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Ritorno, memoria e identita. Pellegrini sentimentali nel Novecento

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di filologia, letteratura e linguistica

Dottorato in Studi Italianistici

XXXII ciclo

RITORNO, MEMORIA E IDENTITÀ

PELLEGRINI SENTIMENTALI NEL NOVECENTO

Tutor

Dottoranda

Prof. Sergio Zatti

Giulia Cavedoni

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I

NDICE INTRODUZIONE ... 4

ALLE ORIGINI DEL TOPOS ... 11

TIPOLOGIE DI PELLEGRINAGGI ... 22

UN PELLEGRINAGGIO UMORISTICO: IL CASO DE IL FU MATTIA PASCAL ... 34

UN RITORNO OBBLIGATO:LA CASA VENDUTA ... 37

RITORNO E MODERNITÀ ... 40

UNA CONVERSIONE POLITICA:CONVERSAZIONE IN SICILIA ... 55

IMMERSIONE NEL MITO :LA LUNA E I FALÒ ... 57

IL RITORNO DELLA PAROLA:LIBERA NOS A MALO ... 61

DAL CENTRO ALLA PERIFERIA:IL GIORNO DEL GIUDIZIO ... 63

ECHI DALL’OLTRETOMBA: CASI DI MEMORIA DANTESCA ... 66

RITORNO ALLA FAMIGLIA ... 70

IL SEME DEL PIANGERE: L’INCONTRO CON IL PADRE IN ARACOELI ... 86

ALLA RICERCA DELLA MADRE : L’AMORE MOLESTO ... 88

UNA VILLEGGIATURA “COI MIEI MORTI”:LA CASA DELLE DUE PALME ... 89

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LA TRASFIGURAZIONE NEL ROMANZO ... 106

CONCLUSIONI ... 108

BIBLIOGRAFIA ... 113

OPERE CITATE ... 113

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I

NTRODUZIONE

Il topos del pellegrinaggio sentimentale nasce in epoca romantica con precise caratteristiche: si tratta dell’esperienza che un protagonista compie decidendo di tornare ad un luogo intimamente legato al proprio passato e in particolare all’infanzia.1

Questo lavoro si propone di indagare la riscoperta del topos in alcuni testi della narrativa italiana del Novecento. In un secolo segnato da incertezze, violenze, trasformazioni repentine, il ritorno a casa diviene un tema letterario attuale, all’interno del quale si intrecciano molti altri elementi, che lo arricchiscono in un gioco di sfumature da me indagato come varianti storiche di una costante tematica.

Il pellegrinaggio sentimentale, sin dai primi albori, racchiude nelle sue trame grandi temi della letteratura e della cultura occidentale. Innanzi tutto si tratta di un nostos, di un ritorno alla casa lontana dopo un lungo periodo di assenza. Il viaggio che il protagonista compie per tornare al proprio luogo natale svolge un ruolo fondamentale: tutti gli elementi del paesaggio concorrono a calarlo nella dimensione del suo passato ed il percorso è già parte fondamentale dell’esperienza.

Il topos sviluppa all’epoca dei suoi archetipi romantici due filoni prevalenti: la meta cui si fa ritorno è un luogo legato alla propria infanzia o ad una storia d’amore finita.

Nel Novecento il ricordo d’amore lascia spazio a quello più genericamente autobiografico e le reliquie che si vanno a ricercare sono proprio quelle della propria fanciullezza. Le stanze di una vecchia dimora, gli oggetti abbandonati, gli antichi

1 il topos viene per la prima volta individuato da F. ORLANDO ne Gli oggetti desueti nelle immagini

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sapori divengono quindi lo spunto per attivare un processo di memoria, a volte involontaria, che proietta il personaggio indietro nel tempo.

Si tratta di un viaggio che non si articola soltanto nella dimensione dello spazio, ma anche in quella del tempo, andando a costituire quello che Bachtin definisce come il “cronotopo” dell’idillio distrutto2, in cui la dimensione di un locus amoenus protetto dall’avanzare della storia entra in conflitto con la società moderna, generando spaesamento e frustrazione nell’animo del protagonista.

In effetti ciò che si spera di poter ritrovare con un viaggio di ritorno non esiste se non in un passato perduto o forse solamente nella memoria, che l’ha trasfigurato e modificato. La meta del pellegrinaggio è dunque impossibile: è il se stesso di un tempo, l’io bambino. Le cose rimaste, a volte immutate, a volte completamente trasformate, divengono delle reliquie, che mutuano dalla sfera religiosa il loro alone sacrale, che le rende meta di un vero e proprio pellegrinaggio, che incute nel protagonista devozione ed estremo rispetto. La consacrazione del topos si colloca in effetti in epoca romantica, ed è proprio in questo contesto di trionfo dell’individualismo che il culto delle reliquie e la pratica del pellegrinaggio passa dalla sfera religiosa a quella personale. Accanto al culto per le rovine, nasce in questo periodo anche una sorta di religione privata, in cui le spoglie del proprio passato si rivestono di un valore sacrale. Dalla religione viene tratto anche il lessico, ma la più grande novità risiede non solo nella natura laica di questa nuova esperienza, ma anche nella sua dimensione del tutto individuale e introspettiva. Se il pellegrinaggio religioso, o quello civile trovano il loro compimento nella dimensione comunitaria, costituita da un’assemblea di fedeli che comunemente ne riconosce il valore, questo pellegrinaggio è qualcosa che riguarda intimamente soltanto chi lo compie, non può in nessun modo essere condiviso, ma soltanto vissuto sul piano personale.

Questo lavoro prende le mosse dall’analisi degli archetipi europei, che sono stati individuati da Francesco Orlando ne I dolori del giovane Werther (1774) di Goethe e nel René (1805) di Chateaubriand: a partire da questi testi si possono stabilire alcune

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caratteristiche costanti che restano immutate nella sostanza pur variando per determinazioni storiche e culturali. Il viaggio che il protagonista compie per visitare un’antica dimora, scenario del suo passato, deriva sempre da una libera scelta. Durante il percorso a ritroso nel suo animo si agitano sentimenti contrastanti: attesa, inquietudine, commozione ma anche spaesamento e nostalgia.

Se da una parte c’è il riconoscimento dei luoghi, dall’altra c’è un senso di straniamento derivato dalla presa di coscienza che il tempo è trascorso e ciò che è veramente mutato nel profondo è proprio lui stesso.

Il punto di svolta del topos, che rende possibile la sua reinterpretazione nella letteratura novecentesca, corrisponde ad un momento di profonde innovazioni storiche, culturali e scientifiche. Con la scoperta del mondo dell’inconscio e la messa in discussione di secolari certezze, la sfera della memoria spicca nel panorama della letteratura occidentale. In particolare è nella Recherche di Proust che si fa largo un nuovo modo di interpretare il pellegrinaggio sentimentale. La visita alla propria casa si tramuta in un’esperienza dolorosa, in quanto ciò che si spera di ritrovare esiste solamente nel ricordo, che con la sua forza creatrice lo ha trasfigurato, allontanandolo dalla realtà dei fatti. L’unico modo per attingere al passato diviene dunque quello della memoria involontaria, dell’epifania, che non attraverso un viaggio fisico, bensì attraverso un percorso meramente mentale e sensoriale riconduce l’uomo al suo passato e può farlo riconciliare con esso.

