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Considerazioni cliniche e biomeccaniche nella guarigione delle fratture diafisarie di omero trattate con fissatore esterno.

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione

2

Tecnica Chirurgica: La fissazione esterna nelle fratture diafisarie di

omero

4

Revisione Casistica

o Materiale e Metodi

7

o Risultati

9

o Casi Clinici

10

Prove di Biomeccanica

o Premesse alle Prove di Biomeccanica

12

o Modello Sperimentale

16

o Analisi delle curve

19

o Analisi del Movimento

24

o Considerazioni

25

Discussione

29

Conclusioni

34

(2)

INTRODUZIONE

Le fratture della diafisi dell’omero rappresentano circa il 2-3% del totale delle fratture con un’incidenza media di 14 casi su 100.000. [1,3,4]

Presentano un picco d’incidenza bimodale: al di sotto dei 50 anni più frequente nel sesso maschile, al di sopra dei 70 anni prevalente nel sesso femminile

Nel primo caso il meccanismo lesivo è legato a traumi ad alta energia, dovuti ad incidenti stradali, traumi sportivi, oppure a cadute dall’alto.

Nel secondo caso, ai traumi ad alta energia, si sommano quelli a bassa energia come cadute in ambiente domestico da modica altezza, spesso correlati ad un quadro clinico di osteoporosi predisponente. [1,2,]

Le metodiche più utilizzate negli anni per il trattamento delle lesioni della diafisi omerale sono state sia di tipo incruento, con apparecchi gessati e tutori, sia di tipo chirurgico con l’osteosintesi interna, l’inchiodamento endomidollare e la fissazione esterna.

La complicanze principali delle fratture diafisarie dell’omero e del loro trattamento sono rappresentate dalla lesione del nervo radiale (la più rara e temibile), dalla lesione dell’arteria brachiale e dalla pseudoartrosi.

 Il nervo radiale è frequentemente interessato in questo tipo di lesioni poichè decorre addossato alla superficie posteriore dell’osso nella doccia di torsione dell’omero. Tale lesione è presente complessivamente nell’11,8% dei casi (15,2% fratture della diafisi) ed associata più di frequente alle fratture spiroidi tipo Holstein-Lewis. [5] Il nervo può essere contuso o stirato dai frammenti della frattura oppure può andare incontro a lacerazione. In questo caso la paralisi si presenta bruscamente con un deficit nell’estensione delle dita (mano cadente) e del polso con ipo-anestesia del I e del II dito e del I e II raggio sul dorso della mano. Il recupero funzionale parziale può richiedere anche alcuni mesi, per cui l’andamento deve essere monitorato con studi elettromiografici. Nelle fratture chiuse il recupero è di solito pari al 100% e la revisione chirurgica del nervo è indicata solo qualora il recupero funzionale non sia ancora iniziato dopo quattro - sei mesi dall’evento traumatico. [6,7,8] Un'altra causa di interessamento del nervo radiale in questo tipo di fratture è iatrogena, per stiramento o

compressione durante le manovre di riduzione della frattura o per lesione diretta durante gli accessi chirurgici nel terzo distale laterale della diafisi omerale, laddove il nervo da posteriore passa anteriore abbracciando la diafisi omerale.

 La lesione arteriosa dell’arteria brachiale è una complicanza rara ma temibile che necessita di un trattamento d’urgenza.

 Le cause alla base dello sviluppo di pseudoartrosi sono molteplici [9, 11]. Nelle fratture di omero definiamo pseudoartrosi la mancata consolidazione radiografica della frattura a sei mesi dal trattamento[12, 10]. L’insorgenza della pseudoartrosi è estremamente variabile 2-33% delle fratture di omero. La causa principale è l’instabilità della frattura ovvero la presenza di movimenti anomali

(3)

riduzione non buona. La maggior parte delle fratture che esitano in

pseudoartrosi sono dovute all’ inadeguatezza del trattamento[13]. Altri fattori di rischio predisponenti alla pseudoartrosi, oltre alla già citata instabilità della riduzione, sono l’utilizzo quotidiano di tabacco (38-53%), le malattie

cardiovascolari (37%), le malattie metaboliche dell’osso (32%) ed i politraumi con fratture multiple di ossa lunghe. [13a][13b]. Secondo diversi autori anche l’obesità, definita da un BMI > 30, interviene in una percentuale compresa tra il 35% e il 37% nello sviluppo della pseudoartrosi. Altra causa di pseudoartrosi è l’esposizione della frattura che comporta la perdita dell’ematoma di frattura, compromettendo l’inizio del processo di consolidazione. La necrosi ossea, dovuta a mancata vascolarizzazione è un'altra condizione favorente l’evoluzione verso la pseudoartrosi. Infine l’infezione della frattura associata ad esposizione ossea può essere causa di pseudoartrosi. [10,14]

La nostra esperienza con i fissatori esterni ci ha permesso di valutare come l’utilizzo di questa metodica in questo tipo di fratture produca risultati

sovrapponibili sia clinici che radiografici con le altre metodiche più invasive garantendo al contempo i vantaggi della rapidità e di una scarsa invasività. Abbiamo quindi provveduto ad effettuare una revisione casistica di 72 casi di fratture diafisarie d’omero trattate con fissatore esterno, ottenendo la guarigione in tutti i pazienti tranne uno, e con un recupero completo della mobilità

articolare. Ci siamo posti diversi elementi di criticità in particolare quello di capire il comportamento del fissatore esterno nelle fratture diafisarie di omero da un punto di vista meccanico paragonandole a quelle del chiodo

endomidollare, realizzando un modello sperimentale e testandolo su apposite macchine.

(4)

TECNICA CHIRURGICA

Abbiamo usato il fissatore esterno tipo Hoffmann II della ditta Stryker che è un fissatore modulare costituito da morsetti in alluminio e barre in carbonio e alluminio.

La tecnica operatoria prevede il posizionamento del paziente sul letto operatorio in posizione supina con l’arto superiore abdotto a 45°-60° e il gomito flesso a 90°. La Flessione del gomito permette di detendere il nervo radiale che si antepone aumentando la sicurezza della zona di infissione degli elementi di presa.

Figura 1. Anatomia dell’omero e decorso del nervo radiale

L’anestesia è generalmente di tipo loco-regionale con blocco continuo del plesso brachiale per via interscalenica. Tale tecnica consente, in virtù della possibilità di prolungare l’effetto analgesico nel periodo postoperatorio, un’immediata mobilizzazione passiva dell’arto operato.

Le fiches sono autofilettanti con diametro di 4 o di 5 mm e vengono infisse sempre manualmente, solitamente due prossimali e due distali al focolaio di frattura; a seconda della complessità della frattura da stabilizzare ne possono essere usate alcune interframmentarie.

Per i punti di infissione seguiamo i concetti e le mappe descritte dal Prof. Bianchi Maiocchi (fig. 2) posizionando le fiches tutte sul piano laterale dell’omero.

