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Rossana Trifiletti La conciliazione vita/lavoro, un genus ambiguo delle politiche sociali, in particolare nell'approccio degli investimenti sociali

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Academic year: 2021

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La conciliazione vita/lavoro, un genus ambiguo delle politiche sociali, in

particolare nell’approccio degli investimenti sociali

Premessa

Il tema della conciliazione emerge potentemente oggi in quasi tutti i paesi avanzati per una complessa serie di ragioni che mi sembra riduttivo ricondurre, come si fa di solito, all’aumento dell’impegno lavorativo delle donne, e ad una minor tenuta protettiva della famiglia, fenomeni spesso dati per autoevidenti senza bisogno di prove empiriche. Mi sembra più interessante spiegare perché la centralità del tema accomuni oggi paesi con tassi di attività femminili molto diversi e gradi molto distanti di familizzazione delle politiche sociali.

Contemporaneamente, sul piano interpretativo, l’ambito di variazione di tono nel dibattito va in modo quasi sconcertante da un estremo all’altro dello spettro semantico: dalla sconfessione del “mito della società dual earner” (Larsen, 2005) o Adult Worker/Carer (Daly 2011) si va fino a darla quasi per realizzata, se non funzionalmente inevitabile attraverso l’automatismo salvifico delle politiche di conciliazione. E il titolo di un contributo molto citato allude a questa semplificazione davvero troppo ottimista: “The Changing Gender Contract as the Engine of Work-and-Family Policies” (Giele 2006; cfr. anche Gornick e Meyers 2009).

Si va cioè dal massimo di disillusione e sconforto sul mutamento possibile negli equilibri di genere all’ottimismo più irrealistico sulle probabili ricadute di costume di queste politiche, prefigurando addirittura il completamento di quella rivoluzione della divisione del lavoro familiare che è stata ripetutamente dichiarata stalled e incompiuta (fra gli altri Gershunyi 2000; Hochschild e Machung 1989; Gerson 2009; Esping Andersen 2009; England 2010).

Le ragioni di un tale squilibrio fra le prospettive che si ritengono effettivamente aperte nelle circostanze attuali dell’uscita dalla crisi si ricollegano a mio parere all’ambiguità strutturale di molte delle misure coinvolte, alla grande complessità comune agli interventi di politica familiare, di cui conta molto la coerenza del disegno di insieme e, in molti casi, il peso relativo attribuito di volta in volta ad alcune logiche che possono talvolta risultare contraddittorie (Saraceno 2003; Orloff 2011, 9): un problema ricorrente in questo campo assai di più che in altri settori delle politiche sociali.

E’ probabilmente quindi più saggio pensare che le politiche di conciliazione si siano imposte per ragioni strutturali, economiche o di evoluzione istituzionale dei welfare states che non per il contributo convincente delle teorie femministe sui modelli di politiche sociali o la necessità ormai improcrastinabile di mutare l’equilibrio di genere (Orloff 1996); ma non convince nemmeno la spiegazione in termini di femminismo di stato che si aspetta dall’accresciuta presenza delle donne nei partiti e nella rappresentanza politica (Morgan 2013), effetti che si sono avuti nei paesi scandinavi col concorso di diversi altri fattori specifici. Non è un caso, però, che questo ambito di policies sia quasi sempre annoverato fra le risposte necessarie ai nuovi rischi sociali (Taylor Gooby 2004; Bonoli 2005) o nello strumentario dell’approccio degli investimenti sociali (Morel et al 2012; Jenson 2004; Saraceno 2015), le due prospettive più attuali di ripensamento complessivo del welfare.

Sicuramente diventa inevitabile oggi porsi il quesito se le politiche di conciliazione che hanno sempre avuto lo statuto di politiche che originavano diritti deboli e controversi (Daly e Lewis 1998; Leira 2002) possano oggi effettivamente cambiare il loro peso nel senso di costruire diritti sociali progressivamente sempre più solidi e riconosciuti. E certamente va in questo senso il fatto che siano stati recentemente assunti in tutela da soggetti internazionali influenti come l’Unione Europea (Lewis 2006) e anche inattesi come l’ OECD o la Banca Mondiale (Mahon 2006; 2010).

