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La perizia nel processo. L'esperienza degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

La dichiarazione di soggetto non imputabile in rapporto all’ evoluzione storica della perizia e della figura del criminologo nel processo penale e l’approfondimento relativo alla struttura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, tema quest’ultimo di grande attualità, rappresentano il tema di questo elaborato.

Partendo dall’analisi del concetto di imputabilità e quindi anche della sua accezione in negativo l’argomento sarà trattato in primis in una prospettiva storica: dal diritto romano al Codice Napoleonico al Codice Zanardelli al Codice Rocco. In secondo luogo, saranno presi in considerazione i rapporti tra l’imputabilità e la colpevolezza e la loro collocazione nel codice penale. Infine, l’attenzione sarà rivolta alle cause di esclusione della capacità di intendere e volere con particolare attenzione al vizio di mente. Già dalla spiegazione del concetto di vizio di mente emergerà uno dei punti cardine di questo lavoro : il rapporto tra diritto e scienza. Se si dà per buono che l’imputabilità è un concetto

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normativo ma anche di scienza, non sarà difficile comprendere come inevitabilmente il diritto penale sia costretto a rivolgersi al mondo scientifico per poter assolvere alla sua funzione nell’ordinamento.

In questo panorama si inserisce il concetto di perizia psicologica o criminologica ed il suo ruolo all’interno del diritto e del processo penale dagli anni '30 ad oggi.

La perizia e di conseguenza la figura del perito sono state al centro di diverse discussioni ed il loro ruolo è cambiato nel corso degli anni.

Le diverse scuole di pensiero hanno indirizzato riforme e modifiche dei codici penali che si sono avvicendati negli anni. Lo svilupparsi di un approccio critico verso la psicologia forense ed i rischi connessi con la prassi della perizia criminologica hanno portato il legislatore a valutare fin nei minimi particolari il ruolo, l’importanza e l’incidenza della perizia sul giudizio conclusivo del processo penale e più nello specifico sulle conseguenze che ricadranno sul soggetto dichiarato non imputabile.

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L’analizzare la perizia in ogni suo aspetto ha fatto emergere anche i limiti del mezzo stesso di fronte ai quali il legislatore ha dovuto imporre il suo pensiero.

Spesso i risultati delle analisi e dei test vengono interpretati come una forzata intrusione della scienza nel diritto penale.

Per questo motivo, in ambito forense gli accertamenti neuropsicologici sono spesso oggetto di opposti pregiudizi: da un lato se ne afferma l’inutilità di principio, sostenendo che colloquio ed osservazione clinica (metodo tradizionale) sono più che sufficienti a fornire tutti gli elementi utili per la decisione, dall’altro si tende ad immaginare l’indagine neuropsicologica come una via d’accesso privilegiata alla profondità della mente umana.

Infine verrà affrontato il mondo degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OGP), in che modo i soggetti che vi sono ospiti vengono trattati, il punto di vista di chi quotidianamente si confronta con loro cercando di capire quale sarà il destino dei soggetti che vengono dichiarati non imputabili e verso i quali si ritiene necessario il “soggiorno” presso queste strutture.

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Verrà ripercorso l’iter giudiziario che ha visto l’apice il 17 gennaio 2012, quando la Commissione Giustizia del Senato ha approvato all’unanimità la chiusura definitiva degli OGP entro il 31 marzo 2013, termine che non è stato rispettato e che è stato prorogato tramite decreto legge al 30 aprile 2015.

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CAPITOLO 1

L’IMPUTABILITA’

Sviluppi storici

Il principio secondo il quale chi sia “folle”, “malato di mente”, “affetto da disturbo” o “sofferente psichico”, abbia compromesse le capacità di comprensione e/o di libera determinazione, tale da essere considerato meno o per nulla responsabile dei propri atti, è un principio di antica data e di accezione quasi universale.

Nel diritto romano i “furiosi” e i “fatui” che fossero responsabili di reati erano esenti da punizioni.

Nella legislazione giustinianea la situazione si complica ulteriormente, viene fatto salvo il caso di lucido intervallo, tanto che se il delitto era commesso in tale periodo non vi era scriminante. Pure gli intensi gradi delle passioni erano considerati atti ad escludere la responsabilità.

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L’ubriachezza “derubricava” il reato da doloso a colposo.

Successivamente trova applicazione il diritto penale germanico, questo è l’unico che fa eccezione alla regola universale: in questo diritto, infatti, si guardava esclusivamente l’elemento oggettivo del danno, non si poneva attenzione all’elemento soggettivo considerando così colpevoli anche i malati di mente.