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Figura 2. Corridoi di sicurezza e zone di inserzione delle fiches La prima fiches viene inserita in posizione appena prossimale alla fossetta olecranica, avvalendosi dell’aiuto dell’amplificatore di brillanza, praticando nella zona prescelta sulla corticale laterale un invito con filo di K, procedendo quindi all’infissione latero-mediale con una lieve inclinazione in senso postero-anteriore per evitare il nervo ulnare.

La seconda fiches viene infissa sul medesimo piano della precedente, mantenendo durante questa operazione il gomito flesso e l’arto abdotto. In questo modo si detende e si anteriorizza il nervo radiale. La zona prescelta per l’infissione è una zona di sicurezza il cui limte è posto a 8,5 cm prossimalmente all’epicondilo. Inoltre, per maggiore sicurezza, all’interno del morsetto, che prevede 5 posizioni d’ancoraggio, si utilizzano le posizioni 1-4 o 2-4.

Le fiches prossimali vengono infisse sulla superficie laterale dell’omero e prossimalmente alla “V” deltoidea, giungendo per via smussa sul piano osseo attraversando le fibre muscolari del deltoide.

Si procede quindi al montaggio delle barre di connessione, solitamente due, ed alla riduzione della frattura sotto controllo amplioscopico.

Viene quindi serrato il sistema e stabilizzato con una barra trasversale per aumentare la stabilità dell’impianto.

L’utilizzo di due fiches prossimali e due distali e la costruzione di un impianto “lungo” garantisce la giusta elasticità e stabilità , quest’ultima incrementata per i primi 30 gg dalla barra di connessione trasversale.

Come ultimo atto vengono fissati i frammenti intermedi e nei casi in cui è stato necessario stabilizzare il terzo frammento (farfalla mediale) è stata seguita la tecnica di stabilizzazione dei piccoli frammenti descritta dall’A.O.: si esegue sulla corticale laterale un foro di 5 mm e quindi, con una fiche del diametro di 4 mm, si perfora la corticale mediale del frammento in modo da poterlo trazionare attraverso la fiche, così da migliorare la riduzione della frattura e la stabilità dell’impianto (fig 3).

Nel post-operatorio si effettua una profilassi antibiotica per 5 giorni e i pazienti sono sottoposti a mobilizzazione precoce dell’arto operato già dopo l’intervento.

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Oltre alla profilassi antibiotica si attua anche una profilassi antitromboembolica per almeno 7- 10 gg. Il rischio di tromboembolismo venoso nella chirurgia dell’arto superiore secondo la letteratura internazionale sembra essere molto basso sia per la minore stasi venosa che si determina nell’immobilizzazione dell’arto superiore sia per la maggiore attività fibrinolitica delle vene di questo distretto.

Tuttavia il rischio di un’embolia polmonare a partenza da una trombosi venosa profonda dell’arto superiore è dipendente non tanto dal tipo di intervento, quanto dalle condizioni cliniche del paziente quali insufficienza cardiaca o respiratoria cronica, obesità grave, diatesi trombofilica, gravidanza e puerperio, paralisi di uno o più arti, neoplasie in fase attiva, oltre, naturalmente, ad un pregresso episodio di trombosi venosa profonda o fenomeno tromboembolico. La medicazione dei tramiti delle fiches avviene a giorni alterni con soluzione fisiologica sterile o acqua ossigenata.

I pazienti sono sottoposti ad un controllo clinico seriato ogni 15 giorni

all’interno di un ambulatorio dedicato alla fissazione esterna, onde valutare lo stato dei tramiti cutanei delle fiches, e sottoposti ad un controllo

clinico-radiografico ogni 30 giorni per valutare l’andamento della consolidazione della frattura.

Dopo 30 giorni è stata eseguita la dinamizzazione o l’elasticizzazione del sistema di fissazione.

Il fissatore esterno è stato rimosso mediamente dopo 83,2 giorni in regime di day-surgery ed i pazienti sottoposti ad un follow-up clinico radiografico che si è protratto mediamente per due anni e mezzo.

A B C

Figura 3. A m, 41 aa, frattura con farfalla mediale. B Post operatorio, C Clinica post operatoria.

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REVISIONE CASISTICA Materiali e Metodi

Nel periodo compreso tra il 2001 e il 2010 sono stati trattati con fissazione esterna 85 pazienti, 63 maschi e 22 femmine, su un totale di 270 pazienti con frattura della diafisi omerale trattati chirurgicamente. Il follow-up medio è stato di 12 mesi.

L’età media dei pazienti è stata di 43,9 anni (minimo 10- massimo 86).

La maggior parte delle fratture è conseguita a traumi ad alta energia in pazienti giovani-adulti di sesso maschile.

In 9 casi si trattava di pazienti politraumatizzati con associate lesioni di altri segmenti scheletrici.

Il metodo usato per la classificazione delle fratture è stato quello proposto dalla A.O. esemplificata in figura 4.

Abbiamo utilizzato questa metodica sulle fratture diafisarie (segmento sec A.O. 12) e sulle fratture extra articolari del ¼ distale di omero (segmento sec A.O. 13)

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Applicando questa classificazione alla nostra casistica abbiamo riscontrato la casistica dei dati esplicati in tabella sottostante .

Tutte le fratture della nostra casistica presentavano un impegno delle parti molli (Tscherne >2). Inoltre erano presenti 4 esposizioni di frattura. Abbiamo

utilizzato questa metodica anche in due casi di pazienti gravemente obesi. I risultati sono stati valutati sia da un punto di vista clinico che radiografico valutando il tempo di consolidazione medio, l’insorgenza di pseudoartrosi, di rifratture e di difetti angolari.

Per standardizzare i risultati dal punto di vista della limitazione funzionale del paziente abbiamo utilizzato lo Short Form Health Survey (SF-36) uno dei questionari sullo stato di salute più utilizzati a livello globale. L’SF-36 ha la caratteristica di essere rapido (il soggetto può essere intervistato in pochi minuti) e facilmente riproducibile. È un questionario multi-dimensionale articolato in 36 domande che esplorano 8 domini della salute: AF (attività fisica), RP

(limitazioni di ruolo dovute alla salute fisica), RE (limitazioni di ruolo dovute allo stato emotivo), BP (dolore fisico), GH (percezione dello stato di salute generale), VT (vitalità), SF (attività sociali), MH (salute mentale) e una singola domanda sulla percezione del cambiamento dello stato di salute percepito. I risultati sono stati standardizzati per sesso ed età in base ai valori medi presenti nella popolazione. Si ottengono due indici, l’indice di salute fisica (ISF) e l’indice di salute mentale (ISM) che sono facilmente confrontabili con la media della popolazione generale.

