Sostengono la tesi dell’applicabilità dei doveri di comunicazione e astensione anche in relazione alle
delibere assembleari L. ENRIQUES, op. cit., p. 255; G. COTTINO, Le Società. Diritto commerciale, Padova, 1999, p. 633.
23 R. WEIGMANN, Responsabilità e potere legittimo degli amministratori, Torino, 1974, p. 179. Nello
stesso senso F. CORSI, Gli imprenditori e le società, Milano, 1999, p. 577.
dello stesso con l’interesse sociale)25. Quanto alla presunzione di sussistenza del nesso
causale, essa avrebbe trovato la sua origine nel principio codicistico che imponeva la necessità di una relazione di causa-effetto tra inadempimento e pregiudizio secondo criteri di tipicità26. Dunque se l’amministratore non aveva adempiuto a quei doveri che il
legislatore aveva considerato cautele appropriate per evitare abusi a danno della società, allora le perdite derivate alla società dal compimento dell’operazione dovevano presumersi riconducibili all’inosservanza di quegli obblighi, fino a prova contraria (dunque fatta salva la possibilità di provare elementi idonei ad escludere il nesso causale).
Al di là delle diverse motivazioni addotte, gli Autori risultavano comunque concordare sulle conseguenze applicative della norma: l’attore che avesse agito in responsabilità ex articolo 2391 Codice civile si sarebbe dovuto limitare a provare l’esistenza del rapporto di amministrazione, dell’interesse dell’amministratore e del danno per la società, essendo esonerato dal dimostrare che la mancata comunicazione o astensione fossero stati determinanti per l’adozione della delibera.
Problematica risultava poi l’ipotesi in cui l’amministratore che avesse adempiuto il dovere di comunicazione non si fosse astenuto dalla deliberazione. Un possibile orientamento era quello di prevedere la responsabilità dell’amministratore solo nel caso in cui il suo voto fosse risultato determinante ai fini della deliberazione (in tal caso, anche escludendo il suo voto, l’operazione sarebbe comunque stata deliberata). Tuttavia, la dottrina appariva orientata nel senso della irrilevanza della marginalità del voto, ritenendo che consentire all’amministratore di liberarsi da responsabilità dimostrando che il suo voto non era stato determinante avrebbe rappresentato un trattamento privilegiato rispetto agli altri amministratori, cui non era consentito fornire tale prova.
In base alla norma, l’amministratore rispondeva delle perdite derivate dal compimento
dell’operazione: un aspetto oggetto di dibattito, al riguardo, era il significato da attribuire al
termine “perdite”, elemento determinante al fine di definire i limiti della responsabilità dell’amministratore. Mentre parte della dottrina sosteneva che il Legislatore avesse voluto
25 Articolo 1218 Codice civile, Responsabilità del debitore: «Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile».
26 Articolo 1223 Codice civile, Risarcimento del danno: «Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta».
riferirsi al solo danno emergente, l’orientamento prevalente propendeva per la sua interpretazione quale sinonimo di danno arrecato alla società, considerando che, se lo scopo sociale è quello della massimizzazione degli utili in vista della loro divisione, il danno deve essere inteso come una lesione dell’interesse sociale ad una gestione orientata alla massimizzazione del risultato gestorio. In questo senso, il danno doveva essere calcolato tenendo conto della differenza tra la consistenza che il patrimonio sociale avrebbe avuto nel caso di una gestione diligente ed il valore effettivo che esso aveva a seguito del compimento dell’operazione. Una ricostruzione di questo tipo permetteva di ricomprendere nel concetto di perdita non solo il danno emergente ma anche il lucro cessante, poiché esso poteva considerarsi un guadagno che la società avrebbe conseguito se fosse stata gestita in maniera diligente (secondo lealtà ed efficienza)27. Inoltre, occorre precisare che, in base ai criteri
generali dettati dal codice, l’amministratore che avesse agito con colpa sarebbe stato tenuto a risarcire soltanto i danni prevedibili al momento in cui erano sorti i doveri di comunicazione ed astensione, mentre l’amministratore che avesse agito con dolo avrebbe dovuto risarcire anche i danni imprevedibili al momento dell’inadempimento.
