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Pietro Andrea de'Bassi, Iacopo Caviceo, Giovanni Filoteo Achillini: la narrativa romanzesca colta di fine Quattrocento

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Filologia, letteratura e linguistica Dottorato in Studi italianistici

Tesi di dottorato di ricerca

Pietro Andrea De’ Bassi, Iacopo Caviceo, Giovanni Filoteo Achillini: la narrativa romanzesca cólta di fine Quattrocento.

Tutor Cand idata prof. Giorgio Masi Al essia Terrusi

Coordinatore

prof.ssa Maria Cristina Cabani

Anno accademico 2017/2018 Ciclo di dottorato XXXI

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Indice

INTRODUZIONE

I romanzi cólti fra Quattro e Cinquecento...p.4 La riscoperta del mito tra Umanesimo e Rinascimento...p.12 Criteri e metodi di analisi...p.14

1. PIETRO ANDREA DE’ BASSI E LE FATICHE DI HERCULE

1.1. Le Fatiche di Hercule: un protoromanzo celebrativo della corte estense quattrocentesca...p.16 1.2. Fonti e modelli dell'opera...p.22 1.3. La lingua delle Fatiche...p.32 1.4. Testimoni dell'opera...p.34 1.5. Scioglimento delle abbreviazioni, punteggiatura e altre modifiche...p.35 1.6. Trascrizione e commento delle Fatiche di Hercule...p.36

2. UN TENTATIVO DI PROSA NARRATIVA IN LATINO: LA LUPA DI JACOPO CAVICEO

2.1. I Rossi di Parma tra Quattrocento e Cinquecento...p.298 2.2. Jacopo Caviceo: la vita e i rapporti con la famiglia Rossi...p.301 2.3. La Lupa: un romanzo in latino?...p.305 2.4. L’autore, le visioni, i modelli: dalla Lupa al Peregrino...p.314 2.5. Il ritorno al latino: il Confessionale utilissimum...p.319 2.6. Altri due dialoghi in latino: il De exilio Cupidinis e il Dialogus de moribus nostrae aetatis...p.321 2.7. La Lupa: testo e commento...p.323 2.8. La Lupa: traduzione...p.379

3. L'HYPNEROTOMACHIA POLIPHILI: IL ROMANZO ERUDITO E LA LINGUA CORTIGIANA TRA QUATTROCENTO E CINQUECENTO

3.1. La lingua e le lingue del Polifilo...p.400 3.1.1. Il greco...p.401 3.1.2. Il latino...p.402 3.1.3. Il volgare...p.409

(3)

3.2. Cenni biografici su Francesco Colonna...p.411

4. IL FIDELE DI GIOVANNI FILOTEO ACHILLINI

4.1. Bologna tra Umanesimo e Rinascimento...p.414 4.2. Giovanni Filoteo Achillini: cenni biografici...p.416 4.3. Il Fidele...p.419 4.4. La visione e la narrazione: il rapporto con l’Hypnerotomachia Poliphili...p.422 4.5. Sulla possibilità di considerare il Fidele un romanzo...p.433 4.6. Il mito nel Fidele: una pausa narrativa “sol per spasso darve”...p.437 4.7. La struttura del Fidele. Testo e commento di alcuni canti scelti...p.440 Primo libro (canti 1, 3, 10)...p.442 Secondo libro (canti 15, 16, 17, 18, 19)...p.486 Terzo libro (canti 18, 19)...p.541 Quarto libro (canto 11)...p.573 Quinto libro (canto 5)...p.588

Appendice...p.599 Bibliografia...p.631

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Introduzione

I romanzi cólti fra Quattro e Cinquecento

Nella letteratura italiana si tende a considerare il Quattrocento come un’età di passaggio tra l’eccezionalità del Trecento segnato dalle tre corone e la raffinatissima eleganza del Rinascimento. La stessa dicitura “umanesimo” porta con sé le apparenti contraddizioni di una letteratura che quasi non è creazione originale, bensì ripresa e studio indefesso dei classici. A questo si affianca quella che Marazzini chiama “la crisi del volgare”1, dovuta alla “fondamentale estraneità dell’umanesimo, in quanto diffuso in tutti i centri italiani che non siano Firenze, alla tematica del volgare come lingua letteraria”2

. Gli umanisti, insomma, a parte i fiorentini, eredi di Dante, Petrarca e Boccaccio, rifiutavano il volgare relegandolo alla dimensione della scrittura familiare e mercantile, non degna di essere letteratura. Uno dei più vivaci umanisti del Quattrocento, Coluccio Salutati, nel Dialogus ad Petrum Paulum arrivava a rammaricarsi del fatto che Dante non avesse scelto il latino per scrivere la Divina Commedia. A parte sporadiche aperture provenienti da personalità di fatto già considerabili rinascimentali, come Leonardo Bruni e Leon Battista Alberti, il disprezzo del volgare era dunque “umanisticamente normale”3

. A questo si abbinava la considerazione granitica del latino come lingua della letteratura e dell’arte, immutabile e perfetta. Anche le prime discussioni e contaminazioni tra latino e volgare nacquero non già da un atteggiamento di fiducia nei confronti della nuova lingua, ma piuttosto dall’interesse antiquario rivolto alla caduta dell’impero romano e al passaggio dall’età classica all’epoca medievale. Tuttavia, pur in un contesto del genere, lontano dalla Toscana dei Medici e del Poliziano (e già del Boccaccio) e al di qua degli esperimenti parodici del maccheronico folenghiano, cominciò a svilupparsi una narrativa in prosa, volgare e latina, come vedremo, dai risvolti non trascurabili.

Lo status quaestionis sulla “prosa narrativa non toscana”4 è, in realtà, particolarmente povero di contributi critici. Riguardo l’atteggiamento, in generale, degli umanisti nei confronti del volgare, come sottolineava Dionisotti “a Venezia la svolta decisiva nella storia dei rapporti fra lettere latine e volgari fu segata nel 1501 e 1502 dalle edizioni aldine del Petrarca e di Dante curate dal Bembo”5 e, prima di queste date, lo studioso si

1

C. Marazzini, La lingua italiana. Profilo storico, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 231. 2

M. Tavoni, Il Quattrocento, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 79 3

C. Dionisotti, Gli umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze, Le Monnier, 1968, p. 46 4

C. Marazzini, La lingua italiana..., cit., p. 255. 5

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limita a citare l’edizione manuziana dell’Hypnerotomachia Poliphili. Tateo a riguardo è chiaro: “I testi di narrativa in prosa sono molto rari nell’Italia settentrionale per tutto il Quattrocento: è questo un dato ovvio, direi scontato, essendo molto più difficile, per un autore periferico, l’assumere un linguaggio lessicalmente vario e ricco e sintatticamente complesso come quello della prosa boccaccesca [...]. Il genere comportava inoltre, per ottenere gli stessi risultati di vivacità e immediatezza dei toscani, un rapporto più stretto con la realtà quotidiana e il suo linguaggio”6. E continua: “Per un non toscano, in questi

anni, è ancora molto più facile scrivere in latino”7

. È il caso del primo Caviceo, che però Tateo non cita, limitandosi a menzionare il Cornazzano e le sue novelle in latino. Segre liquida la questione dedicandole un breve passaggio riferito al Quattrocento e alla prima metà del Cinquecento: “la problematica resta così incentrata su tre poli: dialetto, lingua toscana, latino. Dopo lunghe polemiche, il volgare vincerà la seconda e decisiva battaglia con le chiarificazioni del pensiero grammaticale e con l’opera risoluta di due scrittori: Sannazaro e Ariosto”8

, per poi proseguire sostenendo che “l’equilibrio è sempre più instabile quanto più ci si allontana dalla Toscana [...] o dalle sfere direttive della cultura [...]. Di questa instabilità risente per primo proprio il latino, che viene snaturato dall’estensione a zone espressive a lui estranee e dal correlativo inquinamento dei suoi materiali ereditari: con le nuove incombenre penetrano nel latino elementi linguistici ch’esso non è in grado di assimilare”. Il riferimento è, ancora, al’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna. Tavoni riconduce la questione della lingua, che si dispiega pienamente nel Quattrocento, esclusivamente a una “ricerca poetica”9

preparatoria del petrarchismo del primo trentennio del Cinquecento. Stussi riprende il discrimine di Dionisotti tra pre e post 1501/1502, ossia tra tentativi di rispondere alla querelle tra latino e volgare e “vittime” del rigore del Bembo (tra cui, ancora, Francesco Colonna, ma anche Jacopo Caviceo e Giovanni Filoteo Achillini)10. Anche Marazzini dedica alla questione un trafiletto di pochissime righe, limitandosi a citare unicamente le Porretane di Sabadino degli Arienti e le novelle di Masuccio Salernitano.