L’attenzione all’elemento soggettivo del reato non verrà, però, mai messa da parte dalla Chiesa: il diritto canonico escludeva l’imputabilità per coloro che avessero un difetto di libera volontà e così inizia a farsi strada il concetto di capacità di intendere e volere. Tutto questo non riguarda l’epoca del potere dell’ Inquisizione, in cui le considerazioni di politica criminale prevalsero e non importava che “i folli” fossero o meno responsabili perché la malattia mentale era considerata effetto di stregoneria o di influenza diabolica e così era previsto il rogo per tutti.

Il principio dell’irresponsabilità del soggetto ritornerà in auge nel diritto intorno all’anno Mille facendo ancora riferimento al vizio

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dell’intelletto e della volontà ed apportando alcune modifiche tra le quali il fatto che le passioni incidessero sull’ imputabilità.

Il Codice Napoleonico del 1810 all’ art. 64 recitava: Non esiste né

crimine né delitto allorchè l’imputato trovatosi in stato di demenza al momento dell’azione, ovvero, vi fu costretto da una forza alla quale non potè resistere”.

In Italia, sia nei codici emanati sotto l’influsso napoleonico che in quelli successivi, rimase il principio generale ma anche le espressioni usate nel Codice Napoleonico; troviamo così esclusa la responsabilità quando “l’autore è totalmente privo della ragione” e ritroviamo il riferimento alla “forza irresistibile”.

Con l’Unità d’Italia venne esteso all’Italia il Codice penale Sardo del 1859 che, riguardo all’imputabilità stabiliva all’art. 94 “Non vi è reato

se l’imputato trovatosi in stato di assoluta imbecillità, di pazzia, o di morboso furore quando commise l’azione, ovvero se vi fosse tratto da una forza alla quale non potè resistere”.

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Ma questa normativa rimase in vigore in Italia solo trent’anni, dopo i quali, il 30 giugno 1889 fu approvato il Codice Zanardelli dal nome dell’allora Ministro della Giustizia e dei Culti.

Attualmente l’istituto è regolato dall’art. 85 c.p. che stabilisce:

“Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come

reato, se, al momento in cui lo ha commesso non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intendere e volere”.

Questa è la definizione dell’imputabilità fornita dal Codice Rocco. Prima di analizzarla è però doveroso ripercorrere l’evoluzione che questo concetto ha subito dal Codice Zanardelli sino al vigente Codice.

All’epoca mancava ancora una chiara presa di posizione circa gli elementi che dovevano concorrere a formare il giudizio di imputabilità, tuttavia, risultava unanime la convinzione che “la sola

esecuzione materiale del fatto non possa ritenersi sufficiente per dichiarare l’autore medesimo colpevole di un reato ed assoggettarlo alla sanzione penale corrispondente”.

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In merito alla questione del fondamento dell’imputabilità, vi erano diverse posizioni dottrinali: quella del libero arbitrio1, quella dei deterministi2 e quella intermedia che “ fa consistere il cardine

dell’imputabilità nella volontarietà del fatto, indipendentemente dal libero arbitrio3”. Si optò per quest’ultima.

Ma proprio perchè in certi casi si riconobbe che “nell’azione od

omissione stessa, sebbene sia opera di un uomo, ed anche fuori dall’ipotesi di errore di fatto, può (…) non concorrere la volontà” si

sentì la necessità di determinare le circostanze in cui “può e deve

risultare escluso o diminuito l’elemento morale del reato ossia l’imputabilità di questo all’autore del fatto materiale4”. È proprio

sull’irresponsabilità dell’alterazione della mente che il Progetto Zanardelli offrì le innovazioni più importanti.

Il Ministro Zanardelli presentava, quindi, alla Camera dei Deputati la nuova disciplina in tema di imputabilità contenuta nel progetto

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Teoria seconda la quale il fondamento dell’imputabilità è nella libertà del volere; la pena, in quanto castigo, presuppone che l’uomo sia stato causa cosciente e libera del fatto commesso. Egli avendo la possibilità di scegliere il bene ha, invece, scelto il male. Questa libertà di scelta crea problemi negli individui che non hanno sufficiente grado di sviluppo intellettuale o sono affetti da gravi anomalie psichiche: essi non sono liberi, quindi, non possono essere puniti. Antalosi F.,

Diritto Penale. Parte generale, XIII° ed. aggiornata ed integrata da L. Conti, Milano 1994, 559.

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Teoria secondo la quale nessun fenomeno può verificarsi senza che sia stato preceduto da un insieme di condizioni che lo determinano necessariamente.

3 Villa T. Relazione Commissione, cit., XLIV 4

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definitivo del codice penale: art. 47 “Non è punibile colui che, nel

momento in cui ha commesso il fatto, era in tale stato di deficienza o di morbosa alterazione di mente da togliergli la coscienza dei propri atti o la possibilità di operare altrimenti”.