Quanto all’espressione “derivate dal compimento dell’operazione”, essa vuole indicare che le perdite da considerare ai fini della responsabilità dell’amministratore sono unicamente quelle derivanti dal compimento della singola operazione, non dovendosi tenere conto invece degli effetti negativi dell’intera gestione sociale. Chiaramente, la responsabilità poteva derivare anche da un comportamento omissivo, perciò il termine operazione indicava semplicemente un fatto che costituiva oggetto di decisione.
Da notare, infine, che secondo la dottrina28, gli amministratori potevano essere liberati dalla
responsabilità prevista dall’articolo 2391 Codice civile mediante una deliberazione assembleare di autorizzazione al compimento di una determinata operazione in conflitto di interessi, a meno che il voto degli amministratori soci non fosse stato determinante ai fini del raggiungimento della maggioranza richiesta per l’approvazione della delibera oppure questa fosse invalida.
27 O. CAGNASSO, L’amministrazione collegiale e la delega, in Tratt. Colombo, Portale, Torino, 1991, p.
272. Questo orientamento troverà pieno riscontro nella nuova formulazione della norma che seguirà alla riforma del 2003, in quanto il Legislatore opererà la sostituzione del termine “perdite” con quello di “danno”.
1. 3. 3. Impugnazione della delibera e opponibilità del vizio ai terzi
Venendo al primo periodo del terzo comma dell’articolo 2391 Codice civile, esso operava su un piano reale29, prevedendo la possibilità, per gli amministratori assenti o dissenzienti e
i sindaci, di impugnare la deliberazione suscettibile di recare un danno alla società entro tre mesi dalla sua data se, il voto dell’amministratore che avrebbe dovuto astenersi è risultato determinante ai fini del raggiungimento della maggioranza necessaria.
La norma dunque introduce uno strumento cautelare per impedire che la società subisca il danno legato all’esecuzione della deliberazione adottata con il voto determinante dell’amministratore in conflitto di interessi. Per quanto essa risulti apparentemente chiara e di agevole comprensione, racchiude in realtà numerosi elementi controversi dal punto di vista interpretativo; procederemo dunque, con ordine, alla loro analisi.
Per iniziare, l’espressione di apertura “le deliberazioni del consiglio” richiede importanti valutazioni al fine di definire l’ambito di applicazione della previsione normativa in oggetto. Il linguaggio utilizzato lascerebbe presupporre che il legislatore intendesse escludere le altre ipotesi di formazione della volontà (come nel caso di amministratore unico o delegato e del comitato esecutivo), tuttavia dobbiamo considerare che il primo comma dello stesso articolo si riteneva applicabile a qualunque tipo di decisione, per cui gli interpreti si sono interrogati su una possibile applicazione in senso analogico anche a queste ulteriori ipotesi. Relativamente all’amministratore unico o delegato, giurisprudenza e dottrina erano unanimi nel considerare non applicabile l’articolo 2391 Codice civile, ritenendo che la disciplina di riferimento fosse quella generale di cui all’articolo 1394 Codice civile, in base alla quale «il
contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi col rappresentato può essere annullato su domanda del rappresentato, se il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo». Dunque in tal caso l’impugnazione doveva essere promossa dalla società
(rappresentando essa la rappresentata), piuttosto che dai sindaci30.
29 Individua i tre distinti piani su cui operava l’articolo 2391 del testo previgente (piano preventivo, risarcitorio, reale) P. FIORIO, Conflitto di interessi, in Le nuove società a responsabilità limitata, a cura di
Sarale, Bologna, 2008, p. 590.