L’unico punto di partenza plausibile per tracciare un quadro di opere ascrivibili alla narrativa non toscana del Rinascimento sembra essere, dunque, il 1499, anno in cui Aldo Manuzio aveva dato alle stampe quello che ad oggi, per la sontuosità delle

6

F. Tateo, I centri culturali dell’Umanesimo, Bari, Laterza, 1971, p. 427 7

Ivi, p. 428 8

C. Segre, Lingua, stile, società. Studi sulla storia della prosa italiana, Milano, Feltrinelli, 1963, p. 403. 9

M. Tavoni, Il Quattrocento, cit., p. 89 10

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xilografie e per la cura tipografica, è considerato il più bel libro dell’Umanesimo italiano: l’Hypnerotomachia Poliphli di Francesco Colonna11. L’effettiva difficoltà

linguistica e la sovrabbondanza di arcani rimandi simbolici al suo interno, però, in effetti, ne hanno sempre reso stentati l’apprezzamento e la diffusione, proprio perché “il linguaggio artificiale in cui il testo è scritto è unico [...]. Un volgare che sopporta l’estrema latinizzazione possibile, al limite dello snaturamento”12

. L’interesse per l’opera, in ogni caso, dovette persistere per almeno mezzo secolo dalla sua prima pubblicazione, dal momento che nel 1545 ne uscì una seconda ristampa dal titolo La Hypnerotomachia di Polifilo, cioè pugna d’amore in sogno, dov’egli mostra che tutte le cose humane non sono altro che sogno et dove narra molt’altre cose degne di cognizione. Pertanto, viene da chiedersi da dove sia nato un monstrum come l’Hypnerotomachia Poliphili e se ci siano stati dei precursori, o quantomeno delle tendenze narrative simili negli anni precedenti13; se, soprattutto, si possa individuare un denominatore comune in grado di connettere la letteratura extra-Toscana tramite dei filoni narrativi autonomi di stampo protoromanzesco. Se, infine, si possano trovare dei modelli reperibili nella tradizione immediatamente precedente, quella di Dante e soprattutto Petrarca e Boccaccio.

La ricerca dei precursori, o almeno degli ispiratori, dell’Hypnerotomachia Poliphili si è fondata su un approccio teorico basato su due linee tematiche che si dipanano dal Polifilo stesso: la tematica della visione e la tecnica della prosa narrativa. A partire da queste due linee-guida si è scelto un metodo à rebours, partendo dagli imitatori del Colonna, per poi risalire a eventuali tendenze “preparatrici” di un’opera composita e complessa come l’Hypnerotomachia. Il primo e più interessante tra questi è Jacopo Caviceo (1443-1511), noto anzitutto per il Libro del Peregrino, uscito nel 1508 a Parma con successo immediato, anche oltre le Prose del Bembo14. Tuttavia, prima di questa data, il Caviceo aveva scritto altre due opere da cui già emergeva l’interesse per l’allegoria e la narrazione e che, sebbene scritte in latino, si configurano come preparatorie alla stesura del Peregrino: il De exilio Cupidinis (1486) e la Lupa (1489).

11

Per la trattazione puntuale dell’opera, dell’autore e del dibattito sorto intorno a entrambi, si veda il cap. 4.

12

M. Tavoni, Il Quattrocento, cit., p. 169 13

Va ricordato che la genesi dell’Hypnerotomachia stessa è molto fumosa. Già Tavoni (1992, p. 172) lamenta il mistero di cui è ammantanta “l’incubazione dell’opera, le sue motivazioni [...] prive di qualunque riscontro esterno”.

14

Come testimoniano le stampe che si susseguirono in nemmeno mezzo secolo. Dopo la princeps “Per Octaviano Sallado”, e l’edizione postuma del 1513, se ne contano almeno diciannove: a Milano (1514, due nel 1515, 1520, 1522), a Venezia (1516, due nel 1520, 1524, 1526, altre due nel 1527, 1531, una incerta ma di probabile fattura veneziana nel 1533, ancora due nel 1538, 1547, 1559) e a Vercelli (1531).

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Tra questi, solamente il primo ha visto la luce nella recente traduzione di Pischedda commentata da Giallella15. Esiste, inoltre, un’ulteriore dialogo umanistico del Caviceo, il Dialogus de moribus, rimasto manoscritto e inedito fino al 1894, anno della pubblicazione di Un dialogo inedito di Iacopo Caviceo a cura di Callari16. La Lupa (il cui titolo originale è Beltrando de Rubeis Parmensi Guidonis legionis venetae ducis filios) manca totalmente di edizioni moderne, studi e giudizi critici, condividendo, in questo, la stessa sorte toccata anche alle altre opere del Caviceo17, eccezion fatta per il Confessionale utilissimum: pubblicato a Parma nel 1509, servì al Caviceo a dare ragione delle scelte linguistico-stilistiche del Peregrino. Fu poi ristampato nel 1529 a Venezia da Francesco Bindoni, e ad oggi lo si può leggere nella traduzione a cura di Pischedda (201418). Proprio l’analisi della Lupa, le sue finalità encomiastiche, il gioco di rimandi onomastici tra mitologia e contemporaneità (la lupa nutrice di Romolo e Remo, ma anche i Lupi, signori di Conegliano) ha permesso la scoperta di un ulteriore antecedente, stavolta di ambito ferrarese, Pietro Andrea de’ Bassi, che ha orientato la ricerca all’interno del complesso e peculiare mondo culturale della famiglia d’Este (Bassi è menzionato già da Bertoni nel 1903 tra i protetti di Leonello d’Este19). Studioso di Boccaccio – di cui glossò il Teseida –, a Niccolò III dedicò le Fatiche di Hercule, in cui celebrava l’eroe greco e anche, secondo il meccanismo di parallelismi onomastici e simbolici già visto ne La Lupa di Jacopo Caviceo, il maggiore della dinastia estense (Ercole, per l’appunto, nella cui Ferrara, non casualmente, è ambientato proprio Il Peregrino del Caviceo). Sia il Teseida glossato, sia le Fatiche furono impresse da Agostino Carnerio nel 1475, a Ferrara. Anche riguardo al Bassi, la critica è piuttosto sbrigativa: generalmente collocato all’interno del folto gruppo di autori che gravitava attorno alla corte Estense, è annoverato come idolo polemico laddove, al contrario, si elogiano le personalità di Giovanni Aurispa e Angelo Decembrio, che secondo Tateo

15

J. Caviceo, De exilio Cupidinis, a.c. di P. Pischedda e G. Giallella, Villanova di Guidonia, Aletti, 2013 16

In «Archivio storico per le province parmensi», III, pp. 1-26.

17

Si tratta di tre opere encomiastiche e biografiche ispirate alla cronaca contemporanea – la Vita Petri

Mariae de Rubeis (originariamente intitolato Maximo humanae imbecilitatis simulachro fortunae bifronti vita Petri Mariae de Rubeis viri illustris), pubblicata a Venezia tra il 1485 e il 1490; il De bello Roboretano (il cui titolo originale era Amicus quisquis es tam latinus quam graecus me liberum scito, huiusque mei lugubrationes laboris solus habeto sum), del 1487, e gli Urbium dicta ad Maximilianum Federici tertii Caesaris filiun Romanorum regem triumphantissimum, pubblicati nel 1491

– e quattro opere afferenti l’ambito della trattatistica teologico-giuridica: l’epistola Severino Calcho

regulari canonico benemerenti (del 18 aprile 1489), il Libellus contra Hebreos, l’opuscolo Antonio archidiacono Urbevetanensi dialogus de raptu filiae (Roma, 1494).

18

P. Pischedda, Confessionale utilissimum, Viterbo, La Caravella editrice, 2014. 19

Giulio Bertoni, La biblioteca estense e la cultura ferrarese ai tempi del duca Ercole I (1471-1505), Torino, Loescher, 1903, p. 121.

