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Green innovation per il 'sistema casa': uno studio empirico sulle determinanti della sostenibilità' ambientale.

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Academic year: 2021

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Corso di Laurea in Scienze Statistiche, Economiche,

Finanziare e Aziendali

GREEN

INNOVATION

PER

IL

‘SISTEMA-CASA’:

UNO

STUDIO

EMPIRICO

SULLE

DETERMINANTI

DELLA SOSTENIBILITA’ AMBIENTALE.

Relatore: Prof. Roberto Grandinetti

Correlatore: Prof. Adriano Paggiaro

Laureando: Marco Pavan

N. matricola: 603475

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1.1 Introduzione all’Innovation Management 1.1.1 Fonti di innovazione

1.1.2 Forme di innovazione 1.1.3 Diffusione dell’innovazione 1.1.4 Affermazione di un’innovazione

1.1.5 Altri concetti, e il ruolo dell’IM nelle piccole imprese 1.2 Evoluzione dell’innovation management

1.3 Studio di caso

1.4 Knowledge management e Innovation management 1.5 Gestione dell’innovazione

1.5.1 Organizzazione del processo di innovazione

1.5.2 Organizzazione dei team per lo sviluppo di innovazione 1.5.3 Organizzazione del processo di sviluppo

1.5.4 Comunicazione per l’innovazione 1.6 Relazione tra Università e innovazione 1.7 Protezione dell’innovazione

Capitolo 2 – Management della sostenibilità ambientale 2.1 - Alle radici epistemologiche della sostenibilità ambientale 2.2 - La sostenibilità ambientale

2.3 - La strada per il riconoscimento della sostenibilità

2.4 - Modelli per l’implementazione della sostenibilità ambientale 2.4.1 - Eco-Efficiency

2.4.2 - Beyond Compliance Leadership 2.4.3 - Eco-Branding

2.4.4 - Environmental Cost Leadership 2.4.5 - Sustainable Value Innovation 2.6 - Il Green marketing

2.7 - Riconoscimento della sostenibilità implementata attraverso le certificazioni 2.7.1 - ISO14001

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2.7.3 - TGC - Certificati Verdi

2.8 - Definizione e declinazione della sostenibilità per il ‘sistema-casa’

Capitolo 3 – Presentazione della ricerca empirica 3.1 – Presentazione dell’indagine quantitativa

3.1.1 – Costruzione del campione e questionario 3.2 - Profilazione del campione - Analisi descrittive

3.2.1 Discriminazione dei sotto-campioni (quesiti 1 - 2) 3.2.2 Descrizione dei progetti implementati (quesiti 3 – 18) 3.3 Analisi generica sulla sostenibilità

3.3.1 Metodologia di analisi

3.3.2 Analisi delle tavole di contingenza (quesiti 19-28) 3.4 Riepilogo dei tratti tipici dei due gruppi individuati

Capitolo 4 – Approfondimento della ricerca empirica 4.1 – Presentazione approfondimento dell’ analisi

4.1.1 – Introduzione di variabili descrittive riguardanti l’azienda

4.1.2 – Relazioni tra queste variabili strutturali e selezionati quesiti di interesse 4.1.3 – Considerazioni sui risultati dell’analisi

4.2 - Indagine sulle determinanti della sostenibilità: un modello 4.2.1 - Metodologia del modello logit

4.2.2 – Rimodulazione delle variabili necessarie all’analisi 4.2.3 - Prove e risultati ottenuti

4.2.4 – Commenti sul modello finale

4.3 Approfondimenti sulle determinanti delle diverse tipologie di sostenibilità 4.3.1 - Modelli implementati: metodologie

4.3.2 – Rimodulazione delle variabili necessarie all’analisi 4.3.3 – Prove e risultati ottenuti

4.3.4 – Considerazioni finali

4.4 - Applicazioni concrete della sostenibilità ambientale per il ‘sistema-casa’ 4.4.1 – “Villaggio Ecologico” di via Baratta vecchia

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Capitolo 1 – Innovation management

1.1 Introduzione all’Innovation Management

L’inizio di questo percorso concettuale attraverso l’innovation management deve per forza coincidere con la definizione di cosa si intende comunemente per innovazione. Per sua stessa definizione innovazione è ‘qualcosa di nuovo’, è “un’attività di pensiero che, elevando il livello di conoscenza attuale, perfeziona un processo, migliorandolo. Innovazione è cambiamento che genera progresso umano” (Wikipedia, 2010).

Gli studi di management si focalizzano nella maggior parte dei casi sull’innovazione di tipo tecnologico, utilizzata primariamente per proteggere i margini di guadagno di un’azienda e per permettere la prosecuzione della competizione sul mercato. Poiché la tecnologia è conoscenza nella sua essenza più pura, l’innovazione tecnologica è di conseguenza creazione di nuova conoscenza.

1.1.1 Fonti di innovazione

Posto che l’innovazione scaturisce dalla creatività, uno dei punti di partenza per una discussione esauriente sull’innovazione tecnologica riguarda quali siano le fonti della creatività. Poiché la creatività non è necessariamente né strutturata, né sregolata e improvvisa, esistono diverse possibilità per la sua originazione: essa può scaturire da singoli individui, inventori, oppure da organizzazioni strutturate, aziende o team. Può derivare dagli utilizzatori di un prodotto che facendone un uso quotidiano sentono l’esigenza di migliorare alcune sue caratteristiche (fonte esterna), oppure da attività interne e strutturate di R&D attraverso metodologie science push, processi lineari che mettono in sequenza attività di scoperta, invenzione, progettazione, produzione e marketing, oppure demand pull, cioè scaturite da specifiche esigenze di mercato o dei suoi attori. Fonti estremamente importanti per la creatività e quindi per la generazione di innovazione tecnologica sono rappresentate dalle università e dai centri di ricerca privati. Si occupano di ricerca tecnologica riguardo ad innovazioni sia brevettabili sia non brevettabili, conservando l’esclusiva sui diritti per la commercializzazione o condividendoli con imprese in grado di sviluppare i prodotti in questione, sia a livello di centro universitario, sia a livello di singolo inventore.

Poiché inoltre nell’odierna cultura del management una delle parole chiave è il concetto di rete, va inserito in questo contesto la specifica per cui spesso e volentieri è proprio dalle università e da questi incubatori di imprese, o meglio, dalla rete di relazioni che essi generano, che si formano dei cluster tecnologici, altra importante fonte per la

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generazione di creatività e innovazione. Essi sono definiti come “una rete di imprese connesse tra loro e di istituzioni associate operanti in determinati campi, concentrate territorialmente, dove competono e allo stesso tempo cooperano, collegate da elementi di condivisione e complementarietà” (Schilling, 2005). La vicinanza fisica e la rete di relazioni appunto, favoriscono il trasferimento delle conoscenze tacite tramite l’osservazione, e il rapporto crea la necessaria fiducia reciproca per alimentare i circuiti di feedback positivo in cui viaggia l’innovazione. Se da un lato questi cluster godono della possibilità di sfruttare economie di agglomerazione in termini di aumento della produttività delle innovazioni generato dalla condivisione su più livelli di informazioni, che determina a sua volta una crescita delle imprese stesse o la generazione maggiore di spin-off tecnologici, ovviamente esistono anche le criticità di queste esperienze, nel momento in cui ci si focalizza sull’aumento dell’inquinamento di alcune zone, l’aumento del traffico e dei prezzi delle case. A tutto questo però compensa il concetto di spill-over tecnologico in quanto i benefici generati dalle attività di ricerca di un’azienda, in questi casi, grazie alla rete di relazioni creata, si riversano anche sulle altre imprese appartenenti al cluster. Una volta che le figure istituzionali o le strutture universitarie sono venute meno, o nei casi in cui non vi siano mai stati, questo tipo di aggregazioni assumono un nome e una connotazione diversi. Si parla di Collaborative

Innovation Network come costrutti sociali, che si formano spontaneamente e che

descrivono dei processi di associazione centrati sul tema dell’innovazione. I membri di un CoIN, in questo caso le aziende, collaborano e condividono la propria conoscenza tra loro in modo diretto, piuttosto che attraverso delle gerarchie prestabilite. Le caratteristiche principali sono tre e sono individuate nella creatività appunto, nella collaborazione e nella comunicazione. Poiché inoltre queste tipologie di network nascono e si alimentano grazie alle tecnologie moderne quali Internet, il sistema e-mail, e altri mezzi per la condivisione di informazione, è utile riportare una definizione di Peter Gloor che vede i CoIN come dei “cyber-team di operatori auto-motivati con una visione comune, a cui è permesso grazie al Web di collaborare per il raggiungimento di obiettivi comuni, attraverso la condivisione di idee, informazioni e lavoro” (Wikipedia, 2010).