La norma, nel testo definitivo all’art. 46 c.p. venne infine modificata dalla Commissione preposta alla revisione definitiva del progetto nei seguenti termini “non è punibile colui che, nel momento in cui ha

commesso il fatto, era in tale stato di infermità di mente da togliergli la conoscenza o la libertà dei propri atti”.

Come si può ben notare, la nuova disciplina del concetto di imputabilità fu a favore del metodo c.d. analitico che offrisse una seppur minima definizione dei disturbi psichici ai quali riconoscere la capacità di escludere l’imputabilità.

A sostegno di questo metodo due motivazioni di fondo: la maggiore capacità di garantire un’applicazione delle norme più trasparente e certa, anche nel caso in cui l’evoluzione scientifica non fosse lineare ed univoca, e la maggiore idoneità a definire, delimitandoli, gli spazi

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di operatività della disciplina della non imputabilità per vizio di mente5.

Al fine di raggiungere questi obiettivi, per quanto riguarda il contenuto del presupposto biologico-psicologico del giudizio, si ritiene opportuno utilizzare nozioni sintetiche e semplificate ma allo stesso tempo specifiche come inizialmente “stato di deficienza o di

morbosa alterazione di mente” sostituita poi nel testo definitivo con la

formula più sintetica di “ infermità di mente” perché un elenco di casi delle diverse forme di disturbi mentali, di natura morbosa a cui è riconosciuta efficacia scusante non sarebbe stato esaustivo.

In dottrina si specifica che con l’espressione “deficienza”ci si riferisce a tutti gli stati di mancato sviluppo, di sviluppo imperfetto e di inattività delle facoltà mentali anche solo transitorie idonee ad escludere l’imputabilità; il termine “mente” doveva essere inteso nel suo significato più ampio così da comprendere tutte le facoltà psichiche dell’uomo innate ed acquisite.

Una volta definito il presupposto biologico-psicologico del giudizio di imputabilità, era necessario anche definire le conseguenze che

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l’anomalia mentale doveva produrre per escludere l’imputabilità, cioè il suo presupposto pscicologico-normativo. Tali effetti vennero individuati in quei difetti o turbamenti che “dipendono da uno stato

psichico tale da togliere la coscienza dei propri atti o la possibilità di operare altrimenti ossia (…) tale da togliere la capacità d’intendere e volere”.

In breve l’art. 46 prevedeva che “l’uomo è irresponsabile quando

qualunque infermità, cioè qualunque cosa morbosa, che attacchi la psiche, produca o la mancanza di coscienza o la mancanza della libertà degli atti6”.

In merito, invece, all’istituto della semimputabilità disciplinato all’art. 47 “Quando lo stato di mente indicato nell’articolo precedente era

tale da scemare grandemente la imputabilità, senza escluderla, la pena stabilita per il reato commesso è diminuita […].

Ma il dibattito più acceso si rivelò in tema di trattamento da riservare ai soggetti riconosciuti non imputabili per infermità mentale.

Inizialmente in Progetto Zanardelli sembrava appoggiare la posizione positivista a favore dei manicomi criminali prevedendo che il giudice

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potesse ordinare il ricovero del soggetto prosciolto per infermità di mente in un manicomi criminale, ma la disposizione non fu accolta dalle Commissioni parlamentari per il pericolo di attribuire al magistrato un arbitrio senza limiti.

La successiva formulazione prevedeva che “il giudice, ove stimi

pericolosa la liberazione dell’imputato prosciolto, ne ordina la consegna all’autorità competente per i provvedimenti di legge”. In

realtà, il generico affidamento all’autorità competente si concretizzava nel ricovero in manicomio comune di competenza del giudice civile, sempre che il giudice penale avesse ritenuto non solo pericoloso il soggetto ma anche bisognoso di questo affidamento. Riassumendo, si può affermare che il Codice Zanardelli si muovesse sul concetto di libero arbitrio (uomo assolutamente libero nella scelta delle proprie azioni) ponendo a fondamento del diritto penale la responsabilità morale del soggetto. Qualora l’individuo fosse privo di ogni libertà di scelta e non avesse la possibilità di agire altrimenti, nessun rimprovero potrebbe essergli mosso quando violi la legge.

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I principi liberali di natura garantistica del codice del 1889, tuttavia, furono messi in discussione dal totalitarismo che arrivò anche in Italia nel periodo tra le due guerre e che portò alla codificazione del 1930. Infatti, le istanze repressive del regime fascista e le proposte della Scuola Positiva7 si trovano, ad esempio, nell’introduzione del sistema del doppio binario che, accanto alla pena, prevede l’applicazione di misure di sicurezza nei confronti dei soggetti considerati socialmente pericolosi e nella disciplina dei soggetti non imputabili per vizio totale o parziale di mente.