Alle rivoluzioni del pensiero, che riguardano in particolare la scoperta della psicanalisi e della dimensione dell’inconscio si accompagnano i fatti traumatici del secolo scorso: gli orrori delle guerre mondiali e lo shock dovuto ad un boom economico repentino, che trasforma radicalmente le vite degli uomini. Tutto questo entra nella narrativa italiana e si intreccia profondamente con l’esperienza del ritorno a casa, che si trasforma per alcuni protagonisti in un estremo tentativo di recupero della propria identità, minacciata o cancellata dalle vicende storiche che determinano pesantemente anche quelle personali. Il confronto con la modernità trasformatrice ha un effetto straniante, riconducibile alla categoria freudiana dell’Unheimliche. La visione del proprio luogo natio trasformato dall’incedere inesorabile del progresso

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produce nei personaggi una sensazione perturbante: i sentimenti di affetto per i propri ricordi che si risvegliavano nel cuore dei pellegrini romantici, lasciano il più delle volte spazio ad un senso di desolata frustrazione.3

Nella narrativa italiana del Novecento assistiamo quindi ad un recupero del pellegrinaggio sentimentale, arricchito da nuovi elementi che, aggiungendosi alle costanti tradizionali, lo reinterpretano secondo la nuova sensibilità dell’uomo contemporaneo. L’obiettivo di questo lavoro è di indagare le nuove manifestazioni del topos, alla luce delle costanti, ma soprattutto delle varianti che vanno a costituire diverse tipologie. Al fine di verificarle testualmente è stato stabilito un corpus di nove opere, tra romanzi e racconti di autori italiani del secolo scorso. I testi scelti sono quelli in cui il pellegrinaggio sentimentale riveste un ruolo fondamentale nello svolgimento della trama, tralasciandone altri in cui il ritorno a casa costituisce un episodio minore. Per la maggior parte di questi il viaggio verso il luogo d’origine corrisponde all’intera trama o è la cornice intorno a cui si svolge tutta la vicenda. L’importante novità rispetto agli antecedenti romantici risiede proprio in questo: il ritorno a casa costituisce spesso lo scioglimento di un’impasse, di una crisi interiore del protagonista, che spesso coincide con quella dell’autore.

Per la costituzione delle tipologie si sono stabiliti alcuni criteri: innanzi tutto il modo in cui l’identità del protagonista interagisce con l’esperienza del ritorno, se essa risulti perduta per sempre oppure riscoperta, ritrovata, trasformata. Vi è poi la componente specifica dei ricordi d’infanzia, che nella maggior parte dei casi costituiscono un idillio perduto che tutti i personaggi vorrebbero ritrovare, ma in altri casi invece è un’esperienza traumatica e dolorosa, che influenza tutta l’esistenza. Si è poi analizzato il ruolo della Storia all’interno della vicenda personale, l’esito del viaggio, che non sempre è positivo e infine la natura collettiva oppure solitaria dell’esperienza. Le tipologie emerse dall’analisi sono quattro, di cui tre corrispondono a momenti storici ben precisi.

3 Orlando riconosce da Baudelaire in poi una trasformazione del topos, sia nei testi poetici che in quelli in prosa, che passa dalla categoria del “memore-affettivo” a quella del “desolato-sconnesso”. F. ORLANDO, cit. p. 150.

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La prima è quella dell’ “anti-ritorno”, che comprende Il fu Mattia Pascal (1904) di Luigi Pirandello e La casa venduta (1920) di Federigo Tozzi. In entrambi i casi i protagonisti vivono il ritorno come un’esperienza del tutto frustrante, insoddisfatti della propria vita, conducono l’esistenza in una solitudine che li estrania dal mondo circostante. Il ritorno a casa non li porta ad un superamento delle proprie debolezze, essi non possono ricongiungersi con nessuna identità perduta nel passato, poiché si rendono conto di non averne mai davvero avuta una. Non c’è un’infanzia felice da ricordare, nessuna età dell’oro, neppure nella memoria.

Sono protagonisti di inizio secolo, che devono fare i conti con una crisi dell’individuo. Appartengono in molti aspetti alla categoria degli inetti, delineata nelle pagine famose di Debenedetti4, che non riescono a recuperare la propria identità neppure tornando alle origini, ma si trovano invece di fronte alla tragica scoperta che non sono mai stati nessuno, soltanto delle maschere prive di forza di volontà e che nel corso della propria esistenza non hanno fatto altro che guardarsi vivere. Per Mattia Pascal il ritorno diviene addirittura umoristico, tant’è che nel romanzo risultano rovesciate molte delle costanti: in particolare, in conclusione della vicenda, il protagonista fa visita alla propria tomba, anziché a quella di una persona cara, suscitando una risata amara, di consapevolezza della tragicità del proprio destino di “non-vita”.

Nella seconda tipologia assistiamo ad uno sviluppo del topos: siamo negli anni immediatamente precedenti o successivi alla Seconda Guerra Mondiale e i protagonisti si trovano a dover fare i conti con importanti svolte storiche che travolgono le loro esistenze. Si tratta infatti dei quattro romanzi che fanno parte della tipologia chiamata: “ritorno e modernità”. Oltre alla guerra, elemento fondamentale e perturbante, è soprattutto il progresso con cui i protagonisti, durante il loro ritorno, si scontrano. Molto spesso le loro vicende si fondono con quelle dei rispettivi autori, diventandone dei veri e propri alter ego. La riscoperta dell’infanzia insieme al rientro nella propria comunità di appartenenza, non sempre privo di turbamenti, li conduce alla fine ad un superamento di una crisi interiore che ne imprigiona le esistenze.

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Fa parte di questa tipologia Conversazione in Sicilia (1936) di Elio Vittorini, in cui il protagonista, insieme all’autore, vive una vera e propria conversione politica. Il ritorno in Sicilia gioca infatti un ruolo chiave anche per l’autore, che abbandona gli “astratti furori” che agitano il suo animo scegliendo di schierarsi apertamente contro il regime fascista.

C’è poi La luna e i falò (1950) di Cesare Pavese, in cui i ricordi dell’infanzia si mescolano e quasi coincidono con la dimensione mitica. Dopo un periodo in America il protagonista Anguilla torna a Santo Stefano Belbo ritrovandosi in una campagna che sembra rimasta esclusa dal progresso e dominata dalle spietate leggi della natura. Non è stata la modernità ad alterare il sistema di quella comunità, bensì la guerra, che ha mietuto vittime, lasciando assenze dolorose agli occhi di chi torna. In Libera nos a Malo (1963) di Luigi Meneghello entra in gioco anche la componente linguistica e i reperti di una lingua dimenticata e ritrovata, e a tornare a casa non è solo il protagonista, ma il suo modo di esprimersi. Il dialetto che egli conserva nella propria memoria è quello delle filastrocche della fanciullezza, eppure perfino questo è stato mutato dalla modernità e il suo ritorno, dopo una lunga assenza, vive lo shock nella scoperta che tutto è cambiato, perfino le sue parole. Infine Salvatore Satta, ne Il giorno del giudizio (pubblicato postumo nel 1977), offre uno spunto di riflessione sulla complessa dialettica tra centro e periferia nell’Italia del boom economico. La Sardegna, patria a cui il protagonista fa ritorno, rappresenta la periferia per eccellenza, non soltanto geografica, ma anche economica ed esistenziale. Sembra essere una terra immune dal passaggio del progresso, che non riesce ad insinuarsi nelle antiche norme che la governano.

Il “ritorno alla famiglia” è il grande argomento della terza tipologia, composta da due romanzi al femminile che hanno molti punti di contatto tra di loro: sono Aracoeli (1982) di Elsa Morante e L’Amore molesto (1992) di Elena Ferrante. Nei due testi il pellegrinaggio sentimentale diviene un viaggio sulle tracce della figura materna, con cui i protagonisti, Emanuele e Delia, hanno avuto un rapporto controverso, che ne ha determinato l’insoddisfazione e il disagio per l’esistenza. Il percorso della riscoperta del passato è in questo caso funzionale al recupero delle radici e allo scioglimento di nodi irrisolti nel rapporto familiare: entrambi partono infatti per un viaggio alla

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ricerca delle tracce delle madri morte, che avevano costituito una figura ingombrante durante la loro infanzia. Nel caso di Aracoeli il “pellegrinaggio maniaco” si svolge in Andalusia, mentre per Delia, protagonista del romanzo della Ferrante, esso si trasforma in una vera e propria catabasi nel rione Luzzati di Napoli. Violenza di genere, criminalità e disperazioni si fondono con il suo vissuto personale, fino a condurre Delia alla fine ad una accettazione di se stessa e della propria femminilità; così come Emanuele trova il coraggio di accettare, alla fine del suo percorso, la propria omosessualità.

L’ultima categoria è un caso a sé, composta da un unico testo: I Ricordi d’infanzia (1955) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Si tratta di un “ritorno nella memoria”, in quanto il viaggio che l’autore compie è soltanto mentale e non potrebbe essere altrimenti: la sua dimora è stata distrutta nel bombardamento di Palermo. Nonostante la casa non esista più, essa è conservata intatta nel cuore dell’autore, che la descrive nei minimi dettagli.