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Ma forse la domanda fondamentale resta quella se, data la inevitabilità e l’inesorabile aumento del lavoro di cura nelle nostre società, da tempo sottolineati dalle eticiste della cura (Tronto 2006; Paperman e Laugier 2005), si possa davvero arrivare ad un coinvolgimento maggiore degli uomini e/o dello stato nel lavoro di cura non pagato, tradizionale appannaggio delle donne.

Per cominciare a costruire un primo abbozzo di risposta procederò in tre tappe separate ma, nelle intenzioni, convergenti: un esame degli slittamenti dei termini utilizzati nel dibattito, l’identificazione di alcuni ambiti di ambiguità che una politica di conciliazione dovrebbe sciogliere e un’analisi del possibile apporto delle politiche di conciliazione all’approccio degli investimenti sociali.

Un punto di partenza solido, su cui il giudizio degli studiosi è abbastanza unanime, è che sicuramente a partire dagli anni ’90 e fino alla grande crisi economica, praticamente in tutti i paesi e in tutti i regimi di welfare è nettamente aumentato il welfare effort in direzione dei servizi di cura, sia per la prima infanzia (ECEC Early Child Education and Care) che per le cure di lungo periodo (LTC Long Term Care) (Daly e Lewis 1998; Taylor Gooby 2004; Saraceno 2009b; Léon, Pavolini e Rostgaard 2014; Ranci e Pavolini 2015; Ferragina e Seeleib-Kaiser 2014). Nello stesso senso si sono mosse, pur se con ritmi più diversificati da paese a paese, anche le altre classiche misure di politica familiare mirate alla compatibilizzazione sequenziale degli impegni di cura e di quelli lavorativi, cioè i congedi, i sostegni monetari mirati ai compiti di cura (home care allowances), i diritti dei genitori lavoratori alle riduzioni di orario1, cui ci limiteremo in questo lavoro. E alcune di queste innovazioni sono addirittura state coeve alla crisi e forse ne hanno potuto attenuare gli effetti. Paradigmatico in questo senso è caso della radicale svolta della Germania dopo il 2000, che, da paese di impostazione tipicamente bismarckiana e male-breadwinner, ha introdotto un diritto a richiedere un orario ridotto e nel 2007 congedi parentali di un anno e ben compensati, aperti anche ai padri, investendo sia nella scuola dell’infanzia per tutti i bimbi sopra i tre anni2 che, in misura più ridotta nei nidi, mentre ha legalizzato l’uso dei mini-jobs per il lavoro domestico (Gottschall e Schwartzkopf 2011). Ma anche paesi che non sono path-shifter come la Germania ma solo lievemente arretrati entro il modello socialdemocratico, come l’Islanda, hanno potuto introdurre modifiche al congedo parentale di grande impatto, del tutto paragonabili ad una svolta di modello: dall’assenza di congedo parentale si è passati di colpo nel 2001 a un congedo di nove mesi complessivi, tre a testa per ciascun genitore e tre da dividere liberamente fra loro con un take-up subito altissimo da parte dei padri che ha resistito anche al successivo taglio nel 2010 della compensazione dall’originario 80%, continuando a crescere con regolarità3 nonostante l’effetto molto grave della crisi economica in quel paese, raggiungendo un utilizzo del 32% del tempo disponibile da parte dei padri (contro il 24% della Svezia dove la pratica del congedo paterno è più antica e consolidata) (Duvander et al. 2016).

Si tratta quindi di interventi che, nelle giuste circostanze storiche ed istituzionali, possono produrre mutamenti di comportamenti sociali straordinariamente rapidi ed efficaci, del tutto inusuali come effetti di altre politiche sociali molto più path-dependent.

1. I confini mobili della conciliazione e lo slittamento non casuale dei labels

I termini italiani, francesi o tedeschi che designano la conciliazione non hanno le varianti che esistono in inglese, lingua in cui peraltro si è concentrata la maggior parte del dibattito. Vale la pena quindi di tentare di considerare anche l’elaborazione ideazionale (Béland 2009) e discorsiva che le sfumature dei termini utilizzati in inglese hanno via via assunto. Nell’analisi della conciliazione si è avuto negli anni ‘2000 un preciso allargamento ed arricchimento di significato, sicuramente anche 1 Non considereremo qui, per ragioni di spazio, né la complessa questione del part-time né le misure family-friendly di origine aziendale o appartenenti al secondo welfare.

2 Tendenzialmente universali anche se solo di mezza giornata. 3 Il take-up è passato dall’82,4%, all’88.5 nei primi sei anni.