1.1.2 Forme di innovazione

Ovviamente, così come l’innovazione può scaturire da molteplici fonti, può assumere anche diverse ed interessanti forme. In letteratura si usa distinguere tra innovazione di

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prodotto e innovazione di processo, in relazione al fatto che si parli di progetti che

coinvolgono il design o l’architettura del prodotto fisico, o del suo processo di produzione, ma anche tra innovazioni radicali e innovazioni incrementali, secondo la discriminante per cui la prima tipologia prescinde da qualsiasi cosa sia già stato pensato e progettato, rappresentando una novità assoluta, o per la soddisfazione di un nuovo bisogno, o per la soddisfazione di un bisogno già esistente ma in un modo totalmente diverso rispetto a quanto fanno prodotti già esistenti. L’innovazione incrementale invece parte da qualcosa di già esistente e lo modifica, migliorandolo, per arrivare alla definizione di un nuovo prodotto/processo. Altra tipologia di discriminazione sono le

innovazioni competence enhancing, cioè che si basano sul sistema di competenze già

posseduto dall’azienda, ossia una sorta di evoluzione della base di competenze pre-esistenti, oppure le innovazioni competence destroying che rendono inadeguate le competenze già presenti all’interno dell’azienda rendendo necessaria la ricerca di ulteriori conoscenze. Si parla poi di innovazioni modulari, per i casi nei quali viene modificata una componente del prodotto/processo che però comporta una differente configurazione dell’intera architettura dello stesso, e di innovazioni architetturali, che implicano un cambiamento radicale della struttura generale del sistema o del modo in cui i componenti interagiscono tra loro.

1.1.3 Diffusione dell’innovazione

Per quanto riguarda la diffusione e il ciclo di vita di un’innovazione vengono offerti dei modelli che ne esemplificano le caratteristiche. La curva ad S del miglioramento tecnologico è il punto di partenza: considerando in ascissa il volume di investimenti effettuati e in ordinata l’incremento delle prestazioni, possiamo vedere come la prima fase sia molto lenta, per la non totale comprensione della nuova tecnologia da parte del mercato nel momento in cui questa viene per la prima volta commercializzata, a cui segue una fase di forte crescita nel momento in cui il prodotto è maggiormente conosciuto, la tecnologia è perfezionata e gli sforzi effettuati dalle aziende riguardano maggiormente l’incremento di performance del prodotto a parità di impegno. Nella fase finale poi della sua diffusione la crescita è di nuovo lenta, e ci si può trovare idealmente nella fase di maggiore diffusione della tecnologia. Nel complesso il processo assume una forma curvilinea ad “S” e da qui deriva il suo nome. Ovviamente questa stilizzazione non comprende tutti i casi possibili immaginabili, ma esistono situazioni in cui si verificano delle tecnologie discontinue tali per cui queste non raggiungono mai i

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propri limiti, in quanto subentrano nuove tipologie di innovazione tecnologica che soddisfano lo stesso bisogno della tecnologia di generazione precedente partendo però da una base di conoscenze totalmente nuova.

Analogamente la curva della diffusione della tecnologia, pur considerando dimensioni differenti, ossia il numero di utilizzatori in ordinata e il tempo in ascissa, disegna una curva che assume la stessa forma della precedente, cioè ad “S”. All’inizio quando i consumatori sono pochi, i tipici pionieri, poiché la tecnologia è ancora poco conosciuta, la diffusione è lenta, mentre nella fase successiva, in cui sia la tecnologia viene perfezionata, sia cresce la consapevolezza della sua utilità, sia vengono sviluppate risorse complementari, allora l’adozione è molto più rapida, per poi rallentare nuovamente quando la tecnologia è matura e il mercato di riferimento è saturo e rimangono da conquistare solamente i consumatori ritardatari.

Va considerato come queste curve hanno una valenza modellistica molto forte, ma hanno scarse capacità previsive. Inoltre, benché i due concetti di miglioramento e di diffusione della tecnologia siano correlati, i rispettivi modelli vengono comunque considerati separati.

1.1.4 Affermazione di un’innovazione

Poiché ogni tecnologia ha un suo ciclo, se si dovessero verificare delle discontinuità nei processi di evoluzione e diffusione di una particolare tecnologia allora saremmo in presenza di un era di riferimento in cui più alternative, simili tra loro magari, competono sullo stesso mercato per la selezione del modello dominante. Questi conflitti di standard avvengono proprio perché è importante per le aziende, più che per i consumatori, far sì che la propria tecnologia conquisti il ruolo di disegno dominante sul mercato di riferimento per poter sfruttare tutta la serie di economie di scala e di effetti dell’apprendimento derivati dall’esperienza nella produzione e nel miglioramento della stessa, che alimentano in un circolo le capacità di apprendimento dell’azienda stessa. A livello di consumatori, il vantaggio di scegliere globalmente uno standard dominante risulta conveniente nella misura in cui questo fa sviluppare tutta una serie di esternalità

di rete tali da incrementare l’offerta di servizi e beni complementari, ma anche da far

aumentare il valore stesso della tecnologia all’aumento del numero di utilizzatori. Il valore di una tecnologia in effetti è definito in letteratura come il valore stand-alone della stessa, una misura di utilità in sé e per sé, a cui va aggiunto il valore delle

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somma di proxy quali l’utilità tecnologica, la base di clienti e la disponibilità di beni e servizi complementari appunto.

Nel contesto delle selezioni dei disegni dominanti un ulteriore ed importante concetto di centrale importanza per lo studio compiuto in questo elaborato è la path-dependency: “eventi o circostanze del passato, a volte perfino marginali, possono esercitare un’influenza significativa sugli esiti finali di una scelta strategica” (Schilling, 2005). In sostanza il risultato dell’operato di un’azienda, nella competizione per assicurare alla propria tecnologia la posizione dominante sul mercato dipende da tutti i passi intrapresi nella determinazione e soprattutto nell’implementazione della propria strategia competitiva. Come a dire che ogni volta che si compie un passo, il punto di atterraggio del ‘piede’ che si muove dipende non solo da dove il ‘cervello’ centrale vuole farlo arrivare, ma anche da come è stato compiuto il passo precedente e quello precedente ancora.

1.1.5 Altri concetti, e il ruolo dell’IM nelle piccole imprese

Sempre riguardo alle fonti da cui la creatività può scaturire, vanno specificate quali sono le modalità attraverso cui la conoscenza utile per la creazione di innovazione, viene trasferita da un soggetto (impresa o ente) ad un altro. I metodi sono molteplici e si parla di lettura, insegnamento, acquisizione o perdita di soggetti che possiedono un qualunque tipo di conoscenza, effettuazione di contratti di licenza, discussioni formali e informali, ma la cosa principale che si deve spiegare è che nei casi di conoscenza tacita, quindi non codificata e non direttamente trasferibile, questa per essere spostata da un soggetto ad un altro necessita che qualcuno ne faccia direttamente esperienza, anche qui attraverso apprendistati, attività di tutoraggio, sviluppo di network personali o training sul campo. Il flusso di conoscenza che attraversa le imprese, o che parte da istituzioni pubbliche per arrivare alle aziende manifatturiere e commerciali è stato ampiamente studiato e si trova in letteratura un’esemplificazione dei motivi per i quali le aziende più innovative tendono a ricercare collaborazioni esterne: principalmente entrare in contatto con le esperienze altrui, che sono viste come punti critici per sviluppare conoscenza propria; e poi sicuramente ampliare tramite le relazioni la capacità di portata degli investimenti in R&D; e ancora l’accesso a nuovi mercati da poter conquistare. E’ stato riscontrato che nelle relazioni con i centri di ricerca universitari, inoltre, le aziende tendono a collaborare con le istituzioni pubbliche nelle loro vicinanze geografiche, mentre lo sviluppo di co-operazioni firmo-to-firm travalica molto spesso i confini

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geografici, probabilmente perché si basa maggiormente sulle relazioni personali dei titolari o componenti delle aziende.

