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DECISIONI DELLA CORTE COSTITUZIONALE (DA N. 326/2011 A N. 337/2011) – OSSERVAZIONI A PRIMA LETTURA CORTE COSTITUZIONALE, Ordinanza n. 326/2011, G.U. 1ª serie speciale, n. 51 del 07.12.2011

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RIVISTA N°: 1/2012 DATA PUBBLICAZIONE: 06/03/2012 AUTORE: Manuela Salvago Dottoranda di ricerca in “Giustizia costituzionale e diritti fondamentali” Università di Pisa

DECISIONI DELLA CORTE COSTITUZIONALE (DA N. 326/2011 A N. 337/2011) – OSSERVAZIONI A PRIMA LETTURA

CORTE COSTITUZIONALE, Ordinanza n. 326/2011, G.U. 1ª serie speciale, n. 51 del 07.12.2011

Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale. Straniero e apolide - Conversione del titolo di soggiorno rilasciato per “minore età” in quello per “lavoro subordinato” - Estensione della disciplina originariamente prevista per i soli minori “non accompagnati” ai minori affidati ai sensi dell’art. 2 della legge n. 184 del 1983 e a quelli sottoposti a tutela, nonchè agli stranieri che, già entrati in Italia come “non accompagnati”, abbiano ottenuto il permesso di soggiorno per “minore età” e siano in grado di documentare la sussistenza di una condizione di affidamento ovvero di tutela in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 - Denunciata lesione dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza, nonchè asserita violazione dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario - Sopravvenuto mutamento del quadro normativo - Necessità di una nuova valutazione della rilevanza della questione - Restituzione degli atti al rimettente.

Atti oggetto del giudizio:

Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, art. 32, commi 1 e 1-bis, come modificato dall’art. 1, comma 22, lett. v), della legge 15 luglio 2009, n. 94

Parametri costituzionali: Costituzione, art. 3

Costituzione, art. 10, primo comma Costituzione, art. 117, primo comma Altri parametri e norme interposte:

Direttiva 27 gennaio 2003, n. 2003/9/CE, art. 2, lett. h) Risoluzione CE del 26 giugno 1997, art. 1, comma 1

(1) Deve essere ordinata la restituzione, al Tribunale amministrativo regionale del Piemonte remittente, degli atti relativi ai giudizi di legittimità costituzionale, introdotti con plurime ordinanze di rimessione e in riferimento ai medesimi parametri costituzionali (artt. 3, 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost.): a) dell’art. 32, commi 1 e 1-bis , del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, nella parte in cui, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 1, comma 22, lett. v), della legge 15 luglio 2009, n. 94, estende ai minori affidati ai sensi dell’art. 2 della legge 4 maggio 1983, n. 184, e a quelli sottoposti a tutela la disciplina originariamente prevista per i soli minori «non accompagnati», in virtù della quale, per la conversione del titolo di soggiorno rilasciato per «minore età» in quello rilasciato per «lavoro subordinato», è necessario aver partecipato per un periodo non inferiore a due anni ad un progetto di integrazione sociale e civile gestito da un ente pubblico o privato che abbia rappresentanza nazionale; b) l’art. 32, commi 1 e 1-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, come modificato dalla lett. v) del comma 22 dell’art. 1 della legge n. 94 del 2009 anche nella parte in cui estende la propria applicazione agli stranieri - già entrati in Italia come «non accompagnati» - che abbiano ottenuto il permesso di soggiorno per minore età e che siano in grado di documentare la sussistenza di una condizione di affidamento, ovvero di tutela, in epoca antecedente alla data di entrata in vigore della legge n. 94 del 2009. Infatti, dopo la pronuncia delle suddette ordinanze di rimessione, non solo nella giurisprudenza amministrativa si è ulteriormente consolidato un orientamento interpretativo

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diverso da quello seguito dal remittente (la cui omessa considerazione, da parte del medesimo TAR, ha dato luogo all’ordinanza di questa Corte n. 222 del 2011, di manifesta inammissibilità di questioni analoghe alle presenti, proprio per la suddetta ragione), ma anche il quadro normativo di riferimento ha subito importanti modifiche. Infatti, la norma oggetto di censura è stata modificata dalla lettera g- bis) del comma 1 dell’art. 3, del decreto-legge 23 giugno 2011, n. 89 (Disposizioni urgenti per il completamento dell’attuazione della direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento della direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari) convertito, con modificazioni, dalla legge 2 agosto 2011, n. 129, sicché, con la nuova formulazione dell’art. 32, il legislatore ha ripristinato la distinzione tra minori stranieri «non accompagnati» e minori stranieri «comunque affidati», prevedendo solo per i primi, ai fini del rilascio del permesso di soggiorno al compimento della maggiore età, la necessità che siano ammessi a frequentare, per almeno due anni, un progetto di integrazione sociale e civile. Per tutte le suddette innovazioni sopravvenute è opportuno che il remittente proceda ad una nuova valutazione della rilevanza delle questioni in oggetto, tenendo altresì conto del diverso orientamento giurisprudenziale affermatosi nella giurisprudenza amministrativa circa il momento dal quale ritenere applicabile la norma oggi ulteriormente modificata.

Con l’ordinanza in rassegna, la Corte costituzionale si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto l’articolo 32, commi 1 e 1-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dall’art. 1, comma 22, lettera v), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promosse dal Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte con tre ordinanze del 10 febbraio 2011 e con due ordinanze del 22 gennaio 2011.

In particolare, il rimettente con le tre ordinanze del 10 febbraio 2011 ha censurato, in riferimento agli artt. 3, 10, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, l’art. 32, commi 1 e 1-bis, del citato decreto legislativo, nella parte in cui, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 1, comma 22, lettera v), della legge 15 luglio 2009, n. 94, estende ai minori affidati ai sensi dell’art. 2 della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), e a quelli sottoposti a tutela, la disciplina originariamente prevista per i soli minori «non accompagnati», in virtù della quale, per la conversione del titolo di soggiorno rilasciato per «minore età» in quello rilasciato per «lavoro subordinato», è necessario aver partecipato per un periodo non inferiore a due anni ad un progetto di integrazione sociale e civile gestito da un ente pubblico o privato che abbia rappresentanza nazionale. Con le ultime due ordinanze, e sempre in riferimento ai medesimi parametri costituzionali, il rimettente ha, invece, censurato la normativa impugnata nella parte in cui estende la propria applicazione agli stranieri – già entrati in Italia come «non accompagnati» – che abbiano ottenuto il permesso di soggiorno per minore età e che siano in grado di documentare la sussistenza di una condizione di affidamento, ovvero di tutela, in epoca antecedente alla data di entrata in vigore della legge n. 94 del 2009.

