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Book reviews
Daniele Bruzzone (con testi narrativi di Mariella Mentasti), L’esercizio dei sensi. Fenomenologia ed estetica della relazione educativa, Milano, FrancoAngeli, 2016, pp. 128.
Il volume di Daniele Bruzzone si interroga sui cinque sensi empiricamente in gioco nella relazione di cura ed educativa implementandone l’assetto per mezzo di un “sesto senso”: quello del tempo, a designare l’urgenza del recupero di una vera e propria estetica della percezione originaria in chiave fenomenologico-esistenziale. L’autore traccia, di volta in volta, percorsi euristici di ricomprensione della messa tra parentesi della dimensione corporea sia per disvelarne l’inautenticità sostanziale che al fine di additare sentieri inediti di riattualizzazione dei nessi io-mondo e mente-corpo. L’esercizio dei sensi, all’interno di siffatta cornice teoretica, diviene ricerca di senso e permea i rapporti con il soggetto educando e con il paziente del valore imperdibile di variabili contestuali implicite quali il contatto, la vicinanza, l’ascolto e la sensibilità alle storie di cui questi ultimi sono narratori credibili. L’intento del nostro genera dalla constatazione che professioni che comportino la presa in carico dell’altro sono sempre più esposte al rischio della “desensibilizzazione” (p. 16): i soggetti di cura, infatti, sono “ridotti” per esigenze di tempo (da qui il richiamo al “sesto senso”) e a causa di dettami precettistici o protocollari a griglie (pre)categoriali che disconoscono l’unicità di cui sono portatori. Il pericolo di procedure che misconoscano la singolarità insopprimibile della persona umana è che situazioni di incuria, degrado o disagio vengano relativizzate al punto da non essere più percepibili. Così, l’educatore avvezzo alla gestione emotiva del comportamento oppositivo finisce per ignorare i segnali di coscientizzazione crescente che emergono nell’adolescente etichettato quale “deviante”; e il personale medico-infermieristico può proiettare la propria immagine di professionalità all’interno di schemi sterili di impersonalità e distacco dalle patologie dei pazienti, mentre l’incontro con l’altro tocca inevitabilmente le corde intime del sentire e, in qualche misura, trasforma il loro essere. Negare la presenza e l’esercizio dei sensi per evitare ricadute affettive in termini personali significa smarrire il senso del proprio agire, sino alla disumanità: “Nel lavoro con le persone, infatti, la personalità costituisce un fattore decisivo della professionalità […]” (p. 66). La nostra società della conoscenza e dell’informazione, impregnata di una moltitudine di segnali talora fra loro discordanti, incanala le percezioni soggettive verso forme di assuefazione, avallando i primati del “già-visto” e del “già-detto” (p. 42). “Ma quando prevale la presunzione di aver già capito tutto, di aver già visto tutto, allora non c’è più altro da vedere, o meglio, non c’è più l’altro” (p. 43). La capacità di ascolto, di conseguenza, si ritrae a discapito dei bisogni umani di comunicare e di “comunicarsi”: spesso, ad esempio, non si ha modo di concludere la descrizione del proprio stato d’animo o fisico che l’interlocutore esperto formula nell’immediato una diagnosi o esprime un parere educativo sulla base di standard interpretativi fallaci dacché
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oggettivanti. Invero, “la modalità dell’interpretazione non corrisponde all’ascolto più autentico. […] Le persone, invece, ci dicono qualcosa di se stesse nel momento in cui rinunciamo a dire qualcosa su di loro” (p. 64). Il tatto, secondo Bruzzone, coinvolge le forme del “dire”: avere tatto è sapere cosa/quando/come/perché/dove/se dire. L’olfatto è interpretato fenomenologicamente quale pre-sentimento delle qualità soggettive altrui. “Ognuno […] ha un’‘aura’ tutta sua e diffonde attorno a sé un’atmosfera particolare […]. Così, ci sono persone che ‘profumano di buono’ e altre che ‘appestano l’aria’ con la loro presenza” (p. 89). Il gusto si intreccia a quella virtù, oggi davvero poco coltivata se non ciascuno nel rispettivo e misero orticello, della “bontà” (p. 102). Il “sesto senso” è la testimonianza concreta dell’essere-nel-mondo della persona: “Noi siamo un racconto” (p. 113), e, dunque, tempo: tempo passato, tempo che passa, tempo che verrà a seconda dell’“aura” dell’educatore o dell’esperto di turno nei quali, volenti o nolenti, siamo incappati o che prima o poi incroceremo.
Massimiliano Stramaglia
Livia Cadei (a cura di), Humour in azione. Argomenti educativi nei contesti culturali, Mimesis, Milano, 2016.
Di fronte ai discorsi più ricorrenti attorno alle questioni educative e formative, appare inattuale – e per questo di sicuro interesse – il volume, curato da Livia Cadei e edito da Mimesis, Humour in azione. L’impostazione interdisciplinare e internazionale dell’opera – i saggi interni sono scritti, oltreché dalla stessa Cadei, in ordine di apparizione da Bruno Humbeeck, Marianella Sclavi, Greta Persico, Antonino Giorgi, Caterina Gozzoli, Stephanie Schnurr, Disha Maheshwari, Nor Azikin Mohd Omar, Nhung Hong Thi Nguyen, Emmanuelle Zolesio, Tracey Platt, Matteo Pizzoli, Alban Chaplet e Chaya Ostrower – impreziosisce un testo i cui spunti rimandano – ne siamo convinti – non soltanto alla possibilità di una piena riconsiderazione dello humour come dimensione umana e di senso, ma altresì a numerose e immediate opzioni applicative in termini progettuali e didattici. Ne ripercorriamo sinteticamente i contenuti per poi consentirci qualche chiusura critica.
Il saggio di apertura, Il senso dello Humour: riflessioni per il lavoro socioeducativo, scritto dalla Curatrice, chiarisce che se lo humour tradizionalmente non viene considerato come oggetto della ricerca socio-educativa, esso “appare” di fatto, come «fenomeno che attenua le tensioni, favorisce la condivisione e rafforza i rapporti tra le persone» (p. 16), ma anche come strumento di ferimento psicologico o segnale di potere, «ben lontano dall’essere un atto neutrale» (p. 17). Lo humour si qualifica, allora, come degno oggetto di studio e di riflessione «nella relazione di aiuto», «nel lavoro degli operatori» e «per lavorare insieme» (pp. 24-31).
Il testo Ripartiamo da una risata… L’umorismo come veicolo di resilienza (Humbeeck) lumeggia la capacità, unicamente umana, di «parlare del ridere» e ci aiuta a separare, attraverso un lavoro di modellizzazione, i tratti dell’umorismo da quelli della «derisione»: se «il primo può effettivamente […] essere considerato come