Il Codice Rocco, prevede inizialmente la presunzione di pericolosità ossia l’applicazione obbligatoria ed a tempo indeterminato del ricovero in un manicomio giudiziario.

Lo scopo era quello di sopperire alle lacune della legislazione allora vigente data l’inidoneità delle pene a combattere i fenomeni di

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I positivisti vedevano il comportamento umano come determinato da tratti biologici, psicologici e sociali. Le caratteristiche principali, infatti, del pensiero criminologico positivista sono: una visione deterministica del mondo e l’interesse verso il comportamento criminale in sé. I positivisti assunsero una posizione deterministica verso il comportamento, scartando la visione classica degli esseri umani come persone razionali e libere di scegliere. Il comportamento criminale dipende da diversi tipi di anormalità che possono essere intrinseche all’individuo o possono scaturire dalla società. Le caratteristiche dell’ anormalità vanno stabilite tramite il confronto con quelle della normalità. Scoperte le anormalità è compito della criminologia provvedere alla loro correzione, bisogna sottoporle a trattamento e recuperare il soggetto criminale.

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delinquenza degli infermi di mente affiancando alle ordinarie misure di repressione nuovi mezzi di prevenzione della criminalità cioè le misure di sicurezza.

La disciplina, invece, relativa alle cause che escludono l’imputabilità per infermità di mente rimane quasi invariata nella struttura e nei contenuti.

Il legislatore del 1930 introduce l’art. 85 dove fornisce una definizione del soggetto imputabile ed anche attraverso lo spostamento delle norme nel titolo dedicato al reo distingue nettamente l’imputabilità dalle altre componenti soggettive del reato. Ciononostante non modifica il concetto di infermità mentale introdotto dal Codice Zanardelli.

In realtà, nonostante venga riaffermato il principio di colpevolezza che porta anche il legislatore del 1930 ad escludere che possa essere assoggettato a pena chi al momento del fatto non fosse capace di intendere e volere, ci sono comunque delle modifiche che indeboliscono questo principio.

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Sulla spinta di rigorose istante di polita criminale e di prevenzione e repressione dei reati venne introdotto l’art. 90 che nega agli stati emotivi e passionali qualsiasi incidenza sull’imputabilità. Ciò a riprova che il vizio di mente deve essere inteso solo come conseguenza di un infermità fisica o psichica clinicamente accertata. Il legislatore del ‘30 ha un doppio intento: da una parte riconoscere che il vizio totale o parziale di mente possa dipendere anche da infermità fisica e dall’altra dichiarare esplicitamente che gli stati emotivi passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità. Proprio in riferimento a quest’ultimo intento il legislatore sente l’esigenza di introdurre una definizione generale che revisioni le norme in tema di cause di esclusione e diminuzione dell’imputabilità. La differenza tra l’art. 85 e l’art. 42 “Responsabilità per dolo o per

colpa o per delitto preterintenzionale. Responsabilità obiettiva”.

Comma 1:”Nessuno può essere punito per un azione od omissione

preveduta dalla legge come reato, se non l’ ha commessa con coscienza e volontà” sta nel fatto che ci sono persone astrattamente e

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concreto (cioè con riferimento ad un determinato fatto) non rispondono penalmente delle loro azioni.

Infatti, le disposizioni relative all’elemento psicologico contenute nell’ art. 42 considerano la volontà effettiva e concreta del fatto, elemento necessario perché l’individuo, generalmente capace e quindi imputabile, possa essere chiamato a rispondere di un fatto determinato.

L’art. 85 regola la generica capacità d’agire nel campo penale, senza far riferimento ad un fatto concreto; la capacità dell’individuo di volere scegliere i motivi del suo agire, indicando così il soggetto tipico al quale la legge penale possa essere applicata.

L’art. 42 indica invece l’elemento psicologico del reato identificandolo nella coscienza e nella volontà dell’azione o dell’omissione; per individuare, invece, il presupposto della responsabilità, cioè la capacità generica di essere soggetto di diritto penale è necessario indicare oltre alla capacità di volere anche quella di intendere.

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Nell’art. 43 l’elemento soggettivo comune a tutti i reati è indicato bene nei due requisiti della coscienza e volontarietà dell’azione; ma, dovendosi, nell’ art. 85 precisare gli elementi in base ai quali l’individuo può essere ritenuto imputabile, ossia capacità di dolo e di colpa, non si può prescindere dall’intelligenza e cioè dalla capacità di percepire e prevedere l’evento e rappresentarlo come possibile conseguenza della propria azione od omissione.