La premessa su cui si fonda il ragionamento – rinvenibile nelle prime tre ordinanze di rinvio – che induce il Tribunale amministrativo a dubitare della legittimità costituzionale della normativa impugnata è che, a ben vedere, quest’ultima introdurrebbe una definizione di straniero «minore non accompagnato» assolutamente difforme rispetto a quella antecedentemente conosciuta dal diritto comunitario e nazionale, secondo la quale sono «minori non accompagnati» soltanto coloro che, non avendo la cittadinanza italiana o di un altro Stato UE e non avendo presentato domanda di asilo, si trovavano in Italia privi di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per loro legalmente responsabili. In tal senso, il rimettente richiama l’art. 2, lettera h), della direttiva del Consiglio UE del 27 gennaio 2003, n. 2003/9/CE, recepita in Italia con d.lgs. 30 maggio 2005, n. 140; l’art. 1, comma 1, della Risoluzione del Consiglio UE del 26 giugno 1997 sui minori non accompagnati, cittadini di Paesi terzi; nonché l’art. 1, comma 2, del d.P.C.m. 9 dicembre 1999, n. 535, recante «Regolamento concernente i compiti del Comitato per i minori stranieri», a norma dell’art. 33, commi

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2 e 2-bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286). Inoltre, il TAR richiama a tal proposito la giurisprudenza amministrativa secondo cui le fattispecie disciplinate dalla norma riguardavano situazioni diverse: da un lato, vi erano i minori comunque affidati, che rientravano nella previsione del comma 1 dell’art. 32, e dall’altro i minori stranieri non accompagnati, per i quali erano dettate le disposizioni di cui ai commi 1-bis e 1-ter della medesima disposizione. Infine, il rimettente richiama anche la giurisprudenza costituzionale1 con la quale era stato affermato che la disposizione del comma 1 dell’art. 32 del d.lgs. n. 286 del 1998 andava riferita anche ai minori stranieri sottoposti a tutela.

Tanto premesso, si profila, ad avviso del remittente, un contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. del disposto diniego di conversione del titolo di soggiorno nei confronti di coloro che al momento dell’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 erano già entrati in Italia, avevano ottenuto il permesso di soggiorno per minore età e si trovavano in una documentabile condizione di affidamento ad un adulto. Ciò in quanto – secondo il giudice a quo – in casi simili i minori stranieri si sono venuti a trovare, senza colpa, nell’impossibilità materiale e giuridica di partecipare e concludere prima del raggiungimento della maggiore età il progetto di integrazione previsto dalla nuova normativa. Le disposizioni censurate, inoltre, sarebbero in contrasto con il principio di uguaglianza, perché attribuirebbero lo stesso trattamento a due diverse categorie di soggetti, quali sono i minori non accompagnati e i minori che, invece, possono documentare l’esistenza di una situazione di affidamento ad adulti. In ultimo, a parere del TAR sarebbero violati anche gli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost., perché la nuova definizione di «minore non accompagnato» si porrebbe in contrasto con le disposizioni comunitarie sopra citate.

In riferimento ai medesimi parametri costituzionali il rimettente ha sollevato questione di legittimità costituzionale – con le due ordinanze del 22 gennaio 2011 – dell’art. 32, commi 1 e 1-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 1, comma 22, lett. v), della legge 15 luglio 2009, n. 94, estende ai minori affidati ai sensi dell'art. 2 della legge 4 maggio 1983, n. 184, e a quelli sottoposti a tutela la disciplina originariamente prevista per i soli minori «non accompagnati», in virtù della quale, per la conversione del titolo di soggiorno rilasciato per «minore età» in quello rilasciato per «lavoro subordinato», è necessario aver partecipato per un periodo non inferiore a due anni ad un progetto di integrazione sociale e civile gestito da un ente pubblico o privato che abbia rappresentanza nazionale. In particolare, il TAR rileva un contrasto tra la normativa impugnata e l’art. 3 della Cost., sia sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto, ad avviso del remittente, il diniego di conversione del titolo di soggiorno nei confronti di coloro che, al momento dell’entrata in vigore della legge n. 94 del 2009 erano già entrati in Italia, avevano ottenuto il permesso di soggiorno per minore età e si trovavano in una documentabile condizione di affidamento ad un adulto, sarebbe irragionevole nella misura in cui, «in tali casi, i minori stranieri si sono venuti a trovare, senza colpa, nell’impossibilità materiale e giuridica di partecipare e concludere prima del raggiungimento della maggiore età il progetto di integrazione previsto dalla nuova normativa»; sia sotto il profilo del principio di uguaglianza, perché le norme impugnate attribuiscono lo stesso trattamento a due diverse categorie di soggetti, quali sono i minori non accompagnati e i minori che, invece, possono documentare l’esistenza di una situazione di affidamento ad adulti. Infine, il TAR ritiene che le disposizioni censurate si pongano in contrasto, per le stesse ragioni richiamate nelle tre ordinanze del 10 febbraio 2011, con gli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma, Cost.

La Corte costituzionale, preliminarmente, ha disposto la riunione dei giudizi «in ragione dell’identità delle questioni di costituzionalità» sollevate dal TAR con le cinque ordinanze, e ha ricordato che analoghe questioni sollevate dal medesimo TAR erano già state decise nel senso della manifesta inammissibilità, poiché il rimettente non aveva tenuto conto della diversa interpretazione formatasi nella giurisprudenza

                                                                                                                         

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amministrativa, così omettendo di esplorare la possibilità di pervenire, in via interpretativa, alla soluzione conforme a Costituzione2.

Quindi, il Giudice delle leggi ha rilevato che, successivamente alle ordinanze di rimessione del TAR e alla pronuncia di inammissibilità sopra citata, la norma impugnata è stata modificata dalla lettera g-bis) del comma 1 dell’art. 3, del decreto-legge 23 giugno 2011, n. 89 (Disposizioni urgenti per il completamento dell’attuazione della direttiva 2004/38/CE sulla libera circolazione dei cittadini comunitari e per il recepimento della direttiva 2008/115/CE sul rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi irregolari) convertito, con modificazioni, dalla legge 2 agosto 2011, n. 129. In tal modo, è stata ripristinata la distinzione tra minori stranieri «non accompagnati» e minori stranieri «comunque affidati», prevedendo solo per i primi, ai fini del rilascio del permesso di soggiorno al compimento della maggiore età, la necessità che siano ammessi a frequentare, per almeno due anni, un progetto di integrazione sociale e civile.

Alla luce delle sopravvenute modifiche – ha concluso la Consulta – compete al rimettente verificare se la motivazione in ordine alla rilevanza della questione, prospettata nell’ordinanza di rimessione, resti o meno valida alla luce del novum normativo, tenuto altresì conto del diverso orientamento giurisprudenziale circa il momento dal quale ritenere applicabile la norma oggi ulteriormente modificata. Pertanto, la Corte ha disposto la restituzione degli atti al giudice a quo, per una nuova valutazione riguardo alla rilevanza della questione.

CORTE COSTITUZIONALE, Ordinanza n. 327/2011, G.U. 1ª serie speciale, n. 51 del 07.12.2011

Giudizio sull’ammissibilità di ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Parlamento - Procedimento penale a carico di un deputato - Utilizzo delle intercettazioni telefoniche coinvolgenti casualmente il parlamentare - Deliberazione della Camera dei deputati di diniego dell’autorizzazione ad utilizzare dette intercettazioni - Ricorso per conflitto di attribuzione promosso dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, prima sezione penale - Sussistenza dei requisiti soggettivo ed oggettivo per l’instaurazione del conflitto - Ammissibilità del ricorso - Comunicazione e notificazioni conseguenti.