Un ulteriore aspetto del management dell’innovazione è rappresentato dal ruolo delle piccole imprese negli scenari competitivi. Posto che le relazioni con i ‘sistemi di innovazione’ sono estremamente importanti per qualsiasi tipo di impresa, per le piccole lo sono ancora di più proprio perché a causa della dimensione non sono titolari di soggetti dedicati al loro interno allo sviluppo e alla codifica di nuovi tipi di conoscenza, non hanno mezzi tecnologici e di ‘potere’ per accedere ai grandi bacini di informazione, e mancano quindi di competenze fondamentali per la competizione nell’ambito delle innovazioni. Ecco che Nonaka e Takeuschi (1995) si sono applicati per individuare le modalità attraverso cui anche le piccole imprese possono avvicinarsi alla codifica di conoscenza assorbita da attori esterni attraverso la loro rete di relazioni e hanno individuato i seguenti fattori:

 la socializzazione che deve servire ad alimentare la condivisione interna di esperienze, attraverso l’osservazione, la comprensione, la codificazione e l’imitazione di pratiche implementate da altri player;

 l’esternalizzazione, nel significato di articolazione di personale al di fuori dei confini aziendali preposto alla partecipazione a gruppi di condivisione del proprio know-how;

 la combinazione o riconfigurazione di differenti parti di conoscenza acquisite, per creare conoscenza di nuovo genere;

 l’interiorizzazione nella misura in cui anche lo studio di documenti e l’ascolto di esperienze altrui può essere trasformato in acquisizione di nuova conoscenza.

Tutto questo dipende da una misura fondamentale, ossia la capacità di assorbimento (absortive capacity) che rappresenta “l’abilità di un azienda di riconoscere, assimilare e conseguentemente fare uso di nuove informazioni provenienti da fonti esterne” (De La Mothe, 2001). E’ di fondamentale importanza per le piccole aziende proprio perché si è già spiegato come esse debbano relazionarsi in maniera molto più accorta con i player esterni, non possedendo vasti bacini di fonti interne.

1.2 Evoluzione dell’innovation management

Se l’innovation management può essere considerato come la necessità di convertire dati in informazioni, informazioni in conoscenza e conoscenza in azione, va specificato che non è sempre stato così, ma è esistita un’evoluzione di questa disciplina che ha

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attraversato i decenni, e che viene categorizzata in cinque diverse generazioni di questo tipo di management.

La prima generazione di gestione dei processi di innovazione fa riferimento al periodo che va dagli anni ’20 alla II Guerra Mondiale ed è riconosciuta per un orientamento

tecnology push, basato cioè sulla credenza che il progresso di scienza e tecnologia

potesse essere l’unica variabile in grado di risolvere i problemi della società in generale. La conseguenza era ovviamente l’investimento massiccio in ricerca e sviluppo nel modo però più miope possibile, ossia senza prestare attenzione ai processi ma solamente ai prodotti e ignorando totalmente il ruolo del mercato su cui questi prodotti andavano a competere una volta sviluppati.

La seconda generazione invece ha puntato maggiormente su quest’ultimo aspetto: nel periodo degli anni ’60 l’orientamento è stato di tipo market pull, razionalizzando il cambiamento tecnologico e focalizzando l’attenzione sul marketing e sulla lotta per le quote di mercato.

La terza generazione del management riguardante l’innovazione dei processi prende la definizione di modello di accoppiamento, fa riferimento agli anni ’70 e si basava essenzialmente sulla ricerca dell’efficienza nei processi produttivi e sulla riduzione degli sprechi dovuti ai fallimenti e quindi agli errori di produzione. Iniziavano per la prima volta a configurarsi processi non totalmente sequenziali, ma che utilizzavano i feedback intermedi e totali per la revisione dei passi precedenti o dell’intero processo stesso.

Negli anni ’80 invece si è passati ad una nuova generazione di gestione dei processi innovativi, la quarta, tale per cui il nuovo driver è risultato essere la velocità dell’evoluzione di un’innovazione. I modelli sono stati di importazione giapponese e riguardavano il just-in-time nelle relazioni e l’orientamento alla qualità per i processi produttivi. In questo approccio, denominato “rugby”, sono nate le prime forme di networking esterno per le imprese, embrioni di quella che poi diventerà la società delle reti e, ancora più importante, i processi di innovazione soprattutto hanno iniziato a prendere forme di parallelismo sostituendo a poco a poco quelli sequenziali.

La quinta generazione di management dei processi di innovazione, viva tutt’oggi, è quella che ha portato l’essere un innovatore ‘veloce’ alla base delle strategie di cambiamento ed innovazione delle aziende. I processi sono strutturati con delle forme di evoluzione parallele e le tecnologie stesse che li governano al loro interno sono in costante evoluzione, anche grazie alla strutturazione a rete delle aziende e del loro

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bagaglio di relazioni. I fattori che identificano questa nuova e ultima generazione di

innovation process management sono ventiquattro e sono così classificati:

 è necessario avere una strategia di innovazione time-based;

 il top management deve operare supporto e coinvolgimento presso i team rispetto ai progetti;

 si devono possedere le adeguate preparazioni in termini di risorse e competenze;  l’efficienza deve permeare le attività di sviluppo ed innovazione;

 la struttura del management deve essere di tipo orizzontale per facilitare la delega delle decisioni anche a livelli intermedi;

 si devono seguire i progetti esemplari e i leader più accreditati per l’innovazione;  la specificazione del prodotto deve essere fin dall’inizio di alta qualità per ridurre l’aspettativa di modifiche in itinere;

 va favorito l’utilizzo di team integrati e cross-funzionali nei quali l’interazione tra fasi differenti di uno stesso processo parallelo o tra medesime fasi di processi differenti è essenziale;

 l’impegno per il controllo della qualità deve essere costante;

 ci deve essere flessibilità delle strategie che evolvono insieme al processo di innovazione;

 vanno adottate strategie di progettazione carry-over, ossia utilizzando elementi significativi di prodotti precedenti per sviluppare design compatibili tra vecchie e nuove generazioni di prodotti;

 la riduzione dei costi marginali deve riguardare sia la produzione sia la distribuzione nel passaggio da vecchia a nuova generazione di prodotti;

 ci deve essere flessibilità di uso e produzione nel design dei nuovi prodotti;  si deve ricercare l’economicità nelle tecnologie da utilizzare per la produzione;  le relazioni devono essere forti con i fornitori di primo livello;

 l’aggiornamento costante e tempestivo dei database informativi che gestiscono il flusso di conoscenza nei team di sviluppo delle innovazioni è fondamentale;

 vanno coinvolti i consumatori leading-edge nelle fasi di design e sviluppo dell’innovazione;

 importante è avere accesso a fonti esterne di know-how;

 si deve fare uso delle tecnologie per efficienti comunicazioni interne ai team e per la condivisione di dati e conoscenza;

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 si devono utilizzare tecnologie di supporto per la visualizzazione e la progettazione di nuovi prodotti (CAD);

 si devono utilizzare tecnologie di prototipazione veloce;

 utilizzare simulazioni computerizzate al posto della costruzione di prototipi ove possibile aumenta l’efficienza e la velocità del processo;

 vanno sviluppate tecnologie di supporto alla simulazione d’uso dei concept dei nuovi prodotti;

 l’uso di sistemi avanzati di progettazione delle innovazioni è fondamentale. L’innovazione si configura così nel mondo odierno come un processo basato sui network; il ruolo del mercato come terreno di competizione per l’innovazione e il collegamento tra questo e le capacità tecnologiche dell’azienda sono fondamentali per il successo dell’innovazione ad ogni stadio della sua evoluzione. Un’altra delle importanti novità di quest’ultima generazione di gestione dei processi di innovazione riguarda l’utilizzo di adeguati e potenti strumenti tecnologici che servono per guidare lo sviluppo dell’innovazione stessa e per accelerarne la riuscita, mantenendo costantemente e contemporaneamente il focus sull’efficienza dei processi. Questa nuova generazione di management dei processi innovativi si configura quindi come un processo di elaborazione delle informazioni in parallelo, dove le aziende in questo nuovo modello esemplificativo sono definite dai loro confini, ma anche dal numero e dalla tipologia di relazioni con l’ambiente esterno che riescono a sviluppare. La virtù che questa tipologia di aziende moderne riesce ad acquisire è la capacità di percepire la crescita come un adattamento, all’ambiente e agli altri operatori dell’ambiente in cui operano, una trasformazione che solo aziende orientate all’innovazione secondo questi principi riescono a sviluppare. L’evoluzione in questo senso va di pari passo con l’apprendimento attraverso le relazioni, visto in tre dimensioni differenti: lo scopo con cui le relazioni sono tenute in piedi, la trasparenza nell’accezione di grado di conoscenza che ciascun partner mette in mostra, cioè a disposizione delle relazioni e quindi delle transazioni di knowledge, e la recettività, nel senso di capacità dell’azienda di assorbire la conoscenza dei partner e imparare da questa (absorptive capacity).