Questo testo è quanto mai rappresentativo di una delle caratteristiche fondamentali del topos, ovvero il fatto che il pellegrinaggio sentimentale sia un viaggio che si articola nello spazio, accompagnandosi sempre però anche ad un percorso a ritroso nel tempo, poiché la vera meta quasi sempre si conserva soltanto dentro la propria memoria ed è perduta per sempre, eccetto che nel ricordo. Proprio per questo spesso l’esperienza è frustrante e straniante per i protagonisti, poiché ciò che pensavano di ritrovare identico dopo molti anni non esiste più, o forse non è mai davvero esistito al di fuori dei loro ricordi di bambini. La mente creatrice dell’autore trasfigura tutto dandogli la veste di opera d’arte, trasponendo i suoi ricordi in fiction nel Gattopardo.

Tutti questi elementi costituiscono le varie fenomenologie del topos dando voce alle problematiche dell’uomo contemporaneo, alla continua ricerca di se stesso, che nel ritorno a casa prova a conoscersi meglio, ripartendo dalla propria infanzia, dalla propria memoria, unica certezza che sembra rimasta in un mondo che appare in caotica trasformazione.

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A

LLE ORIGINI DEL TOPOS

Per secoli il concetto di pellegrinaggio è stato legato alla sfera del sacro: si intraprendevano viaggi, da soli o in gruppo, a scopo devozionale, per raggiungere un luogo di culto.

È a partire dall’epoca romantica che questa esperienza passa da un piano religioso ad uno laico, assumendo un valore collettivo, ma più spesso personale.5 Per condurre un’analisi del topos del pellegrinaggio sentimentale è necessario risalire alla sua prima comparsa alla ribalta della storia della letteratura. Francesco Orlando ne stabilisce la nascita all’interno della sua più importante opera6, collocandolo nella letteratura europea post-rivoluzionaria. In questo periodo storico, in cui la sfera della collettività sembra lasciare il posto a quella dell’individualismo borghese, il proprio passato diviene un vero e proprio culto da onorare e meta di pellegrinaggi divengono le spoglie dell’infanzia, della vita trascorsa, di un amore finito. Il vissuto personale assume un alone di sacralità. Orlando infatti inserisce il topos all’interno della categoria del “memore-affettivo”, che compare nel diagramma ad albero delle tipologie delle “corporeità non funzionali”, come conseguenza di un “decorso del tempo” “sentito individualmente” e “presentata con compiacenza”. Il passato infatti è qualcosa di recuperabile solo tramite un’immersione nella memoria, che conduce il protagonista all’amara consapevolezza della perdita, ma allo stesso tempo non può che essere ricordato con una vena di dolcezza, commozione e affetto ciò che è stato e non può più essere.

5 Troviamo la forma “sentimental pilgrims” per la prima volta in “The Monthly Review or Literary Journal” in una traduzione inglese di un passo di Étienne de Jouy, che cita la moda dilagante di condurre pellegrinaggi alla tomba di Rousseau. I. GRASSO, Un topos moderno. Il pellegrinaggio

sentimentale nella poesia europea tra Otto e Novecento, Pacini Editore, Pisa 2013, p. 15.

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La società internazionale di ricerca Sator7 definisce il topos come una “sequenza narrativa ricorrente”; prendendo le mosse da questo assunto teorico, Ida Grasso, all’interno della sua trattazione sul pellegrinaggio sentimentale, lo riassume in questa sequenza:

“Un uomo, solo, torna per libera scelta in un luogo del suo passato che ha per lui un grande valore affettivo (casa d’infanzia, luogo di un vecchio amore) e, traendo ispirazioni dallo stato presente del luogo, fa i conti con il proprio destino.”8

Gli aspetti che si intrecciano tra le trame del pellegrinaggio sentimentale sono di natura diversa: oltre al più evidente culto delle rovine, ampiamente analizzato da Orlando, trova spazio, fino quasi a giocare un ruolo da protagonista all’interno del

topos, il racconto d’infanzia. In effetti proprio nella stessa epoca, si rinnova il

concetto di infanzia e con esso anche quello dell’autobiografia, che, a partire dall’età post-rivoluzionaria, assume la dignità di genere letterario.9 A partire da Rousseau infatti la condizione del bambino, non è più quella di un adulto ancora incompiuto, ma è quella di un essere che, non sapendo ancora pensare, apprende il mondo attraverso le sensazioni, che lo portano ad essere più vicino all’essenza profonda della realtà. Con le Confessions infatti la scrittura del ricordo d’infanzia assume un valore letterario: riscattati dalla condizione di aneddoto funzionale ad una trama, i ricordi della propria fanciullezza acquisiscono interesse di per sé. In questo nuovo panorama, bisogna tenere conto che il ricordo remoto della propria vita infantile non potrà essere ripreso dall’autore così come esso è, ma sarà sempre filtrato e reinterpretato dagli occhi dell’adulto, che nel percorso mnemonico che lo riporta a galla lo colora di una consapevolezza in più, che lo trasforma e lo travisa attraverso una diversa sensibilità.10

7 N. FERRAND, Per una banca dati dei topoi romanzeschi in Il romanzo, Temi, luoghi, eroi, a cura di F. MORETTI, Einaudi, Torino, 2003, pp. 111-127.

8 I. GRASSO, Un topos moderno. Il pellegrinaggio sentimentale nella poesia europea tra Otto e

Novecento, cit., p. 22.

9 F. D’INTINO, L’autobiografia moderna, storia forme problemi, Bulzoni editore, Roma, 2003, pp. 48-54.

10 S. ZATTI, Raccontare la propria infanzia, postfazione a F. ORLANDO, Infanzia, memoria e storia

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È esattamente il processo della memoria che troviamo nei ritorni ai luoghi reliquiari dei pellegrini sentimentali ed è da qui che trae origine la frustrazione, intrinseca al

topos, che caratterizza questa esperienza. Ciò che i protagonisti cercano è la propria

infanzia così come essi la conservano nel ricordo e che è inattingibile attraverso un viaggio spaziale. Essi cercano in un luogo ciò che è perduto nel tempo, o che addirittura non è mai davvero esistito se non nella mente, che lo ha rivisitato e trasformato, arricchendolo di connotazioni positive e piacevoli.

Un altro tema con cui il topos si intreccia intimamente è quello del viaggio. Anch’esso, che dà inizio alla letteratura mondiale, con il nostos omerico, si reinventa nella stagione romantica, nell’epoca del grand tour, che porta gli autori a narrare il viaggio come esperienza intima e personale di crescita11. Il pellegrinaggio sentimentale è un vero e proprio nostos, un percorso a ritroso verso la propria casa o patria, naturale o di cuore. Il sentimento dominante è infatti quello della nostalgia, della mancanza e allo stesso tempo della speranza, vana, di ritrovare immutato ciò che si è lasciato.

Tempo e spazio sono intimamente legati e inscindibili nei testi che vedono la presenza del topos, caratterizzati da quello che Bachtin definisce il “cronotopo” dell’idillio distrutto12, che nasce proprio con Goethe. Ci sono due realtà che si contrappongono: da una parte quella del luogo idilliaco, che è quello del passato, della vita familiare, un luogo protetto, delimitato, in cui il tempo dell’uomo procede di pari passo con quello della natura, e dall’altro lato il mondo dell’individualismo borghese, governato dal progresso e dal capitalismo, dove l’uomo si sente solo, a condurre una vita meccanizzata, “espatriato” dalle proprie radici, a vivere una vita il cui tempo tende al futuro. Questo processo comporta una sempre maggiore idealizzazione del luogo del passato, che viene trasfigurato come un locus amoenus, al di fuori dello spazio e del tempo.

11 P. FASANO, voce “viaggio” in Dizionario dei temi letterari, a cura di R. CESERANI, M. DOMENICHELLI, P. FASANO, UTET, Torino, 2007, vol II, p. 2607.

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Gli archetipi

Ne Gli oggetti desueti Orlando individua i due archetipi del topos del pellegrinaggio sentimentale, che fa la sua prima comparsa tra ‘700 e ‘800 in due testi di fondamentale importanza nel panorama della letteratura romantica europea. Il primo a decidere di deviare il suo cammino per fare visita al paese natio è il protagonista dei Dolori del giovane Werther di Goethe (1774)13, dando inizio alla serie dei viaggi volti al recupero dei ricordi d’infanzia. Il tema letterario si connota poi dell’elemento amoroso con la visita di René (1802)14 al castello, scenario della fanciullezza e dell’amore incestuoso che la sorella nutriva nei suoi confronti.