30 L. ENRIQUES, op. cit., p. 338, sostiene che tale soluzione sia sicuramente corretta quando riguardi attività
Con riguardo invece al comitato esecutivo possiamo riscontrare orientamenti contrapposti: alcuni ritenevano la norma applicabile sulla base del fatto che una soluzione in senso diverso avrebbe comportato una carenza di strumenti repressivi del fenomeno che sarebbe stata difficilmente giustificabile dal momento che la pericolosità di una delibera del comitato era esattamente la stessa di una consiliare31; altri sostenevano che l’impugnazione
della delibera dovesse essere considerata una extrema ratio da utilizzarsi solamente quando non fosse possibile ricorrere a tempestivi rimedi interni idonei ad eliminare l’atto viziato (ed in questo caso l’interesse sociale poteva essere tutelato mediante il riesame e la revoca, da parte del consiglio di amministrazione, della decisione in questione)32.
Per concludere, in merito all’impugnabilità delle deliberazioni, appare opportuno chiarire che la norma andava riferita anche alle delibere negative, da considerarsi a tutti gli effetti vere e proprie deliberazioni (di rigetto della proposta di deliberazione).
Procedendo nella lettura dell’articolo, subito incontriamo il prossimo elemento oggetto del nostro interesse: il danno potenziale. Presupposto per l’impugnazione era infatti che la deliberazione fosse suscettibile di recare danno alla società (“qualora possa recare danno
alla società”), dal quale emergono due elementi che analizzeremo distintamente, vale a dire
la potenzialità e il danno. Quanto alla prima, essa doveva essere intesa nel senso che il giudice sarebbe stato chiamato a giudicare se gli amministratori, in base alle informazioni a loro note (o da loro conoscibili con l’ordinaria diligenza), avrebbero potuto ragionevolmente prevedere il verificarsi di un danno alla società in caso di esecuzione della delibera33. Risultava controverso se, nell’ipotesi di una delibera potenzialmente dannosa non
momento deliberativo, ma pone perplessità nei casi in cui sia possibile riscontrare una vera e propria decisione, come quella di aumento del capitale sociale.
31 I. MAFFEZZONI, Contributo allo studio del comitato esecutivo nelle società per azioni, Torino, 1998, p.
161.
32 A. PESCE, Amministrazione e delega di potere amministrativo nelle società per azioni, Milano, 1969, p.
116. Tale soluzione si poteva considerare valevole anche per la società a responsabilità limitata dato che, secondo un’opinione largamente condivisa, nel caso in cui lo statuto consenta deleghe di gestione (a un comitato esecutivo in questo caso) senza fissarne la disciplina, la struttura corporativa data alla gestione della società a responsabilità limitata, fa ritenere in linea di principio applicabili le regole dettate per la società per azioni. Così G. PRESTI e M. RESCIGNO, Corso di diritto commerciale, Società, vol. II, Bologna, 2005, p. 238.
33 C. ANGELICI, Amministratori di società, conflitto di interessi e articolo 1394 Codice civile, in Riv. dir. comm., 1970, p. 148.
rivelatasi poi tale, una volta provata l’insussistenza del danno, il giudice potesse comunque annullare la deliberazione.
Quanto al concetto di danno, esso veniva ricollegato dalla dottrina esclusivamente alla consistenza del patrimonio sociale, per cui il giudice avrebbe dovuto effettuare un controllo di merito della deliberazione (valutare quale sarebbe stata la miglior scelta gestionale adottabile dagli amministratori sulla base delle informazioni in loro possesso, acquisite usando l’ordinaria diligenza). Sarebbe resosi necessario, in sostanza, procedere al calcolo della differenza tra gli effetti che sul patrimonio sociale avrebbe avuto la migliore scelta di gestione possibile nelle circostanze date e, i prevedibili effetti sullo stesso patrimonio della decisione assunta. Da precisare che poteva essere contestata anche la convenienza delle
condizioni a cui il consiglio di amministrazione aveva deliberato di eseguire l’operazione
(provando che utilizzando l’ordinaria diligenza il consiglio avrebbe potuto ottenere condizioni migliori dalla controparte), non solo quella relativa al compimento dell’operazione in sé34.