(8)

“svecchiano l’umanesimo erudito di Andrea dei Bassi”20

. Sempre Tateo si limita a ricordarlo come chiosatore del Teseida, per poi concludere significativamente con l’assicurazione di non indugiare “su tutta la letteratura cortigiana che offrì al pubblico ferrarese opere aneddotiche e romanzesche, versi lirici e spettacoli umanistici”21. E in effetti è di letteratura niente più che cortigiana che si parla. Eppure, all’interno di un’analisi sulla narrativa di più ampio respiro rispetto alla novellistica – che peraltro proprio il Boccaccio con il Filocolo, da una parte, e il Decameron, dall’altra, aveva iniziato –, e considerando che dal Filocolo, nel 1508, avrebbe tratto numerosi spunti il romanzo Peregrino di Jacopo Caviceo (a sua volta influenzato dall’Hypnertomachia Poliphili), un’opera come Le fatiche di Hercule si colloca con una solidità di tutto rispetto: la pubblicazione del 1475 la incasella cronologicamente poco prima de La Lupa (1489), del De exilio Cupidinis (sempre del 1489) e dell’Hypnerotomachia Poliphili (1499); il referente principale è sempre il Boccaccio con il Teseida (di cui lo stesso Bassi curò le glosse, rimandando alle stesse in più parti delle Fatiche); la struttura è quella di un romanzo a tutti gli effetti. Cristina Montagnani è l’unica a definirlo come una delle “primissime esperienze di prosa narrativa settentrionale”22

. La catalogazione di un’opera come “narrativa” o addirittura, per usare una categoria moderna, “romanzesca” si lega ancora fortemente al concetto di autore. Tale nozione entra in crisi proprio tra Umanesimo e Rinascimento, e a sua volta la crisi è significativamente rappresentata dall’invenzione della stampa a caratteri mobili. Già Carlo Vecce (2010) ha analizzato in questi termini il processo di nascita e morte dell’Autore tra Quattro e Cinquecento:

La nascita dell’Autore moderno corrispondeva a sua volta alla morte di un Autore più antico, e che il fenomeno era strettamente legato anche alla nascita di un Lettore moderno. Più che di “morte” (allora come oggi) dovremmo forse parlare di “crisi dell’Autore,” che si colloca in una generale crisi di relazioni che interessa tutto il periodo di passaggio dal Medioevo alla Modernità. Un periodo di transizione in cui (prima di arrivare alla nuova nozione di Autore consacrata nel Cinquecento dal dominio del testo scritto diffuso dalla stampa) l’Autore vive la sensazione di perdere il controllo della propria opera, che invece comincia il suo cammino di ricezione in un pubblico di lettori sempre più largo. In fondo, la stessa storia di questa parola, Autore, la sua contraddittoria

20

F. Tateo, I centri culturali..., cit., p. 26 21

Ibidem 22

C. Montagnani, Il commento al «Teseida» di Pier Andrea de Bassi, in Studi di letteratura italiana

(9)

fortuna tra Medioevo e Rinascimento, potrebbe servire da paradigma. La diffrazione semantica della parola rispecchia così la diffrazione dell’Autore nel corso dei secoli. Sappiamo bene che Autore deriva dal latino auctor (a sua volta derivato dal verbo augeo), e in senso proprio indica “colui che aumenta, che genera, che produce”; in senso figurato, l’Autore è colui che inventa o ritrova qualcosa per la prima volta, il fondatore di nuove istituzioni civili o politiche, l’iniziatore per antonomasia; e quindi lo scrittore, che “produce” tessuti di parole (textus) 23

.

Il Bassi, in questo senso, è ancora al di qua della crisi, eppure la preannuncia, inserendo la propria opera all’interno della nuova letteratura di corte in cui l’autore veniva “distanziato” dall’opera stessa.

Non si poteva prescindere, pertanto, dallo studio approfondito di un “romanzo” che è ancora relegato allo stato di manoscritto e i cui esemplari presenti in Italia sono tre: uno conservato nella Biblioteca Universitaria Alessandrina di Roma, uno nella Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia e uno nella Biblioteca Ambrosiana di Milano. Le linee-guida delineate inizialmente, dunque, si sono ampliate, arrivando a comprendere non più solo l’ambito della narrativa imperniata sulla visione in sé, ma della visione nutrita delle influenze boccacciane, a cui si legano sia il Colonna, sia il Caviceo nella sua opera maggiore. Pertanto, su questa base, l’ultimo autore preso in considerazione, e significativamente posto al di là della pubblicazione dell’Hypnerotomachia (e tuttavia prima della seconda ristampa di quest’ultima, del 1545), è il rappresentante del polo complementare del Bassi: un autore, cioè, la cui capacità narrativa è sacrificata al maggiore risalto dato all’ambito della visione tout court, ispirata ai modelli fiorentini trecenteschi. Un autore, in altri termini, che si muove entro un contesto linguistico affine al Colonna, ovvero quello che trova un legame “non già con la teoria bembiana, ma, al contrario, con la teoria cortigiano-italianista che troverà i suoi campioni nel Castiglione e nel Trissino”24: si tratta del bolognese Giovanni Filoteo Achillini (1466-1538), noto soprattutto per il Viridario, poema di stampo cavalleresco pubblicato nel 151325. Dieci anni dopo, l’autore licenziò anche il Fidele – poema in terzine diviso in

23

C. Vecce, La crisi dell’Autore nel Rinascimento, in «California Italian Studies Journal», 1 (2), 2010, pp. 1-18.

24

M. Vitale (a cura di), Discorsi della lingua volgare, Palermo, Biblioteca del centro di studi filologici siciliani, 1986, p. 29

25

Gli studi sul Viridario sono ad oggi in crescita, come dimostrano i recenti lavori di Di Felice (L’esemplarità di lavoro nel Viridario di Giovanni Filoteo Achillini (Bologna 1513), in «La lingua italiana», 2006, n.2, pp. 43-69) e Lucioli (La “Phoenix” nel Viridario. Fortuna letteraria di un trattato di

mnemotecnica, in «Lettere italiane», 2007, n.2, pp.262-280). Tuttavia manca un’edizione critica del testo

che, oltre ad essere indispensabile per l’approfondimento critico sull’opera, offrirebbe numerosi spunti nell’ambito della filologia italiana e d’autore, dal momento che una delle stampe del 1513 (presente in tre

(10)

cinque libri contenenti venti canti ciascuno –, di cui restano unicamente l’autografo nella Biblioteca Universitaria di Bologna e una ristampa ottocentesca non altrimenti datata nella Biblioteca provinciale “Giulio e Scipione Capone” di Avellino. Gli studi sul Fidele sono pressoché inesistenti, se si esclude quello oramai datato di Frati (188826) e l’unica monografia al riguardo realizzata da Traversa (199227

). Eppure, anche dal punto di vista linguistico, il poema presenta numerosi punti di interesse: l’uso di un lessico volutamente intriso di voci bolognesi, infatti, suscitò vivaci accuse, per difendersi dalle quali il bolognese pubblicò anni dopo (1536) le Annotazioni della volgar lingua (ad oggi leggibili nell’edizione critica curata da Giovanardi, 200528

). Menzionato da Trovato unicamente come “partigiano” della lingua cortigiana, l’Achillini fa parte della schiera di intellettuali non toscani che, sulla scia della battaglia antibembiana condotta dal Trissino, afferma che la lingua dei grandi scrittori del Trecento non coincide affatto con il fiorentino o il toscano29. Anzi, Dante, Petrarca e Boccaccio hanno perseguito un ideale linguistico che coinvolgesse l’intera comunità italica, elevandosi, in questo modo, al di sopra delle peculiarità regionali e dialettali, preferendo scavare le fondamenta di una strada direzionata verso un volgare “illustre, aulico, curiale”. Inoltre l’Achillini, figlio del neoplatonismo dell’ultimo Umanesimo, fa propria la tendenza degli umanisti a rivalutare Dante proprio alla luce della meditazione neoplatonica30. La medesima battaglia era stata portata avanti fin dagli anni Ottanta del Quattrocento da Cristoforo Landino, che per la Divina Commedia aveva approntato un ampio commento pubblicato nel 1481, in cui “si supera la generica apologia del poeta per sottoporre la sua opera ad un’indagine come quella dedicata ai classici, ma secondo le tendenze mistiche del platonismo fiorentino [...]. Ne risulta un’interpretazione in senso neoplatonico della Commedia, che se per un certo aspetto ne fraintende la sostanza storica, peraltro si accosta a coglierne il tono” (Tateo, p. 389). Discorso, questo, perfettamente applicabile anche all’eredità dantesca presente nel Fidele.

esemplari, sebbene mutili, nella Biblioteca comunale dell’Archiginnasio di Bologna) contiene annotazioni e correzioni autografe.

26

L. Frati, Di un poema poco noto di Giovanni Filoteo Achillini, in «Giornale storico della letteratura italiana», XI, 1888, pp.383-404.

27

P. M. Traversa, Il Fidele di Giovanni Filoteo Achillini: poesia, sapienza e “divina” conoscenza, Modena, Mucchi, 1992.

28

C. Giovanardi, Annotationi della volgar lingua, Pescara, Libreria dell’Università, 2005. 29

cfr. P. Trovato, Storia della lingua italiana. Il primo Cinquecento, Bologna, Il Mulino, 1994. 30

È un platonismo ancora pienamente rinascimentale. Siamo, cioè, ancora al di qua della meditazione in difesa del furor che caratterizzerà gli ultimi anni del Cinquecento, e per la quale cfr. Barilli 1972, p. 538: “Nell’ambito del tardo Cinquecento, linea platonica è un segno dell’avanzare dell’età “moderna” [...]: la poesia, piuttosto che attardarsi in giochi retorici o perdersi in inutili imprese mimetiche, deve collaborare all’istituzione del vero”.