La visita di Werther al suo villaggio natale viene descritta nel “libro secondo”, nella lettera datata 9 maggio15. Durante il suo viaggio il protagonista, trovandosi non lontano dal proprio paese decide, per una scelta volontaria, di compiere una deviazione al suo percorso, per andare a visitarlo, poiché è intenzionato a risvegliare nel proprio animo i ricordi del passato:

“poiché il mio paese nativo non è che sei miglia fuori strada, voglio pure rivederlo, voglio rievocare quegli antichi, beati giorni di sogno.”

Il tratto di strada che separa il pellegrino dalla propria meta assume un valore fondamentale, Werther sceglie infatti di percorrere a piedi l’ultima parte del percorso, per vivere con maggior intensità i propri sentimenti e immergersi nel passato: “volli assaporare, andando a piedi, ogni singolo ricordo, rinnovato, avvivato, secondo il cuor mio”. Elemento fondamentale, che risalta agli occhi del lettore è il lessico della sfera religiosa, che viene applicato per la prima volta ad una sfera che è tutt’altro che sacra. Il protagonista definisce se stesso un “pellegrino”, che nutre un sentimento di “devozione” e ancora di “sacra commozione”, fino ad arrivare ad affermare: “un pellegrino in Terra Santa non si imbatte in tanti luoghi di religiose memorie”.

13 J.W. GOETHE, I dolori del giovane Werther, Milano, Mondadori, collana I Meridiani, 1980. 14 F.R. DE CHATEAUBRIAND, René, Milano, Garzanti, 2010.

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Ciò che Werther esclama, giunto alle soglie del villaggio è: “Come tutto era diverso!”. Ma osservando meglio, elencando i luoghi di riferimento della propria infanzia, come il tiglio, la montagna, il fiume, prende coscienza che tutto sembra mutato solo ad un primo sguardo, osservando meglio tutto è rimasto identico, l’unico ad essere davvero diverso è proprio lui, che ritorna “con quante speranze fallite, con quanti progetti distrutti!” Ciò che colpisce più di tutto la sensibilità del protagonista è la sostituzione del vecchio con il nuovo. Egli si sente spaesato e addolorato quando si accorge che dove sorgeva la sua vecchia scuola, adesso è stata aperta una bottega: il luogo deputato alla cultura si è trasformato nella sede del nuovo culto borghese della merce. Il mondo dei consumi e del capitalismo si è sostituito a quello del sapere.

Sin da questo primo archetipo, il topos si caratterizza come un’esperienza che non può che essere fallimentare. Insieme al sentimento di affetto e commozione per il passato, esso risveglia nel protagonista anche una profonda delusione e frustrazione, che deriva dalla constatazione che ciò che giace nei recessi della sua memoria, non potrà mai più essere recuperato.

Il ritorno che il protagonista racconta in questa lettera ha come meta i luoghi della propria infanzia, ma non sono i soli che i pellegrini sentimentali vogliono visitare, Werther stesso poche pagine più avanti si reca a vedere il vecchio salice sotto il quale una volta si era riposato con Lotte durante la sosta di una passeggiata estiva. Una delle tipologie del topos, che trova molta fortuna nella letteratura romantica e successiva, è quella che prevede un viaggio verso i luoghi che furono testimoni di una storia d’amore finita, spesso tragicamente. Questo è un tema che ha importanti antecedenti, a partire da Petrarca, con Chiare, fresche et dolci acque, fino ad arrivare a Rousseau con la Nuovelle Héloïse.

La sfera amorosa è la protagonista dell’altro grande archetipo, il René, il cui protagonista rappresenta uno degli eroi romantici meglio riusciti della letteratura. Prima di partire per l’America egli decide di fare una sosta lungo il suo cammino per andare a visitare il castello in cui aveva trascorso l’infanzia e in cui era maturato il sentimento di amore incestuoso della sorella Amalia nei suoi confronti. A differenza di Goethe qui nulla è stato sostituito con il nuovo, ciò che egli trova sono le rovine

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fatiscenti della sua dimora. Il castello è infatti stato venduto dal fratello e non appartiene più alla famiglia. Giunto sulla soglia della dimora egli esita all’ingresso, il passaggio dall’esterno all’interno della casa è quello che genera maggior turbamento nell’animo di René.

La completa defunzionalizzazione del luogo è data dall’incursione degli elementi vegetali16, che crescono e invadono gli spazi, emblemi di uno scorrere del tempo ciclico, che è quello della natura, delle stagioni, che si rigenerano, opposto al tempo lineare della vita umana, che non può in nessun modo ripetere il passato. Così è descritto infatti l’interno del castello:

“mi fermai a guardare le finestre chiuse o mezzo rotte, il cardo che cresceva ai piedi dei muri, le foglie che s’intrecciavano sulla soglia delle porte, e la solitaria scalinata dove così spesso avevo visto mio padre e i suoi fedeli servitori. I giardini erano ormai coperti di muschio; tra le loro pietre disgiunte e pericolanti cresceva la gialla violacciocca.”17

E in effetti l’elemento che interrompe bruscamente la visita alle stanze ormai deserte della casa è la presenza di un ragno, che tesse la sua tela “nei letti abbandonati”. Questa tragica presa di coscienza del tempo della natura, che si è fatto violentemente strada tra le spoglie di quello umano, mette in fuga il protagonista e conclude la sua visita.

Le vicende di René hanno un carattere autobiografico, che spicca in alcune analogie tra il racconto e le Mémoires d’Outre-tombe, la cui stesura iniziò nel 1811 e terminò con la morte dell’autore. In queste pagine troviamo la rievocazione nostalgica dell’infanzia trascorsa nel castello di famiglia di Combourg, che egli va a visitare prima di partire per l’America18; le sensazioni di abbandono e disperazione sono le stesse di René. E ancora all’inizio dell’opera egli rievoca con nostalgia la sua casa natale di Saint-Malo, adesso trasformata in un albergo19. Anche in questo caso, come nel Werther, il mondo borghese dei consumi trionfa su quello degli affetti.

16 F. ORLANDO, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, cit., p. 139.

17 R. DE CHATEUABRIAND, René, cit., p. 113.

18 R. DE CHATEUABRIAND, Memorie d’oltretomba, Einaudi-Gallimard, “Biblioteca della Pléiade”, Torino 1995, p. 112.

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Il topos del pellegrinaggio sentimentale affonda le radici nella tradizione cristiana e ne raccoglie l’eredità, spostandosi ovviamente da un piano religioso ad uno laico, senza perdere però il suo alone di sacralità; si tratta infatti di un’esperienza che riguarda comunque una sorta di religione laica della vita privata. Il più grande elemento di discontinuità tra i due tipi di pellegrinaggi è la contrapposizione tra dimensione comunitaria e individuale delle due esperienze. Il cammino verso un luogo di culto è un’esperienza che si compie nell’ottica di una comunità religiosa, che condivide la sacralità di quel luogo, di quel cammino. Il viaggio del pellegrino sentimentale è individuale, personale e introspettivo.

Nell’epoca storica post-illuministica, segnata da una profonda razionalizzazione laica, la dimensione in cui si colloca colui che compie il suo personale viaggio verso i propri ricordi non è assolutamente quella della collettività, ma anzi di un profondo individualismo borghese, che è elemento fondativo del topos.

Le costanti

Partendo dall’analisi degli archetipi si possono delineare alcune costanti del

topos, che rimangono immutate per tutto il periodo del suo sviluppo.20

Innanzi tutto il pellegrino è solo e compie un viaggio per visitare un luogo in cui è vissuto qualcuno che egli ha amato e che non c’è più, o in cui ha trascorso la propria infanzia, ricordata come una stagione felice della propria esistenza. Il luogo che si torna a visitare è in uno stato di abbandono o disabitato e il protagonista temporeggia sulla soglia, vengono spesso spese alcune parole dell’autore per descrivere i sentimenti del pellegrino nel momento della sospensione tra ricordo e impatto con la realtà del presente.

Una volta entrato in una vecchia dimora, egli si trova combattuto nella constatazione che da una parte tutto è rimasto identico a come era: gli oggetti, i suoni, gli odori

20 I. GRASSO in Un topos moderno. Il pellegrinaggio sentimentale nella poesia europea tra Otto e

Novecento, cit., pp. 32-33 stabilisce un “modello”.