In questo modo nella disputa tra Scuola Classica e Scuola Positiva si conferma l’orientamento, già fatto proprio dal Codice Zanardelli, a favore di una responsabilità penale “saldamente affidata al principio

dell’imputabilità psichica e morale dell’uomo, fondato a sua volta sulla normale capacità e quindi sulla libertà di intendere e volere e da qui si sviluppa la concezione della c.d. normativa della colpevolezza. Essa sembra essere alla base dello stesso Codice Rocco, anche se nella sua disciplina subisce diverse violazioni8”.

Si può concludere, quindi, che nel sistema introdotto dal legislatore del 1930 è rimasto ferma la concezione della Scuola Classica secondo la quale si ha l’esclusiva punibilità del soggetto che delinquendo abbia

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agito liberamente e cioè senza l’intervento di fattori che non dipendevano dalla sua volontà.

Offrire una definizione positiva del concetto di imputabilità oggi rappresenta ancora uno dei punti più controversi del diritto penale, tanto che spesso questa definizione si è ricercata in accezione negativa ovvero sia attraverso l’elenco delle cause che la escludono: l’imputabilità diventa così il risvolto positivo di un concetto negativo, la non imputabilità.

In primis si può affermare che il’imputabilità è il requisito imprescindibile per l’accertamento della responsabilità penale e per il conseguente assoggettamento alla pena.

Si deve tener presente, però, che le norme volte a regolamentare tale istituto prevedono anche casi nei quali viene esclusa l’imputabilità a prescindere dalla capacità naturale ad esempio il delinquente minore che non abbia ancora compiuto i 14 anni d’età, anche se dotato di sufficiente maturità psichica, non può essere assoggettato alla pena.

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Si può quindi affermare che di regola il concetto di imputabilità e normalità psichica coincidono anche se ci sono dei casi in cui questo non accade.

L’imputabilità non può mancare nell’ individuo che si trovi in normali condizioni psichiche. Questo stato si verifica quando nel soggetto le tensioni determinate dai sentimenti, dai bisogni, dai desideri e dagli interessi si svolgono senza particolari conflitti psichici e si traducono in corrispondenti azioni che ne costituiscono il motivo determinante. Secondo quanto disciplinato dall’ art. 85 c.p. l’imputabilità, in quanto capacità d’intendere e volere, rappresenta la sintesi delle capacità psico-fisiche che consentono di attribuire la responsabilità all’autore di un fatto previsto come reato dalla legge e pertanto meritevole di pena.

In questa ottica la piena capacità d’intendere e di volere indica la costituzione fisica e psichica di una persona che, al momento in cui ha commesso il fatto era maggiorenne di età, sana nel fisico e nella mente e si trovava in una situazione di normalità.

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L’imputabilità oltre a rapportarsi con la colpevolezza deve rapportarsi anche con la funzione della pena.

La minaccia di una sanzione punitiva in conseguenza di un comportamento illecito deve esercitare una funzione di prevenzione distogliendo i soggetti dal commettere reati; un presupposto necessario è che i destinatari siano psicologicamente in grado di capire lo scopo della minaccia stessa.

Se l’esecuzione in concreto della pena ha una funzione rieducativa è strettamente necessario che il condannato sia psicologicamente capace di capire il trattamento punitivo.

Questo non avviene allo stesso modo in tutti gli individui: i soggetti immaturi (minorenni) e gli infermi di mente sono da considerare incapaci di comprendere tale meccanismo psichico.

La legge dichiara: “è imputabile il soggetto che è capace di intendere

e volere”. Viene definita capacità d’intendere, tradizionalmente,

l’attitudine del soggetto non solo a conoscere la realtà esterna ma a rendersi conto del valore sociale, positivo o negativo di eventi o atti che lui stesso compie, in altri termini la capacità di comprendere il

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significato del proprio comportamento e di valutare le possibili ripercussioni positive o negative su terzi.

La capacità di volere, invece, rappresenta l’attitudine del soggetto ad autodeterminarsi, a scegliere in modo autonomo tra i motivi che lo spingono a tenere quel determinato comportamento.

La giurisprudenza afferma quindi che la capacità di intendere indica l’idoneità del soggetto a valutare il significato e gli effetti della propria condotta, mentre quella di volere indica l’attitudine del soggetto ad autodeterminarsi in relazioni agli impulsi che lo motivano. Il concetto di imputabilità è allo stesso tempo scientifico e normativo: è la scienza che ha il compito di individuare i requisiti psicologici che facciano ritenere un soggetto in grado di comprendere e recepire il contenuto del messaggio normativo collegato alla sanzione punitiva ed è, invece, compito del legislatore fissare le condizioni di rilevanza giuridica dei dati forniti dalla scienza.