1.3 Presentazione di un indagine quantitativa

Molti sono gli studi effettuati sull’argomento riguardante le innovazioni tecnologiche, volti a misurare o a mettere in relazione in qualche modo sia le determinanti della creatività e quindi dell’innovazione, per vedere se esistono dei modelli applicabili per

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codificare e quindi riprodurre la generazione di innovazione tecnologica. In particolare uno studio effettuato su un campione di 440 aziende manifatturiere, della regione di Montérégie, a sud-est di Montreal (Canada), i cui dati sono stati raccolti tra aprile e giugno del 2000, con lo scopo di verificare se le routine aziendali, le pratiche ripetute hanno in qualche modo una relazione di stimolo o di inibizione sulla creatività dell’azienda stessa. Il sostrato concettuale sul quale si basa uno studio del genere è la convinzione tale per cui la capacità di un’azienda di generare innovazione utilizzando la struttura della knowledge posseduta non dipende dalla quantità e dalla tipologia di conoscenze acquisite o sviluppate in sé, ma anche e soprattutto da come avviene la gestione e lo sviluppo di questo bagaglio di conoscenze all’interno dell’azienda. Ci si chiedeva cioè se il knowledge management ha un’influenza sui processi di innovazione oppure questi dipendono solo dalla knowledge in sé e per sé. Lo studio procede applicando due modelli multinomial logit, uno nel caso di innovazioni di prodotto e uno per le innovazioni di processo, utilizzando la creatività come variabile dipendente discreta misurata su 3 livelli (innovazione generata in collaborazione con altri player, innovazione sviluppata internamente per intero, nessun tipo di innovazione) e sfruttando diversi tipi di indicatori. Nello specifico si fa riferimento a cinque fattori per pratiche non codificate di importazione della conoscenza, supportate dal capitale sociale dell’azienda stessa, quattro fattori per pratiche codificate di importazione della conoscenza, supportate da meccanismi istituzionalizzati di trasferimento e due fattori di creazione interna della conoscenza attraverso pratiche codificate. I risultati mostrano come esistano effettivamente delle relazioni tra la creatività e la gestione della conoscenza all’interno dell’azienda ma anche come queste siano più complesse di quanto ci si possa aspettare, e come ad ogni tipo di creatività corrispondano relazioni diverse con i diversi tipi di gestione della conoscenza. Si scopre ad esempio che tra gli indicatori di creazione interna di conoscenza codificata la percentuale di investimenti dedicata alla ricerca e sviluppo è positivamente correlata per quanto riguarda la creatività interna, ma non è significativa nel caso di creatività sviluppata congiuntamente con altri player, per una tendenza delle aziende a ‘scaricare’ gli investimenti sui collaboratori. O ancora che gli indicatori di trasferimento codificato di conoscenza hanno contro-intuitivamente una relazione negativa con la creatività di qualsiasi tipo, nelle analisi sulle innovazioni di prodotto, proprio perché una volta investito su un determinato tipo di conoscenza, l’azienda tende a massimizzare l’investimento e a sfruttare quella conoscenza per lo sviluppo di prodotti correlati, a

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discapito dello sviluppo di altri tipi di innovazione. Per quanto riguarda invece la serie di indicatori sulle forme non codificate attraverso il quale il capitale sociale supporta il knowledge management si trova che è più legato alla creatività in ambito di innovazioni di prodotto piuttosto che di processo, e che anche all’interno delle prime, diverse forme di capitale sociale finanziano diversi ambiti di creatività (De La Mothe, 2001).

1.4 Knowledge management e Innovation management

A questo livello viene spontaneo chiedersi quale sia il tipo di collegamento tra la gestione di un’innovazione e la gestione della conoscenza di un’organizzazione più in generale, allora sarà meglio chiarire come il Knowledge management è il processo per cui le informazioni vengono collezionate, organizzate, classificate e diffuse all’interno di un’organizzazione. In un senso più ampio può essere inteso come la filosofia e le tecniche di riconoscimento, sviluppo e sfruttamento degli asset non tangibili di un’organizzazione. Se diamo per assunto che “inizialmente, tutti i processi di apprendimento, si avviano all’interno della mente delle persone” (Simon, 1991) e consideriamo che dall’apprendimento si generano nuove forme di conoscenza e grazie a questa si possono verificare episodi di creatività che portano allo sviluppo più o meno consapevole di innovazione, allora ecco spiegato il legame tra le due discipline manageriali.

E’ possibile seguire un evoluzione anche all’interno delle teorie sulla gestione della conoscenza, e sarà utile per capire ulteriori sviluppi delle interconnessioni tra le due discipline, presentare i principi che stanno alla base del Second-Generation Knowledge Management:

1. l’apprendimento e l’innovazione sono dei processi sociali, non dei processi amministrativi;

2. l’apprendimento organizzativo e l’innovazione scaturiscono dal riconoscimento dei problemi;

3. la conoscenza organizzativa non esiste semplicemente, sono le persone all’interno delle organizzazioni a crearla;

4. la struttura sociale delle organizzazioni che imparano e creano innovazione è largamente auto-organizzante;

Il knowledge processing è ciò che le organizzazioni fanno per produrre e integrare al loro interno la conoscenza appunto, il knowledge management è invece una disciplina che si focalizza sul favorire lo sviluppo del knowledge processing;

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5. il knowledge management si focalizza sullo sviluppo e la crescita della produzione e integrazione della conoscenza all’interno delle organizzazioni;

Alcune strategie di KM sono focalizzate sulla creazione di conoscenza (lato della domanda), altre sulla condivisione della conoscenza (lato dell’offerta). Il KM di prima generazione si occupava solo del lato dell’offerta, mentre quello di seconda generazione si focalizza sull’intero ciclo di vita della conoscenza.

6. il KM non è un’applicazione delle information technologies, ma usa le IT come strumento per aumentare il proprio impatto sulle dinamiche sociali dell’elaborazione di conoscenza;

7. il KM può avere solo un impatto diretto sugli outcome di elaborazione della conoscenza, mentre l’impatto sugli outcome del business dell’azienda è sempre di tipo indiretto;

8. il KM aumenta le capacità di un’organizzazione di adattarsi all’ambiente circostante e alle situazioni, migliorando l’abilità nell’apprendimento e nella creazione di innovazione, e nel riconoscimento e risoluzione dei problemi;

9. se non si rivolge alla valutazione, alla veracità e alla contestualizzazione, allora non è KM;

10. le strategie di business sono subordinate alle strategie di KM, non il contrario, perché le prime sono esse stesse un prodotto dell’elaborazione di conoscenza; KM non riguarda l’implementazione di uno strumento per la strategia, è questa a porsi come un fattore a valle, discendente da esso (Mc Elroy, 2002).