Abbiamo altresì valutato i nostri pazienti con il DASH (Disabilities of the Arm, Shoulder and Hand) score, un questionario che misura la funzione e i sintomi in pazienti con qualsiasi alterazione muscolo-scheletrica dell'arto superiore. Un punteggio uguale a 0 indica una condizione di salute ottimale, mentre un punteggio di 100 indica l’inabilità totale all’uso dell’arto superiore. Tale strumento offre una maggiore specificità per le lesioni dell’arto superiore rispetto all’SF-36 ed è pertanto molto utile per valutare l’effettiva ripresa della funzionalità del braccio nei pazienti politraumatizzati.

(9)

Risultati

Ottantatre fratture (97,6%) della nostra casistica clinica sono consolidate con un tempo medio di consolidazione di 83,2 giorni. Ci sono stati un ritardo di

consolidazione (1,2%), ed una rifrattura dopo la rimozione del fissatore (1,2%) per patite percosse.

Abbiamo riscontrato 5 difetti angolari compresi fra 10° e 20° (7,2 %). Abbiamo avuto un solo caso neuro aprassia post traumatica del nervo radiale risoltosi completamente dopo 2 mesi. Nessuna lesione iatrogena del nervo radiale legata all’infissione delle fiches del fissatore esterno.

Da segnalare inoltre 2 infezioni superficiali (2,8%) ed una sospetta infezione profonda (1,4%) che si è risolta con la sola rimozione del fissatore esterno oltre alla terapia antibiotica mirata.

Standardizzando i dati relativi alla nostra casistica clinica mediante l’SF-36 abbiamo ottenuto:

• 81 buoni risultati, in cui il paziente non ha riportato alcuna limitazione della propria attività lavorativa e nelle normali attività sociali. Con punteggi

dell’SF36 uguali o superiori alla media nazionale

• 4 casi con punteggi dell’SF36 inferiori alla media nazionale che abbiamo classificato come cattivi risultati. In questi casi il paziente ha dovuto ridurre o modificare le normali attività quotidiane.

Per quanto riguarda i cattivi risultati si deve altresì considerare la natura

politraumatica di alcuni pazienti che hanno riportato lesioni associate oltre alla frattura di omero; essendo l’SF-36 un questionario generico sullo stato di salute non risulta semplice discernere, in caso di politrauma, quanto la limitazione derivi dalla frattura di omero piuttosto che dalle lesioni associate.

Applicando il DASH score alla nostra casistica abbiamo ottenuto ottimi risultati con un punteggio medio di 8,9.

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F, 46 anni, grave obesa (BMI 43)

A B C

A, Rx in Acuto, B e C Rx Post operatorio.

Buona tollerabilità del sistema di fissazione nonostante l’obesità

Rx c.llo alla rimozione del fissatore, 70 gg

Rx dopo 7 mesi.

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M, 28 anni

A B C D

A e B: Rx Acuto. C e D: Rx post Operatoria e Clinica.

A B C D

A e B: Controllo intermedio a 30 gg. C e D: Ottanta giorni, Rimozione del fissatore.

(12)

PROVE DI BIOMECCANICA Premesse alle prove biomeccaniche.

I buoni risultati clinici e radiografici ottenuti nelle fratture diafisarie d’omero trattate con fissazione esterna, ci hanno spinto a considerare le propietà biomeccaniche della metodica per spiegarne la qualità dei risultati.

La fissazione esterna consente di garantire la guarigione della stessa nel modo più affine al processo fisiologico, in quanto il focolaio e l’ematoma di frattura sono pienamente rispettati, non venendo mai invasi se non in presenza di fratture esposte o impossibili da ridurre per via chiusa.

Questi concetti biologici sono un indubbio vantaggio della fissazione esterna ma non servono da soli a giustificare la qualità dei risultati di questa metodica, soprattutto se rapportati a quelli delle altre tecniche. Infatti, nella nostra

esperienza abbiamo avuto con questa metodica ottimi risultati anche nei casi di fratture esposte ed al contrario, la fissazione esterna in letteratura non sempre ottiene la guarigione radiografica delle fratture anche chiuse.

Abbiamo voluto quindi esplorare il comportamento biomeccanico di questa metodica così come viene eseguita presso la nostra clinica, simulando con la maggior accuratezza possibile le condizioni reali. Infatti, se le propietà meccaniche del fissatore esterno ed il suo comportamento sono già state ampiamente studiate, ci siamo chiesti come queste influenzassero il

comportamento biomeccanico di un sistema piu ampio composto dall’ osso e dal mezzo di sintesi stesso.

Abbiamo escluso l’utilizzo di osso da cadavere per le possibili discrepanze meccaniche riscontrabili in differenti unità. Era necessario avere comunque un sostituto dell’osso che avesse le medesime propietà visco - elastiche e

geometriche così da poter simulare una trasmissione dei carichi più fisiologica possibile.

Per questo abbiamo optato per l’utilizzo del Sawbone, sostituto osseo anatomico con comportamento simil - fisiologico ed in più prodotto in serie, supportati anche dai buoni risultati ottenuti in letteratura in studi di natura traumatologica, di protesica e odontoiatria [40, 41, 42]. Per avere un paragone della nostra metodica abbiamo scelto di valutare anche la metedocaconsiderata di scelta in questo tipo di fratture, l’inchiodamento endomidollare.

Abbiamo provveduto a costruire due diversi sistemi, con due diversi mezzi di sintesi: un sistema osso - fissatore esterno ed un sistema osso chiodo. E’ stata simulata una frattura su ognuno di essi, secondo il pattern più frequente nella nostra casistica. Il montaggio del fissatore è stato effettuato secondo la tecnica chirurgica descritta in precedenza ed usata nella nostra clinica. Il chiodo è stato

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applicato secondo la tecnica chirurgica descritta dal produttore (T2 anterogrado, Stryker)

Relazioni fra stress e strain

Il comportamento dei materiali varia in funzione del tipo di materiale, delle sue caratteristiche e delle condizioni esistenti al momento della deformazione. I materiali possono quindi essere definiti come:

 omogenei: se le proprietà di una porzione del materiale sono le stesse in un’altra qualsiasi porzione dello stesso materiale

 non omogenei: se le proprietà di una porzione del materiale sono diverse da un’altra qualsiasi porzione dello stesso materiale

 continuo (od isotropo): se le caratteristiche composizionali variano gradatamente da un punto ad un altro del materiale

 discontinuo (od anisotropo): se le caratteristiche composizionali variano bruscamente da un punto ad un altro del materiale

Con lo stesso criterio può anche essere definito il campo di stress che così può essere omogeneo se il vettore dello stress ha la stessa entità ed orientamento indipendente dalla posizione della superficie su cui il vettore agisce; il campo di stress é invece non omogeneo nel caso opposto.

Le valutazioni sulla relazione fra stress e deformazione sono fatte generalmente basandosi sui concetti di “omogeneità” e “continuità”, questo perchè la

trattazione matematica risulta più semplice. L’esperienza dimostra che le

condizioni di omogeneità e continuità, sia del campo di stress che del materiale, non sono verificabili in natura (né probabilmente sono possibili) ma che i

risultati della trattazione sui materiali ideali sono applicabili a quella della trattazione dei materiali reali.