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per influenza dell’elaborazione femminista sul lavoro di cura: uno stretching del concetto, simboleggiato nel passaggio dal termine work-family balance a work-life balance (di seguito WLB). In pratica si passa dalla descrizione delle interferenze e delle incompatibilità di due sfere pensate come radicalmente separate e intimamente contraddittorie4, nella conciliazione fra impegni lavorativi e familiari, ad una visione assai più complessa del bilanciamento fra impegno professionale e realizzazione personale nelle relazioni primarie o anche nel tempo libero e nella società civile che, solo coordinati insieme, costituiscono la base della qualità della vita, letta nel suo insieme e nel suo ciclo complessivo. In questo modo diventa anche naturale superare l’impostazione tradizionale degli studi sul WLB come problema intestato alle sole donne (Hobson and Morgan 2002; Riva e Zanfrini 2010) allargandola ad almeno due attenzioni strutturali aggiuntive: il crescente desiderio e impegno di paternità degli uomini e la possibilità di mettere in atto strategie familiari complesse (Tobio and Trifiletti 2002; Wallace 2003), giocate a livello sovra-individuale e spesso longitudinalmente nel ciclo di vita, pur sullo sfondo condizionante di differenti culture del lavoro e della cura a livello nazionale (Pfau Effinger 2005).

A onor del vero le studiose inglesi avevano collegato l’uso voluto di questo mutamento terminologico alla svolta di Terza Via del governo laburista di Blair, che passava dal precedente non interventismo in politica familiare al tentativo esplicito di coinvolgere i datori di lavoro in una nuova cultura delle pratiche lavorative che promuovesse la flessibilità dal basso; lo spostamento terminologico corrispondeva, allora, all’utilizzo lucido e strategico di un frame tranquillizzante in funzione di autolegittimazione, mentre mancava una reale intenzione di incidere sullo squilibrio di genere (Lewis e Campbell 2008). Tuttavia, trattandosi di una svolta che ha radicalmente cambiato la collocazione del Regno Unito in tema di tutele della genitorialità e che è poi culminata nel diritto dei lavoratori a poter contrattare riduzioni di orario, mi sembra che non siamo costretti dalla innegabile accentuazione idealista del termine (come testimonia la sua successiva adozione per descrivere le pratiche aziendali family-friendly), a scartarne l’utilità politica in altre circostanze. In questo, il contributo delle ricerche empiriche sulle pratiche quotidiane di conciliazione delle famiglie dopo la svolta degli anni ‘2000 è concorde nel descrivere in molti diversi paesi un mondo di significati in cui nessuno dei due aspetti principali del WLB può mai venire sottovalutato o considerato prevalente o separato.

Non sembra allora che possa essere un caso il fatto che nell’approccio degli investimenti sociali, in modo caratteristico si torni invece più di recente ad utilizzare il concetto precedente di ‘reconciliation’, certamente in corrispondenza della forte enfasi posta sul lavoro delle donne come giacimento nascosto di produttività e di capitale sociale e come miglior rimedio possibile alla povertà dei loro figli (Esping Andersen et al. 2002 e 2005; Vandenbroucke et al 2011, 23; Morgan 2012; Jenson 2004) ma su questo tornerò meglio in seguito (v. par. 3)

2. Le ambiguità delle misure di conciliazione

E’ abbastanza assodato in letteratura il fatto che la politica familiare si muove su un crinale sottile di profonda ambiguità fra la tendenza conservatrice a tutela del funzionamento tradizionale dell’istituzione e, all’opposto, il genuino supporto della parità di genere e della pluralità delle possibili forme familiari (Lewis 1992; 1997; 2001; Saraceno 1994; Jenson 1997). Le politiche di conciliazione, poi, possono contenere assunti del tutto contraddittori sui ruoli rispettivi di famiglia stato e mercato che sono al centro dell’interesse della modellistica comparativa (Esping-Andersen 1999). Ma, nonostante tutto emerge negli ultimi anni che, quanto più i welfare states affrontano i nuovi rischi sociali, tanto più la loro politica familiare tende a diventare esplicita e forse a fare saltare le nostre categorie interpretative consolidate.

4 Di cui si studiavano tradizionalmente gli spillovers reciproci Home-toWork e Work-to-Home limitandosi ai soli genitori lavoratori con figli piccoli, per una chiara influenza degli studi psicologici.