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Viene dunque da chiedersi quale sia stato il terreno comune in cui intellettuali socialmente e culturalmente lontani (Bassi, Caviceo, Achillini) abbiano piantato semi così simili. Più precisamente, da cosa sia scaturita l’esigenza espressiva che, nel corso di cinquant’anni, si è mantenuta pressoché immutata e ha dato origine a una narrativa ancora acerba e legata a moduli ripetitivi, sicuramente sottomessa ai grandi romanzi dei cicli cavallereschi, ma tutto sommato fruibile e apprezzata tanto dalle corti (si vedrà la committenza estense delle Fatiche di Hercule e il fine elogiativo, nei confronti dei Lupi di Conegliano, della Lupa) quanto dagli ambienti più vicini alla filosofia e all’antiquaria (come di fatto emerge dal Fidele).

La risposta si può trovare nella continuità che tali opere, comprese tra gli anni Settanta del Quattrocento e i Trenta del Cinquecento, mantengono (se non, addirittura, permettono) tra Medioevo e tardo Rinascimento. Il fil rouge che lega Le Fatiche di Hercule, La Lupa e Il Fidele risiede infatti in quell’originale soluzione interpretativa che tutte e tre, singolarmente, adottano nei confronti del mito. In altri termini, e paradossalmente, a unire i libri oggetto di indagine è proprio la loro diversa e peculiare modalità di declinazione del mito classico, operata nei differenti ambiti d’origine: la committenza cortese da parte di una stirpe interessata a che si celebrassero i fasti della propria dominazione (gli Este nella Ferrara degli anni Settanta), i disperati tentativi encomiastici in un periodo di stravolgimento politico (l’avvicendarsi di condottieri militari e politici nella Parma degli anni Ottanta) e la mera dedizione ai propri interessi letterari all’interno del mondo gravitante attorno alle università (lo Studium bolognese del pieno Rinascimento). Al tempo stesso, si presentano come tre opere di stampo romanzesco, ma al loro interno mutevoli e miste, basate sul rimpasto – spesso manieristico – di materiali eterogenei e desunti dalla tradizione classica. Il variopinto patrimonio narrativo a cui attingevano, difatti, imponeva molte cautele sistematicamente scavalcate in favore di una smaccata preferenza per le fonti classiche mediate dalla prima recezione cristiana o medievale delle stesse. Un filtro di questo genere non è trascurabile, perché se da una parte le storie classiche venivano devotamente riprese, seppure con l’introduzione di (minime) varianti, dall’altro persisteva quella sorta di alibi creativo che faceva sentire gli scrittori cólti in obbligo di “avvalersi delle possibilità del

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remake, della riscrittura, adottando chiavi più avanzate, però introdotte talvolta in modi subdoli, così da non dichiarare scopertamente il gioco”31

.

Da una parte, dunque, Le Fatiche, La Lupa e Il Fidele rispondono a un’istanza ancora umanistica di interpretazione e rappresentazione corale del mondo attraverso il filtro della tradizione classica; dall’altra, dal momento che “il Cinquecento è il secolo della codificazione dei generi, sulla scorta della Poetica aristotelica; è il secolo della promozione bembiana di Petrarca e Boccaccio; ma è soprattutto il secolo dell’ampliamento della produzione e diffusione di libri, in termini impensabili in precedenza”32

, le tre opere permettevano ai rispettivi autori di servirsi senza remore di quel patrimonio culturale umano, onnipresente nella letteratura di evasione, rappresentato da mito. Si delinea dunque, in tutte e tre le opere, una originale e al tempo stesso comune erudizione, tanto attenta alle nuove suggestioni letterarie, quanto rispettosa delle tradizioni filosofiche, il cui intento ultimo sembra essere quello di costruire – seppure con declinazioni diverse a seconda della temperie culturale di riferimento – una sapienza laica vòlta “all’esplorazione del reale attraverso l’impareggiabile guida dei classici (antichi e volgari)”33

.

La riscoperta del mito tra Umanesimo e Rinascimento

La tradizione mitologica rinascimentale si inserisce all’interno del generale recupero dell’antichità classica iniziato nell’Umanesimo. L’espressione simbolica del mito, il suo carattere assoluto e insieme mutevole nel tempo (si pensi alle infinite variazioni del mito della fondazione di Roma) lo rendevano il perfetto interprete di una realtà culturale nuova e allo stesso tempo basata sul recupero delle antiche eredità34. Al tempo stesso, però, i protagonisti del mito mantenevano il simbolismo legato agli elementi naturali o cosmici che tutelavano nelle antiche tradizioni35: Poseidone/Nettuno è personificazione del mare, Zeus/Giove del fulmine, Clori/Flora dei fiori, Ade/Plutone dell’oltretomba e così via. Tuttavia l’antichità non era (o non era soltanto) un bacino di modelli a cui attingere indistintamente, bensì la chiave di lettura del presente in relazione al passato.

31

R. Barilli, Dal Boccaccio al Verga. La narrativa italiana in età moderna, Milano, Bompiani, 2003, p. 27.

32

S. Carapezza, Novelle e novellieri. Forme della narrazione breve nel Cinquecento, Milano. LED Edizioni, 2011, p. 11.

33

P. Traversa, Il Fidele..., cit., p.7 34

Cfr. J. Seznec, La sopravvivenza degli antichi dei, a.c. di P. G. Niccoli, Torino, Bollati Boringhieri, 2008.

35

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Tale atteggiamento cominciò, in realtà, tra XIV e XV secolo. Ciò che fece da collante tra Medioevo e Umanesimo-Rinascimento fu proprio il mito e la sua valenza allegorica: le divinità antiche diventavano figurazioni di vizi e virtù cristiane, ma anche di signori di corte, di esempi morali e, viceversa, di archetipi di corruzione (un caso interessante è l’altalenante simbolismo dell’animale del lupo). Non erano infrequenti, dunque, i casi in cui la mitologia usciva dai confini allegorici e si ammantava di pretese di spiegazione teologica, dando luogo, spesso e volentieri, a equivoci se non a macroscopici errori interpretativi (come nel caso di alcune illustrazioni dell’Ovide moralisé). Solo dalla prima metà del Quattrocento si può parlare di un effettivo recupero dell’antico nella sua totalità, anche sotto l’aspetto meramente corporeo: dèi ed eroi recuperano le loro sembianze classiche, tornano a indossare calzari, ritrovano l’equilibrio tra tensione muscolare e plasticità36, funzionali, peraltro, alla celebrazione dei ricchi committenti a cui il più delle volte sono ispirati i significati allegorici delle opere d’arte. Al crocevia di tali tendenze mitografiche, allegoriche, antiquarie e letterarie si pone, nel 1499, la già citata Hypnerotomachia Poliphili, che chiude la tendenza – tipicamente quattrocentesca – a riscoprire i classici come strumenti di riflessione e speculazione filosofica sulla realtà presente e apre, piuttosto, il periodo rinascimentale di strumentalizzazione dei medesimi classici a fini più che altro eruditi e colti, quando non scopertamente tesi alla celebrazione del prestigio di grandi famiglie nobili e borghesi37.

L’interesse per la mitologia (ri)entrava dunque prepotentemente nelle corti italiane, divenendo un mare pescoso a cui attingere per tutte le forme di rielaborazione artistica in chiave cortese: la pittura, la musica, l’architettura (la Domus Aurea neroniana, ad esempio, diventa il modello del perfetto palazzo rinascimentale) e ovviamente la letteratura (si pensi a Poliziano, Pulci, Boiardo e Ariosto). Certo, l’esperimento riuscì solo a quanti seppero emergere dal mare magnum delle imprese “minori”. Non stupisce, insomma, che Le fatiche di Hercule, La Lupa e Il Fidele siano rimasti relegati per lungo tempo al rango di meri tentativi, soprattutto se si pensa all’immensa mole letteraria costituita, ad esempio, dagli intramontabili romanzi cavallereschi e da una già radicata tradizione di cantastorie che, parallelamente, tracciava la strada verso i grandi poemi dei già citati Pulci, Boiardo e Ariosto – un esempio su tutti è la popolarità del Guerrin meschino di Andrea da Barberino. Tuttavia, gli esperimenti del Bassi, del Caviceo e

36

Cfr. G. Huber-Rebenich, L’iconografia della mitologia antica fra Quattro e Cinquecento. Edizioni

illustrate delle Metamorfosi di Ovidio, in «Studi Umanistici Piceni», 12 (1992), pp. 123-133.

37

Cfr. C. Mitchell, Archeology and Romance in Renaissance Italy, in «Italian Renaissance Studies. A tribute to the late Cecilia M. Ady», 2 (1960), pp. 455-483.