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della casa, tutto appare immutato. Eppure tutto è velato dalla patina del tempo, che rende evidente il trascorrere inesorabile della vita e la perdita definitiva del passato. Il protagonista, all’interno delle stanze, o addirittura sulla tomba della persona amata e perduta, ha di solito un contatto spesso drammatico e tragico con il suo fantasma. L’incedere del tempo è segnato dall’incursione vegetale; si crea infatti una contrapposizione tra il tempo che si svolge all’interno della casa abbandonata, che è quello lineare, della vita dell’uomo, del lento deterioramento delle cose, e quello della natura, che invece si rinnova in un ciclo continuo e che spesso fa violenta incursione all’interno della casa, nelle vesti di un ragno che tesse la tela o di un muschio che si insedia tra le pareti.

Alla fine dell’esperienza il pellegrino è una persona diversa da quella che era partita. La visione dei luoghi del suo passato, la presa di coscienza che ciò che egli stava cercando esiste soltanto nella propria memoria, lo porta a tirare le somme sulla propria vita e lo conduce ad un vero e proprio percorso di formazione.

Questi sono i tratti fondamentali del topos all’altezza cronologica della sua origine, che vanno tenuti presenti nell’analisi diacronica che si vuole condurre. Sulla base di queste costanti infatti lo sfondo culturale e storico del secolo successivo darà origine a significative varianti, che colorano storicamente il topos.

Punto di svolta

Nell’analisi letteraria non si può mai prescindere dalle coordinate storiche e sociali in cui gli autori e i testi si incardinano. Dal modello originario del topos romantico, esso infatti si svilupperà e si trasformerà e, a fianco alle costanti, che ne stabiliscono un’entità riconoscibile per il lettore, nasceranno nuove interessanti varianti. Sono proprio queste a rendere possibile un dialogo tra la produzione letteraria e il mondo circostante. I punti di svolta che la storia dei topoi presenta corrispondono quasi sempre ad una rivoluzione del pensiero o ad un evento storico di grande impatto. Nell’analisi diacronica del pellegrinaggio sentimentale possiamo

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notare come i punti nodali delle sue vicende e fortune corrispondano ad eventi di portata mondiale. Se la nascita coincide con un nuovo concetto di individuo, la sua prima e decisiva svolta, che ne renderà possibile la rinascita nel Novecento, ha a che fare con un vero e radicale ripensamento della coscienza dell’essere umano. All’inizio del secolo scorso la scoperta della psicanalisi e la messa in discussione dei valori, che fino ad allora avevano tenuto in piedi la società, conducono l’artista a perdere la sua aureola.

La trasformazione nasce sul piano della poesia, per passare poi a quello della prosa. Orlando riconosce da Baudelaire in poi una trasformazione del topos, che passa dalla categoria del memore-affettivo a quella del desolato-sconnesso.21 In questo genere di rievocazione mnemonica ciò che si ricorda, che si ritrova nel luogo reliquario non genera alcuna “compiacenza”, ma anzi piuttosto “ripugnanza”: il protagonista si trova a vivere una sorta di incubo. I ricordi sono sensazioni sgradevoli, che anziché dare origine al rimpianto e all’immedesimazione creano un’estraneazione e un disagio profondo nell’animo del pellegrino. Gli scenari descritti divengono quasi apocalittici e gli oggetti un’accozzaglia di detriti in cui l’identità stessa del protagonista anziché ritrovarsi si percepisce come perduta. La cesura tra le due categorie non è netta: il memore-affettivo continua in molti casi ad esistere a fianco del desolato-sconnesso, ma non viceversa:

“Mentre però la prima ebbe origini preromantiche, alle soglie delle svolta storica, la seconda mi sembra scarsamente attestabile prima di Baudelaire”.22

Il disagio e il dolore suscitato dalla visita delle proprie reliquie è una novità di fine secolo. Lo Spleen LXXVI, “J’ai plus de souvenirs que si j’avais mille ans”23, può essere considerato l’esempio più rappresentativo della nuova sensibilità: il testo di Baudelaire rappresenta infatti l’io dell’autore come un deserto costruito da oggetti inutili, fatiscenti e in rovina.

21 F. ORLANDO, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, cit., p. 150. 22 ibidem.

23 C. BAUDELAIRE, Les fleurs du mal, Oeuvres, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1951, pp. 143-144.

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Poiché l’elemento cardine del pellegrinaggio sentimentale è la memoria, è impossibile prescindere dalla Recherche di Proust e dal modo in cui quest’opera rivoluziona il concetto di tempo, di ricordo e di coscienza dell’individuo.

Nella Recherche il ricordo del passato assume il valore di forza creatrice, memoria e fantasia si avvicinano e i piani temporali si confondono. I ricordi divengono in queste pagine la macchina creatrice che plasma il presente e il futuro e la visita alle reliquie perde qualsiasi valore, anzi travisa l’intima essenza della memoria.

I momenti del passato e dell’infanzia, vengono di continuo evocati nell’opera, ma trasfigurati nell’effetto che suscitano sull’io del presente.24

Il ritorno ai luoghi del passato e la constatazione che le cose sono cambiate è un’esperienza conturbante e più che mai dolorosa. All’interno del meccanismo del pensiero il passato può infrangere le logiche del tempo e può conservarsi nella sua pienezza, con le stesse sensazioni tenute in vita e trasformate dall’azione della mente, ma quando il soggetto si trova di fronte alla realtà dei fatti, allora il proprio passato si rivela come perduto per sempre e ormai irrecuperabile.

Nella Recherche infatti il narratore si rende davvero conto e comincia a soffrire per la morte della nonna, avvenuta da tempo, solo quando ritorna a Balbec.25 Uscendo dalla sfera della memoria e del pensiero la realtà sembra quasi svuotarsi di senso, uscire dal soggetto, in quei momenti che egli chiama “turbamenti della memoria”. Visitare i luoghi del passato porta il soggetto a constatare un’assenza, non solo quella delle persone care, ma di se stesso, poiché l’io di allora non esiste più.

L’unico tipo di memoria possibile, nel romanzo, è quella involontaria, quella che risiede nell’universo circostante e che coglie alla sprovvista.

L’altra rivoluzione che stravolge il romanzo contemporaneo parte da Dublino: con Joyce infatti l’epifania diviene uno degli elementi costitutivi della narrazione, che è poi affine alle “intermittenze del cuore” proustiane.26

24 J.Y. TADIÉ, Proust et le roman, Gallimard, Paris ,1971, cap. Le temps, pp. 293-320.

25 F. SERGIO, Memoria e pensiero nella ricerca di Proust, Cappelli, Bolonga, 1977, pp. 19-41. 26 G. DEBENEDETTI, Il romanzo del Novecento, Garzanti, Milano, 1992, pp. 285-295.

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Il pellegrinaggio sentimentale dopo la sua nascita preromantica e il suo sviluppo nella letteratura europea del XIX secolo fa la sua comparsa in testi come la

Certosa di Parma, la Fiera delle Vanità, ma anche nell’episodio della vigna di

Renzo, nei Promessi Sposi, fino a conoscere una fase di stasi. La sua fortuna si riaccende proprio all’inizio del secolo scorso, in un panorama letterario che tiene conto delle rivoluzioni di inconscio e memoria. Proprio nella fase storica in cui l’identità e il passato personale sembrano qualcosa di inattingibile, risorge alla ribalta della letteratura il tema del ritorno a casa, della riscoperta del proprio vissuto che si trasforma in una ricerca delle radici.

Nella letteratura italiana del Novecento sono molte le espressioni del topos, che conosce grande fortuna, arricchendosi di nuovi elementi. Alle costanti originali, tenuto conto dei punti di svolta letterari, si affiancano varianti che caratterizzano i testi e li calano nella realtà storico-culturale circostante, che è quella dell’Italia che si trova ad affrontare un secolo come il XX, così ricco di eventi perturbanti e di radicali trasformazioni.

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T

IPOLOGIE DI PELLEGRINAGGI

Stabilite le costanti del topos a partire dagli archetipi e le trasformazioni alle soglie del nuovo secolo, si può procedere con un’analisi della sua riscoperta in alcuni testi della narrativa italiana del Novecento. Oltre alle coordinate geografiche e storiche, ciò che si rinnova è innanzi tutto il ruolo che l’esperienza del pellegrinaggio gioca all’interno della trama: essa infatti svolge un ruolo da protagonista. Per la maggior parte dei testi analizzati il topos attraversa l’intera trama della vicenda ed è il punto di svolta, che trasforma la vita del protagonista, che lo porta ad uno scioglimento, non necessariamente positivo, ma comunque risolutivo di un’impasse che egli deve in qualche modo superare.