Nel cogliere le differenze principali tra questa nuova teoria sul management della conoscenza e la precedente, non ci si deve soffermare solo sulla questione riguardante la produzione di conoscenza che fa evolvere quella sulla condivisione della stessa, ma ci si deve focalizzare sul salto principale tra le due, ossia il riconoscimento delle organizzazioni imprenditoriali come sistemi complessi, addirittura come ‘sistemi pensanti’, dotati della capacità di apprendimento. E’ qui allora che si può utilizzare anche per le imprese l’assunto secondo il quale se si vuole capire ed imparare ciò che una organizzazione conosce basta osservare i suoi comportamenti, esattamente come si usa fare per le persone. Osservando attraverso i comportamenti di un’organizzazione nei suoi quotidiani livelli operativi, possiamo scorgere il suo o i suoi livelli di apprendimento, attraverso l’analisi dei quali la disciplina del knowledge management si struttura ed evolve. Essa teorizza come le persone che apprendono e detengono quantitativi di conoscenza tendono ad attrarsi tra loro e attraverso l’interazione e la

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discussione nascono idee, la conoscenza si modifica, quindi cresce e se ne forma di nuova. Ricapitolando si può affermare che le persone aggregandosi in questo modo formano delle communities, e in seguito delle vere e proprie organizzazioni, che a loro volta contribuiscono ad espandere la conoscenza a livello generale, in un circolo che si auto-alimenta. L’auto-motivazione determina poi l’auto-organizzazione e da questa discende la capacità di questi network di combinare e ri-combinare continuamente la conoscenza appresa e sviluppata. E’ il fattore che determina il fatto che questi network siano sviluppati attorno all’apprendimento costante.

Le politiche di condotta riguardanti la capacità di apprendimento di un sistema così descritto, sottostanti ad un approccio PSM, policies synchronization method, sono esplicitamente sincronizzate con endemiche strutture di auto organizzazione e apprendimento, non solo per migliorare se stessi, ma per mantenere questo miglioramento nel tempo ad un livello sostenibile. E’ questo il concetto che porta alla definizione di innovazione sostenibile. Se i livelli di apprendimento non si auto alimentano in un circolo che ne porti ad un espansione costante, o comunque almeno non ad una regressione; se la capacità di apprendimento in termini di conoscenza non si traduce in una capacità di creare innovazione da parte del sistema stesso, allora l’organizzazione non sta creando innovazione che possa definirsi sostenibile nel tempo e rispetto all’organizzazione stessa.

1.5 Gestione dell’innovazione

1.5.1 Organizzazione del processo di innovazione

In un processo di innovazione ciò che risulta fondamentale è l’organizzazione della struttura che si occupa dell’innovazione appunto, che deve essere naturalmente coerente con il tipo di azienda o sistema all’interno del quale ci si trova. Se è vero infatti che le aziende più grandi dispongono di maggiori budget da poter investire in questi processi, grazie alla maggiore accessibilità ai finanziamenti e alla possibilità di ripartire gli investimenti su volumi di vendita nettamente più elevati, va ricordato che le aziende più piccole godono per contro di una maggiore flessibilità, non rischiano la perdita del controllo manageriale ai vari livelli organizzativi e di conseguenza possono essere più creative. Si distingue infatti da un lato una struttura meccanica, basata sulla formalizzazione e sulla standardizzazione, dove per formalizzazione si intende il grado di regolazione del comportamento dei membri di una organizzazione, quindi regole, procedure, documentazioni, mentre per standardizzazione si intende il grado di

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codificazione delle attività dell’impresa secondo le stesse modalità, caratterizzate quindi da alti livelli di efficienza ma da una scarsa creatività. Dall’altro lato invece le strutture

organiche che non si avvalgono di standard di comportamento e possiedono bassi livelli

di formalizzazione sono maggiormente coerenti con i processi di innovazione ma perdono molto in termini di efficienza organizzativa. La soluzione intermedia sta nelle

strutture ambidestre, una forma complessa costituita da una serie di “architetture

interne” non coordinate ma orientate comunque all’efficacia nel breve termine e all’innovazione nel lungo. Quest’equilibrio tra efficienza e flessibilità si ritrova negli approcci modulari per la progettazione dei prodotti che consentono la creazione di architetture modulari per le organizzazioni, chiamate strutture loosely coupled, in cui sviluppo e produzione sono separate ma coordinate grazie all’adesione ad obiettivi comuni.

1.5.2 Organizzazione dei team per lo sviluppo di innovazione

Una volta strutturata la forma dell’organizzazione non è scontata invece la formazione dei team di lavoro da cui deve scaturire la creatività, dovendo operare il trade-off tra il dimensionamento del team, trovare cioè il numero di partecipanti ottimale affinché questi possano lavorare in modo flessibile, si sentano messi nelle condizioni di poter raggiungere gli obiettivi preposti e valorizzati nel loro operato, e la composizione del team, in termini di eterogeneità e multifunzionalità, in modo da renderlo il più creativo possibile, grazie alla valorizzazione delle diversità, tenendo costantemente d’occhio la capacità di comunicazione dei suoi partecipanti.

1.5.3 Organizzazione del processo di sviluppo

Dopo aver strutturato il team che si deve occupare dell’innovazione in azienda in genere si passa alla decisione riguardante il tipo di processo che si vuole far seguire allo sviluppo dell’innovazione: i processi sequenziali sono quelli nei quali una fase inizia solo dopo che è finita la precedente, e quindi risultano sicuri, ma contemporaneamente lunghi e poco tempestivi, mentre i processi paralleli, sono quelli in cui le fasi si sovrappongono ove possibile, con maggiori rischi, ma con il vantaggio di accorciare i tempi di sviluppo. L’efficienza delle proprie scelte in termini di struttura del processo di innovazione può sempre essere misurata con indici di performance quali la durata media del ciclo di sviluppo di un’innovazione e del time-to-market, oppure la percentuale di progetti che procedono secondo le scadenze prefissate rispetto a quelli che sforano, o

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ancora la percentuale di progetti che rimangono dentro i budget prestabiliti, contro quelli che non ce la fanno, o infine la percentuale di progetti che sono diventati effettivamente nuovi prodotti rispetto a quelli falliti.

1.5.4 Comunicazione per l’innovazione

A conclusione della gestione delle innovazioni, anche se non certo per il suo ruolo minoritario, si trova la scelta di una strategia di marketing per l’innovazione ottenuta. Dichiara Schilling: “Il valore di una innovazione tecnologica è determinato solo in parte dalle possibilità tecnologiche dei nuovi prodotti che è in grado di offrire. Il valore dell’innovazione è piuttosto condizionato dall’essere per l’utilizzatore semplice da capire, di facile accesso e integrabile nella propria vita. Le strategie di marketing non rappresentano solo un mezzo attraverso cui l’impresa trae profitto dalle sue innovazioni: sono invece un elemento chiave del processo di sviluppo innovativo” (Schilling, 2005). Sono cinque i fattori fondamentali individuati per la definizione di una strategia di marketing per un’innovazione: la tempistica con la quale l’azienda decide di entrare nel mercato, se avvenisse troppo tardi si rischia di non recuperare il gap con i concorrenti pionieri, mentre troppo presto si rischia che il prodotto venga confuso con un concorrente ritardatario dei prodotti della generazione tecnologica precedente; il licensing, in termini di compatibilità, ossia la decisione di adottare standard aperti per lo sviluppo di prodotti e servizi complementari o meno; il prezzo, con le varie strategie possibili adottabili, dalla scrematura alla penetrazione; la distribuzione, con le decisioni riguardanti la vendita diretta o il ricorso ad una catena di intermediari; la comunicazione, che non deve soltanto dimostrare le qualità dell’innovazione e la sua valenza sul piano commerciale, ma deve anche essere in grado di influenzare le percezioni e le aspettative dei consumatori.

1.6 Relazione tra Università e innovazione

Se l’innovazione dovesse scaturire da delle fonti di ricerca private, quali l’Università per esempio, l’iter di sviluppo sarebbe ovviamente diverso. Vengono individuati sei punti chiave intesi come benefici della ricerca pubblica universitaria nei confronti delle aziende che possono poi sfruttarne i risultati, e sono i seguenti:

 l’aumento della quantità di conoscenze utilizzabili;  il training delle competenze dei giovani laureati;

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 la creazione di nuove strumentazioni scientifiche adatte a sviluppare nuovi tipi di conoscenza;

 la capacità crescente di problem-solving in campo scientifico e tecnologico;  l’avvio di nuove imprese grazie alle nuove scoperte.

