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Prologo.Incubi di giorni qualunque

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Academic year: 2021

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Prologo

Sarà meglio mettere subito le mani avanti. Un momento, però. L’uso accademico e il gergo legale vietano di ricorrere alla prima persona singolare quando si parla di se stessi, al più ci sta un ‘Noi’ di – falsissima – modestia o l’incongrua e ridicola formula barocca “Ricordo a me stesso”, quando non si vuole mortificare l’interlocutore (e quindi invariabilmente lo si fa), per cui prendiamola alla larga e allora bisogna innanzitutto scegliere il registro giusto.

Chi scrive (bene così: il grimaldello comunicativo è trovato, ora si può andare avanti) non è un critico letterario. A renderlo tale non basterebbero una lunga frequentazione fin dall’adolescenza con romanzi e racconti e nemmeno l’avere avuto un importante scrittore nel giro più stretto della famiglia.

È vero solo che, dopo una non breve e magari non del tutto disonorevole carriera di avvocato e professore educato al più bieco formalismo giuridico, il suddetto (ci sto prendendo decisamente gusto con le perifrasi per eludere il pronome personale) ha deciso di riconciliare le sue passioni – prima tenute accuratamente separate – e si è messo ad insegnare pure “Diritto e Letteratura”, dandosi al riguardo anche una copertura teorica e cioè convincendosi che l’interpretazione del diritto, nello Stato costituzionale maturo, vale a dire in tempi caotici e “globali”, richiede l’apertura a nuovi linguaggi, perché gli sembra che continuare coi sillogismi logici della scuola classica per “ricostruire le fattispecie” (chi parla colto dice appunto così) non tenga più.

Forse ci siamo. Dev’essere per questo motivo che l’autore dei racconti che state per leggere – ammesso che non abbiate già saltato la prefazione, peccatuccio da cui sareste peraltro assolti facilmente, visto che farlo è assolutamente normale – lo ha coinvolto nell’impresa.

Il mio primo contatto da lettore con Bruno Capponi non è infatti avvenuto leggendo uno dei suoi libri e saggi di procedura civile, ma appunto attraverso le pagine di un romanzo – “Il concorso” – nel quale si raccontano le vicende travagliate che dovrebbero

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condurre ad assegnare tre ambite cattedre di Estetica del Diritto in altrettanti Atenei del nostro Paese.

Avevo voglia a dirmi che la vena sulfurea e ironica dell’autore esagerava, che lui narrava di persone, circostanze e stilemi che mai avrebbero potuto incontrarsi nella realtà. Più mi immergevo nel plot e più il mio disagio cresceva. Come dice il latinetto delle scuole medie di una volta? Ah, già: “De te fabula narratur”.

Però adesso basta. La specie più fastidiosa dei prefatori è quella di chi si mette a gara con i prefati – i compari dei suddetti, insomma – per dimostrare che manco loro scarseggiano in bravura. Oppure di chi pretende di raccontare in poche righe la sostanza di un libro e così fa passare la voglia di scoprirsela da soli.

Qui si fornirà soltanto, allora, una possibile chiave di lettura per penetrare dentro un mondo letterario, com’è restituito dai racconti che seguono. O, almeno, di quale essa sembra a chi li ha letti con godimento per presentarli a quanti debbano venire ingolositi da questa piccola introduzione, allo scopo di continuare il percorso. La base di tutto (non sarebbe nemmeno il caso di dirlo) è una ricca esperienza professionale. Basta mettere piede con sguardo disincantato nelle aule di un tribunale o in quelle di un’università, in un cinema d’essai, in un ristorante per gourmet in cui il prezzo dei piatti è inversamente proporzionale alla quantità di cibo in essi contenuto, ovvero in più modeste taverne e i personaggi e le situazioni che qui si descrivono – gli avvocati tromboni, i professori dalla scienza improbabile, i magistrati che forse manco lo sono, ma sono più reali di quelli veri, o altra varia umanità – ti si faranno incontro.

Ti occorrerà molta attenzione per capire se sei nel mondo di carne, ossa e miserie che è poi quello quotidiano di noi tutti, o ancora dentro l’atmosfera di un racconto di Capponi. Il quale, del resto, gioca abilmente le sue carte, per cui ti trasporta in delirî surrealistici piano piano e tu da lettore non riesci a capire qual è stato il momento preciso in cui dal rispecchiamento di una vita che potrebbe essere anche la tua sei entrato in quel baraccone del luna park che invece ti deforma in appositi specchi traditori viso, corpo e pensieri: tutto è ora diverso da come sei, ma anche non tanto che tu non possa da lontano riconoscerti nell’incubo.

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C’è anche il divertissement su come si scrive una dotta monografia per la cattedra, si ammira in controluce l’incredibile competenza enologica dell’autore (quando lo si cerca al telefono in tempo di vacanze è facile che lo si trovi in giro a scoprire nuovi vini di pregio, mantenendosi peraltro sempre sobrio e controllato) e ci si imbatte perfino nel godibile ritratto di un tassista psicanalista. Nemmeno in quest’ultimo caso (anche considerate le tariffe di quelli romani) si va poi tanto lontano dal vero. Io, per esempio, avevo invece una volta un barbiere filosofo, ogni seduta dal quale si trasformava in un’analisi dei Massimi Sistemi o in un seminario di geopolitica.

Poi viene il letterato. Leggevo e annotavo mentalmente i compagni di strada dell’Autore: qui c’è Bulgakov, lì Pirandello, qui il giudice Brigliadoca di Rabelais e la fantasia linguistica di Gadda, più lontano Dürrenmatt, o Buzzati, o Borges e chissà quanti ancora. Dove si dimostra che dietro e prima di uno scrittore felice e dalla penna fine c’è innanzitutto un lettore onnivoro e dall’occhio lungo e critico.

E infine – a me pare e non certo per ultima – c’ è la malinconia. Perché puoi anche essere un avvocato di grido e un professore riverito (per la verità si dice “Chiarissimo” e quando invecchi te ne accorgi infallibilmente, perché incominciano a darti in sovrappiù del Maestro e tu capisci che ti stanno scavando la fossa), ma una sera alla Garbatella – magari sullo stimolo di un profumo, di una voce, di uno scorcio di strada – ti prende assassina alla gola la nostalgia di un sentimento lontano e irrecuperabile (era quello, l’amore e ora manco mi ricordo com’è finito), se non a brandelli, dal fondo della memoria. O, in un appartamento di un palazzo popolare, ritrovi il malamore di un pranzo d’obbligo tra un padre e un figlio, tra due esistenze che hanno avuto sì un legame biologico, ma che fuori di esso non hanno ormai più nulla da dirsi veramente, o almeno non trovano la strada per comunicare.

Leggete, dunque, e fatene profitto. Noi avvocati e professori possiamo essere perfino piacevoli da frequentare, quando non abbiamo una parcella da chiedervi o un esame a cui bocciarvi.

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