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In letteratura, ad esempio, si è sempre tradizionalmente argomentato che i congedi lunghi e poco compensati dei paesi dell’Est e dei paesi bismarckiani prima delle riforme degli anni ‘2000 costituissero con certezza uno svantaggio in termini di parità di genere e rafforzassero inevitabilmente la divisione del lavoro familiare già squilibrata a sfavore delle donne (Moss e Wall 2007; Bergmann 2008). Eppure il caso svedese di congedi lunghi, paradigmatico per la sua precocità storica e per la sua efficacia a supporto della parità di genere e per il suo consolidamento culturale, è oggi il contesto ideale per l’introduzione di ulteriori incentivi alla sua condivisione paritaria: naturalmente qui è efficace la condivisione culturale del primo anno di vita del bambino passato con i due genitori ma la generosità del tasso di sostituzione è la condizione per il take-up degli uomini molto più delle clausole “take it or loose it” (Boje e Earnes 2012)5.

Ancora più chiaramente le home care allowances, le compensazioni economiche per il prolungamento della cura dei genitori che rimandino il ritorno sul mercato del lavoro (spesso con la rinuncia all’uso dei servizi di childcare) si pensava che fossero sempre da leggere come uno scivolamento tradizionalista nel modello di male breadwinner o nella sua nostalgia (Morgan e Zippel 2003; Morgan 2006; Bergmann 2008) e infatti sono molto discusse dove tuttora esistono come in Finlandia, Austria e Francia, mentre in Svezia, tipicamente, è esistita solo per breve tempo una misura di questo tipo, introdotta nel 1994 da un governo conservatore, successivamente abolita col cambio di governo l’anno dopo. Nel caso norvegese, tuttavia si è arrivati ad ipotizzare un qualche effetto redistributivo della misura (Leira 1998). E una forma di ridistribuzione, oltre che di facilitazione alla scelta procreativa per più di un figlio si potrebbe egualmente scorgere nel prolungamento svedese del congedo in caso di nascite ravvicinate, misura che, in un altro contesto culturale, potrebbe apparire come il più bieco incentivo demografico. E ancora, recentemente Birgit Pfau-Effinger ha contestato che anche i congedi lunghi nel modello bismarckiano siano sempre stati a sfavore dell’occupazione delle madri e dello sviluppo dei servizi (2010), mentre Chiara Saraceno ha sottolineato a ragione che lo scambio fra attività lavorativa di cattiva qualità e ruolo familiare tradizionale, dopo la svolta della Germania verso un modello gender equal e promozionale di congedo alla svedese6 può non essere affatto vantaggioso per molte donne a basso capitale culturale (2009, 61). Sappiamo da tempo che i congedi lunghi facilitano il ritorno al lavoro ma ne abbassano la qualità (Ruhm 1998), si tratta di mettere insieme tutti i tasselli necessari all’analisi.

In modo meno esplicito ma in fondo simile Kirstein Rummery, pur proponendo importanti distinzioni fra gli schemi di cash-for-care (2009) messi in campo da paesi a regime di welfare diverso non è poi del tutto negativa sui loro possibili effetti, quando si sia in grado di garantire un controllo istituzionale pervasivo ed efficace. In definitiva le valutazioni degli effetti di queste politiche debbono sempre essere multidimensionali (Morgan 2008) e sono difficilmente ordinabili su una dimensione secca di familizzazione/defamilizzazione7 (Kröger 2011; Trifiletti 2011; Saraceno 2004).

Del resto, ogni volta che si cerca di aggiungere alle tipologie di welfare regimes consolidate la dimensione della defamilizzazione, i risultati sono quasi sempre contraddittori, e quando si tenta di considerare separatamente anche la parità di genere (che nel caso di Esping Andersen 1999 è solo schiacciata su quella di defamilizzazione), l’entropia aumenta. Non si arriva mai ad un insieme pulito di idealtipi, i paesi considerati sono sempre troppo pochi e le eccezioni sono molte di più. In questo senso sono state elaborate e proposte nuove e diverse batterie di idealtipi relativi alla tematica della conciliazione o che le fanno da sfondo, coincidendo solo in parte con le classificazioni consolidate (Abrahmson 2007): la teorizzazione dei care regimes appena iniziata (Bettio e Plantenga 2004; Simonazzi 2009; Anttonen e Sipilä 1996 e 2003; Wall 2007) promette di 5 Nel 2008 è stato anche introdotto un equality bonus monetario che compensa i padri con detrazioni fiscali tanto più generose quanto più il congedo è stato diviso equamente fra i genitori (Norden 2016)

6 Nel 2007 si avuta la svolta verso un congedo che facilita anche con incentivi economici la condivisione dei padri e disincentiva i lunghi congedi materni

7 Non mi sembra che la proposta di sostituire il concetto di defamilizzazione con la “demotherization” o la “dedomestication” risolva davvero questi problemi (Mathieu 2106 e Kröger 2011).