Le costanti ottocentesche restano invariate nella sostanza, ma ad esse si aggiungono nuove caratteristiche, che si trasformano in modo diacronico, si sviluppano con lo scorrere delle vicende storico-culturali della nostra nazione. Oltre che un criterio meramente temporale, occorre procedere alla creazione di alcune categorie, che rendano possibile l’individuazione delle varianti del topos.

Gli elementi di cui tenere conto possono essere riassunti in questi punti:

1. l’identità del personaggio: in alcuni testi viene riscoperta, in altri invece definitivamente perduta, in altri addirittura non è mai esistita

2. l’infanzia: può essere per i protagonisti un idillio o un ricordo traumatico, ma è comunque sempre presente nell’esperienza del ritorno

3. l’ingresso della Storia all’interno delle trame: è presente o meno in base anche allo sfondo storico in cui si collocano i testi

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5. l’esito del viaggio: sebbene, come fissato in precedenza, la conclusione del pellegrinaggio non possa mai essere del tutto positiva, in quanto è un’esperienza intrinsecamente frustrante, esso comunque conduce il protagonista ad una presa di coscienza, che può essere più o meno positiva

6. individualità o collettività dell’esperienza

L’altro criterio di analisi dei testi è quello cronologico, in quanto le varianti si possono raggruppare in tre gruppi che corrispondono a tre momenti nodali della nostra storia. Il primo nucleo è quello di testi usciti a cavallo del primo conflitto mondiale, del secondo invece fanno parte testi che si collocano prima o dopo la seconda guerra mondiale. La terza categoria comprende testi meno omogenei, in cui due su tre si collocano tra gli anni ’80 e ‘00.

Vi è infine un testo che è un caso limite del topos, si tratta dei Ricordi di infanzia (1955) di Tomasi di Lampedusa, pellegrinaggio che non può che svolgersi nel piano della memoria, in quanto la casa dell’infanzia è stata distrutta dai bombardamenti bellici.

Variando le proprie caratteristiche e fondendosi con molti altri grandi temi, il topos attraversa dunque tutta la narrativa italiana dal Novecento, fino a quella più contemporanea, divenendo portatore di nuove istanze e disagi della contemporaneità.

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L’

ANTI

-

RITORNO

La prima tipologia di testi comprende un romanzo e un racconto, collocati nei primi decenni del secolo scorso: stiamo parlando de Il fu Mattia Pascal, capolavoro di Pirandello, pubblicato nel 1904, e La casa venduta di Tozzi, novella uscita postuma nel 1920. L’impatto dei protagonisti con il ritorno alla propria casa diviene qui il veicolo della rappresentazione di una profonda crisi del soggetto, che è in effetti il sentimento che caratterizza molti protagonisti italiani, e non solo, dei romanzi primonovecenteschi.27 Il pellegrino sentimentale diviene un perfetto inetto, che prova a riscattare la dignità di uomo tentando di reimmergersi nel proprio passato, che non fa che ribadire la sua fallimentare condizione.

1. Senza identità

La grande novità di questa tipologia risiede nella perdita totale dell’identità da parte dei protagonisti. Il pellegrinaggio sentimentale diviene un percorso che conduce il personaggio a immergersi sempre più nella consapevolezza di aver per sempre smarrito se stesso. L’identità è di centrale importanza in questi testi ed è qualcosa di fuggevole, che non può essere definita, se non nel suo annullamento e non può essere in nessun modo ritrovata, nemmeno con un viaggio a ritroso.

Ci troviamo di fronte ad una variante che sconvolge il topos sino a farne quasi una tragicomica parodia, quello che si potrebbe definire, utilizzando una categoria di Genette, un vero e proprio “antiromanzo”.28

Quello che si trova a vivere Mattia Pascal è un romanzo di formazione alla rovescia: se infatti il modello originale del genere mira alla costruzione dell’io, racconta di una

27G. DEBENEDETTI, ne Il personaggio uomo, Il Saggiatore, Milano, 2017 riflette sulla crisi del

personaggio novecentesco.

28 G. GENETTE, in Palinsesti, Einaudi, Torino, 1997, propone Don Chisciotte come archetipo di questa categoria, che si avvicina a quella della parodia, dialogando però in maniera più seria e tragica con l’ipotesto.

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rottura che conduce però il protagonista ad una nuova genesi, nel romanzo di Pirandello niente viene ricostruito. Il romanzo di formazione è il genere della modernità, che vede la sua nascita proprio con Goethe29 e che nell’epoca contemporanea entra in crisi. Mattia Pascal o Torquato non sono giovani, come tutti i tradizionali protagonisti, e non giungono a nessuna consapevolezza se non quella della totale mancanza di sé.

I protagonisti sono degli inetti, carattere che è d’altronde il più evidente nel personaggio romanzesco europeo contemporaneo.30 Si tratta di un uomo che, incapace di vivere la propria vita, cerca piuttosto di evadere da essa, inadatto all’azione e destinato alla sconfitta.

Mattia Pascal è un uomo che non riesce a trovare il proprio posto nella dimensione familiare e, incapace di scegliere per sé una strada diversa, preferisce rinunciare alla vita, simulando con la sua scomparsa la propria morte. La finzione si trasforma però in realtà: Mattia, nei panni di Adriano Meis, diventa un morto che vive; è morto perché ha smarrito la propria identità e, una volta perdute le sue radici e il proprio passato, l’esistenza si spoglia per lui di significato.31

Perfetto inetto è anche Torquato, protagonista de La casa venduta. La novella fa parte della raccolta Giovani; il titolo è espressione di una precisa scelta dell’autore, che vede la giovinezza come una malattia inguaribile, che affligge tutti i protagonisti della raccolta; come il periodo dell’adolescenza è caratterizzato da instabilità e mancanza di equilibrio, che comportano passaggi repentini di sensazioni sempre esasperate, così è il temperamento di molti dei personaggi tozziani. Questo stato li condanna ad essere sempre sospesi tra sentimenti estremi, senza mai poter trovare il compromesso di un equilibrio e di una serenità. Consumano dunque le proprie vicende senza mai uscire dall’inettitudine, che li porta a rifiutare qualsiasi tipo di azione e a rinunciare a qualsiasi speranza, ad essere dei perenni perdenti sulla scena

29 F. MORETTI, Il romanzo di formazione, Garzanti, Milano, 1986 cap. “Il Bildungsroman” come forma simbolica, pp. 9-26.

30 G. DEBENEDETTI, Il personaggio uomo, cit.

31 G. MAZZACURATI, nell’introduzione al volume L. PIRANDELLO, Il fu Mattia Pascal, Einaudi, Torino, 2014, parla a proposito della vicenda biografica di Mattia Pascal di “vite senza radici”.

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della vita, che non fa che escluderli, rendendoli sempre più consapevoli della propria inadeguatezza.32

Nella novella si sfiora quasi il paradosso in quanto, ad una totale depersonalizzazione del personaggio, si accompagna un’acquisizione di identità da parte della casa di Torquato, vera protagonista della vicenda. Essa non è solo un luogo a cui fare ritorno, ma diviene un prolungamento e un doppio dell’io, ed è la casa ad assumere su di sé i tratti della condizione esistenziale e psicologica del suo proprietario: spogliata di ogni funzione e valore, disprezzata e infine venduta.

Per Torquato il passaggio nelle antiche stanze è finalizzato a distruggere, a cancellare e svalutare il proprio passato, e con lui la propria identità, che si sovrappone e si confonde con quella della casa.33

2. L’infanzia familiare

Per i protagonisti di questi testi l’infanzia è l’unico periodo lieto della vita ed è ormai irrecuperabile.

La mancanza della casa per Mattia Pascal corrisponde ad una perdita del proprio essere, non solo nel presente, ma anche nel passato. Ciò che manca al protagonista è quella che Pirandello definisce l’ “intimità della casa”, il suo dramma consiste però anche nella constatazione che di fatto quell’intimità, quel sentimento di raccoglimento e serenità domestica non gli è mai appartenuta, se non nei remoti giorni di un’infanzia trascorsa nella casa paterna, unico luogo riconosciuto come vera “casa”:

“l’intimità della casa. Non avevo certo da rimpiangere quella di casa mia. L’altra, la più antica, della casa paterna, l’unica che io potessi ricordare con rimpianto, era già distrutta da un pezzo, e non da quel mio nuovo stato.”34

32 R. LUPERINI, Federigo Tozzi, le immagini, le idee, le opere, Editori Laterza, Bari, 1995 p. 216.

33 “Ed io guardavo, forse per l’ultima volta, le pareti della mia casa. Poi, non guardavo nemmeno più: entravo ed escivo come se non sapessi quello che facevo e perché mi trovavo lì.” TOZZI, La casa

venduta in Giovani, in Opere. Romanzi, prose, novelle, saggi, I Meridiani Mondadori, Milano, 1987,

p. 799.