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dell’Achillini non avevano, né volevano avere nulla di popolare o umile alla maniera del Guerrino: i loro tentativi provenivano da una formazione intellettuale e portavano a un filone della narrazione ben agguerriti nel mantenere salda la proposta di una cultura alta, erudita, visionaria, basata sul “miglior” Boccaccio (quello latino delle Genealogie e pastorale dell’Amorosa visione piuttosto che quello volgare e novellistico del Decameron), sul Dante del Paradiso e sul Petrarca dei Trionfi. Le medesime istanze cortigiane che avevano influenzato la lingua dell’Hypnerotomachia Poliphili, quindi, avevano sedimentato anche negli archetipi letterari legati agli elementi onirici, epifanici, simbolici e mitologici confluiti nelle Fatiche, nella Lupa e nel Fidele. Archetipi che, seppure risultino esauriti già negli anni Sessanta del Cinquecento, avevano consentito la conservazione di un filone di viaggi fantastici e soprannaturali che altro non possono essere definiti che romanzeschi.

Criteri e metodi di analisi

Tutti i codici riportanti le opere oggetto d’indagine sono stati collazionati: nel caso delle Fatiche di Hercule e della Lupa, la conformità dei testi confrontati ha permesso una fortunata univocità nella scelta della versione da mettere a testo. Per quanto riguarda il Fidele, si è scelto l’unico codice che, pur mutilo dell’ultimo canto – oramai da considerarsi perduto perché non attestato da alcun altro testimone esistente –, conserva per intero l’opera.

Il testo de La Lupa, unica opera in latino delle tre analizzate, è stato prima di tutto trascritto, sciolto nelle sue abbreviazioni e in seguito tradotto. Il commento è ovviamente inerente al testo latino, a cui segue la traduzione italiana. Si è scelto di lasciare i marginalia a lato pagina, per mantenere la loro funzione di guida del testo e, al tempo stesso, evitare che una ridisposizione (ad esempio come titoletti) frammentasse l’andamento sintattico della narrazione.

Le fatiche di Hercule sono state interamente trascritte, parafrasate e commentate, facendo precedere ogni fatica da un’introduzione funzionale a sintetizzarne il contenuto ed evidenziarne i modelli letterari, analizzati in maniera più puntuale ed estesa all’interno delle note al testo.

Del Fidele si danno invece dei canti scelti, tutti seguenti una linea interpretativa che sintetizza il contenuto del libro al quale appartengono. In questo caso, il cappello introduttivo riguarda, per l’appunto, i libri del poema, in modo da consentire una

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visione d’insieme del contenuto di ognuno di essi. All’introduzione segue la trascrizione dei canti scelti, la loro parafrasi e le note ai versi.

La presentazione delle opere segue un criterio di successione cronologica dei testi, in modo da tracciare un sentiero il più possibile oggettivo e percorribile sui tre esiti cólti del genere romanzesco tra Quattro e Cinquecento, un genere che presenta tratti di tale vitalità e originalità da far auspicare una prosecuzione di studi in tal senso.

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1. Pietro Andrea De’ Bassi e le Fatiche di Hercule

Pietro (o Piero) Andrea de’ Bassi nacque a Ferrara probabilmente intorno al 137538

e morì intorno al 1447. Le notizie a suo riguardo sono scarsissime. Da una lettera di Guarino Veronese39, si desume che i due fossero amici, o quantomeno si conoscessero profondamente. Il che non è una sorpresa, se si considera che l’arrivo di Guarino a Ferrara e la sua collaborazione con Niccolò III e Leonello d’Este coincidono proprio con gli anni in cui il Bassi militava nella corte ferrarese. La sua, in realtà, fu una vera e propria vocazione di cortigianeria: lo troviamo per la prima volta come testimone di donazioni e investiture da parte di Niccolò III, tra il 1398 e il 1403. La sua carriera sotto gli Estensi proseguì attraverso alcune tappe militari (nel 1411 è ufficiale e custode del passo delle Corbole superiori) e burocratiche (nel 1418 è incaricato di riscuotere i dazi nel territorio di Conselice in nome del Marchese Niccolò III d’Este40). Fu ricompensato dal Marchese per i suoi servigi con una serie di terreni e privilegi nella zona di Argenta di cui, nel 1436, fu anche camerlengo. Nel frattempo, nel 1435, era stato massaro del comune di Ferrara41. Al 15 ottobre 1439 risale invece un documento che lo vede visconte di Mellaria42. Tra il 1445 e il 1447 gli furono condonati vari debiti dal Marchese, in quanto “famulus fidelis” e dunque come ulteriore riconoscimento di fedeltà allo stemma estense. Nel 1447 morì, lasciando però un erede, Niccolò, chiamato significativamente con il nome del Marchese che aveva segnato tutta la sua esistenza e a cui aveva dedicato entrambe le sue opere maggiori, il Teseida di Boccaccio glossato e le Fatiche di Hercule.

1.1. Le Fatiche di Hercule: un protoromanzo celebrativo della corte Estense quattrocentesca

È a Niccolò III (1383-1441) che spetta il merito di aver costruito fondato la biblioteca estense a Ferrara: fu lui, infatti, il primo dei marchesi a patrocinare vere e proprie spedizioni per portare a corte codici e manoscritti, nonché a inventariare

38

La data è proposta da G. Orlandi, ma è del tutto congetturale e basata sulle dichiarazioni del Bassi nelle prefazioni alle sue opere. In particolare, in riferimento al fatto che il Bassi stesso afferma di aver vissuto anche sotto il marchesato di Niccolò II, morto nel 1388.

39

R. Sabbadini, Epistolario di Guarino Veronese, Venezia, Officine grafiche Ferrari, 1919 (II, 127). 40

La fonte è Niccolai III Officium publicum decretorumque registrum, anni 1415-1422 (c.139 r.) 41

cfr. C. Montagnani, cit., p.11 42

“Lator presentium nuntius Petri Andree de Bassis vicecomitis Mellarie habet licentiam conducendi illuc pro usu suo ex Ferraria infrascriptas res libere nil solvendo pro tracta de gratia sibi facta per prefatum ill.dominum nostrum: modios tres frumenti, modios duos melici, caratellum unum vini. Ludovicus Casella, XV Oct. 1439”, riportato da Bertoni, Guarino da Verona, cit., p. 39

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minuziosamente le nuove acquisizioni della sua libreria. Fu sempre lui a chiamare a Ferrara Guarino Veronese, come precettore del figlio Leonello (1407-1450), che non casualmente diventò il marchese simbolo dell’età aurea della Ferrara umanistica. Bertoni tratteggia in maniera suggestiva l’eredità di Leonello nei termini di fioritura e massima maturazione artistica della città: “i semi gettati da Leonello diedero presto il loro fiore sotto il governo di Borso e il loro frutto sotto quello di Ercole I [...], spirito intelligente e pronto all’azione, felice prosecutore delle tradizioni estensi ed erede fortunato di tanta gloria d’arte e di studi”43

. A Ercole, peraltro, si deve il merito di aver permesso la rinascita del teatro latino.

Prima del raggiungimento del culmine culturale, portato a compimento da Ercole d’Este, e tuttavia all’interno del rinnovato interesse per gli studi umanistici, mediato dalle figure di Guarino e di Leonello, nonché anticipato da Niccolò III, si inserisce Pietro Andrea dei Bassi. La data di composizione delle sue Fatiche risale, infatti, almeno al 1430. Lo si può inferire da varie coincidenze: la data di nascita di Ercole d’Este, omonimo del protagonista e dunque destinatario ultimo dell’opera, è il 26 ottobre 1431, pertanto il Bassi potrebbe verosimilmente averne cominciato la stesura sotto il governo del padre di Ercole, Niccolò (a cui infatti fa riferimento nella prefazione), per celebrarne la progenie. Inoltre nella prefazione non si fa il benché minimo riferimento a Ugo d’Este, altro figlio di Niccolò III, morto nel 1425 – anno che potrebbe pertanto essere considerato come terminus post quem44 collocare l’inizio della scrittura dell’opera. Ancora, Franceschini (1993-1997) riporta due documenti del 1436 riguardanti i pagamenti per le operazioni di miniatura e rilegatura dell’opera, che pertanto doveva essere già pronta per la stampa. Infine, il commento al Teseida è citato più volte nelle Fatiche, pertanto è sicuramente precedente, ma di poco, dal momento che anche la prefazione di quest’opera è dedicata a Niccolò III, morto nel 1441 (sicuro terminus ante quem datare la stesura del libro)45. La prima stampa dell’opera fu però approntata solo un trentennio dopo la morte del suo autore, e per la precisione nel 1475, presso la tipografia ferrarese di Agostino Carnerio (che diede alle stampe anche il Teseida glossato).

43

G. Bertoni, La biblioteca estense e la coltura ferrarese ai tempi del duca Ercole I, Torino, Loescher, 1903, p. 12.

44

A riguardo di tale tesi, sostenuta soprattutto da Orlandi, Montagnani esprime delle perplessità: “si desidererebbe a questo proposito qualche elemento in più, ma purtroppo niente altro è possibile ricavare dalle poche parole che il Bassi riserva a se stesso”, p.12.