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essere molto utile ma di fatto si usa poi questa tipologia da sola, separandola dalle altre dimensioni dell’analisi istituzionale. Ci vorrebbe una visione più di insieme delle articolazioni del welfare mix (Pascall e Lewis 2004), ove si tenti davvero seriamente di fare della categoria del care un parametro essenziale per lo studio dei regimi di welfare, secondo quanto suggerito da Mary Daly e Jane Lewis ormai quasi vent’anni fa (1998).

3. La conciliazione è davvero un sotto-tema necessario dell’approccio degli investimenti? Come i suoi più equilibrati sostenitori riconoscono senza difficoltà (Morel et al. 2012), la rilettura del welfare state come un necessario e fruttuoso investimento sul futuro dei paesi di economia avanzata ha lo status di un approccio nascente che non è ancora una convincente teoria compiuta8, anche se la storia della sua affermazione a livello dell’Unione Europea, dell’OECD e da ultimo anche della Banca Mondiale (Mahon 2002; 2010) è sicuramente una storia di successo uniforme, sostenuto nel tempo e relativamente convergente.

I commentatori più avvertiti hanno talvolta sottolineato che tale successo è spiegabile anche perché una parte dell’idea-forza dell’approccio degli investimenti in realtà rimane ambigua e sotto-specificata, come del resto era avvenuto per lo stesso Keynesismo (Jenson 2012, p. 81), e come forse è anche inevitabile che sia, trattandosi di una teoria che rivendica effetti immediati sulle politiche. Le parti dell’approccio che sarebbe utile esplicitare meglio, tuttavia, mi pare vadano oltre un tollerabile alone di indeterminatezza, che può anche essere opportuno mantenere per guadagnare il necessario consenso nell’arena politica. E riguardano proprio le implicazioni di genere dell'approccio (Saraceno 2015), da un lato, e, dall'altro, la precisazione del suo perimetro rispetto ad altre teorie sulla trasformazione contemporanea della protezione sociale, sviluppatesi indipendentemente e che tendono in un certo senso oggi ad essere riaccorpate successivamente nel paradigma: ad esempio la stessa teoria dei nuovi rischi sociali e la teoria dei mercati del lavoro transizionali. Ma non sono meno importanti a fondamento del consenso all’approccio proprio la tematica del WLB e quella della politica familiare che la ricomprende: ambedue vanno evidentemente a confliggere con la ipotesi della piena individualizzazione dei soggetti produttori e dei loro diritti sociali alla base della teoria.

In altre parole, sembra che valga la pena di chiedersi se l’approccio degli investimenti abbia tendenza a diventare un paradigma espansivo, un approccio di successo ma greedy9, e se questo

comporti un aumento della sua ambiguità di collocazione rispetto alle fondamentali scelte valoriali (Jenson 2012, p. 72) su cui andrebbe valutato dal punto di vista dell’idea di famiglia implicata e dei diritti di genere o dell’infanzia sottesi. È significativo, ad esempio, che la supposta convergenza dei

welfare states nella direzione dell’investimento sociale sia più facile da supporre o intuire nel

confronto fra i welfare europei e sistemi distanti come quelli dell’America Latina (Jenson 2009; o dell’Asia orientale (Esping-Andersen 1997) che non all’interno del meglio arato e dettagliato panorama europeo, in cui le sostanziali ben note differenze di regime sembrano destinate a persistere assai più a lungo. È egualmente significativo che Rianne Mahon sottolinei che la convergenza da maggiore distanza, quella tra la lettura della Banca Mondiale, attenta ai paesi in via di sviluppo, da un lato, e quella riferita ai paesi OECD, dall’altro, lascia spazio ad una diversa accentuazione del paradigma in senso neoliberista anziché socialdemocratico (2010).