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La casa paterna è perduta per sempre, è irrecuperabile poiché appartiene alla dimensione dell’infanzia, ricordata come un’età dell’oro, un’età felice, che nessun viaggio potrà riportare indietro. È se stesso bambino che il protagonista vorrebbe invano ritrovare, un se stesso che è una proiezione dei suoi sbiaditi ricordi. Parlando sempre del padre egli racconta:

“Ho detto troppo presto, in principio, che ho conosciuto mio padre. Non l’ho conosciuto. Avevo quattr’anni e mezzo quand’egli morì.”35

L’unico legame paterno che rimane a Mattia, passa proprio attraverso la casa, da quelle stanze in cui sua madre, vedova, decise di confinare la propria esistenza:

“Spirava, in quelle stanze, da tutti i mobili d’antica foggia, dalle tende scolorite, quel tanfo speciale delle cose antiche, quasi il respiro d’un altro tempo; e ricordo che più di una volta io mi guardai attorno con una strana costernazione che mi veniva dalla immobilità silenziosa di quei vecchi oggetti da tanti anni lì senz’uso, senza vita.”36

Quello che per molti pellegrini sentimentali era il primo passo di riconoscimento di un legame, di un’identità, ovvero la casa, e la visita di essa, risulta invece impossibile e inattingibile per il protagonista del romanzo pirandelliano. Anche in questo caso risulta rovesciato uno dei fondamenti del topos, ovvero la visita della vecchia dimora che, se nel caso di Tozzi è funzionale alla sua svendita, in quello pirandelliano è invece impossibile.

Per i due protagonisti l’infanzia è legata al rapporto con il padre. Quando gli aguzzini di Torquato distruggono con disprezzo le fotografie di famiglia si raggiunge l’apice massimo della crudeltà e dell’umiliazione, eppure egli, non avendo la forza di ribellarsi, segnala loro di gettare per terra l’unica cornice rimasta ancora integra: quella del padre. La distruzione dell’infanzia e del rapporto con il padre rappresenta infatti l’estrema resa del protagonista, che vuole perdere insieme alla casa i ricordi. Mattia Pascal riesce forse a recuperare per un solo istante la sensibilità della propria infanzia, quando torna a casa, nella conclusione del romanzo, e abbraccia il fratello,

35 ivi, p. 12. 36 ivi, p. 15.

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svelando la sua vera identità: “E m’abbracciò forte, forte, forte. Mi misi a piangere come un bambino”.

3. Uno sguardo strabico sul mondo

Meritevole di interesse, per comprendere a fondo la trasformazione del topos è il tipo di sguardo che i protagonisti hanno sul mondo e in particolare sulla propria vita. Gli autori adottano infatti un “procedimento di straniamento”37 per descrivere uno sguardo alienato, tipico dell’inetto che si guarda vivere dall’esterno, come un semplice spettatore e vede il mondo come una continua minaccia. La Storia infatti non entra nelle trame di questi testi, se non di sfuggita, mediata attraverso uno sguardo straniato, che trasfigura il mondo circostante.

Il segno particolare di Mattia Pascal è l’occhio strabico, che “guarda altrove”. Egli infatti nei panni di Adriano Meis decide di farsi operare per cercare di cancellare ciò che potrebbe renderlo riconoscibile, ma l’intervento non lo soddisfa in quanto l’occhio ne appare comunque deformato. Non è certo casuale questa patologia della vista che colpisce il protagonista pirandelliano: l’occhio strabico produce infatti uno sguardo che non è in grado di mettere a fuoco il mondo circostante, ma che piuttosto lo destruttura. È il punto di vista frammentato dell’uomo dell’inizio del secolo, che scompone la realtà, lo stesso del movimento cubista di Picasso o della musica dodecafonica di Stravinskij. L’occhio di Mattia Pascal è emblema del suo io, diviso in tante piccole parti, impossibile da racchiudere in un’unità e di conseguenza costretto ad essere nessuno.

Questi sono gli occhi con cui Mattia Pascal guarda anche al mondo circostante, che gli appare depersonalizzato e minaccioso: è il progresso che avanza portando all’alienazione e alla solitudine l’essere umano. Emblema di questa inesorabile modernità è proprio la città di Milano con cui Adriano Meis ha modo di confrontarsi, e che gli suscita interrogativi e riflessioni. Proprio tra le frenetiche vie di Milano il protagonista si rende conto di essere uno “spettatore estraneo” della propria vita, sente di essere “sperduto tra quel rimescolio di gente” che è la metropoli, che nega

37 si fa riferimento alla definizione di V. ŠKLOVSKIJ, Teoria della prosa, Einaudi, Torino, 1976.

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all’individuo la possibilità di conoscere davvero se stesso, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo.38

“E intanto il frastuono, il fermento continuo della città m’intronavano.

«Oh perché gli uomini», domandavo a me stesso, smaniosamente «si affannano così a rendere man mano più complicato il congegno della loro vita? Perché tutto questo stordimento di macchine? E che farà l’uomo quando le macchine faranno tutto? Si accorgerà allora che il così detto progresso non ha nulla a che fare con la felicità?»”39

Se dunque, nella visione pessimistica del romanzo, il passato è il luogo del fallimento per eccellenza, il presente della frustrazione, il futuro è invece una minaccia, che comporta alienazione e infelicità per l’essere umano.

Traspira da queste pagine l’epopea del nuovo individuo piccolo borghese, che si fa largo nella nuova società capitalista.40 L’impatto traumatico che la modernità e il progresso esercitano sull’individuo e in particolare sull’intellettuale, trova la propria incarnazione in Serafino Gubbio, ridotto ad essere un servo delle macchine, che nella società meccanizzata non ha più modo di esprimere se stesso, le proprie qualità e competenze: si riduce ad un mero esecutore di ciò che la macchina da presa gli impone.41 Egli diventa l’incarnazione di un altro modo di guardare alla vita, da spettatore anziché da protagonista.42

Anche Torquato osserva la propria vita dalla porta socchiusa di un’altra stanza e quando i compratori bussano si sofferma ad ascoltare le loro voci che chiedono di lui, da dentro la sua camera.

La propria stanza, racchiusa e sicura, da rifugio diventa, per i personaggi tozziani, una prigione che li allontana dalla vita e da se stessi, fino a ridurli ad ombre prive di sentimenti e di razionalità.

38 Il protagonista sperimenta la stessa esperienza cittadina dell’anonimato e dell’alienazione che il poeta Baudelaire racconta in “À une passante”.

39 L. PIRANDELLO, Il fu Mattia Pascal, cit., p 124.

40 G. MAZZACURATI, “Il fu Mattia Pascal”: l’eclissi del tempo e l’interdizione del romanzo, in Il

“romanzo” di Pirandello, a cura di E. LAURETTA, Palumbo, Palermo, 1976, pp. 49-76.

41 Serafino Gubbio, protagonista di Quaderni di Serafino Gubbio operatore (1925) potrebbe essere dunque considerato l’ultima reincarnazione di Mattia Pascal: egli è l’intellettuale che rinuncia a svolgere la propria funzione propositiva per la società, e si degrada ad una mansione meramente tecnica.

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D’altra parte anche la visione della società che emerge dall’opera in particolare del secondo Tozzi è abbastanza pessimistica, priva di futuro e dominata da un senso di sfrenato individualismo.