Oggetto del giudizio:

Deliberazione della Camera dei deputati 22 settembre 2010 Parametri del giudizio:

Costituzione, art. 68, terzo comma Legge 11 marzo 1953, n. 87, art. 37

(1) Il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere è ammissibile in quanto sussistono tanto il requisito soggettivo quanto quello oggettivo del conflitto. Il primo requisito è soddisfatto in quanto il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, prima sezione penale, è qualificabile come organo giurisdizionale in posizione di indipendenza costituzionalmente garantita, competente a dichiarare definitivamente, per il procedimento del quale è investito, la volontà del potere cui appartiene, così come la Camera dei deputati è organo competente a dichiarare definitivamente la propria volontà in ordine all’applicabilità dell’art. 68, terzo comma, della Costituzione. Il secondo requisito è altresì soddisfatto poiché il ricorrente lamenta la lesione della propria sfera di attribuzioni costituzionalmente garantita da parte della impugnata deliberazione della Camera dei deputati. Va, quindi, disposta la notificazione anche al Senato della Repubblica, stante l’identità della posizione costituzionale dei due rami del Parlamento in relazione alle questioni di principio coinvolte nel giudizio.

Con l’ordinanza in rassegna, la Corte costituzionale si è pronunciata nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati del 22 settembre 2010,

                                                                                                                         

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che ha negato l’autorizzazione – richiesta dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Napoli ai sensi dell’art. 6, comma 2, della legge 20 giugno 2003, n. 140 – a utilizzare intercettazioni telefoniche nei confronti di un deputato.

Suddetto conflitto di attribuzione è stato sollevato dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere sulla base dell’asserita sussistenza dei requisiti soggettivi e oggettivi necessari ai fini dell’ammissibilità del conflitto stesso. In particolare, in ordine alla legittimazione a sollevare il conflitto di attribuzione, il ricorrente afferma che, «instauratasi la fase dibattimentale del procedimento, questo Tribunale, quale autorità giudiziaria chiamata a decidere sulla responsabilità penale dell’imputato e, dunque, a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene, è da ritenersi legittimato a sollevare conflitto di attribuzioni». Quanto al profilo oggettivo del conflitto, il Tribunale ritiene che la Camera dei deputati, nell’esaminare la richiesta di autorizzazione a utilizzare le intercettazioni telefoniche, abbia impiegato criteri diversi da quelli ammessi dalla legge n. 140 del 2003, avendo fatto riferimento, in particolare, ai criteri che presiedono all’autorizzazione all’arresto, alla «scemata» idoneità probatoria di intercettazioni risalenti nel tempo, alla presunta mancanza di novità o di decisività del relativo apporto probatorio, alla ritenuta fragilità dell’impianto accusatorio e ad altri criteri discrezionalmente prescelti. Pertanto, ad avviso del Tribunale, la delibera della Camera dei deputati risulterebbe assunta sulla base di valutazioni che trascendono i limiti del sindacato previsto dall’art. 68, terzo comma, Cost. e che l’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003 attribuirebbe in via esclusiva al giudice penale, richiamando a tal proposito la sentenza n. 188 del 2010 della Corte costituzionale3. Alla luce di tali considerazioni, il giudice ricorrente ha chiesto che quest’ultima dichiari che non spetta alla Camera dei deputati negare l’autorizzazione processuale delle intercettazioni telefoniche secondo criteri estranei alle previsioni della legge n. 140 del 2003 e che, conseguentemente, annulli la deliberazione adottata dalla Camera dei deputati in data 22 settembre 2010.

La Consulta, pronunciandosi in punto di ammissibilità del conflitto, ha a sua volta rinvenuto la sussistenza dei requisiti soggettivi e oggettivi del conflitto. Infatti, ad avviso dei giudici costituzionali, devono ritenersi legittimati ad essere parte del presente conflitto sia il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, prima sezione penale, in quanto organo giurisdizionale in posizione di indipendenza costituzionalmente garantita, competente a dichiarare definitivamente, per il procedimento del quale è investito, la volontà del potere cui appartiene; sia la Camera dei deputati, in quanto organo competente a dichiarare definitivamente la propria volontà in ordine all’applicabilità dell’art. 68, terzo comma, della Costituzione. Quanto al profilo oggettivo, poi, la Corte ritiene soddisfatto anche tale requisito, dal momento che il ricorrente lamenta la lesione della propria sfera di attribuzioni costituzionalmente garantita da parte della impugnata deliberazione della Camera dei deputati. Pertanto, i giudici costituzionali hanno disposto la notificazione anche al Senato della Repubblica, ai sensi dell’art. 37, quarto comma, della legge n. 87 del 1953, stante l’identità della posizione costituzionale dei due rami del Parlamento in relazione alle questioni di principio da trattare4.

CORTE COSTITUZIONALE, Sentenza n. 328/2011, G.U. 1ª serie speciale, n. 52 del 14.12.2011

Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale. Appalti pubblici - Norme della Regione Sardegna - Sistema di qualificazione regionale delle imprese per la partecipazione agli appalti di lavori pubblici di interesse regionale, con istituzione di un apposito Albo Regionale Appaltatori (A.R.A.) - Asserita violazione dello statuto speciale della Regione Sardegna nonchè del principio di tutela della concorrenza - Formulazione ancipite della questione, con conseguente perplessità della motivazione sulla rilevanza della stessa - Inammissibilità.

                                                                                                                         

33 Cfr. Corte cost., sent. 28 maggio 2010, n. 188, in Giur. cost., 2010, 2221 ss., con nota a commento di D.P

ICCIONE, Utilizzazione di

tabulati telefonici nei confronti dei componenti delle Camere e potere di giudicare la «decisività» del mezzo di ricerca della prova per lo svolgimento delle indagini, ivi, 2236 ss.

4 Sul punto cfr. anche Corte cost., sent. 22 luglio 2003, n. 263, in Giur. cost., 2003, 2159 ss.; ord. 25 marzo 2011, n. 104, in Giur. cost., 2011, 1441 ss.; ord. 18 gennaio 2008, n. 8, in Giur. cost., 2008, 104 ss.; ord. 4 maggio 2005, n. 186, in Giur. cost., 2005, 1665 ss., e ord. 4 maggio 2005, n. 185, in Giur. cost., 2005, 1661 ss.

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Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale. Appalti pubblici - Codice degli appalti pubblici - Attuazione del sistema di qualificazione delle imprese per la partecipazione agli appalti pubblici ad opera di organismi di diritto privato di attestazione, appositamente autorizzati dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture - Asserita violazione dello statuto regionale della Regione Sardegna - Formulazione ancipite della questione, con conseguente perplessità della motivazione sulla rilevanza della stessa - Inammissibilità.

Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale. Appalti pubblici - Norme della Regione Sardegna - Disciplina di un sistema autonomo di qualificazione delle imprese, applicabile esclusivamente nell’ambito delle procedure di appalto di lavori indette dalle amministrazioni aggiudicatrici individuate dalle norme regionali - Eccepita inammissibilità della questione per difetto di motivazione in ordine alla dedotta violazione dello statuto speciale della Regione Sardegna e alle ragioni dell'applicabilità, nella specie, delle norme del Titolo V, Parte seconda, della Costituzione - Reiezione.

Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale. Appalti pubblici - Norme della Regione Sardegna - Disciplina di un sistema autonomo di qualificazione delle imprese, applicabile esclusivamente nell’ambito delle procedure di appalto di lavori indette dalle amministrazioni aggiudicatrici individuate dalle norme regionali - Asserita violazione dello statuto speciale della Regione Sardegna nonchè del principio di tutela della concorrenza - Eccepita inammissibilità della questione per mancato svolgimento di argomenti autosufficienti in punto di non manifesta infondatezza stante il mero richiamo ad una precedente sentenza della Corte costituzionale - Reiezione.

Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale. Appalti pubblici - Norme della Regione Sardegna - Disciplina di un sistema autonomo di qualificazione delle imprese, applicabile esclusivamente nell’ambito delle procedure di appalto di lavori indette dalle amministrazioni aggiudicatrici individuate dalle norme regionali - Violazione dei limiti generali posti dallo statuto speciale della Regione Sardegna all’esercizio della competenza legislativa primaria attribuita alla medesima Regione in materia di lavori pubblici di interesse regionale, derivanti dal rispetto dei principi della tutela della concorrenza fissati dal Codice degli appalti pubblici, strumentali ad assicurare le libertà comunitarie - Illegittimità costituzionale.

Atti oggetto del giudizio:

Legge della Regione Sardegna 9 agosto 2002, n. 14, artt. 1 e 2 Parametri costituzionali:

Costituzione, art. 117, secondo comma, lett. e)

Statuto speciale per la Regione Sardegna, art. 3, lett. e)

(1) Sono incostituzionali gli artt. 1 e 2 della legge della Regione Sardegna 9 agosto 2002, n. 14. Tali norme, nell’individuare le disposizioni al cui rispetto sono tenuti gli enti e le pubbliche amministrazioni che intendono appaltare, concedere o affidare la realizzazione di lavori pubblici che si svolgono nell’ambito del territorio regionale (art. 1), delineano un sistema autonomo di qualificazione delle imprese, applicabile esclusivamente nell’ambito delle procedure di appalto di lavori indette dalle amministrazioni aggiudicatrici individuate dalla medesima legge regionale, stabilendo che «la qualificazione dei soggetti esecutori dei lavori pubblici di cui all’articolo 1 della presente legge, attestata sulla base delle disposizioni seguenti, costituisce condizione sufficiente per la dimostrazione dell’esistenza dei requisiti di capacità economico-finanziaria, dell’idoneità tecnica e organizzativa, della dotazione di attrezzature tecniche e dell’adeguato organico medio annuo delle imprese ai fini della partecipazione alle gare d’appalto dei lavori pubblici» (art. 2) di interesse regionale. Detta qualificazione è affidata ad una apposita Commissione permanente, costituita presso l’Assessorato regionale dei lavori pubblici, che è un organismo qualitativamente e strutturalmente diverso da quelli individuati dalla normativa statale (gli organismi di diritto privato di attestazione, appositamente autorizzati ed anche controllati dall’Autorità, denominati SOA), il quale è

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chiamato ad applicare criteri, determinati dal legislatore regionale, che sono comunque differenti rispetto a quelli individuati dal legislatore statale nel d.lgs. n. 163 del 2006. In tal modo, le disposizioni censurate recano una disciplina dei sistemi di qualificazione delle imprese per la partecipazione alle gare per gli appalti di lavori pubblici di interesse regionale difforme da quella nazionale di cui al d.lgs. n. 163 del 2006, alla quale avrebbero invece dovuto adeguarsi, e quindi idonea ad incidere sul livello della concorrenza, garantito dalla normativa statale, strumentale a consentire la piena apertura del mercato nel settore degli appalti. Le norme in esame sono, pertanto, in contrasto con i limiti generali posti dallo statuto all’esercizio della competenza legislativa primaria in materia di lavori pubblici di interesse regionale attribuita alla Regione dall’art. 3, lettera e), del medesimo statuto, limiti inerenti, appunto, al rispetto delle regole concorrenziali e dei princìpi comunitari della libera circolazione delle merci, della libera prestazione dei servizi, della libertà di stabilimento, nonché dei princìpi costituzionali di trasparenza e parità di trattamento e dunque ascrivibili, «per il loro stesso contenuto d’ordine generale, all’area delle norme fondamentali di riforme economico-sociali, nonché delle norme con le quali lo Stato ha dato attuazione agli obblighi internazionali nascenti dalla partecipazione dell'Italia all'Unione europea».

Con la sentenza in rassegna, la Corte costituzionale si è pronunciata sulle questioni di legittimità costituzionale promosse con due ordinanze di rimessione pronunciate dal Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna.

Con una prima ordinanza del 12 novembre 2010 (reg. ord. n. 22 del 2011), il rimettente dubita della legittimità costituzionale della legge della Regione Sardegna 9 agosto 2002, n. 14 (Nuove norme in materia di qualificazione delle imprese per la partecipazione agli appalti di lavori pubblici che si svolgono nell’ambito territoriale regionale), nella parte in cui disciplina un “sistema di qualificazione regionale” delle imprese per la partecipazione agli appalti di lavori pubblici di interesse regionale, istituendo un apposito Albo Regionale Appaltatori (A.R.A.). Ciò in quanto, alla luce delle affermazioni contenute nella sentenza della Corte costituzionale n. 411 del 20085, la legge regionale impugnata si porrebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. che attribuisce la materia di tutela della concorrenza alla competenza esclusiva del legislatore statale. «Ove, viceversa, si volesse riconoscere uno spazio legislativo alla Regione Sardegna, titolare di una competenza legislativa primaria in materia di lavori pubblici di interesse regionale, anche in materia di “qualificazione” delle imprese», il TAR Sardegna ritiene che debba essere dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 40, comma 3, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), nella parte in cui nella parte in cui impone, per i lavori pubblici regionali, un sistema unico privatistico di certificazione, «non ammettendo un sistema pubblico parallelo regionale (alternativo e non sostitutivo), non lesivo del principio di libera concorrenza».

Con una seconda ordinanza (reg. ord. n. 52 del 2011), invece, il Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna dubita della legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge della Regione Sardegna 9 agosto 2002, n. 14 (Nuove norme in materia di qualificazione delle imprese per la partecipazione agli appalti di lavori pubblici che si svolgono nell’ambito territoriale regionale), in quanto, ad avviso del rimettente, le norme impugnate, delineando un sistema autonomo di qualificazione delle imprese, applicabile esclusivamente nell’ambito delle procedure di appalto di lavori indette dalle amministrazioni aggiudicatrici individuate dalla medesima legge regionale, si porrebbero in diretto contrasto con l’art. 3, lettera e), dello Statuto speciale per la Regione Sardegna e con l’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione.

La Corte costituzionale, dopo aver riunito i giudizi «in virtù della sostanziale identità dell’oggetto e dei termini delle questioni sollevate», passa ad esaminare, in via preliminare, le eccezioni di inammissibilità delle questioni sollevate, proposte dalla Regione Sardegna.

Innanzi tutto, a parere della Regione, le questioni di legittimità costituzionale relative alla legge impugnata, sollevate con la prima delle due ordinanze, sarebbero inammissibili perché formulate in maniera alternativa ed ipotetica. Sul punto, la Consulta ritiene di accogliere l’eccezione formulata dalla Regione, sulla scorta

                                                                                                                         

(8)

della considerazione che «il giudice a quo solleva due questioni di legittimità costituzionale alternative, frutto di due percorsi interpretativi opposti, senza minimamente optare per alcuno dei due. Pertanto, in virtù di un principio costante nella giurisprudenza di questa Corte6 (…), deve essere dichiarata la manifesta inammissibilità delle questioni, poiché sono state formulate in termini di alternativa irrisolta e, dunque, ancipite, senza operare una scelta fra le due, rendendo anche perplessa la motivazione sulla rilevanza delle stesse»7.