L’imputabilità deve essere riferita contemporaneamente ad entrambe le attitudini: devono sussistere sia la capacità di intendere che quella di volere e mancandone una delle due si ha difetto d’imputabilità.

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La nozione di capacità di intendere e volere è il cardine del concetto d’ imputabilità, queste due condizioni devono essere presenti in tutti e tre i momenti in cui si sviluppano il reato e le sue conseguenze:

Compimento del reato Accertamento del reato

Esecuzione della pena relativa al reato commesso

La loro mancanza produce conseguenze diverse a seconda del momento nella quale è rilevata: al momento del compimento del reato comporta la non punibilità dell’autore, al momento dell’ accertamento

del reato si ha la sospensione del processo (ex. art. 71 c.p.p.) ed al

momento dell’ esecuzione della pena provoca il deferimento o la sospensione dell’esecuzione della pena stessa (art. 148 c.p.).

Si è accennato in precedenza al fatto che spesso il concetto di imputabilità venga indicato in accezione “negativa” indicando così le cause di esclusione dell’imputabilità stessa.

L’art. 85 individua, quindi, il presupposto della responsabilità nell’imputabilità.

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Senza imputabilità non c’è colpevolezza, senza colpevolezza non ci può essere pena.

Essa, quindi, è considerata presente quando l’autore, al momento del fatto, abbia raggiunto la maturità fisica e psichica fissata convenzionalmente al compimento del diciottesimo anno d’età e non sia in una condizione di infermità che pregiudichi la normale comprensione del mondo circostante e/o l’autocontrollo.

È necessario, a questo punto, analizzare in che rapporto il concetto di imputabilità si pone nei confronti degli altri elementi del reato, in modo particolare con la colpevolezza.

Bisogna premettere che il concetto di capacità e di incapacità di intendere e di volere dipende anche dalla funzione che questi concetti sono chiamati a svolgere all’interno del nostro sistema penale e che, quindi, la scelta a favore di una o di un’altra interpretazione dell’imputabilità sarà condizionata dalle esigenze di politica criminale. Da una parte si ritiene che lo scopo della non imputabilità sia quello di consentire l’esenzione dalla pena di certe categorie di soggetti. Le motivazioni che stanno alla base di questo pensiero divergono

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notevolmente a seconda della diversa posizione che di volta in volta viene riconosciuta all’imputabilità, di conseguenza le giustificazioni dell’esenzione dalla pena e la posizione dell’imputabilità nel sistema presentano delle forti interferenze9.

Tutte le teorie relative alla capacità di intendere e di volere del sistema del reato ruotano intorno alle nozioni di imputabilità e reato: imputabilità è l’assoggettabilità a pena (un soggetto è definito imputabile perché idoneo ad essere sottoposto a precetto e sanzione penale); il reato, invece, è considerato un fatto tipico compiuto dall’uomo.

Ci sono principalmente due correnti di pensiero in dottrina che spiegano il rapporto tra imputabilità e colpevolezza.

La prima corrente, che domina il pensiero penalistico italiano, considera l’imputabilità come qualificazione giuridica soggettiva e di conseguenza collegata al reo e non al reato.

L’imputabilità, quindi, rappresenta un modo di essere della persona necessario affinché l’autore del reato sia assoggettabile a pena.

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La mancanza di imputabilità, di conseguenza, diventa una causa di esenzione dalla pena. Di conseguenza il rapporto che si crea tra reato e imputabilità è di assoluta indipendenza potendo il reato sussistere anche in assenza dell’imputabilità che è rilevante solo ai fini dell’applicabilità della pena ovvero della misura di sicurezza.

Questa corrente, pertanto, sostiene che l’imputabilità non può essere considerata presupposto della colpevolezza ma soltanto elemento soggettivo dal quale dipende solo l’assoggettabilità a pena dell’individuo.

L’altra corrente, invece, colloca l’imputabilità nella teoria generale del reato riconducendola al concetto della colpevolezza come suo presupposto. L’imputabilità viene intesa come maturità psicologica del reo che consente di “punire” l’autore del reato.

L’applicazione dell’istituto dell’imputabilità dipendono anche dal concetto di pena che si intende privilegiare.

Da un punto di vista retributivo, se la pena deve servire a compensare la colpa per il fatto commesso, non può che giustificarsi solo nei confronti dei soggetti che hanno scelto di delinquere in piena libertà;

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sotto un ottica preventiva, invece, la funzione della pena potrà riguardare solo soggetti che siano effettivamente in grado di capire il messaggio contenuto nelle norme e fra questi non sembra possibile annoverare anche i soggetti non imputabili.