45

Ma cfr. Tissoni Benvenuti: “Un altro fatto, e cioè la presenza di Guarino a corte a fianco di Leonello, citato alla fine del romanzo e con tutte le caratteristiche della novità, ci obbliga a datare l’opera a dopo i primi anni trenta: più prudentemente potremmo arrivare alla metà del decennio, per dare modo al Bassi di mettere a frutto la nuova cultura” (p. 779)

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Il Bassi, con le Fatiche, si rivolge insomma a un pubblico ancora lontano dalla piena maturità culturale della corte ferrarese. L’ambito in cui si muove resta, piuttosto, incline ad apprezzare opere ascrivibili a un certo “gusto attardato che costituisce, nell’Italia del Nord, un fenomeno di notevole estensione e rilevanza”46. Lo stesso Orlando innamorato, nonostante il margine ventennale che lo separa dalle Fatiche, risentirà di un sistema culturale “incostante e contraddittorio”47

, a testimoniare ancora “un rapporto con la classicità che non si risolve in direzione esclusivamente umanistica”48. Oltretutto, la presenza di Ercole nell’immaginario testuale e iconografico medievale, umanistico e rinascimentale è costante e rappresentativa di uno dei miti più solidi di tutta la tradizione occidentale. Tuttavia, “per coglierne la dinamica presenza nel complesso della cultura medievale, va correlato necessariamente con l’altro Ercole che emerge nella tradizione dei romanzi di cavalleria, cavaliere e paladino tra cavalieri e paladini, assimilato e integrato al loro codice culturale: emulo e sodale di Orlando, Tristano, Lancillotto, Artù; ma emulo e sodale anche di Teseo e Giasone, e soprattutto di Alessandro Magno, l’altro eroe archetipico della tradizione medievale”49

. Come loro, infatti, Ercole è un eroe forte e coraggioso, ma anche cortese, errante, solo nella sua ricerca di gloria. Già Petrarca aveva inserito la vita di Ercole, nel De viris illustribus, accanto a quella di diversi personaggi biblici, marcando con nettezza la differenza tra raccontarne ‘le storie’ e narrarne ‘la storia’ (è l’opposizione tra fabula e historia):

De Hercule quidem, uti fabulas narrare perfacile est, sic historiam texere difficillimum. Multos enim fuisse Hercules seu potius Herculeos viros, quin etiam cunctos fortes Herculeos vocitatos autore Varrone didicimus. Id cause est quod de Hercule tam incerta, tam varia scripta sint, ut velut Laberinthi ambagibus implicitus lector extirum non inveniat. Sane quantum ingenii funiculo datum erit, inter caliginosas vetustissime rei semitas, vitatis multiplicium perplexitatibus errorum, per certiora tradentium, licet rara, vestigia ad verum quam propinquius licebit accedam.

Quondam, a riguardo, ha definito tale presa di posizione da parte di Petrarca “clamorosa”, dal momento che sottolinea una “discontinuità destinata a trasformarsi nel

46

C. Montagnani, Il commento al ‘Teseida’ di Pier Andrea De’ Bassi e la tradizione di Ovidio nel primo

Quattrocento, in « Interpres », V, 1984, p.10 47 Ibidem. 48 Ibidem. 49

A. Quondam, Cavallo e cavaliere. L’armatura come seconda pelle del gentiluomo moderno, 2003, Roma, Donzelli, pag. 121.

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paradigma elementare del senso stesso della storia occidentale”, ossia la scelta di congiungersi agli avi esemplari solo e soltanto esercitando il proprio ‘rasoio’ su tutto ciò che si è frapposto alla comunicazione tra antichi e moderni (in una parola, il Medioevo). In maniera simile, benché meno manichea, ragionò il Boccaccio, le cui Genealogie furono l’anello di riparatoria congiunzione tra mitologia classica, medievale e rinascimentale.

La forza delle Fatiche di Hercule risiede dunque, sostanzialmente, nella capacità narrativa, che sovrasta, e di molto, la volontà allegorica tipica, invece, del modello boccacciano delle Genealogie deorum gentilium. Fu il Bassi, insomma, il primo ad assecondare il gusto della corte per le letture romanzesche, sovrapponendo materia antica e nuova, quasi, embrionalmente, alla maniera dell’entrelacement boiardesco. La prima studiosa a definire le Fatiche un “romanzo d’Ercole” è Matarrese (1990), che ne rileva la peculiarità anche dal punto di vista linguistico, dal momento che si tratta di una narrazione in prosa “tra le prime in un volgare padano, che presenta uno specifico interesse linguistico, in quanto scritta nel momento di maggiore depressione del volgare, corrispondente alla fase di ascesa dell’umanesimo”50

. Il mito delle fatiche di Ercole era arcinoto ai tempi del Bassi, come del resto lo era Ercole d’Este, figlio del marchese Nicolò III. Ciò che le rende così peculiari, all’interno della più generica recezione del mito di Ercole nell’ambito delle corti italiane, è l’intento attualizzante del mito stesso: nonostante l’amplissima gamma di fonti (greche, latine, medievali e contemporanee), tutta la narrazione si impernia su un Ercole che non è più eroe epico, ma cavaliere umanistico51. La figura di Ercole si cuce addosso al committente dell’opera, Niccolò III, e alla sua progenie (tra cui, per l’appunto, Ercole d’Este), cosicché l’eroe epico diventa eroe umanistico, l’uomo sovrannaturale del mito diventa cavaliere perfetto delle corti moderne. In questo senso, il romanzo assume anche “la funzione dello speculum principis”52, ovvero permette un’identificazione vicendevole tra principe ed eroe: se

50

T. Matarrese, Il volgare a Ferrara tra corte e cancelleria, in «Rivista di letteratura italiana», VIII, 1990, p. 532

51

Cfr. Tissoni-Benvenuti, Il mito di Ercole. Aspetti della ricezione dell’antico alla corte estense del

primo Quattrocento, in Omaggio a Gianfranco Folena, 1993, Padova, Editoriale, p. 776: “Ercole non

compare in quanto famoso eroe greco, ma per significare la virtù della fortezza, e in particolare del dedicatario dell’encomio, Niccolò III d’Este”.

52

Tissoni-Benvenuti, ivi, p. 785. Sul concetto di “speculum principis” si veda anche D. Canfora, “Non

nomine sed re distinguuntur”: tiranno e principe nella letteratura politica dell’Umanesimo e del Rinascimento, in Le Filippiche di Cicerone tra storia e modello letterario, Atti del IV simposio

ciceroniano, Arpino, 10 maggio 2012, a.c. di P. de Paolis, p. 50: “Nel valutare la posizione prevalente degli umanisti del Quattrocento nei confronti del principe e del potere, non si deve comunque cadere nell’ingeneroso equivoco di ridurre le loro rifessioni alla dimensione dell’adulazione cortigiana. In primo luogo, la realtà politica di que lsecolo non consentiva molte alternative. L’umanista poteva assumere il ruolo di segretario del principe e svolgere le proprie funzioni all’ombra del potere. Così fece, per

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Ercole è rappresentato come perfetto signore di corte, parallelamente Niccolò è in grado di compiere imprese non meno che eroiche. Il che, tutto sommato, era tipico dell’ideale eroico che ha nell’umanesimo le sue premesse fondanti e che troverà piena fioritura nel Rinascimento. Già Weiss rilevava che “con l’idea della divinizzazione dell’uomo si fonde nella definizione dell’Eroico il concetto dell’origine celeste delle persone dotate di virtù sovrumane”53

. Difatti,

per tutto il periodo storico che va dalla fase classica del Rinascimento fino alla civiltà aulica del Barocco, assumono importanza decisiva i nuovi ideali di grandezza, decoro, maestà pomposa e gravità dignitosa, instaurati dall’Umanesimo ed atteggiati sull’esempio dell’antichità classica vista sotto la luce di un’eroica sublimazione. L’aspirazione al Grande, la sublimità del volere e del pensare si presentano come il tratto caratteristico generale, sottolineato dalla letteratura del tempo in tutte le persone indistintamente. Già verso la fine del Quattrocento gli ideali caldeggiati dall’Umanesimo, limitati in un primo tempo alla cerchia ristretta degli studiosi e della cultura letteraria, sono diventati in Italia patrimonio generale ed elemento determinante del clima spirituale54.