Altro punto interessante ai fini della nostra analisi è quello concernente i soggetti legittimati all’impugnazione, dal momento che il riferimento fatto dalla norma agli amministratori
assenti o dissenzienti ed ai sindaci suscita alcuni interrogativi. Quanto agli amministratori,
la dottrina ha cercato di individuare i possibili fattori a ragione della limitazione introdotta dal Legislatore, il quale volutamente esclude dai soggetti legittimati all’impugnazione gli amministratori assenzienti35. La tesi più convincente è quella secondo la quale tale limitazione avrebbe unicamente lo scopo di ridurre la possibilità delle impugnazioni, per motivi di certezza degli effetti della delibera, nonché per evitare di coinvolgere gli organi giudiziari nella questione, con conseguente allungamento dei tempi36. Come infatti abbiamo
già anticipato, era diffusa in dottrina l’opinione secondo la quale l’impugnazione della delibera per conflitto di interessi dovesse considerarsi come un’extrema ratio da utilizzarsi solamente in assenza di altri rimedi idonei ad evitare un danno alla società. Nel caso di
34 L. ENRIQUES, op. cit., p. 342.
35 Interessante l’opinione di A. WEILLER, Il conflitto di interessi nelle società, in Foro pad., 1946, pp. 65
ss.; secondo il quale l’amministratore assenziente avrebbe dovuto considerarsi legittimato all’impugnazione della delibera quando fosse stato ignaro del conflitto, non avendo l’amministratore in conflitto adempiuto al dovere di comunicazione. Tale soluzione anticipava infatti quella scelta dal legislatore della riforma con riferimento alla società per azioni (nuovo testo dell’articolo 2391 Codice civile).
36 Tesi espressa da G. OPPO, In tema di invalidità delle deliberazioni del consiglio di amministrazione delle società per azioni, in Riv. soc., 1967, p. 928.
specie, l’amministratore assenziente avrebbe potuto tentare di sottoporre di nuovo la questione al consiglio di amministrazione al fine di ottenerne la revoca. Tale soluzione si sarebbe dimostrata comunque efficace, in quanto, in caso di esito positivo, avrebbe scongiurato il danno alla società, mentre in caso di esito negativo, avrebbe trasformato l’amministratore assenziente in dissenziente, legittimandolo all’impugnazione. Inoltre, tale rimedio avrebbe avuto il benefico risultato di “responsabilizzare” gli amministratori, poiché dar loro la possibilità di pentirsi ed impugnare la delibera viziata da conflitto di interessi non li avrebbe sicuramente incentivati a votare in maniera diligente ponderando attentamente le conseguenze del proprio voto favorevole. Seguendo la soluzione prospettata appare tuttavia difficile giustificare la legittimazione all’impugnazione dell’amministratore assente, poiché anche quest’ultimo avrebbe potuto esperire il rimedio della convocazione del consiglio per cercare di rovesciare l’esito della precedente decisione e, in caso di fallimento di questo tentativo, avrebbe potuto procedere poi all’impugnazione della delibera di rigetto37.
In relazione ai sindaci invece, ci si chiedeva se il riferimento fatto dalla norma ai sindaci (anziché al collegio sindacale) comportasse la legittimazione di ciascuno di essi singolarmente oppure, presupponesse l’azione dell’organo collegiale38. Un argomento a
favore della prima ipotesi poteva essere il confronto con il primo comma, poiché dal fatto che esso facesse espresso riferimento al collegio sindacale si può dedurre che la scelta del Legislatore di utilizzare una differente terminologia avesse lo scopo di attribuire all’organo una valenza diversa, riconoscendo così, al terzo comma, il potere di agire per l’impugnazione della delibera in capo a ciascuno dei suoi componenti. Tuttavia la dottrina prevalente, pur in presenza del dettato ambiguo del codice, sembrava preferire la soluzione della legittimazione del collegio, sulla base del fatto che, generalmente, l’esercizio delle
37 Seguendo la tesi di G. Oppo, L. ENRIQUES, op. cit., pp. 370 ss., affermava che anche l’amministratore
astenutosi per conflitto di interessi doveva considerarsi legittimato all’impugnazione in quanto, avendo il dovere di astenersi anche dalla eventuale successiva deliberazione di revoca, non avrebbe potuto avvalersi dello strumento interno per annullare la delibera annullabile.