Comportamento ideale dei materiali Si possono distinguere i seguenti comportamenti ideali:

COMPORTAMENTO ELASTICO: si determina un comportamento elastico quando, eliminando lo stress, il corpo assume la sua forma e dimensione originaria (es.: il comportamento di una molla).

Il comportamento idealmente elastico segue la legge di Hook: e = s/E cioé stress/strain = costante

e = l1 - l0

s é lo stress applicato

E = modulo di Young o modulo di elasticità, caratteristico del materiale lo stress e lo strain hanno una relazione lineare, esprimibile con una retta.

(14)

Altro importanti parametri del comportamento elastico sono il:

coefficiente di Poisson: n= elat/elong rapporto fra quanto il campione si allunga e quanto si accorcia

Bulk modulus: K = DP/DV rapporto fra la variazione della pressione idrostatica e la variazione del volume

Shear modulus: G =t/y, rapporto fra lo sforzo di taglio e l’angolo di taglio COMPORTAMENTO VISCOSO (o newtoniano) Il modo migliore per

realizzare il comportamento viscoso é pensare ad un liquido che viene posto in un contenitore e poi il contenitore viene inclinato. Maggiore sarà la velocità del flusso (cioé la velocità di deformazione), maggiore sarà lo stress applicato. Una volta eliminato lo stress, il corpo a comportamento viscoso non recupera la condizione iniziale: la deformazione é permanente.

L’equazione che regola le relazione fra stress e velocità di deformazione (strain rate) é:

s = h e dove:

e = tasso di deformazione (e/t - in secondi) s = stress

h = viscosità (costante, propria di ogni materiale)

In un materiale a comportamento ideale newtoniano, la relazione fra stress e tasso di deformazione (strain rate) é espressa da una retta. Maggiore é lo stress applicato maggiore é la velocità della deformazione.

COMPORTAMENTO VISCOELASTICO:Il comportamento viscoso e quello elastico possono essere combinati insieme dando origine al comportamento VISCOELASTICO. Una volta tolto lo stress applicato, il corpo impiega un

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COMPORTAMENTO PLASTICO: Il materiale non subisce deformazione fino al raggiungimento di un valore soglia dello stress applicato. E' idealmente assimilabile allo sforzo necessario per spostare un cumulo di mattoni. La deformazione, una volta avvenuta non è recuperabile.

E’ stato comunque riscontrato che, una volta raggiunto il valore di soglia (yeld point = punto da cui si passa dalla deformazione elastica alla plastica), per continuare ad avere deformazione, possa essere necessario aumentare (strain hardening) o diminuire (strain softening) lo stress applicato

Abbiamo eseguito prove meccaniche per valutare il comportamento, in termini di stress - strain, del sistema Osso Fissatore esterno, paragonandolo ad un sistema osso - chiodo endomidollare.

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Modello sperimentale

Abbiamo realizzato due modelli sperimentali:

• Sistema Osso-Chiodo endomidollare, composto da: un osso sintetico standard Sawbone mod. 1028 sul quale è stato montato un chiodo di omero

endomidollare anterogrado bloccato di norma in uso presso la nostra struttura (modello T2 Stryker mis 9/290 mm), secondo la tecnica chirurgica proposta dalla casa costruttrice. Successivamente è stata praticata una soluzione di continuità a tutto spessore con lama seghettata dello spessore di 2 mm.

• Sistema Osso- Fissatore Esterno, composto da: un osso sintetico standard Sawbone mod. 1028 sul quale è stato montato un impianto di fissazione esterna secondo lo schema normalmente in uso presso la nostra struttura (modello Hoffman 2 Stryker Fiches 5/120mm morsetti con 5 alloggiamenti, barre in carbonio 8/250mm e 8*150mm), secondo le tecniche chirurgiche proposte e messe in atto nella nostra normale pratica clinica. Successivamente è stata praticata una soluzione di continuità a tutto spessore con lama seghettata dello spessore di 2 mm.

E’ stato testato anche un osso sintetico standard Sawbone mod 1028 integro in modo da avere dati precisi sul comportamento del materiale di questa

componente dei sistemi in esame.

Figura 5. Modelli sperimentali

La soluzione di continuo, è stata effettuata nella solita zona (14 cm sulla corticale laterale partendo dall’ apice della testa) in entrambi i sistemi ed

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frattura obliqua con andamento da laterale a mediale e dall’alto verso il basso. In realtà secondo la nostra esperienza queste fratture hanno sempre una

componente rotazionale spiroidea, ma abbiamo dovuto escluderla nella loro riproduzione sperimentale per l’impossibilità di standardizzare questa

componente ed eliminando quindi ogni fonte di errore nella raccolta dati.

Abbiamo scelto di utilizzare un modello di osso sintetico per evitare di incorrere in dati falsati dalla diversità di resistenza dell’ osso naturale, a livello degli elementi di presa sull’osso ed in generale a livello della corticale diafisaria. L’osso sintetico infatti è prodotto in serie e offre sempre le stesse prestazioni, standardizzando quindi le propietà meccaniche della componente comune ad entrambi i sistemi.

Test in compressione

Abbiamo effettuato test in compressione ciclica a velocità costante e test di fallimento dell’ osso sintetico integro, del sistema Osso Chiodo e del sistema Osso Fissatore.

Figura 6 Prove in compressione del sistema Osso fissatore.

La compressione è stata effettuata in maniera coassiale con l’asse maggiore dell’ omero, senza utilizzare elementi penetranti nei sistemi. Questo per stressare il sistema intero e non il punto di presa del macchinario sull’ osso sintetico.

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Abbiamo utilizzato un macchinario Instron mod. 4464 con la seguente routine:

• 10 prove di 2 cicli ciascuna per ogni sistema, con velocità costante di 10mm al minuto, con spostamento massimo in compressione di 5 mm.

• 10 prove di 2 cicli ciascuna per ogni sistema, con velocità costante di 300mm al minuto, con spostamento massimo in compressione di 5 mm.

• Compressione fino fallimento del sistema con velocità costante 10 mm al minuto e spostamento massimo concesso in compressione 30mm

Modifiche in itinere: per le propietà del sistema osso - chiodo abbiamo dovuto applicare uno spostamento di ritorno di 2 mm per poter completare le prove. Abbiamo scelto da effettuare i test esclusivamente in compressione sia valutando la fisiologia e la biomeccanica in vivo dell’omero sia per poter applicare una metodologia corretta e priva di errori dovuti all’interfaccia macchinario di prova - sistema testato.

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Analisi delle curve

Il comportamento dei sistemi è stato analizzato anche utilizzando un grafico a dispersione XY: sull’ asse X si trova lo spostamento in termini di mm, in negativo perchè in compressione. Sull’ asse delle Y lo stress in termini di N, in negativo per praticità.

Prove Cicliche

Riferimento, Osso sintetico.