Il Bassi, che non è niente più che un funzionario di corte, utilizza le sue conoscenze di fruitore, più che di produttore, di letteratura, e scrive, dunque, un’opera che gli era stata commissionata (peraltro portata a termine non senza fatica, come spesso dichiara nel testo). Pertanto “la sua opera è necessaria per colmare il divario tra la cultura quasi soltanto cavalleresco-cortese di Niccolò III e della sua corte, e la nuova moda culturale dell’antico che si stava via via affermando”55

. Eppure sarebbe sbagliato liquidare Le Fatiche di Hercule come un semplice compito di cortigianeria. Dietro le quinte, a dare la sua impronta, seppure indiretta, si staglia infatti un’altra imprescindibile figura chiave, non solo a Ferrara, ma per tutto l’Umanesimo: Guarino Veronese. Le Fatiche

esempio, Giovanni Pontano. È evidente che, avendo un ruolo del genere, l’uomo di lettere non poteva se non impegnarsi in una rifessione politica encomiastica: di qui il rinnovarsi della tradizione degli specula

principum che, largamente coltivati in età medievale, continuarono ad arricchire la letteratura politica

quattrocentesca (e anche successiva). Il presupposto di questi scritti è che il principe in carica sia il miglior principe possibile: l’umanista si limita a illuminare la sua azione e a indicargli i grandi modelli del passato”.

53

G. Weisse, L’ideale eroico nel Rinascimento e le sue premesse umanistiche, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1961, p. 91.

54

Ivi p. 100, e continua: “L’incontro del pensiero umanistico con la letteratura volgare, preparatosi nel corso del Quattrocento, ed il compenetrarsi di tutta la vita dei nuovi ideali di ispirazione classica hanno trovato la loro espressione definitiva nella letteratura italiana del primo Cinquecento. È sintomatico il fatto che la tendenza al maestoso e alla magnificenza sia prevalsa come norma generale non soltanto nella lingua e nelle arti figurative: la stilizzazione eroica che si serve dei concetti e dei termini stabiliti dall’Umanesimo si è impadronita di tutti i settori della vita. Già L. B. Alberti, ispirandosi alla tradizione umanistica, aveva visto gli antichi romani nella luce di una sublimazione eroica” (p. 101).

55

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sono scritte quindi in un momento non di stallo, bensì di transizione della cultura ferrarese, dovuta proprio all’arrivo di Guarino. La sua permanenza a Ferrara, a partire dal 1429-1430, portò un trentennio di novità nella città, a partire dalla creazione della Scuola di cui, fra gli altri, fu discepolo anche Leonello d’Este.

Gli anni trenta del secolo sono anni cruciali. La corte di Nicolò, per molti versi provinciale, subisce una trasformazione radicale, che raggiunge il suo massimo splendore sotto il governo di Leonello, il quale incarna appieno l’ideale del principe umanista, colto, elegante, conoscitore del latino e del greco, amante delle lettere, e tuttavia non estraneo ai piaceri propriamente cortesi e agli impegni di governo. In un certo senso proprio l’educazione di Leonello è il capolavoro pedagogico di Guarino56

.

Fu Guarino, probabilmente, a far conoscere alla corte (e quindi al Bassi) autori del teatro latino – con enorme preminenza di Plauto57 –, ma anche di autori minori come Pomponio Mela (anch’esso largamente citato dal Bassi). Attorno a lui si raggruppa un folto circolo di umanisti che si nutrono del suo magistero e si formano nella sua scuola e che arriveranno, grazie a Guarino, a creare la vera identità della cultura ferrarese ed estense. Il Bassi, che condivide i primi anni dell’arrivo di Guarino, dunque, si muove in una Ferrara che accoglie in pieno l’impatto benefico con il Veronese. Certo, al suo arrivo la situazione non era delle migliori: “La cultura letteraria a Ferrara quando vi arrivò Guarino era su per giù a quel medesimo livello, in cui si trovava nelle altre città italiane avanti che vi penetrasse l’umanismo. Nelle scuole s’insegnava come e quanto si poteva insegnare in una scuola medievale; il latino che vi si imparava e vi si scriveva non veniva attinto alle fonti classiche, ma alla tradizione e alla consuetudine curiale; era il latino dei notai, dei glossatori, dei teologi; di greco manco l’ombra”58.

Grazie a Guarino, gli Este – e in particolare Lionello – scoprirono il gusto della committenza artistica: così, per esempio, Angelo Maccagnino da Siena fu incaricato, nel 1447, di affrescare un ciclo rappresentante le Muse a palazzo Belfiore; nel 1470 Borso commissionò il ciclo dei Mesi per il salone di palazzo Schifanoia; Ercole e Sigismondo, tra il 1493 e il 1503, fecero costruire il Palazzo dei Diamanti59.

56

D. G. Lipari, La lingua litteraria di Guarino Veronese e la cultura teatrale a Ferrara nella prima metà

del XV secolo, in « Annali Online di Ferrara Lettere », vol, 2 (2009), p. 6 [pp. 1-32]

57

Nel 1426 sappiamo che tenne un corso sulle prime otto commedie di Plauto, registrato negli appunti di un suo studente noti come recollectae Plautinae.

58

R. Sabbadini, Vita di Guarino Veronese, Genova, Tipografia del R. istituto sordo-muti, 1891, p. 94. 59

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Un particolare rilevante, e strettamente legato sia al recupero dell’antico in chiave mitologico-celebrativa (cfr. introduzione), sia all’influenza di un certo tipo di mito su Pietro Andrea dei Bassi, riguarda il successo di Ercole nella fabula umanistico-rinascimentale: Ercole subisce infatti la medesima trasfigurazione in senso cristiano di molti altri miti pagani. Nella fattispecie, le sue fatiche rappresentano la purificazione spirituale dell’uomo attraverso le opere. Ercole diventa dunque un’allegoria della virtù cardinale della fortezza. Se già una finaltà simile emergeva nella parte erculea della Genealogia di Boccaccio, nonché nel De laboribus Herculis del Salutati, con il Bassi la cristianizzazione del mito si fonde con la celebrazione di corte. Il risultato è un nuovo esperimento di narrativa rifunzionalizzata in chiave celebrativa, allegorica e di intrattenimento colto.

1.2. Fonti e modelli dell’opera

Come già sostenuto da Garin, la peculiarità dell’atteggiamento umanstico nei confronti del passato sta non tanto nell’ammirazione verso i classici o nella loro approfondita conoscenza, bensì in quella che lo studioso definisce “una ben definita coscienza storica [...]: gli umanisti scoprono i classici perché li distaccano da sé, tentando di definirli senza confondere col proprio il loro latino”60. Gli umanisti, cioè, hanno realmente riscoperto i classici perché li hanno restituiti al loro tempo, senza tentare di calarli nell’ambito dei problemi e delle conoscenze della realtà coeva, “onde non può né deve distinguersi, nell’umanesimo, la scoperta del mondo antico e la scoperta dell’uomo, perché furon tutt’uno; perché scoprir l’antico come tale fu commisurare sé ad esso, e staccarsene, e porsi in rapporto con esso”61. Tale presa di coscienza si concretizzò nelle discussioni filologiche sui codici recuperati, sulla loro datazione e provenienza, che permisero di porre una distanza effettiva dal passato.

In questo contesto, gli Este furono davvero dei filantropi e il Bassi, volenteroso militante cortigiano, fece tesoro della loro biblioteca, seppure manifestando i limiti di una conoscenza del greco parziale e una personale preferenza per le fonti più didascaliche: Ovidio, Virgilio, Servio, Boccaccio, Salutati. Da loro l’autore derivò una certa passione per il mito che, tuttavia, non poteva prescindere dalle fonti tradizionali greche (Apollodoro, Euripide, Pausania). Come conciliare entrambe in un’opera dalle finalità più erudite che storiche? Il Bassi lo fa rinunciando a quel recupero filologico

60

E. Garin, Gli umanisti e l’antichità classica, in L’umanesimo italiano, Bari, Laterza, 1947, p.23. 61

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sottolineato da Garin e che già, in parte era stato del Petrarca, per dedicarsi al contrario, al tentativo di coniugare cortigianeria e verosimiglianza narrativa (frequenti saranno, nel testo, le sue dichiarazioni di non voler parlare “per allegorie”). A tale proposito, dunque, gli erano più utili le fonti che già avevano provveduto a riscrivere o rivisitare il mito in chiave narrativa, cosicché le versioni greche (Omero, Orosio, Cornelio Labeone sono gli autori citati maggiormente) dei medesimi miti gli sono note solo per via indiretta, ovvero perché già citate dal Boccaccio – da cui il Bassi, peraltro, le mutua in maniera spesso acritica. Certo, il greco era la vera novità delle (ri)scoperte umanistiche nel Quattrocento, ma in questo senso, prima ancora dei classici, il vero maestro del Bassi fu, per l’appunto, quasi unicamente il Boccaccio e, a maggior ragione, il suo culto per tutto ciò che era greco62. Eppure, il solo Boccaccio non bastava: la messe di scoperte di quegli anni era enorme. Così, a ben guardare, nelle Fatiche di Hercule si ha l’impressione che il Bassi “cerchi di sfruttare al massimo la Genealogia boccaccesca in questo settore”63, restando però ancora al di qua di una fruizione consapevole delle fonti originali. Del resto, l’opera si prestava perfettamente agli intenti dell’autore ferrarese, dal momento che la Genealogia deorum gentilium è il primo poema pre-umanistico a evitare una narrazione in chiave moralizzata dell’origine delle antiche divinità, di cui anzi il Boccaccio dà una rappresentazione più umanistica che classica, con figure vestite e atteggiate alla maniera di corte. I manoscritti delle Genealogie, difatti, circolarono ampiamente fin dai primi anni del Quattrocento e l’editio princeps fu pressoché contemporanea a quella delle Fatiche64, nel 1472, a Venezia, presso Vendelino da Spira65. Inoltre, sebbene non sia il caso della biblioteca estense, non era raro che le Genealogie, nelle collezioni di famiglie erudite, fossero preferite al Decameron, “ennesima prova del nuovo tournant ideologico e culturale della fine del Quattrocento, che vede il pubblico prediligere letture erudite e raffinate come il Petrarca (volgare e