(Martin et al., 1996)

E’ di vitale importanza poi che queste innovazioni così ottenute siano trasferite alle aziende che ne possono sfruttare le potenzialità commerciali. Sotto la categoria dei partner universitari rientrano infatti anche quegli incubatori d’impresa, o science park, privati o a capitale misto, che hanno la specifica funzione di consentire lo sviluppo di nuove start-up con la messa a disposizione di capitali e consulenze per favorire il trasferimento dall’innovazione alla sua progettazione e commercializzazione. Tra i più importanti in Italia ricordiamo l’Area Science Park di Trieste e il Tecnopolis di Bari. Proprio a questo proposito può essere utile richiamare che l’Unione Europea ha stilato, dallo studio di 100 metodologie di buona amministrazione un elenco delle migliori 11 best practices, di cui due appartengono proprio ad Area Science Park di Trieste. Una in particolare si chiama ‘Innovation Network’ e fa riferimento ad una struttura stabile al servizio delle imprese del territorio del Friuli Venezia Giulia, sostenuta anche dalla Regione e che si occupa appunto del trasferimento di conoscenze e tecnologie presenti nel mondo della ricerca alle imprese e della stimolazione di progetti di innovazione. Si tratta di Centri di Competenza che sono stati attivati su specifici temi/settori e che lavorano tra loro strutturandosi come nodi di una stessa rete. Di sicuro il più importante per lo sviluppo futuro di questo elaborato risulta l’esistenza di un Centro di Competenza Legno & Arredo Innovation Network, a S. Giovanni al Natisone nel distretto della sedia che si occupa di ricerca e si configura come un laboratorio di prove per il settore legno-arredo. Esso si focalizza su temi quali il miglioramento dei materiali utilizzati; lo sviluppo di applicazioni di nuovi materiali; l’utilizzo di tecniche di progettazione assistita; il miglioramento dei processi produttivi.

Le ricerche universitarie sono finanziate con fondi pubblici, integrati da finanziamenti privati, a differenza delle imprese che amministrano autonomamente i propri budget per la R&D. In Italia uno dei problemi principali riguardanti l’efficienza della ricerca universitaria rimane l’altissima percentuale finanziata pubblicamente, che non riesce ad essere sufficientemente di stimolo e che è amministrata molte volte in modo pessimo,

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laddove invece in altri paesi la ricerca scientifica è finanziata in larga parte privatamente permettendo di poter raggiungere risultati sicuramente più concreti.

E’ assolutamente fondamentale, in tema di ricerca universitaria finanziata con investimenti pubblici, non correre il rischio di confondere la nozione di scienza come bene pubblico, con quella di scienza come bene gratuito (Pavitt, 1991). A questo proposito c’è chi ha dissertato anche riguardo alla natura non competitiva della diffusione gratuita di produzioni scientifiche accademiche che permettono alle aziende in molti casi di appropriarsi di informazioni e quindi di conoscenza in maniera gratuita e senza dover necessariamente investire nella sua creazione (Nelson, 1959; Arrow, 1962).

1.7 Protezione dell’innovazione

Quando una innovazione ha seguito il suo percorso e viene alla luce pronta per la commercializzazione ciò di cui l’azienda si deve preoccupare riguarda l’appropriabilità di questo nuovo prodotto, ossia se la tecnologia che ci sta alla base è facilmente comprensibile, decifrabile e quindi imitabile da parte dei concorrenti o meno. Generalmente si afferma che quanto più la conoscenza all’interno di una tecnologia è tacita, ossia non codificata, allora tanto maggiore sarà la difficoltà nell’imitarla da parte dei concorrenti. Sono previsti in ogni caso dalla legislazione di ogni paese dei meccanismi di protezione per la proprietà intellettuale sotto forma di brevetti, marchi,

copyright e tutela del segreto industriale, dove il brevetto protegge un’invenzione, il

marchio un’immagine o un simbolo distintivo, mentre il copyright protegge il diritto d’autore. Il brevetto, in particolar modo, rappresenta in Italia un titolo di proprietà a tutela dell’inventore che concede a chi l’ha ottenuto il diritto di realizzare l’invenzione e di disporre dei relativi proventi commerciali. Il Codice della Proprietà Industriale, varato dal Governo Italiano nel settembre 2004, distingue tra invenzioni industriali (nuovi processi di lavorazione per macchine o prodotti); modelli di utilità (invenzioni che conferiscono a macchine o processi produttivi particolari caratteristiche di comodità); disegni e modelli (particolari forme o combinazioni di colori); nuove varietà vegetali (scoperta o riproduzione di una nuova specie o varietà vegetale); topografie dei prodotti a semiconduttori (lo schema tridimensionale degli strati di cui si compone un circuito integrato). La domanda di brevetto deve seguire un iter, in Italia nettamente superiore alle medie europee, che parte con la consegna della domanda presso l’Ufficio Brevetti e Marchi di Roma e presso gli uffici delle Camere di Commercio provinciali competenti, che contiene informazioni tecniche riguardanti l’invenzione, descrizioni dei

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suoi possibili utilizzi e le rivendicazioni che ne delimitano l’ambito brevettuale. Ci vogliono circa dai tre ai quattro anni per la concessione e il riconoscimento di un brevetto, e questo ha poi una validità di venti anni. Dal 2007 inoltre è stata introdotta per opera del Ministero dello Sviluppo Economico la ricerca di anteriorità, ossia l’esame che consente di accertare le differenze o le novità dell’invenzione rispetto allo stato della tecnica anteriore, fondamentale per vedere se l’invenzione ha necessità di essere coperta anche da una protezione su scala internazionale o meno. In caso affermativo si può procedere intanto con la richiesta di Brevetto Europeo, depositata presso gli Uffici di Berlino, Monaco di Baviera e dell’Aja, che provvedono ad effettuare una ricerca preliminare sulla novità dell’invenzione nel corso dei primi tre – sei mesi, e poi procedono a rilasciare il brevetto in un tempo non superiore ai diciotto mesi. Nel corso di tutte queste fasi le tasse sono sempre tutte a carico del richiedente.

Se consideriamo i brevetti uno degli indicatori del grado di innovazione di un sistema economico, allora i dati non sono per nulla positivi riguardo alla situazione italiana. La scarsa propensione al ricorso alla brevettazione insita nel patrimonio genetico delle imprese italiane è dimostrata da un numero di richieste di brevetti, nel 2007, pari a 4392 presso l’EPO, ossia un valore di 74,3 per milione di abitanti, parecchio al di sotto della media europea per lo stesso anno di 118,5 per milione di abitante (fonte dati EPO). La scarsa propensione all’uso dei sistemi di protezione delle proprietà intellettuali deriva in primis dalla scarsa propensione all’innovazione delle imprese italiane, frutto di politiche pubbliche poco orientate all’investimento in R&D, ma anche ai costi dei brevetti, che in alcuni casi possono superare il costo per lo sviluppo dell’innovazione stessa, e spesso anche alla difficile protezione legale, nella misura in cui in Italia una causa per violazione di un brevetto risulterebbe essere costosa, lunga in termini di tempo e di difficile risoluzione.

A seconda dei settori in cui le imprese operano va specificato che questi meccanismi di protezione delle innovazioni imprenditoriali hanno diversi impatti di efficacia sulla protezione dell’innovazione in sé. A volte infatti la sola apparizione del prodotto sul mercato rischia di svelarne tutti i segreti, quindi se è vero da un lato che rinunciare alla protezione significa perdere definitivamente la possibilità di usufruire delle rendite monopolistiche una volta che il nuovo prodotto è stato accettato dal mercato e si è diffuso, è anche vero che lasciare libera la diffusione di una nuova tecnologia, senza vincoli di protezione, può favorire i rendimenti da adozione crescente. Nei settori in cui al crescere della diffusione di una tecnologia e del numero di utilizzatori, aumenta anche

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il valore della stessa, l’impresa può comunque raggiungere lo status di modello dominante nella competizione sul mercato decidendo di non proteggere istituzionalmente la tecnologia alla base della sua innovazione, per favorire lo sviluppo di tutte le risorse e prodotti complementari. Tendenzialmente si riscontra che il management preferisce optare per delle soluzioni di apertura parziali, intermedie tra le due situazioni descritte sopra.

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Capitolo 2 – Management della sostenibilità ambientale

2.1 – Alle radici epistemologiche della sostenibilità ambientale

La Terra intesa come fonte di risorse per il sostentamento dell’uomo è sempre stata considerata un fattore della produzione nelle teorie economiche, fin dai tempi della teoria classica di D. Ricardo e T. R. Malthus, per venire assimilata ad una componente del capitale nella teoria neoclassica del XIX secolo che vedeva lavoro e capitale come gli unici due fattori della produzione. In tutti questi secoli di studio la Terra è vista sempre e solo come un fattore acquisibile, a disposizione dell’uomo, e non come una risorsa limitata quale è in realtà. L’apertura degli orizzonti della teoria economica alla filosofia e all’ecologia dovrebbe essere, all’odierno livello degli studi sociali, una necessità che non si limita a ricomprendere il progresso tecnologico come terzo fattore della produzione, ma che deve portare a riconsiderare spazialmente e territorialmente il punto di vista della teoria economica a livello generale.