Analizzando le curve stress - strain del materiale di riferimento si può notare come questo abbia un comportamento viscoelastico, con una curva assimilabile a quella dell’osso umano, non tanto come valori assoluti ma come andamento della curva e capacità di recupero. Il massimo spostamento nelle prove cicliche lo si è raggiunto a 487 N per quelle a 10 mm al minuto e 496 N nelle prove a 300 mm minuto.

Sistema Osso - Chiodo.

Il sistema osso chiodo si comporta in maniera peculiare, con una prima fase di attrito dinamico ed una successiva di comportamento viscoelastico, con la deformazione massima raggiunta a valori di 434 N. Il sistema però con la prima compressione viene deformato durante la fase di attrito e questa deformazione è permanente (comportamento plastico), tanto che, per poter continuare il ciclo si è reso necessario impostare un punto di ritorno più basso rispetto a quello di partenza, mantenendo così la compressione nei cicli successivi al primo, per ogni prova.

Sistema Osso - Fissatore.

Il comportamento del sistema osso fissatore è assimilabile al comportamento puramente elastico, in quanto spostamento e compressione hanno un rapporto quasi lineare, con spostamento massimo valori 150 N. Abbiamo effettuato anche prove irrigidendo il sistema aggiungendo una barra, ottenendo lo stesso

comportamento ma con una forza maggiore per raggiungere lo spostamento 173 N.

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Figura 7. Curve di compressione ciclica 10 mm/minuto dei vari sistemi testati:

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Figura 8. Curve di compressione ciclica 300 mm/ minuto dei vari sistemi testati:

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Compressione fino a rottura Sistema Osso Chiodo:

la compressione a rottura ha fatto fallire il sistema a 500 N ad una velocità di 10 mm/minuto. Il fallimento è avvenuto con la rottura dell’ osso sintetico nel punto di inserimento della vite di blocco distale. Fino alla rottura il comportamento del sistema è stato viscoelastico, come nelle prove cicliche.

Sistema Osso Fissatore:

non si è verificato un vero e proprio fallimento del sistema, avendo questo raggiunto il massimo spostamento di 30 mm. Il sistema si è modificato in maniera tale da non tornare alla situazione di partenza, ma con un

comportamento pressochè elastico, anche se con fasi di attrito dinamico.

A B

Figura 9, Fallimento del sistema: A punto di rottura osso chiodo. B Deformazione residua del sistema Osso – Fissatore esterno

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Figura 10. Curve di rottura: Osso –Chiodo, Osso – Fissatore classico, Osso Fissatore Rigido

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Analisi del movimento a livello di frattura. Sistema Osso Chiodo:

A livello della frattura i movimenti che si verificano in questo tipo di sistema sono di natura rotazionale, fino al raggiungimento del contatto delle corticali in un punto della soluzione di continuità, mentre all’estremità opposta si ha un aumento della distanza dei monconi. Dopo il contatto in questa zona i

movimenti cessano e lo spostamento del sistema si ha con una flessione con convessità sul lato mediale e anteriore.

Sistema Osso Fissatore:

A livello della frattura in questo sistema si ha uno spostamento dei monconi fino al loro contatto, e successivamente uno scivolamento tangenziale. Finita la fase di compressione il sistema torna esattamente nella posizione iniziale, per ogni ciclo eseguito.

A B C D

Movimenti rotazionali del sistema osso chiodo: A fase iniziale, B rotazione, C contatto, D fase finale, rotazione permanente.

A B C D

Movimenti rotazionali del sistema osso Fissatore: A fase iniziale, B rotazione, C deformazione massima, D ritorno alla posizione iniziale.

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Considerazioni. Modello sperimentale ed esecuzione delle prove.

Il modello sperimentale e gli accorgimenti scelti per l’esecuzione delle prove ci hanno permesso di eliminare alla base errori o comportamenti anomali dovuti ai materiali, pur mantenendo una condizione simile alla realtà. Il nostro scopo infatti non era quello di studiare il comportamento e le propietà meccaniche dei sistemi di fissazione, ma il comportamento del sistema Osso – mezzo di sintesi in condizioni parafisiologiche. La scelta di eseguire prove in compressione è stata fatta proprio per poter limitare al massimo la dispersione delle forze o il loro assorbimento, durante la trasmissione delle stesse dal macchinario al modello sperimentale, ed avere quindi dati esaminabili completi. L’utilizzo del Sawbone come supporto e come sostituto dell’ osso nelle prove biomeccaniche è una pratica attualmente molto diffusa e ormai standardizzata. I punti di

applicazione delle forze sono stati scelti per rispettare maggiormente l’asse di carico dell’ omero. Le forze sviluppate sono entro i limiti fisiologici.

Sistema Osso – Chiodo

La curva espressa dal sistema osso – chiodo (con una prima fase di attrito dinamico e successivamente un comportamento visco elastico) si spiega anche alla luce dell’ analisi dei movimenti a livello della frattura. Infatti all’ inizio della compressione i due monconi effettuano una rotazione inversa l’uno rispetto all’altro fino a che non avviene un contatto sul versante anteriore della frattura. Questa fase corrisponde a quella di attrito dinamico: la rotazione infatti non è continua ma interrotta dall’attrito del chiodo entro il canale midollare. Una volta che lo stress in compressione supera la resistenza dell’ attrito la rotazione procede, ciclicamente fino a raggiungere il contatto delle corticali. A questo punto i monconi non possono più ruotare ed il sistema si comporta in maniera viscoelastica per i successivi cicli. La rotazione è però irreversibile, infatti nella fase di ritorno il sistema risulta deformato in accorciamento di 2 mm. Questa rotazione è possibile perché l’alloggiamento delle viti nel chiodo per il

bloccaggio permette un minimo movimento di inclinazione con un cono di circa 10°. Se si pone il chiodo come fulcro della rotazione il moncone, solidale alla vite, può quindi ruotare sull’asse del chiodo di 10 gradi. Questo avviene sia sulla vite prossimale che su quella distale. Essendo nel nostro sistema le viti

complanari, la rotazione stessa dei due monconi è coassiale ma opposta, ed il movimento che ne scaturisce e una rotazione relativa tra i monconi di circa 20°. L’irreversibilità della rotazione è dovuta al fatto che essa avviene in maniera plastica. Una volta che il sistema si stabilizza esso si comporta in maniera viscoelastica nelle compressioni cicliche, con una curva dal percorso simile a quella del materiale di riferimento ma con valori di stress inferiori. Questo

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carico si esplichi sull’ unico asse dell’intero sistema. Essendo entrambi i materiali viscoelastici questo sarà il tipo di comportamento di questo sistema. Il fallimento del sistema si ha con la rottura dopo un accorciamento di circa 8 mm. La rottura del sistema si ha con la frattura dell’ osso sintetico a livello della vite di blocco distale. Questo punto non è casuale ma ha una spiegazione

biomeccanica: è un punto di minor resisteza, proprio per il passaggio della vite, ed è il punto finale della lunghezza utile del sistema osso chiodo.