62

Già sottolineato da G. Albanese ne Le forme della storiografia letteraria nell’Umanesimo, in Istituzioni

di filologia e letteratura latina medievale e umanistica, a.c. di G. Albanese e P. Pontari, Pisa, SEU, 2009:

“Boccaccio rivendicava orgogliosamente [...] il proprio primato nella promozione di una più ravvicinata rilettura e rimessa in circolazione dei poemi greci omerici come di altri importanti testi della letteratura greca, ormai incomprensibili alla maggior parte dei lettori anche dotti per l’assoluta ignoranza della lingua greca a seguito del lungo oblio medievale, sottolineando la propria incentivazione dello strumento primario della traduzione latina di Leonzio Pilato, e il sostegno dato al suo insegnamento del greco a Firenze” (p. 141).

63

Tissoni-Benvenuti, Il mito di Ercole...cit., p.789 64

Nonché alla princeps dell’Ovidius moralizatus. 65

È da notare, peraltro, che nell’edizione di Vendelino sono mantenuti, su esplicito consiglio di Coluccio Salutati, gli indici e le rubriche presenti nella tradizione manoscritta.

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latino), i classici latini di età augustea, ma disprezzare apertamente il Decameron, e delegare la notorietà del Certaldese alle sue opere latine”66.

Dal Boccaccio il Bassi riprende, come già aveva fatto nel commento al Teseida, le forme dei nomi classici, che differiscono dalla tradizione latina. Inoltre, la dimensione storica del mito viene svuotata dei suoi significati e “non c’è più traccia della attenta e, nei limiti del possibile, scrupolosa ricostruzione delle varie versioni di una fabula nei diversi autori: i nomi degli scrittori che Boccaccio cita quali fonti per taluni miti o scompaiono, o lasciano il posto al vaghissimo « alcuni », come d’altro canto vengono eliminate le differenti versioni di una stessa vicenda, a volte addirittura fuse in un solo racconto, con i ben prevedibili danni per la connessione logica degli avvenimenti”67

. Proprio perché così strettamente intrecciate alle Fatiche, le Genealogie si impongono anche nel confronto con gli altri modelli del Bassi, che inevitabilmente vi si intersecano. Particolarmente complessa risulta soprattutto l’intersezione tra questa e le Metamorfosi di Ovidio. Tendenzialmente, nel riportare i miti, quando le opere si sovrappongono il Bassi resta fedele al Boccaccio e il recupero di Ovidio sembra essere limitato a colmare i vuoti, a illustrare, cioè, ai lettori i miti a cui il Boccaccio non concede sufficiente spazio. Tuttavia, Ovidio rappresenta un caso particolare e al tempo stesso ricopre forse il ruolo più cruciale nella trasmissione del mito nel periodo umanistico-rinascimentale (molto più del Boccaccio, per esempio), soprattutto nella dimensione iconografica. Al 1497, infatti, risale la prima edizione a stampa illustrata dell’Ovidio volgare di Giovanni Bonsignori, che chiudeva il ciclo delle letture allegoriche medievali di stampo, alternativamente, scolastico o cristiano. Queste, nel tentativo di fornire un accesso al testo classico adeguato alle istanze morali e culturali del tempo, attraverso commenti e volgarizzazioni estranei a qualsiasi fedeltà filologica, finirono per creare degli pseudo-Ovidio, che furono le fonti condizionanti della tradizione iconografica delle Metamorfosi fino al '50068.

Le Metamorfosi di Ovidio sono al primo posto tra le fonti più usate dal Bassi non solo nelle Fatiche, ma anche nelle glosse del Teseida. Tuttavia, gran parte delle vicende di

66

S. Gambino Longo, La fortuna delle Genealogiae deorum gentilium nel ’500 italiano: da Marsilio

Ficino a Giorgio Vasari,, in «Cahiers d’études italiennes», 8 (2008), p. 2, che più avanti continua: “A ben

vedere, pur lasciando scettico il pubblico degli eruditi e degli intellettuali più esigenti, le Genealogiae, accolte inizialmente come opera minore in latino, si leggono e si vendono come opera in volgare, per un pubblico di lettori che è lo stesso del Decameron; inoltre conquista un nuovo destinatario, decisamente ghiotto di descrizioni di antiche divinità, cioé gli artisti. Non a caso è documentata la conoscenza da parte di Tiziano della traduzione del Betussi” (p.6).

67

C. Montagnani, Il commento al ‘Teseida’ (1983), cit., p. 24 68

Difatti tra XII e XIII secolo si assiste all’esplosione delle versioni moralizzate di Ovidio (tra i più noti

l’Ovidius moralizatus, l’Ovide moralisé). Cfr. B. Guthmueller, Mito, poesia, arte. Saggi sulla tradizione ovidiana nel Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1997.

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derivazione ovidiana non segue la narrazione classica, ma viene rivisitata sulla base di evidenti “altre” fonti di cui, però, non si conoscono le origini. Probabilmente di provenienza medievale, ma non si può azzardare di più69. Pertanto “non andrà dimenticato che il Bassi non aveva certo di fronte un testo « pulito » delle Metamorfosi, ma, come minimo, un esemplare fittamente glossato o, molto più probabilmente, un rifacimento in prosa”70. Di Ovidio il Bassi condivide anche l’atteggiamento

serenamente distaccato dalle valenze e dai significati culturali e religiosi del mito che, al contrario, viene ridotto alla pura dimensione letteraria. I suoi dei e i suoi eroi sembrano, cioè, non più circonfusi di un’aura di sacrale solenntà, bensì personaggi di favolose leggende da cui attingere storie da raccontare. Lo stesso gusto dell’eziologia e della dotta ricerca delle origini “implica un occhio distaccato, sempre cosciente dell’alterità sostanziale di quel mondo” 71, e dunque un medesimo atteggiamento anche da parte del narratore, che continuamente infrange la finzione letteraria.

Un approccio di questo tipo, come si vedrà, rende ipotizzabile un’opera scritta non tanto (o non solo) per essere letta, bensì per essere recitata, magari dall’autore stesso e in presenza di un uditorio ampio. Un approccio, insomma, che si potrebbe definire parateatrale. Anche per questo, una delle fonti latine più care al Bassi fu Seneca – e in particolar modo il Seneca tragediografo. Per la verità, Seneca, nel corso del Medioevo e dell’Umanesimo, era andato incontro a una sorte particolare, dovuta sostanzialmente alla querelle sui due Seneca (Lucio Anneo Seneca padre, il retore, e Lucio Anneo Seneca figlio, il filosofo e tragediografo). Fu in ogni caso particolarmente apprezzato, durante l’Umanesimo, dalla filosofia cristiana (e da autori come Petrarca, Valla, Enea Silvio Piccolomini), che mutuava numerosi concetti dalla corrente filosofica dello stoicismo. Tale filosofia si offriva infatti “come una sorgente di consolazione personale e una forza per ordinare se stessi, in un mondo divenuto incerto per l’imperversare delle guerre e il dilagare delle passioni irrefrenabili. In tale contesto le proposte etiche dello stoicismo e la sua teoria dell’ordine cosmico e del controllo delle passioni esercitarono un fascino quasi irresistibile sugli spiriti in cerca di pace”72

. Seneca era il modello eccelso di questo contrasto interiore: da una parte c’era la libertà (ancorché solitaria) dell’io, dall’altra il linguaggio forte della declamazione. È nelle sue tragedie che questa

69

Del resto, Montagnani sostiene che “la storia di Ovidio nel Medioevo rimane, come è noto, ancora tutta da scrivere, o quasi” (op. cit., p. 27).

70

C. Montagnani, Il commento al ‘Teseida’ (1984), cit., p. 23 71

Ovidio, Metamorfosi, a.c. di G. Faranda Villa e R. Corti, p. 23 72

F. Buzzi, La filosofia di Seneca nel pensiero cristiano di Giusto Lipsio, in Seneca e i cristiani, a.c. di A. P. Martina, Milano, Vita e Pensiero – pubblicazioni dell’Università Cattolica, 2001, p. 366

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