D’altra parte è evidente che anche le descrizioni più prudenti dell’approccio degli investimenti finiscono per caratterizzarlo come un adattamento evolutivo che, nella storia degli studi sul welfare, supererebbe, alla fine, sia la perdita di fiducia nell’intervento della mano pubblica dovuta

8 E infatti questi autori sottotitolano significativamente il loro contributo “Ideas, policies and challenges”- idee seminali, [singole] policies e sfide da affrontare - oltre a coronare il titolo Towards a Social Investment Welfare State con un vistoso punto interrogativo.

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all’abbandono dell’idea di welfare istituzionale dei Trenta gloriosi, che le peggiori durezze della Terza via e del neoliberismo. Il vantaggio del nuovo paradigma consisterebbe nel recupero di una capacità di performance economica per reagire alla stagflazione, preclusa al keynesismo (Hemerijck 2012) pur introducendo una sensibilità di lungo periodo (Vandebroucke et al. 2011), che mette a fuoco il futuro delle prossime generazioni; e lo farebbe tenendo conto dei nuovi e più incerti corsi di vita contemporanei, che il neoliberismo aveva già, in un certo senso, costretto ad accettare (Jenson 2008; 2012). La tentazione alla chiusura del paradigma è evidentemente assai forte, nel senso che esso sembra in queste considerazioni proporsi come una nuova sintesi di lezioni delle esperienze passate, come la valorizzazione della dimensione locale dell’intervento e dell’analisi

supply-side introdotte dal neoliberismo, ma anche lasciando spazio al rilancio dei diritti di

cittadinanza marshalliani, pur se ridefiniti intergenerazionalmente e in ottica preventiva (Esping Andersen et al. 2002).

Nella formulazione di Esping Andersen in realtà l’approccio degli investimenti assume una dichiarata enfasi economicista e si connota di una forte preoccupazione per la bassa fecondità che renderà insostenibile il sistema pensionistico, mentre la defamilizzazione garantita dai servizi di

childcare “produrrebbe” figli di migliore qualità media, non più dipendente dalle disuguaglianze

sociali, poiché investirebbe proprio la fase più privatizzata della cura, quella dei primi tre anni di vita, fatidici per la deposizione del capitale culturale e della capacità di apprendere che diventa sempre più importante in un mercato del lavoro deregolato (1999; 2002; 2005; 2009, pp. 111-43). Investire in questa fase della vita avrebbe così una ricaduta di utilità sociale doppia, producendo una efficiente generazione di cittadini più produttivi e di tax-payers per finanziare il welfare futuro, nonché l’interruzione dei circoli viziosi di trasmissione intergenerazionale dello svantaggio, mentre le preoccupazioni per l’equità di genere sono date per risolte in base alla mera partecipazione al lavoro delle donne, al loro non dover più scegliere tra maternità e penalizzazioni di carriera10. Questa lettura del WLB risulta particolarmente fredda astratta e riduttiva se confrontata con la coloritura idealistica del termine cui si accennava prima e con quella emotiva rilevata dalle ricerche empiriche sulle pratiche quotidiane di conciliazione, che è costruita intorno alla centralità dei figli. Ma la distanza si manifesta anche rispetto ai contributi del femminismo perché questo quadro lascia del tutto fuori e svaluta il lavoro di cura non pagato, non riferibile ad un valore di mercato (Saraceno 2015, 258).

Va precisato inoltre che l’approccio degli investimenti sociali non avrebbe, nelle intenzioni, più niente a che fare con la Terza via con cui ha in comune l’enfasi sulla attivazione e la responsabilizzazione individuale11 perché il controllo della povertà e la garanzia del reddito non sarebbero, come nell’approccio à la Giddens, risultati ma precondizioni del sistema: queste quindi richiedono un aumento della spesa sociale anziché riduzioni e tagli (cfr. Vandebroucke 2011). Questo evidentemente lascia intatte o aggravate tutte le attuali problematiche di sostenibilità economica e renderebbe urgente ed inevitabile un intervento perequativo fra i diversi regimi di welfare e le diverse parti dell’Unione Europea, che al momento non appare praticabile.