Per quanto riguarda l’aspetto della risocializzazione è necessario tenere presente il collegamento psichico tra fatto e autore necessario per dare un senso alla risocializzazione che viene visto come la possibilità che il soggetto aveva di agire in modo diverso al momento del compimento del fatto; in mancanza di questo collegamento non avrebbe senso chiedersi se il soggetto abbia bisogno di essere rieducato in quanto si ritiene che questi non sia neppure in grado di cogliere il significato della pena e di conseguenza modificare i suoi comportamenti.

Precedentemente si è accennato al fatto che spesso l’imputabilità viene individuata in accezione “negativa” ovvero individuando le cause di esclusione dell’imputabilità stessa.

Tutte le volte che sussiste un dubbio sull’esistenza della capacità di intendere e volere, il giudice ha due alternative: accertare l’insussistenza dell’incapacità o prosciogliere l’imputato.

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1.1 Il vizio di mente

Tra tutte le cause di esclusione dell’imputabilità indicate dal codice vigente quella che verrà analizzata in questo elaborato sarà il vizio di mente.

L’infermità di mente, almeno nelle forme più evidenti ed acute , fu sempre considerata come un’anomalia tale da escludere l’individuo dai comuni rapporti sociali, qualunque fosse stato il concetto che di questa si avesse.

I giureconsulti romani equiparavano il furiosus all’ infans. Il fatto compiuto dal furor non era punibile indipendentemente fosse preveduto dalla legge come n delitto privato o pubblico era ammessa però la punibilità del fatto se compiuto in un momento di lucido intervallo.

Il diritto romano sapeva distinguere, nel caso di punibilità per furor la funzione del diritto penale da quella della polizia, tanto che il magistrato, pur non potendo punire doveva prendere comunque le opportune misure verso il folle quali la custodia.

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Il diritto germanico non considerava la pazzia come causa influente sull’imputabilità.

Il diritto canonico escluse i pazzi dal’imputabilità penale a cominciare del XIII secolo, equiparando in onore alla tradizione romana, il

furiosus all’ infans e proclamando che la pena per il pazzo è la

massima. Questa dottrina attraverso successivi perfezionamenti dominò il diritto italiano intermedio.

Questa è la teoria. In pratica le cose andavano diversamente e i pazzi, anche se avessero agito con furore, se non venivano uccisi il più delle volte erano condannati al carcere o ad altra detenzione e tenuti in catene. Sono molte le paurose aberrazioni e le crudeltà che si commettevano contro streghe, maghi, indemoniati ecc.

“Non è imputabile chi, al momento in cui ha commesso il fatto, era,

per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e volere” (art. 88 c.p.).

La nozione di infermità mentale solleva, ancora oggi, complessi interrogativi e problemi interpretativi per l’accertamento giudiziale.

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Il Codice Rocco nel disciplinare le cause patologiche che influenzano l’imputabilità ha accolto un preciso indirizzo e cioè quello secondo il quale non è sufficiente accertare una malattia mentale per dedurre automaticamente la non imputabilità del soggetto, ma occorre verificare se e in quale misura la malattia stessa ne comprometta la capacità di intendere e volere.

Ai fini della del giudizio sulla capacità di intendere e di volere non interessa tanto che la condizione del soggetto sia esattamente catalogabile nei trattati di medicina, quanto che il disturbo abbia in concreto l’attitudine a compromettere gravemente la capacità di percepire il valore negativo del fatto commesso e la comprensione del trattamento punitivo.

I disturbi mentali sono ricondotti a disarmonie dell’apparato psichico in cui la fantasia, per il soggetto, prevale su quella che è la realtà esterna e quando questa realtà inconscia prevale sul mondo reale si manifesta la malattia mentale.

Oggetto dell’indagine, quindi, non è più la persona-corpo umano ma la persona-psiche.

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Intorno agli anni settanta del secolo scorso si è sviluppato un indirizzo sociologico secondo il quale la malattia mentale è un disturbo psicologico che ha origine sociale, non più attribuita ad una causa di natura organica ma legata al modo di relazionarsi in modo non adeguato all’ambiente in cui vive il soggetto.

Nella scienza psichiatrica attuale, sono presenti orientamenti che propongono un modello integrato della malattia mentale, in grado di spiegare il disturbo psichico sulla base di diverse ipotesi relative alla sua natura ed alla sua origine. Questo si traduce in una visione “integrata” che tiene conto di tutte le variabili biologiche, psicologiche, sociali e relazionali che entrano in gioco nella determinazione della malattia.

Si rivendica una maggiore autonomia della valutazione giuridica consentendo al giudice di applicare gli art. 88 e 89 c.p. anche se il disturbo psichico rientra difficilmente in un preciso inquadramento clinico purché si possa sostenere che questo abbia in concreto compromesso la capacità di intendere e di volere.