La lunghezza utile è quella misura che esprime la zona in cui il chiodo

effettivamente lavora. La solidarizzazione e la trasmissione del carico al chiodo da parte dell’osso avviene in punti precisi e dipendono dalla tecnica chirurgica:

 Chiodo non bloccato con fit massimo: il fit del chiodo fa si che le forze di carico vengano trasmesse al chiodo lungo l’intera sua lunghezza dall’interfaccia osso chiodo.

 Chiodo bloccato: il punto di trasmissione delle forze sono le interfaccie tra la vite e l’osso , il chiodo riceve il carico da queste ultime e solo in parte

dall’interfaccia osso chiodo

La distanza tra di essi è detta appunto lunghezza utile (Fig 11). Se il chiodo ha un fit massimo questa distanza corrisponde a tutta la lunghezza del chiodo. Se il chiodo ha un fit minore ed è bloccato la distanza utile è quella che intercorre tra le viti di blocco.

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La distanza utile corrisponde anche alla distanza in cui il sistema osso – chiodo acquista il modulo di elasticità della componente più rigida.

Nel nostro sistema, il punto di inserimento della vite corrispondeva al punto di passaggio tra la rigidità del chiodo e quella minore dell’ osso sintetico,

corrispondente a quello che accade in un osso normale. È in questo punto di passaggio con diversi moduli di elasticità che si verificano anche in condirezioni reali, i fallimenti del sistema, come evidenziato in fig 12

Figura 12. F 72aa Frattura traumatica da caduta accidentale nella zona di giunzione osso - vite

Sistema osso fissatore.

Il comportamento del sistema osso fissatore è sempre stato assimilabile a quello puramente elastico, senza la componente di viscosità. Analizzando la curva si nota una relazione quasi lineare, tra forza e deformazione. Irrigidendo il sistema e modificandone il modulo elastico cambia l’inclinazione della curva ma non la linearità.

Calcolando ipotetici moduli di Young dei due sistemi si ottengono valori di 3000N/m per il sistema standard e 3460 N/m per il sistema più rigido. Questo comportamento è dovuto alla geometria del sistema. Il carico viene trasferito oltre la frattura da una componente (Fissatore esterno) lontano dall’asse di carico. Si avranno quindi sul sistema delle forze in trazione sul fissatore ed in compressione sull’ osso sintetico. Questo si può valutare con i movimenti a livello di frattura che sono di iniziale accorciamento e poi di scivolamento dei monconi: la frattura obliqua permette lo scivolamento tra di loro dei monconi e ci permette di valutare questo meccanismo. Le propietà di comportamento elastico del sistema sono quelle dettate dalla componente che sorregge il carico, cioè il fissatore (fig 12). Cessato lo stress il sistema torna esattamente alla posizione iniziale. In questo tipo di sistema le propietà complessive sono indipendenti da quelle dell’osso, in poche parole qualsiasi

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fosse stato il materiale solido di supporto al mezzo si sintesi il sistema si sarebbe comportato allo stesso modo.

Fig 12 Comportamento teorico in compression del fissatore.

Diversamente se fosse stata una frattura tronca tale da impedire lo scivolamento dei monconi una volta raggiunto il contatto il sistema avrebbe avuto un sistema viscoelastico dipendente anche dalle caratteristiche del materiale di supporto. In questo ipotetico caso, per le propietà elastiche del fissatore una volta cessato lo stimolo il sistema tornerebbe alla situazione di partenza, rimuovendo il contatto e non effettuando nessuna deformazione irreversibile.

Il fallimento del sistema nella prova fino a rottura si è avuto non per una rottura ma per una deformazione permanente residua alla massima compressione, dovuta allo scivolamento dei monconi che si sono successivamente bloccati l’uno sull’altro al momento del ritorno ciclico con una deformazione di circa 8 mm in accorciamento. Sbloccando manualmente i monconi, abbiamo notato una deformità residua in flessione dei monconi dovuta alla rotazione dei connettori tra barra longitudinale e barra di connessione al morsetto.

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DISCUSSIONE

Il trattamento delle fratture diafisarie di omero non trova a tutt’oggi una metodica di trattamento globalmente condivisa.

In letteratura internazionale si trovano pochissimi articoli sulla fissazione esterna applicata al trattamento delle fratture diafisarie di omero, e gli unici che si trovano sono relativi a fratture gravemente esposte (tipo 2-3 Gustilo).

Numerose sono state le metodiche di trattamento attuate nel tempo dai vari autori, sia di tipo incruento che di tipo chirurgico.

Le fratture semplici e senza esposizione ossea sono state a lungo trattate con metodo incruento. Tale metodica, la prima ad essere stata attuata, è a tutt’oggi ritenuta ancora valida, pur tuttavia essendo di lunga durata e di non facile gestione, specie nel paziente poco collaborante.

Il trattamento incruento prevede per il primo periodo il confezionamento di un gesso pendente, che sfrutta l’azione gravitaria per ridurre e mantenere in asse i monconi di frattura. Successivamente l’apparecchio gessato è sostituito da un tutore funzionale fino a guarigione. [15,16]

Tuttavia questa metodica di trattamento è gravata da una maggiore incidenza di pseudoartrosi e di consolidazioni anomale[17]. Per Rutgers et al la percentuale di pseudoartrosi può arrivare al 29% nelle fratture trattate con metodica incruenta [17 bis] anche se autori come Sarmiento ed Ekholm riportano buoni risultati nel 90% .

Il trattamento chirurgico che è attualmente la metodica terapeutica predominante si avvale di diverse tecniche.

L’osteosintesi con placca è stata considerata per anni il gold standard nel trattamento delle fratture diafisarie di omero [18]. È indicata soprattutto in quelle fratture in cui si renda indispensabile l’immediata esplorazione diretta del nervo radiale o nelle fratture con associazione di una lesione vascolare. Tuttavia, come sostenuto da YC Shao et al., si ritiene ormai che l’esplorazione chirurgica del nervo radiale non sia necessari prima che siano trascorsi sei mesi dall’evento traumatico in assenza di un inizio di recupero funzionale [5].

Inoltre proprio all’osteosintesi con placca vengono attribuite, nonostante le metodiche di isolamento e protezione, numerose lesioni iatrogene del nervo radiale [19]. Le percentuali di lesioni iatrogene del nervo radiale utilizzando l’osteosintesi con placca variano dal 5,1% secondo Paris et al. [20] al 17,6% secondo Lim et al [21]. Inoltre si deve considerare come l’osteosintesi con placca sia una metodica piuttosto invasiva. Secondo Zhiquan et al una riduzione della invasività si ottiene mediante l’utilizzo della MIPO (osteosintesi con placca mini-invasiva). Tali autori riportano una guarigione delle fratture in un tempo medio di 16,2 settimane, senza l’insorgenza di pseudoartrosi o lesioni del nervo radiale, con un 53,8 % di risultati eccellenti ed un 46,2% di buoni risultati (utilizzando lo UCLA scoring system) [19] .