38 Isolata è rimasta la riflessione di G. C. M. RIVOLTA, La società a responsabilità limitata, in Trattato di diritto civile e commerciale, Diretto da A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1982, p. 346; secondo la quale nelle
società a responsabilità limitata prive di collegio sindacale, i soci potrebbero essere legittimati a impugnare le delibere ex articolo 2391, terzo comma.
funzioni attribuite al collegio sindacale dal Legislatore si doveva considerare spettante al collegio stesso e non ai singoli componenti39.
Per concludere, in merito alla legittimazione all’impugnazione, occorre fare un’ulteriore osservazione: essendo la funzione dell’impugnazione quella di prevenire i danni che la società potesse subire a seguito dell’esecuzione della delibera, essa era chiaramente finalizzata a tutelare l’interesse sociale, perciò i soggetti legittimati ad impugnare (amministratori assenti o dissenzienti e sindaci) dovevano considerarsi titolari non semplicemente di un potere, ma di un potere-dovere che, se non adempiuto, li avrebbe resi responsabili nei confronti della società. Tuttavia, affinché sorgesse tale responsabilità, non poteva ritenersi sufficiente il fatto della mancata impugnazione della delibera adottata col voto determinante dell’amministratore in conflitto, dovendosi anche accertare che i soggetti legittimati potessero, con l’ordinaria diligenza, rendersi conto che la delibera fosse pregiudizievole per la società e che l’amministratore che aveva pronunciato il voto determinante fosse in conflitto; occorreva inoltre dimostrare che il danno non si sarebbe verificato in caso di impugnazione della delibera (nesso causale), dato che la stessa impugnazione avrebbe potuto rivelarsi inutile o addirittura dannosa per la società. Ne conseguiva che il dovere di impugnazione sorgeva soltanto laddove il suo esercizio assicurasse la miglior tutela dell’interesse sociale, spettando ai soggetti legittimati, nella loro discrezionalità, valutare di volta in volta se il suo esercizio fosse funzionale o meno a perseguire l’interesse della società ed a minimizzare i danni potenzialmente derivanti dalla deliberazione40.
Possiamo adesso passare ad analizzare il contenuto del secondo periodo del terzo comma dell’articolo 2391 Codice civile, il quale faceva salvi i diritti acquistati in buona fede dai terzi in base ad atti compiuti in esecuzione della delibera.
Dalla norma così dettata, si può desumere a contrario la regola dell'opponibilità del vizio della deliberazione ai terzi che avessero acquisito tali diritti in mala fede. Naturalmente, per far valere il vizio nei confronti dei terzi era necessario che la delibera fosse annullata o
39 Come avremo modo di analizzare, la questione verrà risolta dal Legislatore in sede di riforma. Infatti sia
l’articolo 2391 Codice civile sul conflitto di interessi dell’amministratore di società per azioni, sia l’articolo 2475-ter Codice civile sul conflitto di interessi dell’amministratore di società a responsabilità limitata (attraverso il richiamo all’articolo 2477 Codice civile), fanno espresso riferimento al “collegio sindacale”.
40 C. ANGELICI, Amministratori di società, conflitto di interessi e articolo 1394 Codice civile, in Riv. dir. comm., 1970, I, p. 104 ss.
quantomeno impugnata tempestivamente (entro tre mesi dalla delibera stessa), pena la sanatoria dell’invalidità ex tunc e la totale irrilevanza della cattiva fede del terzo. Discussi in dottrina erano gli effetti dell’annullamento della deliberazione sull’atto compiuto dal rappresentante: secondo alcuni l’invalidità della deliberazione avrebbe comportato di per sé l’invalidità dell’atto esterno41, secondo altri l’atto esterno doveva considerarsi compiuto dal
rappresentante senza poteri (in quanto era venuto meno il presupposto della legittimazione all’esercizio dei poteri stessi) e dunque inefficace42.