E’ convinzione ormai diffusa, non solo filosoficamente parlando, che la Natura tende a conservare sé stessa, a ‘difendere la sua storia’ (Tiezzi, 1999) permettendo solo ad alcune delle specie viventi di cui essa si compone la sopravvivenza. La specie umana che ha fino a questo punto sfruttato così intensamente e in maniera così poco lungimirante le risorse che la natura stessa ha offerto, si trova a dover riconoscere ed affrontare il problema di un modello di crescita che non può più essere supportato, così com’è stato creato nell’ultimo secolo e mezzo, per sopraggiunti limiti biofisici del pianeta che la ospita. L’uomo è visto in quest’ottica come un essere ‘carente’, nel senso di inadeguato a vivere nell’ambiente naturale (Gehlen, 1940), che ha sviluppato lungo la sua storia evolutiva il possesso della tecnica, ossia la capacità di adattare a sé stesso ogni ambiente in cui si trova, fenomeno descritto come antropizzazione degli spazi

naturali (Lavagna, 2008). Questa antropizzazione, diventata sempre più sofisticata con

il crescere del possesso della tecnica da parte dell’uomo, determina un aumento della fragilità nel confine tra il naturale e l’artificiale, in cui il passaggio da uno all’altro è determinato proprio dall’azione tecnica dell’uomo. Se è vero che quest’ultima è sempre esistita quale mezzo dell’impatto sull’ambiente, è altrettanto vero che in passato non c’era una così vasta popolazione mondiale e uno stile di vita così consumistico tale da creare i danni irreversibili all’ambiente che osserviamo oggi. L’ambiente che l’uomo ha piano piano adattato alla sua presenza non è più in grado di sopportare i ritmi di prelievo delle risorse ed emissione di inquinamento determinato dalle attività umane.

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L’idea di sostenibilità di un modello economico alternativo scaturisce dal risveglio dall’illusione della crescita economica infinita; delle ‘magnifiche sorti e progressive’ (Leopardi, 1836) di quel secolo che ha dato l’avvio a questo modello distruttivo; della crescita dei P.v.S. tramite ripetizione dei modelli di crescita dei paesi industrializzati. Così come W. K. Heisenberg ha introdotto nella ricerca scientifica princìpi quali l’indeterminatezza, la non riducibilità della realtà a modelli astratti o riproducibili (Heisenberg, 1957), modificando così inesorabilmente l’epistemologia delle scienze, altrettanto è stato fatto dal premio Nobel I. Prigogine, (1987) i cui studi chimici e fisici sulla termodinamica, sui sistemi complessi lontani dall’equilibrio e sull’entropia hanno influenzato e non poco le successive teorie sullo sviluppo economico sostenibile per il genere umano. Il secondo principio della termodinamica (Clausius, 1850) prevede l’irreversibilità di alcuni fenomeni termodinamici, tale per cui, una volta compiuto un passo verso un sistema ordinato, non è sempre possibile operare una transizione opposta per recuperare il disordine dello stato precedente. Poiché i sistemi esistenti tendono ad uno stato di ordine, bisogna introdurre un lavoro per produrre disordine in tali sistemi in modo da non raggiungere mai quell’equilibrio termodinamico che comporta la morte

termica dei sistemi stessi.

Nicholas Georgescu-Roegen, economista rumeno fondatore della bioeconomia, ha ripreso questi concetti per elaborare una teoria basata su un parallelo con il secondo principio della termodinamica (Georgescu-Roegen, 1976). Se alla fine di ogni processo la qualità dell’energia è peggiore rispetto allo stato precedente del sistema, questo comporta una minore disponibilità nell’utilizzo della stessa per futuri processi di trasformazione. E’ infatti vero che l’ambiente naturale è un sistema che riesce a mantenere il suo equilibrio, ma l’uomo non risulta assolutamente in grado di riprodurre questo tipo di perfezione. La produzione economica, di qualsiasi forma e tipologia, in qualche modo consuma energia che non sarà più disponibile per le generazioni future, andando apertamente contro il principio secondo cui è costruito il concetto di

sostenibilità ambientale. Poiché appunto il ciclo di trasformazione artificiale creato

dall’uomo non è a somma nulla, ma produce dei residui, il modo di vivere, di consumare e di comportarsi del genere umano determina la velocità del processo entropico, la velocità con cui viene dissipata l’energia utile e, in ultima analisi, il periodo di sopravvivenza della specie umana (Tiezzi, 2005). Il concetto di sostenibilità ambientale che viene in questo senso violato esprime i punti cardine della teoria

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dell’ecological economics (Daly, 2004), integrazione transdisciplinare di economia, ecologia e scienza sociale, senza appartenere direttamente a nessuna delle tre:

 uguaglianza di diritti per le future generazioni, che hanno il diritto di ricevere la stessa quantità di risorse naturali che abbiamo ricevuto noi dalle generazioni precedenti;

 trasmissione fiduciaria di una natura ‘intatta’: la sostituzione di capitale naturale con capitale materiale non è infinita, perciò bisogna limitarne i danni irreversibili;  giustizia internazionale, nel senso che tutte le aree e popolazioni di questo mondo e

di questa generazione devono avere lo stesso diritto nell’accesso alle risorse naturali.

Si intende in questo contesto il capitale naturale come insieme dei sistemi naturali e il

capitale materiale invece come l’insieme di tutto ciò che è prodotto interamente

dall’uomo. Considerandoli complementari, il mantenimento del capitale totale deve avvenire attraverso il mantenimento costante dei due singoli capitali, senza incorrere nel rischio di sostituire un tipo di capitale con l’altro, dato che sostituibili non sono.

L’altro grande punto cardine da cui queste teorie prendono avvio è la definizione del paradigma di sviluppo sostenibile in contrapposizione all’ossimorica definizione di

crescita sostenibile, dove indicando con crescita un cambiamento quantitativo di un

sistema, mentre con il termine sviluppo una modifica qualitativa dello stesso, allora si può affermare che un’economia in stato stazionario si sviluppa ma non cresce, in modo da mantenere inalterato il delicato equilibrio del pianeta a cui è legata la sopravvivenza stessa della specie umana, la cui economia è un sottosistema del sistema più generale denominato Terra (Daly, 1977).

Il fatto che la storia dell’uomo e della natura siano così strettamente intrecciate rende sempre più evidente l’importanza del ruolo delle relazioni negli studi moderni delle scienze sociali.

2.2 - La sostenibilità ambientale

Il tema delle relazioni forti tra uomo e natura riporta in qualche modo al tema delle interrelazioni tra diverse discipline che concernono lo studio della sostenibilità ambientale. E’ un concetto che a tutt’oggi, nonostante il forte sviluppo, risulta ibrido e determinato dall’incontro e lo scambio tra competenze tipiche di molte discipline differenti che in tempi precedenti non erano abituate a collaborare. Lo stimolo dell’interdisciplinarietà in questo senso avviene attraverso il ripensamento dei driver di

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un progetto stesso: le competenze trasversali utilizzate per affrontare il tema ambientale spostano il modus operandi, rendendo superato un approccio ‘per discipline’ e affermando invece l’approccio ‘per problemi’ (Lavagna, 2008).

Il modello che descrive lo sviluppo sostenibile è quindi complesso, non generico e di non facile implementazione. Dipende dalle situazioni contingenti, e da tutta una serie di fattori che lo rendono un processo adattivo, più che un modello di attuazione univoco. Lo sviluppo sostenibile in questo senso deve rispettare le prerogative di sostenere le società umane senza minare le basi ambientali e sociali sulle quali esse poggiano la loro stessa capacità di sviluppo (Bologna, 2008). Ed è stato a partire da esso che si è sviluppata la sustainable science, nuova cultura più che scienza, che cerca di dotarsi di un proprio statuto scientifico e che basa la sua storia e la sua operatività sul fondamentale apporto della multidisciplinarietà. E’ Paul Reiten a definire la scienza della sostenibilità come ‘integrazione e applicazione delle conoscenze del sistema Terra, ottenute specialmente dalle scienze di impostazione olistica e di taglio storico (geologia, ecologia, climatologia, oceanografia), armonizzate con la conoscenza delle interrelazioni umane ricavate dalle scienze umanistiche e sociali, mirate a valutare, mitigare e minimizzare le conseguenze, sia a livello regionale sia mondiale, degli impatti umani sul sistema planetario e sulle società’.