Altra metodica utilizzata, in particolare nelle fratture chiuse, è l’inchiodamento endomidollare eseguito a “cielo chiuso” con alesaggio del canale midollare [22,27].

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Per quanto riguarda la tecnica chirurgica, esiste la possibilità di eseguire l’inchiodamento sia per via anterograda che retrograda. Tuttavia nel caso di tecnica anterograda un accesso troppo mediale può portare assai di frequente ad un danno della cuffia dei rotatori con successivo deterioramento della funzionalità articolare. In uno studio effettuato da Biggi et al su 50 pazienti con fratture diafisarie di omero, in 38 casi è stato eseguito un inchiodamento per via anterograda ed in 12 casi (24%) per via retrograda. Su 38 pazienti trattati con inchiodamento anterogrado, in 3 (7,8%) è residuata una limitazione funzionale della spalla e in 2 casi si è avuta una pseudoartrosi. [23,24]

Come segnalato anche da Sarmiento et al la via di accesso retrograda è associata al rischio di fratture intra-operatorie dell’omero [25]. In generale la letteratura è unanime sul fatto che l’inchiodamento endomidollare è associato ad altre complicanze nel 19% , come ad esempio riportato da Jinn – lin. Queste complicanze erano: un numero non sottovalutabile di pseudoartrosi (5,6%), compromissione della funzionalità della spalla, compromissione della funzionalità del gomito e alcuni casi di protrusione dei mezzi di sintesi che rendono necessaria la loro rimozione [26].

In definitiva però la placca gode di maggior considerazione del chiodo garantendo risultati sovrapponibili senza il rischio di compromettere la funzionalità della spalla o del gomito [26 bis]

La fissazione esterna in letteratura risulta essere una metodica di salvataggio fondamentale nelle fratture con esposizione ossea (Tipo 2-3 Gustilo) o in cui ci siano gravi lesioni dei tessuti molli (2°-3° Tscherne). Inoltre presenta il vantaggio di essere una metodica biologica che rispetta totalmente il focolaio e l’ematoma di frattura, riducendo il rischio di sviluppare pseudoartrosi. [22] Risulta molto utile nell’ottenere una rapida stabilizzazione della frattura in quei pazienti politraumatizzati in cui si renda necessario dare la precedenza ad altre procedure diagnostico-terapeutiche (traumi cranici e traumi addominali).

La fissazione esterna è stata da noi utilizzata anche come metodica di trattamento definitiva per le sue caratteristiche peculiari: relativa facilità di impianto, velocità di esecuzione dell’intervento, buona stabilizzazione della frattura e mantenimento nel tempo della riduzione.

Il tipo di trattamento risulta meno invasivo delle altre metodiche e non associato al rischio di lesione della cuffia dei rotatori o della articolazione del gomito. Clement et al hanno riscontrato una relativa frequenza di lesioni (4 ogni 40 fiches impiantate) del nervo radiale derivanti dall’inserzione delle fiches a livello dell’omero. [28]

Tuttavia nella nostra casistica non si sono manifestate lesioni del nervo radiale associate al trattamento con fissatore esterno; per ottenere ciò bisogna seguire la tecnica nel posizionamento dell’arto, sempre flesso a 90°, nel posizionamento delle fiches distali sempre nella zona di sicurezza (8,5 cm dall’epicondilo, fig 13) e nella manovra di riduzione.

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Figura 13: dimostrazione su cadavere del decorso del nervo radiale a gomito flesso

La compliance del paziente è buona, essendo il fissatore esterno, soprattutto a livello dell’omero, poco ingombrante e può consentire quasi senza limitazioni lo svolgimento delle normali attività quotidiane. L’infissione delle fiches sul muscolo deltoide è risultata ben tollerata in assenza di dolore, limitazioni funzionali, infezioni o complicanze di altro genere.

L’utilizzo del fissatore esterno deve però essere associato ad uno stretto monitoraggio, il paziente deve essere valutato ogni 15 giorni per controllare i tramiti delle fiches, eseguendo una corretta valutazione clinica per evitare l’insorgere di complicanze quali infezioni. È preferibile eseguire la medicazione delle fiches ogni due giorni, tuttavia alcuni studi hanno dimostrato come anche una medicazione settimanale non aumenti il rischio di infezioni. [29]

Le infezioni osservate sono però state tutte superficiali a livello dei tramiti delle fiches, dovute principalmente alla tensione esercitata dalle fiches sulla cute e sono state trattate con piccole incisioni di scarico in anestesia locale e terapia antibiotica per via orale.

La fissazione esterna si è dimostrata una metodica affidabile e trova indicazioni principalmente nelle fratture di tipo B e A2 mentre nelle tronche (A3) prevede dei tempi di guarigione più lunghi

Quello che si evince dai tests di biomeccanica di questi due sistemi è che il comportamento del sistema Osso – Fissatore Esterno è un comportamento di tipo elastico, altamente prevedibile e riproducibile. Quello del chiodo è nettamente più variabile.

Ciò che abbiamo riscontrato nel sistema osso chiodo infati è che questo sistema è si meccanicamente affidabile in grado di sopportare carichi sicuramente maggiori rispetto al fissatore, ma il suo comportamento sembra essere dipendente dal tipo di frattura e dalla qualità della riduzione. Per quanto il comportamento del sistema mimi quello viscoelastico dell’ osso, questo

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comportamento interviene soltanto quando il sistema si stabilizza, nel nostro caso dopo una rotazione dei mononi di frattura. Il nostro modello sperimentale simulava una frattura semplice, ben ridotta e con un gap minimo, e nonostante questo abbiamo comunque riscontrato una fase di attrito dinamico ed una

deformazione del sistema, irreversibile che si innesca già con forze minime. Alla luce dei dati in letteratura sulle percentuali di pseudoartrosi in questa metodica di trattamento possiamo affermare che il comportamento del sistema osso - chiodo non è affidabile in sistemi in cui il pattern di frattura e la qualità della riduzione non siano ottimali. Fratture spiroidi lunghe o pluriframmentarie ad esempio necessitano di una perfetta riduzione e di una stabilizzazione

pluriplanare con due o più viti di blocco per poter avere un comportamento biomeccanico adeguato a permettere una guarigione in tempi canonici. Di contro, alla luce dei nostri risultati si evince che l’impianto di fissazione esterna cosi come utilizzato nella nostra clinica garantisce una ottima stabilità a tutto il sistema, senza perdite di riduzione dopo compressioni cicliche,

permettendo inoltre un certo grado di movimento a livello del sito di frattura. La teoria dei micromovimenti a livello del sito di frattura ed il vantaggio che questi possono apportare alla velocità di guarigione della frattura è ormai conosciuta da molti anni. [32]

 Recentemente però Yamaji et al [33] al hanno effettuato uno studio per quantificare questi effetti: sono stati presi in considerazione due gruppi di animali da esperimento con fratture iatrogene identiche con gap di 2 e 6 mm ai quali venivano applicati micromovimenti di 0,3 e 0,7 mm, formando così 4 gruppi; i risultati dimostrano che micromovimenti dell’ ordine di 0,7 mm a livello del sito di frattura nel gruppo con gap da 2mm sono associati ad una migliore qualità del callo osseo a 4 settimane nell’ animale da esperimento. A distanza di 8 settimane il vantaggio in termini di resistenza e qualità del callo rispetto al gruppo con micromovimenti minore scompare. In generale nei gruppi con gap di 6 mm la qualità del callo era peggiore, dove si sono riscontrati inversi effetti dei micromovimenti, essendo associati in questo caso ad una peggiore qualità del callo osseeo quelli con un range di 0,7mm. Gli autori concludono che se la frattura è ben ridotta i micromovimenti sono un effettivo vantaggio nelle fasi iniziali, mentre in caso di cattiva riduzione è più utile ai fini della guarigione un certo silenzio meccanico per lo meno nelle fasi iniziali.