Quanto alle eccezioni di inammissibilità relative alle questioni di legittimità costituzionale relative agli artt. 1 e 2 della legge della Regione Sardegna n. 14 del 2002, sollevate con la seconda ordinanza, la Consulta ne dichiara l’infondatezza e passa ad esaminare nel merito le censure di incostituzionalità.

In particolare, i giudici della Corte, pur riconoscendo che la normativa impugnata rientra nell’ambito della competenza legislativa esclusiva della Regione nella materia «lavori pubblici di esclusivo interesse della Regione» (art. 3, lettera e), dello statuto speciale), ravvisano il mancato rispetto, da parte del legislatore regionale, dei limiti previsti dallo Statuto in ordine all’esercizio della potestà legislativa primaria, ovvero l’«armonia con la Costituzione e [con] i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e [il] rispetto degli obblighi internazionali […], nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali» e, nello specifico, con riguardo alla disciplina dei contratti di appalto riconducibili alla materia de qua, il limite costituito dalle disposizioni di principio contenute nel d.lgs. n. 163 del 20068. Infatti – spiega la Corte – le disposizioni di quest’ultimo, meglio conosciuto come “Codice degli appalti”, per la parte in cui sono correlate all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., ed in specie alla materia «tutela della concorrenza», vanno «ascritte, per il loro stesso contenuto d’ordine generale, all’area delle norme fondamentali di riforme economico-sociali, nonché delle norme con le quali lo Stato ha dato attuazione agli obblighi internazionali nascenti dalla partecipazione dell’Italia all’Unione europea»9, che costituiscono limite alla potestà legislativa primaria della Regione. La legislazione regionale deve, quindi, osservare anche i limiti derivanti dal rispetto dei principi della tutela della concorrenza, fissati dal d.lgs. n. 163 del 2006, strumentali ad assicurare le libertà comunitarie, e non può avere un contenuto difforme dalle disposizioni di quest’ultimo, che costituiscono diretta attuazione delle prescrizioni poste a livello europeo, né quindi alterare il livello di tutela garantito dalle norme statali10. Inoltre, la Corte tiene a precisare che la disciplina della qualificazione e selezione delle imprese, unitamente alla regolamentazione delle procedure di affidamento e dei criteri di aggiudicazione, mira a garantire che le gare «si svolgano nel rispetto delle regole concorrenziali e dei princìpi comunitari della libera circolazione delle merci, della libera prestazione dei servizi, della libertà di stabilimento, nonché dei princìpi costituzionali di trasparenza e parità di trattamento»11. In altri termini, viene in rilievo l’ambito della tutela della concorrenza, di esclusiva competenza del legislatore statale12, il quale, quindi, può stabilire una regolamentazione integrale e dettagliata delle richiamate procedure di gara (nella specie, adottata con il citato d.lgs. n. 163 del 2006), la quale, avendo ad oggetto il mercato di riferimento delle attività economiche, può influire anche su materie attribuite alla competenza legislativa delle Regioni13. Alla luce di tali considerazioni la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge della Regione Sardegna n. 14 del 2002. Tali norme, ad avviso dei giudici costituzionali, nell’individuare le disposizioni al cui rispetto sono tenuti gli enti e le pubbliche amministrazioni che intendono appaltare, concedere o affidare la realizzazione di lavori pubblici che si svolgono nell’ambito del territorio regionale (art. 1), delineano un sistema autonomo di qualificazione delle imprese per la partecipazione alle gare per gli appalti di lavori pubblici di interesse regionale difforme da quello nazionale di cui al d.lgs. n. 163 del 2006, al

                                                                                                                         

6 Cfr. Corte cost., sent. 15 dicembre 2010, n. 355, in Giur. cost., 2010, 4948 ss., con note di G.B

OTTINO, Il «danno alla immagine»:

dell’Amministrazione pubblica, o del legislatore, ivi, 4996 ss., e di A.ODOLI,Il «lodo Bernardo» supera il vaglio della Corte costituzionale, ivi, 5003 ss.; ord. 22 luglio 2009, n. 230, in Giur. cost., 2009, 2700 ss., e ord. 2 aprile 2009, n. 98, in Giur. cost., 2009, 899 ss.

7 Punto 4.1.1 del Considerato in diritto. 8 V. Corte cost., sent. 10 giugno 2011, n. 184.

9 Sul punto cfr. Corte cost., sent. 20 aprile 2011, n. 144, in Giur. cost., 2011, 1831 ss.

10 Così anche Corte cost., sent. n. 144 del 2011, cit.; sent. 17 giugno 2010, n. 221, in Giur. cost., 2010, 2521 ss., e sent. 12 febbraio 2010, n. 45, in Giur. cost., 2010, 509 ss.

11 Cfr. Corte cost., sent. 14 dicembre 2007, n. 431 e sent. 23 novembre 2007, n. 401.

12 Cfr. Corte cost. sent. n. 401 del 2007, cit., e sent. 15 novembre 2004, n. 345, in Giur. cost., 2004, 3839 ss., con nota a commento di G.FARES, La disciplina in materia di appalti pubblici sotto soglia e il sistema Consip al vaglio della Corte costituzionale, ivi, 3859 ss. 13 Cfr. ancora Corte cost., sent. n. 411 del 2008, cit.

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quale avrebbero invece dovuto adeguarsi, e quindi idoneo ad incidere sul livello della concorrenza, garantito dalla normativa statale, strumentale a consentire la piena apertura del mercato nel settore degli appalti.

CORTE COSTITUZIONALE, Sentenza n. 329/2011, G.U. 1ª serie speciale, n. 53 del 21.12.2011

Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale. Straniero - Indennità di frequenza - Riconoscimento del beneficio al minore extracomunitario subordinato al requisito della titolarità della carta di soggiorno - Violazione del principio di uguaglianza e dei diritti all’istruzione, alla salute ed al lavoro - Violazione della garanzia assistenziale - Lesione di obblighi internazionali derivanti dalla CEDU - Illegittimità costituzionale in parte qua.

Atti oggetto del giudizio:

Legge 23 dicembre 2000, n. 388, art. 80, comma 19 Parametri costituzionali: Costituzione, art. 2 Costituzione, art. 3 Costituzione, art. 32 Costituzione, art. 34 Costituzione, art. 117

Altri parametri o norme interposte:

Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, art. 14

(1) E’ incostituzionale l’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno, la concessione ai minori extracomunitari legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato della indennità di frequenza di cui all'art. 1 della legge 11 ottobre 1990, n. 289, per violazione degli artt. 2, 3, 32, 34, 38 e 117 della Costituzione, posto che il trattamento irragionevolmente differenziato che essa impone basato sulla semplice condizione di straniero regolarmente soggiornante sul territorio dello Stato, ma non ancora in possesso dei requisiti di permanenza utili per conseguire la carta di soggiorno vìola, ad un tempo, il principio di uguaglianza e i diritti alla istruzione, alla salute ed al lavoro, tanto più gravemente in quanto essi si riferiscano a minori in condizione di disabilità. Il condizionamento che viene imposto ai fini del riconoscimento del beneficio in questione per i minori stranieri, pur regolarmente presenti nel territorio dello Stato, rappresentato dalla titolarità della carta di soggiorno, finisce per determinare, per un periodo minimo di cinque anni quello richiesto per il rilascio della carta una sostanziale vanificazione, incompatibile non soltanto con le esigenze di effettività e di soddisfacimento che i diritti fondamentali naturalmente presuppongono, ma anche con la stessa specifica funzione della indennità di frequenza, posto che l’attesa del compimento del termine di cinque anni di permanenza nel territorio nazionale potrebbe comprimere sensibilmente le esigenze di cura ed assistenza di soggetti che l’ordinamento dovrebbe invece tutelare, se non, addirittura, vanificarle in toto.