L’applicabilità dipende ad oggi da un unico fattore. Si dovrebbe innanzitutto cercare di mantenere inalterate alcune importanti funzioni ambientali, quali per esempio la Terra vista come sorgente, ossia fornitore di risorse primarie; come serbatoio, per l’assorbimento dei rifiuti dei cicli umani, produttivi e di vita; come supporto alla vita, di tutte le specie esistenti, in quanto la biodiversità è uno dei valori da preservare per la salvezza del pianeta; come portatore di benessere e salute per il genere umano in particolare. Gli strumenti operativi sono svariati, così come gli indicatori per misurare le performance dei progetti implementati: alternativamente al PIL di una nazione è utile considerare lo Human Well Being Index o l’Environmental Sustainability Index. Quello che manca ad oggi è un grande impegno individuale e collettivo per risollevare le sorti di questo pianeta.

2.3 - La strada verso il riconoscimento della sostenibilità

Il riconoscimento di queste teorie da parte delle istituzioni a livello mondiale è stato un percorso lungo, e difficoltoso è stato soprattutto cercare di trovare dei punti di incontro per una collaborazione nel cercare se non proprio una soluzione, almeno un

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contenimento del problema ambientale, che riguarda qualsiasi persona su questo pianeta. Molti sono stati gli organismi che si sono mossi in tal senso, e che hanno promosso, anche presso le aree del mondo più scettiche, il risveglio delle coscienze sui temi dell’inquinamento, dei cambiamenti climatici e delle possibilità di sviluppo sostenibile.

Si cerca di seguito di eseguire una cronistoria esauriente degli sforzi effettuati per cercare di contrastare il deperimento delle risorse del pianeta a livelli governativi e non:  1972, Conferenza delle Nazioni Unite, Stoccolma, è il primo evento mondiale

dedicato ai problemi ambientali;

 1973, istituzione, a partire dalla Conferenza dell’anno precedente, dell’UNEP, Programma Ambientale delle Nazioni Unite;

 1980, l’UNEP, insieme all’IUCN (World Conservation Union) e al WWF (Fondo Mondiale per la Natura) stendono il documento World Conservation Strategy of the

Living Natural Resources for a Sustainable Development, in cui per la prima volta

nella storia il concetto di sviluppo sostenibile viene citato in un documento internazionale;

 1987, Rapporto Brundtland, dalla Commissione omonima istituita dal WCED (Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo) stampa il documento Our

Common Future, in cui viene data la definizione riconosciuta tutt’oggi di sviluppo

sostenibile: ‘esso è volto a soddisfare i bisogni del presente senza compromettere le possibilità delle future generazioni di soddisfare i propri bisogni’;

 1991, Caring for the Earth. A Strategy for Sustainable Living, è il documento promosso da IUCN, UNEP e WWF in cui si fa il punto della situazione relativa alla sostenibilità implementata fino a quel momento e si poggiano le basi delle proposte di obiettivi per l’anno 2000;

 1992, Conferenza Onu su Ambiente e Sviluppo, Rio de Janeiro, si conclude con la Dichiarazione di Rio, firmata dai paesi partecipanti in cui sono esplicitati 27 principi sull’integrazione tra ambiente e sviluppo, e la presentazione di Agenda 21, un programma di azione per il raggiungimento degli obiettivi preposti dalla Dichiarazione;

 1997, sottoscrizione del Protocollo di Kyoto da parte di 154 paesi industrializzati con l’intento di diminuire le emissioni di gas serra a livello mondiale del 5,2% complessivamente dal 2008 al 2012. Per l’Italia è prevista una quota di riduzione del 6,55 rispetto al livello del 1990;

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 2001, Protocollo di Gotemberg, derivante dal National Emission Ceilings, è una direttiva europea che stabilisce i livelli di emissione di gas serra da raggiungere entro il 2010 per attenersi all’obiettivo di Kyoto;

 2002, Summit Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile, Johannesburg, ha sancito il fallimento degli obiettivi di Rio preposti dieci anni prima, a causa del decretamento della non disponibilità finanziaria per il raggiungimento degli stessi, e ha ridefinito gli obiettivi su scala molto più contenuta per il decennio successivo. Oltre all’insatibilità creata a livello mondiale dal recente evento dell’11 settembre 2001, tra la conferenza di Rio e quella di Johannesburg l’evento fondamentale sembra essere stato la creazione intermedia del WTO (World Trade Organization), simbolo dell’incondizionato accesso al libero commercio, azione che ha posto definitivamente il mercato globale sopra ogni altro concetto, anche sopra la democrazia e il concetto di sviluppo sostenibile tanto caro agli avvenimenti di Rio;  2005, World Summit delle nazioni Unite, New York, centrato sul tema del

monitoraggio degli obiettivi del millennio, ha definitivamente rispolverato Agenda

21 con il suo planning di azioni concrete da implementare, anche alla luce della

riconosciuta urgenza dovuta ai cambiamenti climatici in atto nell’ultimo decennio.

2.4 – Modelli per l’implementazione della sostenibilità ambientale

Il dibattito riguardante l’implementazione delle strategie di sostenibilità ambientale per le aziende concerne una questione abbastanza sostanziale, ossia la possibilità di correlazione tra gli eco-investimenti e i benefici economici che ne dovrebbero derivare. La difficoltà incontrata in questa tipologia di investimenti è dovuta appunto al fatto che questa correlazione non è generale, ma limitata a casi e situazioni particolari, configurando ancora una volta la sostenibilità come una pratica difficoltosa, per nulla scontata, che necessita di attenzione massima, coerenza di ragionamenti e soprattutto impegno. In via generale possiamo affermare che l’area di profittabilità degli eco-investimenti è circoscritta al verificarsi di condizioni situazionali esterne all’impresa, e contingenti all’operato della stessa e alla sua organizzazione interna. Come si può notare nella Figura 1 sottostante è il cono compreso tra la linea E e la linea B quello a determinare la possibilità di implementazione di progetti di sostenibilità ambientale che risultano essere anche profittabili in termini di ritorno economico per l’azienda. Al di sotto del confine B ci si trova in un’area in cui l’investimento è sicuramente conveniente in termini monetari, ma perde totalmente la sua veste sostenibile, mentre al di sopra del

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confine E si trova la zona relativa ai progetti che porterebbero certi e cospicui vantaggi ambientali, ma a dei costi tali da renderli investimenti a perdere in partenza. La possibilità di espandere i confini ovviamente esiste, ed è anzi auspicabile se ci riferiamo allo spostamento verso l’alto del confine superiore (E), laddove sarebbe scontato sottolineare come un tentativo di abbassare il confine inferiore (B) sarebbe eticamente poco consono, e il mezzo attraverso cui si può operare questo tentativo è rappresentato certamente dal ruolo dell’innovazione.

Figura 1 – Grafico degli eco-investimenti

Il tentativo fatto di modellizzare le strategie di implementazione di eco-investimenti nelle strategie di più ampio spettro delle aziende, creando delle vere e proprie strategie sostenibili è esemplificato dal framework presentato in Figura 2. Il Competitive

Environmental Strategies (Orsato, 2009) è un modello di scelta, non un modello per

stadi, che rappresenta un’esemplificazione delle possibili strade da perseguire da adattare ad ogni specifico contesto in cui l’azienda si trova e alle sue specifiche caratteristiche intrinseche.

Figura

Tabella 1 – Percentuali di risposta al quesito n.2.1 e 2.2 del questionario in esame.
Tabella 3 – Frequenze assolute e percentuali di risposta al quesito n.6 del questionario in esame.
Tabella 4 – Frequenze assolute e percentuali di risposta al quesito n.7 del questionario in esame.
Tabella 5 – Percentuali di risposta al quesito n.8.1 e 8.2 del questionario in esame. 
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