La ratio della norma era evidentemente quella di riconoscere una particolare tutela al terzo che si trovasse a contrattare col rappresentante (data la difficoltà che avrebbe incontrato nel verificare la validità della deliberazione consiliare) e tenerlo indenne dal rischio di errore in cui poteva incorrere nell’effettuare questo tipo di valutazione. Ci chiediamo però chi potesse realmente beneficiare della particolare tutela prevista dalla norma e, al fine di comprenderlo, ci soffermiamo brevemente sugli elementi più rilevanti della disposizione.
Innanzitutto, la norma parlava di “diritti acquistati”, espressione che doveva intendersi riferita al complesso delle posizioni giuridiche, attive o passive, derivanti dal contratto stipulato con la società, sia che l’acquisto fosse avvenuto a titolo oneroso sia gratuito.
Relativamente ai “terzi” prevaleva in dottrina una interpretazione restrittiva ai sensi della quale non potevano considerarsi tali sindaci, amministratori e soci (interpretazione che si prestava a critiche, considerando che anche questi soggetti avrebbero potuto trovarsi ad ignorare senza colpa l’invalidità della delibera nonostante operassero internamente alla società trovandosi così in posizione sicuramente diversa rispetto agli altri contraenti).
Quanto al requisito della “buona fede”, vi era concordanza sul fatto che essa dovesse intendersi come ignoranza della invalidità della deliberazione (in quanto adottata col voto determinante dell’amministratore in conflitto di interessi e potenzialmente dannosa per la società), ma vi era discordanza sul fatto che la buona fede dovesse essere anche incolpevole (nel senso che solo la mancanza di colpa del terzo nell’ignorare il vizio gli avrebbe consentito di non subire gli effetti dell’annullamento della delibera). La norma voleva tutelare il terzo dall’errore in cui potesse incorrere nella valutazione della validità della delibera, ma si trattava di capire quale tipo di errore fosse preso in considerazione: da un
41 L. PICONE, L’amministratore unico in conflitto di interessi con la società, in Società e diritto, 1994, p.
231.
lato, infatti, non sempre la media diligenza poteva considerarsi sufficiente ad accertare la sussistenza del vizio della deliberazione, tenendo conto della complessità della valutazione e potendo il terzo confidare che la delibera fosse stata presa nell’interesse della società; dall’altro lato, non poteva nemmeno ammettersi una tutela che si spingesse fino all’errore gravemente colpevole, in quanto potevano darsi casi in cui il vizio fosse palese o facilmente riconoscibile; di conseguenza, era da preferire una soluzione intermedia, dovendo intendersi con buona fede non l’ignoranza pura e semplice del vizio ma quella non accompagnata da colpa grave43.
Giunti alla fine dell’analisi dell’articolo 2391 Codice civile, è inevitabile notare che la norma non faceva alcun riferimento all’ipotesi dell’atto esterno compiuto dall’amministratore in conflitto di interessi in assenza di previa deliberazione, come nell’ipotesi in cui ad agire fosse stato l’amministratore unico in conflitto o quello delegato che agisse sulla base della delega conferitagli. Tale tematica sarà affrontata più avanti, laddove si analizzerà la disciplina attuale del contratto concluso dall’amministratore in conflitto di interessi nelle società di capitali, considerando che, mentre per la società a responsabilità limitata il legislatore ha ovviato a tale problema inserendo un’apposita norma sulla rappresentanza nei contratti, per la società per azioni non è stato fatto altrettanto e ci si trova, dunque, di fronte al medesimo silenzio di cui al vecchio articolo 2391 Codice civile; possiamo però anticipare che la dottrina e la giurisprudenza44, nel silenzio del legislatore,
erano concordi nel ritenere applicabile al caso dell’amministratore munito di rappresentanza che agisse senza previa deliberazione, la disciplina dettata dal Codice civile all’articolo 1394, in quanto espressione di un principio generale applicabile, come tale, in ogni caso di conflitto di interessi anche quando questo sorga tra società (in qualità di rappresentata) e amministratore (in qualità di rappresentante).