Con la sentenza in rassegna la Corte costituzionale si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di Appello di Genova, avente ad oggetto il “coordinato disposto” degli articoli 1 della legge 11 ottobre 1990, n. 289 (Modifiche alla disciplina delle indennità di accompagnamento di cui alla legge 21 novembre 1988, n. 508, recante norme integrative in materia di assistenza economica agli invalidi civili, ai ciechi civili ed ai sordomuti e istituzione di un’indennità di frequenza per i minori invalidi) e 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2001). Il rimettente ha censurato la normativa de qua nella parte in cui subordina l’erogazione dell’indennità di frequenza per il cittadino minore extracomunitario alla titolarità della carta di soggiorno, in quanto, a suo avviso, si pone in contrasto, da un lato, con il principio di uguaglianza e con i parametri costituzionali che assicurano la protezione di diritti primari dell’individuo (quali

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l’istruzione, art. 34; la salute, art. 32; e l’assistenza sociale, art. 38), nonché con i doveri di solidarietà economica e sociale (art. 2). Dall’altro, comporta la violazione del dovere di esercitare la potestà legislativa nel rispetto, oltre che della Costituzione, anche dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (art. 117 Cost.), poiché tale normativa ha introdotto un regime discriminatorio nei confronti di cittadini stranieri incompatibile altresì con i princìpi affermati dalla stessa Corte costituzionale anche in riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata con la legge 3 marzo 2009, n. 18.

La Consulta, dopo aver precisato che la questione sollevata, «va propriamente riferita alla norma di cui all’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000, in quanto essa, per l’identificazione della specifica provvidenza economica in esame, implichi il rinvio all’art. 1 della legge n. 289 del 1990», richiama la sua pregressa giurisprudenza al fine di argomentare circa la fondatezza della questione stessa.

In particolare, i giudici costituzionali fanno riferimento alla sentenza n. 187 del 201014, nella quale avevano rilevato che la provvidenza presa allora in esame, per i requisiti che ne condizionavano il riconoscimento, rappresentava una erogazione destinata non già ad integrare il minor reddito in relazione alle condizioni soggettive e alle diminuite capacità di guadagno, ma a fornire alla persona un minimo di sostentamento: in linea, evidentemente, con i principi di inderogabile solidarietà sociale, assunti quale valore fondante degli stessi diritti inalienabili dell’individuo, che non ammettono distinzioni di sorta in dipendenza di qualsiasi tipo di qualità o posizione soggettiva e, dunque, anche in ragione del diverso status di cittadino o di straniero. Ciò, peraltro, si poneva in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa al principio di non discriminazione sancito dall’art. 14 della Convenzione europea. Pertanto, la normativa allora oggetto di censura, era stata ritenuta contrastante con i limiti derivanti dal rispetto degli obblighi internazionali, imposto dall’art. 117, primo comma, Cost.

I principi rinvenibili nella giurisprudenza citata, ad avviso della Corte, devono valere a fortiori per il caso di specie, nel quale viene in rilievo una gamma di esigenze di tutela della persona ancora più estesa di quella coinvolta dai diversi benefici di carattere assistenziale oggetto dei precedenti scrutini di costituzionalità. In particolare, già in passato la Consulta aveva osservato che ciò che assume valore dirimente agli effetti del sindacato ad essa riservato, non è la denominazione o l’inquadramento formale della singola provvidenza, quanto, piuttosto, «il concreto atteggiarsi di questa nel panorama delle varie misure e dei benefici di ordine economico che il legislatore ha predisposto quali strumenti di ausilio ed assistenza in favore di categorie “deboli”». Pertanto, al fine di saggiare la compatibilità costituzionale delle scelte legislative occorre verificare se, «alla luce della configurazione normativa e della funzione sociale», la misura presa in considerazione «integri o meno un rimedio destinato a consentire il concreto soddisfacimento di “bisogni primari” inerenti alla sfera di tutela della persona umana, che è compito della Repubblica promuovere e salvaguardare».

Poste queste premesse, ad avviso dei giudici costituzionali, il riconoscimento della indennità di frequenza si iscrive nel novero delle provvidenze “polifunzionali”, giacché i bisogni che attraverso di essa si intendono soddisfare non si concentrano soltanto sul versante della salute e della connessa perdita o diminuzione della capacità di guadagno, ma, anche, su quello delle esigenze formative e di assistenza di minori colpiti da patologie invalidanti e appartenenti a nuclei familiari che versino in disagiate condizioni economiche. Dunque – rileva la Corte – il contesto in cui si iscrive la indennità di frequenza è composito e costellato di finalità sociali che coinvolgono beni e valori, tutti, di primario risalto nel quadro dei diritti fondamentali della persona. Alla luce di tali considerazioni, pertanto, il condizionamento che viene imposto ai fini del riconoscimento del beneficio in questione per i minori stranieri, pur regolarmente presenti nel territorio dello Stato, rappresentato dalla titolarità della carta di soggiorno, finisce per determinare, per un periodo minimo di cinque anni – quello richiesto per il rilascio della carta – una sostanziale vanificazione, incompatibile non soltanto con le esigenze di “effettività” e di soddisfacimento che i diritti fondamentali naturalmente presuppongono, ma anche con la stessa specifica funzione della indennità di frequenza. Ciò in quanto l’attesa del compimento del termine di cinque anni di permanenza nel territorio nazionale potrebbe «comprimere sensibilmente le esigenze di cura ed assistenza di soggetti che l’ordinamento dovrebbe invece tutelare», se non, addirittura, vanificarle del tutto.

                                                                                                                         

14 Corte cost. sent. 28 maggio 2010, n. 187, in Giur. cost., 2010, 2212 ss.; sul punto v. anche Corte cost. sent. 23 gennaio 2009, n. 11, in Giur. cost., 2009, 70 ss., e sent. 30 luglio 2008, n. 306, in Giur. cost., 2008, 3324 ss., con nota a commento di A.M.BATTISTI,

(11)

La Corte, quindi, non può che concludere con una declaratoria di illegittimità costituzionale della normativa impugnata nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione ai minori extracomunitari legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato della indennità di frequenza di cui all’art. 1 della legge 11 ottobre 1990, n. 289, non solo per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 14 della CEDU, per come interpretato dalla Corte di Strasburgo, ma anche perché si porrebbe in contrasto con i restanti parametri evocati dal giudice a quo. Ciò sulla base della considerazione secondo cui il trattamento irragionevolmente differenziato che essa impone – basato sulla semplice condizione di straniero regolarmente soggiornante sul territorio dello Stato, ma non ancora in possesso dei requisiti di permanenza utili per conseguire la carta di soggiorno – vìola, ad un tempo, il principio di uguaglianza e i diritti alla istruzione, alla salute ed al lavoro, tanto più gravemente in quanto essi si riferiscano a minori in condizione di disabilità.