 Altri Autori, come Yu X et al, hanno indagato i processi biochimici che sostengono la stimolazione alla guarigione da parte dei micromovimenti: essi infatti, se controllati e a bassa frequenza promuovono la produzione di TGF – Beta 1 e IGF-1che insieme promuovono e regolano l’ossificazione endocondrale nella prima fase della guarigione. IGF-1 da solo invece promuove la

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 Il sistema osso fissatore è però un sistema in evoluzione e le propietà variano al variare delle qualità biomeccaniche del callo osseo. Burny et al [34] hanno

valutato e quantificato questa variazione prendendo in considerazione 4 frame di fissazione esterna ed hanno riscontrato che una rigidità di 200 N/mm del callo osseeo riduce le differenze di deformazione dei frames da 7 mm a circa 1 mm. Questo per il fatto che il carico e le forze vengono assorbite dall’ osso stesso e non più interamente dal fissatore. (fig 14)

Figura 14: comportamento del fissatore alla rigidità del callo.

Quindi il nostro modello sperimentale è valido e rispecchia il comportamento nella prima fase di guarigione della frattura, permettendo per forze di

compressione riproducibili in vivo una ottima stabilità del sito di frattura con la possibilità di sviluppare quei micromovimenti che possono favorire la

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CONCLUSIONI

Il trattamento delle fratture diafisarie d’omero è un argomento ancora dibattuto poiché non vi sono risultati univoci nei vari confronti tra le metodiche di

trattamento proposte. Le tecniche più utilizzate in letteratura, chiodo e placca, a fronte di risultati soddisfacenti presentano numerose complicanze, che non fanno prevalere una tecnica sull’altra. La fissazione esterna è tuttora relegata principalmente al trattamento temporaneo in urgenza o di salvataggio in situazioni cliniche particolari. La nostra esperienza clinica ha però dimostrato come questa tecnica garantisca ottimi risultati con un bassissimo numero di complicanze anche quando viene scelta come metodica di elezione per il trattamento definitivo.

Indubbiamente sono necessarie le giuste indicazioni (AO 12 - A, B, C e 13 - A2, A3) ed una tecnica che preveda un impianto stabile ma elastico, con fiches posizionate in zone di sicurezza ma tali da permettere un impianto

sufficentemente lungo. Altrettanto importante è la gestione del fissatore esterno nel post operatorio e fino alla sua rimozione: il paziente deve essere ben istruito sulla nursery dei tramiti e deve essere previsto un ambulatorio dedicato ai

pazienti trattati con questa metodica, dove il personale sia in grado di gestire il fissatore esterno e riconoscere quelle che possono essere eventuali complicanze locali.

Dal punto di vista biologico è ormai assodato che la guarigione delle fratture nella fissazione esterna segua i principi ed i processi fisiologici, rispettando in pieno il microambiente in cui si sviluppa l’ ossificazione.

Dal punto di vista clinico il fissatore risulta ben tollerato ed inoltre è una tecnica realmente mini invasiva, lasciando al paziente, a guarigione avvenuta soltanto piccole cicatrici cutanee. Non abbiamo riscontrato in questa tecnica postumi dovuti agli accessi chirurgici eventualità che caratterizzano l’inchiodamento endomidollare o la Orif. Inoltre i tempi di guarigione radiografica sono

mediamente più bassi di quelli che si possono riscontrare in un mezzo di sintesi interna.

Sicuramente la percezione del paziente e dello stesso chirurgo sono diverse per il fatto che il fissatore necessita di controlli ambulatoriali frequenti ed una nursery appropriata.

Dal punto di vista biomeccanico abbiamo riscontrato che il sistema osso fissatore risulta un sistema stabile ed elastico, con un comportamento

prevedibile ed affidabile e che permette micromovimenti a livello di frattura. Il sistema osso chiodo risulta invece comportarsi in maniera molto diversa e meno prevedibile, essendo influenzato anche dal tipo di frattura e dalla qualità della riduzione.

La connessione tra propietà biomeccaniche del sistema osso – mezzo di sintesi ed il tipo e la qualità di ossificazione sono ben caratterizzate. Nelle nostre

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che sfruttano un processo di guarigione completamente differente dai sistemi di fissazione elastica.

I sistemi di fissazione elastica, come recentemente dimostrato ed indagato da Bottlang [35], garantiscono lo sviluppo dei processi naturali e biologici di guarigione, e le propietà del fissatore esterno (range e quantità di

micromovimenti, simmetricità di questi ultimi) in questo ambito vengono prese come metro di paragone. Tenuto conto delle nostre prove di biomeccanica correlate ai dati clinici ci sentiamo di supportare in pieno le teorie esposte negli anni da numerosi autori [36, 37 ,38]

Alla luce di ciò, considerata la comprovata stabilità del sistema di fissazione esterna, considerata la biologia della guarigione della frattura ed i vantaggi biomeccanici della fissazione esterna, considerata la reale mini invasività e la sicurezza della tecnica chirurgica possiamo affermare che la fissazione esterna, se eseguita correttamente, potrebbe essere considerata la metodica ideale nel trattamento delle fratture diafisarie dell’ omero.

Concludendo la fissazione estera nelle fratture diafisarie di omero è una tecnica che, se eseguita con le dovute accortezze, permette una guarigione in tempi brevi, riducendo al minimo le complicanze legate alle altre tecniche chirurgiche. La fissazione esterna, in generale come metodica, per la buona riuscita finale necessita di un ambulatorio e di personale dedicato, che conosca le

problematiche del fissatore in modo da prevenire le complicanze ed ottimizzare il trattamento e far emergere così quelli che sono i reali vantaggi di questa metodica.

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Figura

Figura 1. Anatomia dell’omero e decorso del nervo radiale
Figura 2. Corridoi di sicurezza e zone di inserzione delle fiches
Figura 3. A m, 41 aa, frattura con farfalla mediale. B Post operatorio, C Clinica post  operatoria
Figura 4 Classificazione AO Fratture Omero.
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