43 L. ENRIQUES, op. cit., pp. 412 ss.
44 In dottrina, si vedano C. ANGELICI, Amministratori di società, conflitto di interessi e articolo 1394 cod. civ, cit., pp. 104 ss.; A. FICI, Conflitto di interessi dell’amministratore unico e l’articolo 1394, in Corr. giur., 1998, p. 665, secondo il quale “l’articolo 2391 Codice civile si applica solo in caso di pluralità di amministratori e non copre la fattispecie del conflitto tra società e amministratore unico”. In giurisprudenza, a titolo esemplificativo, è possibile citare Cass., 10 aprile 2000, n. 4505, in Giur. it., 2001, p. 477, sentenza in base alla quale “la disciplina dell’atto compiuto dall’amministratore unico in nome della società ed in conflitto d’interessi con la stessa si rinviene nell’articolo 1394 Codice civile, e non nel successivo articolo 2391, che presuppone, per la sua applicabilità, l’esistenza di una delibera consiliare”.
Nel diverso caso in cui l’amministratore munito di rappresentanza agisse in conflitto di interessi sulla base di una deliberazione del consiglio di amministrazione, la giurisprudenza e la dottrina nettamente dominanti ritenevano applicabile la disciplina prevista dall’articolo 2391 Codice civile, almeno con riferimento alle parti dell’atto “coperte” dalla deliberazione; era possibile quindi che entrambe le norme (articoli 2391 e 1394 Codice civile) trovassero applicazione: l’articolo 2391 Codice civile per gli elementi predeterminati nella deliberazione, l’articolo 1394 Codice civile per quegli elementi dell’atto esterno non definiti nella previa deliberazione45.
45 L. ENRIQUES, op. cit., pp. 337 ss.
2. La scissione della disciplina di società a responsabilità
limitata e società per azioni come risultato della riforma
del 2003
1.4. La ratio e le linee direttrici della riforma
Dall’analisi del diritto delle società contenuta nel Codice civile del 1942 emerge chiaramente la somiglianza tra i due tipi societari rappresentati dalla società a responsabilità limitata e società per azioni, somiglianza che si esplica in una disciplina della prima caratterizzata da continui rimandi a quella della seconda, atteggiandosi così la società a responsabilità limitata come “sorella minore” della società per azioni.
La disciplina delle società di capitali ruotava infatti intorno al tipo della società per azioni che forniva sia in materia patrimoniale e contabile sia in materia di organizzazione societaria, la base per la disciplina della società a responsabilità limitata46 (nonché della
società in accomandita per azioni). Inoltre, la tendenziale inderogabilità che connotava la società per azioni (non solo delle norme di legge in materia di responsabilità patrimoniale, ma anche di quelle concernenti gli assetti organizzativi) era mantenuta in parte anche per la società a responsabilità limitata, tipo societario introdotto dal Legislatore del ’42 sulla base di esperienze straniere47 e pensato soprattutto con riferimento alla piccola-media impresa
per consentirle di accedere al beneficio della responsabilità limitata a costi inferiori rispetto alla società per azioni (che il Legislatore aveva invece concepito per l’esercizio della grande
46 Non faceva eccezione la materia del conflitto di interessi, laddove l’articolo 2487, secondo comma, si
limitava a rinviare all’articolo 2391. Il Legislatore del ’42 non aveva dunque sentito l’esigenza di differenziare il trattamento del conflitto di interessi nei due diversi tipi societari ed aveva previsto una disciplina comune ad entrambi.
47 Nel codice di commercio del 1882 esisteva un solo tipo di società di capitali: la società anonima. La
disciplina della “società anonima per quote” (il vecchio modello della attuale società a responsabilità limitata) era compresa, come variante, nella categoria generale delle società anonime. In Germania, nel 1892, venne disciplinata una figura autonoma di società a garanzia limitata (la Gesellschaft mit beschrankter
Haftung) la cui disciplina era del tutto diversa da quella della società azionaria (Aktiengesellschaft). Il
modello tedesco di società a garanzia limitata trovò larga applicazione anche per i buoni risultati ottenuti e, per questo motivo, altri paesi europei lo adottarono, anche se con alcune varianti (Portogallo, Austria, Francia dove nel 1925 fu introdotta la figura della société à responsabilité limitée).