CORTE COSTITUZIONALE, Sentenza n. 331/2011, G.U. 1ª serie speciale, n. 53 del 21.12.2011

Giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale. Reati e pene - Favoreggiamento dell’immigrazione clandestina - Misure cautelari - Obbligatorietà della custodia cautelare in carcere quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dall’art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - Omessa salvezza, altresì, dell’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure - Violazione dei principi di uguaglianza, di ragionevolezza e del minore sacrificio necessario della libertà personale nell’applicazione delle misure cautelari - Contrasto con la presunzione di non colpevolezza dell’imputato sino alla condanna definitiva - Illegittimità costituzionale in parte qua. Atti oggetto del giudizio:

D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 12, comma 4-bis, aggiunto dall,art. 1, comma 26, lett. f), della legge 15 luglio 2009, n. 94

Parametri costituzionali: Costituzione, art. 3

Costituzione, art. 13, primo comma Costituzione, art. 27, secondo comma

(1) E’ incostituzionale l’art. 12, comma 4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, nella parte in cui nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dal comma 3 del medesimo articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non facendo salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. La norma denunciata assoggetta i reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina da essa considerati a uno speciale e più severo regime cautelare, omologo a quello prefigurato, in rapporto a un complesso di altre figure delittuose, dall’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, del codice di procedura penale. La Corte, pertanto, reputa estensibili ai procedimenti relativi a detti reati le ragioni che hanno indotto la Corte stessa, con la sentenza n. 265 del 2010, a dichiarare costituzionalmente illegittima l’analoga presunzione prevista dall’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale in riferimento a taluni delitti a sfondo sessuale (artt. 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale). Al pari di tali delitti, neanche le fattispecie in esame potrebbero essere, infatti, assimilate, ai delitti di mafia, relativamente ai quali questa Corte ha ritenuto giustificabile la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere. Il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina potrebbe essere infatti realizzato, anche nelle ipotesi aggravate cui la norma censurata fa riferimento, con condotte profondamente diverse tra loro, indipendenti da una struttura criminale organizzata, e tali, dunque, da proporre esigenze cautelari affrontabili anche con misure diverse dalla custodia carceraria.

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Con la sentenza in rassegna15 la Corte si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 12, comma 4-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 26, lettera f), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui non consente di applicare misure cautelari diverse e meno afflittive della custodia cautelare in carcere alla persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza in ordine a taluno dei delitti di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, previsti dal comma 3 del medesimo art. 12. La norma censurata, ad avviso del rimettente, contrasterebbe con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.), nonché con la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.).

Preliminarmente, la Corte costituzionale ricostruisce il contenuto e la ratio della norma censurata. Quanto al primo, la norma denunciata assoggetta i reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina da essa considerati a uno speciale e più severo regime cautelare; quanto alla seconda, la Consulta chiarisce che il regime previsto dalla norma de qua fa perno su una duplice presunzione: relativa, quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari; assoluta, quanto alla scelta della misura, reputando il legislatore adeguata – ove la presunzione relativa non risulti vinta – unicamente la custodia cautelare in carcere. Peraltro – aggiunge la Corte – tale norma contiene una previsione analoga a quella che recava l’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, del codice di procedura penale, dichiarato incostituzionale, con sentenza n. 265 del 201016, nella parte in cui configurava una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura carceraria nei confronti degli indiziati di taluni delitti a sfondo sessuale17. Quindi il Giudice delle leggi, richiamando i principi costituzionali di riferimento – ovvero il principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.) e la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.) – ribadisce che la disciplina delle misure cautelari deve essere ispirata al criterio del «minore sacrificio necessario»: la compressione della libertà personale va contenuta, cioè, entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della «pluralità graduata», predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale; dall’altra, a prefigurare criteri per scelte «individualizzanti» del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete.

Invece – osserva la Corte – la norma impugnata, in violazione dei citati principi costituzionali, vincola il giudice a disporre la misura maggiormente rigorosa, senza alcuna possibile alternativa, allorché la gravità indiziaria attenga a determinate fattispecie di reato. Questa soluzione normativa, dunque, si traduce in una valutazione legale di idoneità della sola custodia carceraria a fronteggiare le esigenze cautelari. In altri termini, viene prevista una presunzione assoluta in riferimento a fattispecie criminose che, in concreto, possono assumere le più disparate connotazioni. A ben vedere, infatti, le figure di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ricomprendono fattispecie concrete marcatamente differenziate tra loro, per cui non è possibile enucleare una regola generale, ricollegabile ragionevolmente a tutte le «connotazioni criminologiche» del fenomeno, secondo la quale la custodia cautelare in carcere sarebbe l’unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari. Né la presunzione assoluta censurata può rinvenire la sua base di legittimazione costituzionale nella gravità astratta del reato di favoreggiamento dell’immigrazione, ovvero nell’esigenza di eliminare o ridurre le situazioni di allarme sociale correlate all’incremento del fenomeno della migrazione clandestina18.

                                                                                                                         

15 La sentenza è oggetto della nota a commento di P.Z

ICCHITTU, La conformità a Costituzione della custodia cautelare in carcere: un

caso esemplare nei rapporti tra Corte, giudici e legislatore, in corso di pubblicazione in questa rivista.

16 Cfr. Corte cost., sent. 21 luglio 2010, n. 265, in Giur. cost., 2010, 3169 ss.

17 Ad analoghe declaratorie di illegittimità costituzionale la Corte è altresì pervenuta, successivamente all’ordinanza di rimessione, nei riguardi della medesima norma, nella parte in cui rende operante la predetta presunzione assoluta anche nei procedimenti per i delitti di omicidio volontario (Corte cost., sent. 12 maggio 2011, n. 164) e di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope (Corte cost., sent. 22 luglio 2011, n. 231).

18 Come già affermato al riguardo dalla stessa Corte, infatti, la gravità astratta del reato, considerata in rapporto alla misura della pena o alla natura dell’interesse protetto, è significativa ai fini della determinazione della sanzione, ma inidonea a fungere da elemento preclusivo alla verifica del grado delle esigenze cautelari e all’individuazione della misura concretamente idonea a farvi fronte; mentre il rimedio all’allarme sociale causato dal reato non può essere annoverato tra le finalità della custodia cautelare, costituendo una funzione istituzionale della pena, perché presuppone la certezza circa il responsabile del delitto che ha provocato l’allarme. Sul punto, cfr. Corte cost., sentt. n. 231 e n. 164 del 2011, cit.; n. 265 del 2010, cit.

(13)

In conclusione, ciò che ad avviso della Cortevulnera i valori costituzionali non è la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del «minore sacrificio necessario». Di contro, la previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria non eccede i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l’apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso19. Alla luce di queste considerazioni, la Consulta perviene alla declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dal comma 3, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

CORTE COSTITUZIONALE, Sentenza n. 333/2011, G.U. 1ª serie speciale, n. 53 del 21.12.2011

Giudizio per conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato. Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento civile per il risarcimento del danno promosso da un magistrato nei confronti di un deputato in relazione alle dichiarazioni da questi rese a vari organi di stampa - Deliberazione di insindacabilità delle opinioni del parlamentare adottata dalla Camera dei deputati - Ricorso per conflitto di attribuzione promosso dalla Corte di Cassazione - Eccezione di inammissibilità per indeterminatezza e genericità dell’oggetto del conflitto - Reiezione.

Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento civile per il risarcimento del danno promosso da un magistrato nei confronti di un deputato in relazione alle dichiarazioni da questi rese a vari organi di stampa - Deliberazione di insindacabilità delle opinioni del parlamentare adottata dalla Camera dei deputati - Ricorso per conflitto di attribuzione promosso dalla Corte di Cassazione - Eccezione di inammissibilità per omessa preventiva verifica dell’offensività delle dichiarazioni – Reiezione.

Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento civile per il risarcimento del danno promosso da un magistrato nei confronti di un deputato in relazione alle dichiarazioni da questi rese a vari organi di stampa - Deliberazione di insindacabilità delle opinioni del parlamentare adottata dalla Camera dei deputati - Ricorso per conflitto di attribuzione promosso dalla Corte di Cassazione - Insussistenza del nesso funzionale - Mancanza dell’identità di contenuti tra le affermazioni formulate dal parlamentare e gli atti compiuti in sede parlamentare - Non spettanza alla Camera dei deputati del potere esercitato - Conseguente annullamento della delibera di insindacabilità

Atti oggetto del giudizio:

Deliberazione della Camera dei deputati 16 luglio 2008 Parametri del giudizio:

Costituzione, art. 68, primo comma Legge 11 marzo 1953, n. 87, art. 37

(1) Sono state lese le attribuzioni dell’autorità giudiziaria ricorrente in quanto la delibera della Camera dei deputati è stata adottata in violazione dell’art. 68, primo comma, Cost. e, di conseguenza, deve essere annullata. Non vi è, infatti, corrispondenza di contenuti tra le opinioni espresse dal deputato nell’esercizio delle funzioni parlamentari e le dichiarazioni rese all’esterno del Parlamento, le quali, peraltro, risolvendosi in critiche generali rivolte alla magistratura, non sono idonee a radicare il nesso funzionale.

Con la sentenza in rassegna la Corte si è pronunciata sul conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, sollevato dalla Corte Cassazione nei confronti della Camera dei deputati, contestando che spettasse ad

                                                                                                                         

(14)

essa deliberare, nella seduta del 16 luglio 2008, che i fatti, per i quali è in corso il procedimento civile per risarcimento dei danni promosso nei confronti di un deputato, riguardano opinioni espresse da quest’ultimo nell’esercizio delle funzioni parlamentari, con conseguente loro insindacabilità ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione20.

In via preliminare, la Consulta respinge le eccezioni di inammissibilità del conflitto proposte dalla difesa della Camera dei deputati, l’una sollevata per indeterminatezza e genericità del suo oggetto, l’altra per omessa verifica preventiva, da parte del giudice ricorrente, del carattere offensivo delle dichiarazioni del deputato. In particolare, per quanto concerne quest’ultima eccezione, i giudici costituzionali rilevano come l’ipotizzato onere di anticipazione degli esiti del giudizio da cui il conflitto trae origine – privo di riscontri nella giurisprudenza di questa Corte in materia, come la stessa resistente riconosce – si pone in contrasto con l’effetto inibente che, alla luce della disciplina recata dall’art. 3 della legge 20 giugno 2003, n. 14, la delibera di insindacabilità produce sulle attività giurisdizionali. Impugnando detta delibera, infatti, il giudice mira a “riappropriarsi” del potere (pieno) di giudicare – in un senso o nell’altro – sul merito della domanda, al quale attiene la valutazione della reale lesività delle esternazioni.

Quindi, passando ad esaminare il merito del ricorso, la Corte ricorda che il suo sindacato consiste nel verificare la sussistenza del nesso funzionale tra le dichiarazioni rese extra moenia da un parlamentare e l’espletamento delle sue funzioni di membro del Parlamento, ai fini della quale è necessario che tali dichiarazioni possano rappresentare l’espressione dell’esercizio di attività parlamentare21. Tale nesso, tuttavia, non è rinvenibile – ad avviso dei giudici costituzionali – nel caso di specie, e ciò per due ragioni. Innanzi tutto, per lo iato temporale che intercorre tra gli interventi del deputato registrati agli atti parlamentari e le esternazioni dello stesso, che costituiscono i fatti per i quali si procede dinanzi alla Corte di Cassazione. In secondo luogo, il Giudice delle leggi ritiene che non sia soddisfatto il requisito della sostanziale identità di contenuti tra le opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni e le dichiarazioni esterne: requisito che, per consolidata giurisprudenza costituzionale, condiziona la riconoscibilità del nesso funzionale, non potendo ritenersi sufficiente, a tal fine, né una mera comunanza di argomenti, né un mero «contesto politico» cui entrambe possano riferirsi22. In particolare, chiosa la Corte, deve escludersi la corrispondenza contenutistica – necessaria affinché possa riconoscersi alle dichiarazioni extra moenia carattere divulgativo dell’attività parlamentare – quando gli atti tipici esprimano critiche generali alla magistratura, o a una sua corrente, mentre le dichiarazioni esterne censurino l’operato di singoli magistrati in rapporto a specifici episodi. In simili frangenti – come nel caso di specie – può ravvisarsi, al più, una semplice comunanza di tematiche o di «contesto politico», insufficiente, tuttavia, a radicare il nesso funzionale23.

Pertanto, la Corte annulla la delibera della Camera dei deputati, in quanto adottata in violazione dell’art. 68, primo comma, Cost., ledendo le attribuzioni dell’autorità giudiziaria ricorrente.

CORTE COSTITUZIONALE, Sentenza n. 334/2011, G.U. 1ª serie speciale, n. 53 del 21.12.2011

Giudizio per conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato. Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento penale a carico di un deputato per il reato di diffamazione aggravata in danno di un magistrato - Deliberazione di insindacabilità delle opinioni del parlamentare adottata dalla Camera dei deputati - Ricorso per conflitto di attribuzione proposto dalla Corte di appello di Milano - Eccezione di inammissibilità per difetto di puntuale identificazione del ricorrente e per omessa descrizione del contenuto della delibera di insindacabilità - Reiezione.

                                                                                                                         

20 Tale conflitto era stato dichiarato ammissibile con ord. 11 dicembre 2009, n. 332, in Giur. cost., 2009, 4939 ss.

21 Cfr., ex plurimis, Corte cost. sent. 24 marzo 20011, n. 98, in Giur. cost., 2011, 1406 ss.; sent. 22 ottobre 2010, n. 301, in Giur. cost., 2010, 3916 ss.; sent. 17 dicembre 2008, n. 420, in Giur. cost., 2008, 4817 ss., e sent. 12 dicembre 2008, n. 410, in Giur. cost., 2008, 4741 ss.

22 In tal senso, tra le più recenti, v. Corte cost., sent. 11 marzo 2011, n. 81, in Giur. cost., 2011, 1247 ss.; sentt. n. 420 e n. 410 del 2008, cit.; sent. 4 maggio 2007, n. 152, in Giur. cost., 2007, 1452 ss., e sent. 4 luglio 2006, n. 258, in Giur. cost., 2006, 2725 ss., con nota a commento di D.NOCILLA, Nesso funzionale e tempo intercorso tra atto di servizio delle funzioni parlamentari e di dichiarazioni

ipoteticamente diffamatorie, ivi, 2733 ss.

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