E infatti un altro aspetto che si colloca in qualche modo sullo sfondo di questo ragionamento è la constatazione che il paradigma dell’investimento sociale ha dato luogo molto di più ad uno spazio di elaborazione teorica, nella sua funzione di strumento analitico (Lister 2004, pp. 157-158), che non ad un reale impatto trasformativo: dove si è adottato anche come riferimento normativo o pragmatico di trasformazione si sono di fatto introdotte molto più facilmente le deregolamentazioni di “attivazione negativa” o condizionale (Bastagli 2009; Daly 2011) che non gli investimenti sulla mobilità del lavoro o su ricerca e sviluppo (Taylor Gooby 2009) richiesti del mercato flessibile e dalla progettata società della conoscenza. In realtà sono solo gli stati che già avevano un ottimo livello di copertura dei vecchi rischi che riescono a convertire una parte della spesa sociale in fattore

10 Dimenticando evidentemente che si sostituisce un modello di famiglia di male breadwinner con uno dual-earner, certo, quando le donne lavorano, ma anche quando sia garantito un minimo di parità di genere.

11 E su cui Esping-Andersen ironizza descrivendola come una tardiva (e parziale) scoperta British delle socialdemocrazie nordiche (2002, p. 5).

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produttivo ed in investimento o in misure di conciliazione: fondamentalmente i paesi nordici (Sipilä 2008; Bonoli 2007) e, in parte, il Regno Unito e l’Olanda e, solo ad una certa distanza, Francia, Belgio e i paesi germanofoni (Morel et al 2012; Morgan 2012). In tutti questi casi, tuttavia si rileva che miglioramenti nelle politiche di WLB che magari all’inizio della crisi richiedevano investimenti relativamente piccoli hanno successivamente imposto altri tagli o limitazioni che ne hanno invalidato la portata (Bothfeld e Rouault 2015) con l’effetto perverso di aumentare alla fine le diseguaglianze. E comunque, se molti paesi si muovono e i welfare mediterranei restano fermi evidentemente la distanza aumenta, come sembra indicare anche il fatto che al loro interno anche le poche politiche dell’investimento tentate siano poi fallite (Kazepov e Ranci 2017). Tanto più che oggi in questi paesi WLB non vuol dire solo permettere alle madri di lavorare ma, molto di più, permettere alle lavoratrici ad inizio carriera di scegliere di avere figli nel corso di vita.

Ed è proprio su questi intrecci culturali che si gioca la possibilità di una valutazione sociale e di genere dell’approccio degli investimenti. L’analisi delle studiose femministe ha dato contributi di chiarezza fondamentali in questo senso, specialmente nel contesto europeo e statunitense (Orloff 2009; Orloff e Palier 2009; Saraceno 2015) e questo lavoro si appoggia largamente su di essi, ma c’è oggi lo spazio per un loro aggiornamento: non basta sicuramente più identificare gli aspetti di persistenza al livello europeo ed internazionale del modello tacito del male breadwinner anche se resta vero che la redistribuzione del lavoro di cura non è affatto avvenuta, ma nelle politiche sociali e familiari le cose stanno rapidamente cambiando in molti paesi, anche appartenenti a welfare regime diversi (Evers et al 2006; Lewis et al. 2008; Morgan 2012; Fagnani 2007; Fagnani e Math 2010). Un’analisi più puntuale delle possibilità di circoli virtuosi diventa cruciale anche per valutare la questione irrisolta se sull’approccio degli investimenti si stia effettivamente verificando la convergenza che Esping Andersen ipotizzava (2002, pp. 13 e ss.) tra i regimi di welfare, oppure no (in questo senso Castles 2004; 2008; Ferrera 2009; Vandebroucke et al. 2011; Nikolai 2012; Bonoli 2012) o se, come ci sembra guardando da sud, questa non sia ancora nemmeno pensabile. Quello che ci sembra importante non sottovalutare da parte dei paesi del SudEuropa è che le politiche di conciliazione possono effettivamente costituire importanti fattori di svolta di grande impatto sul modello di welfare quando non se ne sottovaluti la reale complessità culturale e ci si muova su un piano nazionale e non localistico, costruendo sui risultati di ricerche empiriche che abbiano documentato gli effettivi allargamenti di significato dell’azione di bilanciamento necessaria. E forse questo non comporta necessariamente un’adesione all’approccio degli investimenti sociali per noi irraggiungibile (Kazepov, Ranci 2017).

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ABSTRACT

The paper investigates the emergence of work-life balance policies among family policy measures in connection with the recent increase in care services and the conceptual shift to social investment approach: an analysis of the terms employed contributes to a more equilibrated reconstruction of the debate and its implications, so that recent trends in commodification of care may be compared

Keywords

Work-life balance, family policies, commodification of care, gender division of work Title

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