4. alter ego? il caso di Leopoldo

Come definito nel diagramma esemplificativo, nella tipologia dell’anti-ritorno l’autobiografia rimane fuori dalle trame dei testi. Eppure il protagonista de La casa

venduta può essere accostato a Leopoldo, altro personaggio tozziano, colui che tiene

il diario autobiografico di cui si compongono i Ricordi di un impiegato43. Assume su di sé alcuni tratti che lo avvicinano ad essere un alter ego dell’autore, e anche egli, in una parte del romanzo si trova ad essere pellegrino sentimentale. Lasciata la natale Firenze e con essa la sua famiglia e Attilia, la donna di cui è innamorato, si trasferisce per lavoro a Pontedera e soltanto alla fine del romanzo farà ritorno nella sua città per non lasciarla mai più, nella concomitante occasione della nascita di una sorella e della morte dell’amata. Lo scopo del travagliato ritorno è infatti quello di arrivare in tempo per darle un ultimo saluto, ma viene disatteso, poiché quando giunge nella sua città Attilia è già morta. Anche quello di Leopoldo potrebbe essere ascritto tra i fallimentari ritorni di inizio secolo; in questo testo l’autore sperimenta il genere del diario, in cui risultano infranti i tradizionali reticoli temporali del racconto e la visione che emerge è quella di una realtà frantumata, impossibile da ridurre ad una unità.44 Il diario rappresenta lo specchio, entro cui il protagonista tenta, con esito fallimentare, di riconoscere la propria identità, proprio come Mattia Pascal.

43 Tozzi rielabora il romanzo nel 1919, in concomitanza con la preparazione della raccolta di novelle

Giovani, a seguito di una prima stesura, con un’impostazione autobiografica del 1910-11; modifica il

testo fornendogli una struttura romanzesca, seppure ancora in forma diaristica. Il romanzo viene poi pubblicato postumo a cura di Borgese, che elimina l’aggettivo “giovane” dal titolo originale: Ricordi

di un giovane impiegato, aggettivo che aveva probabilmente a che fare con una precisa concezione

dell’indole del personaggio protagonista.

44 A. M. CAVALLI PASINI, Lo specchio della scrittura nei “Ricordi di un impiegato” di Federigo

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5. Esito tragico

Mattia Pascal, dopo aver simulato la propria morte, aver tentato di ricostruirsi una nuova identità nel personaggio di Adriano Meis, si accorge che tutti i suoi tentativi di reinventarsi sono stati vani e decide così di fare ritorno a Miragno, la propria città. A bordo del treno che lo conduce a casa egli chiede a se stesso: “Come mi ero illuso che potesse vivere un tronco reciso dalle sue radici?”. Per la durata di tutto il viaggio si affollano nella mente del protagonista dubbi, perplessità e rimpianti. Prima di giungere a destinazione egli decide di fare una pausa lungo il percorso, a Pisa: questa sosta costituisce una sorta di parentesi tra le due identità, un momento di passaggio in cui il personaggio si spoglia di tutte le maschere che ha fino a quel momento rivestito e si riduce ad essere un fantasma, un’ombra:

“mi toccava rimanere in una bella condizione, dentro a una specie di parentesi di due, di tre giorni e fors’anche più: morto di là, a Miragno, come Mattia Pascal; morto di qua, a Roma, come Adriano Meis.”45

Questa è la condizione che riassume tutto il percorso del protagonista, il cui esito non può che essere fallimentare, in quanto l’identità che egli cerca non è mai esistita. Giunto infatti nella sua vecchia casa, egli si accorge che non solo i luoghi sono cambiati, come nel Werther, ma questa volta è stato lui ad essere letteralmente rimpiazzato. Sua moglie ha sposato un altro uomo, per lui non è rimasto più nessuno spazio, nella casa e negli affetti dei suoi cari, nessuno aspettava il suo ritorno e anzi la notizia del suo arrivo genera più sconforto che stupore. Di identica tragicità è la conclusione della novella tozziana:

“Per la sera non avevo né da mangiare né da dormire; e mi sentivo affranto. Ma facevo di tutto per resistere. Quando fu buio cominciò a piovere dirottamente. Io, allora, andai a ripararmi sotto le grondaie della mia casa venduta.”46

C’è in queste parole una contraddizione: la casa assume su di sé allo stesso tempo gli aggettivi “venduta” e “mia”. Ma se la casa aveva acquisito i tratti dell’identità del

45 L. PIRANDELLO, Il fu Mattia Pascal, cit., p. 253.

46 TOZZI, La casa venduta in Opere, cit., p. 806.

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personaggio, svenderla equivale a perdere per sempre ogni legame con le proprie radici e dunque a perdere per sempre l’identità.

6. Solitudine

Torquato e Mattia Pascal sono soli. Tutto il loro percorso è profondamente individuale e si svolge in solitudine. Il loro isolamento dal mondo, dalla storia, dagli altri, è come una prigione, che Pirandello chiama “cappa di piombo”, che li separa da tutto.

I personaggi tozziani non riescono a vivere nel tempo della realtà, quello della società che li circonda, che essi vedono sempre come una minaccia, e dalla quale si escludono da soli.

Vivono in una dimensione temporale del tutto interiorizzata, nella quale il tempo, entità caotica, si manifesta loro attraverso il procedimento del flusso di coscienza, che Tozzi deriva dall’influsso delle teorie psicologiche di James47. Gli stati d’animo si sovrappongono e si alternano in modo del tutto irrazionale nell’intimo dei personaggi, in cui passato e presente si sovrappongono e si confondono, inibendo una visione chiara di se stessi, della propria esistenza e del mondo che li circonda. La visione che ne emerge è deformante e soggettiva, poiché il punto di vista non è mai esterno, ma sempre interiore, dunque mai oggettivo o razionale. Protagonisti più che le azioni e la trama sono i pensieri, nel loro scorrere, mentre la realtà appare come qualcosa di misterioso e imperscrutabile.48

Espressione di questa inquietante solitudine sono le strade deserte e i lampioni spenti con cui Miragno accoglie Mattia Pascal. Egli percorre le vie del suo antico “paesello” immerso nell’indifferenza generale, senza che nessuno lo riconosca:

47 M. MARTINI, Tozzi e James, letteratura e psicologia, Leo S. Olschki, Firenze, 1999.

48 Tozzi, nell’articolo Come leggo io, pubblicato postumo nel 1919, illustra il suo punto di vista sul mestiere del romanziere: egli rivela di non essere interessato, nel comporre la trama delle proprie opere, ad inserirvi eventi clamorosi, come omicidi o suicidi, vuole piuttosto descrivere “un qualsiasi misterioso atto nostro”: il valore di un’opera non sarà dato dunque dalla complessità dell’intreccio, bensì dalla capacità di resa dei movimenti dell’animo dei personaggi. F. TOZZI, Come leggo io in

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“Sceso giù in istrada, mi trovai ancora una volta sperduto, pur qui, nel mio stesso paesello nativo: solo, senza casa, senza meta. […] Nessuno mi riconosceva perché nessuno pensava più di me. […] Nel disinganno profondo, provai un avvilimento, un dispetto, un’amarezza che non saprei ridire. […] Nessuno, nessuno si ricordava più di me , come se non fossi mai esistito…Due volte percorsi da un capo all’altro il paese, senza che nessuno mi fermasse.”49

Il silenzio degli abitanti di Miragno e la loro indifferenza di fronte all’inaspettato ritorno del protagonista sanciscono la sua definitiva sconfitta, la perdita anche di quella che all’inizio del lungo soliloquio che compone il romanzo era stata fissata come sua unica certezza: “una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal”. Assistiamo al crollo del fondamento della coscienza del protagonista e della narrazione.

UN PELLEGRINAGGIO UMORISTICO: IL CASO DE IL FU MATTIA PASCAL

Tra le mete del protagonista del pellegrinaggio sentimentale vi è sempre il cimitero del proprio paese, ove egli va per visitare i propri cari defunti. In questo scenario capita spesso che dialoghi con il fantasma di uno di essi, creando una connessione, un legame con il mondo dei morti, che rappresenta le radici, il fondamento del presente e della propria identità.

Novità assoluta è proprio il caso di Mattia Pascal che, una volta tornato a casa, si ritrova a rendere omaggio a una lapide tombale, ma questa volta non è quella di un parente o di un’amata, bensì la sua.

Ma il percorso di consapevolezza del protagonista comincia ben prima, con il viaggio di ritorno verso la propria terra, in cui viene posto un particolare accento sui sentimenti che gli sconvolgono l’animo.

Dopo la parentesi pisana, durante la quale addirittura egli si trova a vivere uno sdoppiamento, che è la somma di due morti, inizia per il personaggio il vero viaggio di ritorno, colorato da sentimenti e da emozioni contrastanti che si muovono nel suo animo, combattuto tra l’euforia e la paura.

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