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Pertanto, oggi abbiamo una concezione integrata di malattia mentale che comporta un approccio il più possibile individualizzato escludendo così il ricorso a categorie o vecchi rigidi schemi.

La condizione psichica indicata nell’ art. 88 c.p. non deve essere concepita come qualche cosa di statico, di ben definito, di permanente; l’espressione “stato di mente” indica anche solo il vizio di mente transitorio oltre che quello permanente.

Perché la legge riconosca nell’individuo l’assenza completa della capacità e quindi dell’imputabilità è necessario l’accertamento processuale di uno stato di mente tale da togliere la capacità di intendere e di volere sia questo permanente o transitorio purché esistente al momento del compimento del fatto.

La mente e cioè il complesso di tutte le facoltà psichiche dell’uomo, innate ed acquisite, segue una doppia direzione: quella della coscienza (capacità d’intendere) e quella dell’attività (capacità di volere). Queste due direzioni si integrano in modo che la volontà senza l’intelligenza non è giuridicamente considerabile e l’intelligenza senza volontà non può dar vita ad azioni od omissioni che portino ad una responsabilità giuridica del fatto.

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Secondo quanto disciplinato dall’art. 88 c.p. l’incapacità di intendere e di volere deve provenire da infermità e cioè da malattia. Non si possono così prendere in considerazione tutti quegli stati di mente che, pur essendo anormali, non comportano infermità.

Se il giudice constata la sussistenza di un vizio totale di mente che abbia privato il soggetto della capacità di intendere e di volere al momento della realizzazione della fattispecie delittuosa pronuncerà una sentenza di proscioglimento e, se ricorrono gli estremi della pericolosità sociale, potrà disporre la misura di sicurezza del ricovero presso un Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG) ai sensi dell’art. 222 c.p.

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CAPITOLO 2

La perizia sulla personalità del reo.

L’evoluzione dagli anni ’30 all’attuale codice di

procedura penale.

Da sempre è stata auspicata una maggiore attenzione allo studio della personalità del soggetto sottoposto a giudizio penale e questa volontà ha fatto da sfondo al percorso che ha portato all’emanazione del c.p.p. vigente.

La dottrina ha affrontato questo problema in due modi: uno, volto

ad assicurare una più approfondita conoscenza della personalità del reo, al fine di realizzare la più adeguata individualizzazione della sanzione e del trattamento; l’altro, invece, preoccupato dei rischi di strumentalizzazione di un’ indagine sulla personalità e

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di una sua influenza negativa sul convincimento del giudice per l’attribuzione del fatto all’imputato10.

Il processo evolutivo del concetto di perizia all’interno del processo penale prende avvio dall’ art. 314 com. 2 del c.p.p. ’30 che sanciva il divieto di ammissione delle perizie per stabilire le qualità psichiche dell’individuo.

Il legislatore pone così dei divieti di tipo oggettivo rendendo il processo penale impermeabile al contributo delle scienze umane come la psicologia, la criminologia e l’antropologia criminale. La dottrina, aveva però, una visione opposta quella codificata nell’articolo sopra citato tanto da chiederne l’abrogazione che però non venne accolta.

Bisogna aspettare gli anni ’70 perché qualche cosa si muova. È infatti con la l.108/74 che vengono enunciati i principi della perizia:

10 Pannain, Albino, M.Pannain, La perizia sulla personalità del reo evoluzione dottrinaria e

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<< effettivo giudizio sulla personalità dell’imputato ed acquisizione in ogni stato e grado del giudizio di merito e in contraddittorio, di elementi che consentano una compiuta conoscenza del soggetto>>

<<riordinamento dell’istituto della perizia, con particolare

riferimento alla perizia medico-legale, psichiatrica e

criminologica>>11

È proprio per dare attuazione a questi principi che il prog. prelim. c.p.p. ’78 prevede l’utilizzo della perizia medico-legale, perizia psichiatrica/criminologica all’ art. 212.

Questa scelta tiene conto del costante aumento delle scuole di

criminologia ma anche dell’intrecciarsi di indagini

criminologiche con quelle psichiatriche.

Si arriva così al pro. prelim. del febbraio ’88 dove l’art. 220 che disciplina l’oggetto della perizia, era composto da un solo comma il quale si limitava a stabilire che “ la perizia è ammessa

quando occorre svolgere indagini o acquisire valutazioni che

11 Pannain, Albino, M.Pannain, La perizia sulla personalità del reo evoluzione dottrinaria e

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richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche” lasciando così la possibilità di disporre perizia

criminologica come ogni altro tipo di perizia.

Il testo definito del nuovo codice ha apportato però una modifica a quanto previsto nel pro. perlim. all’art. 220 con l’aggiunta di un comma, il secondo “salvo quanto previsto ai fini della pena o

della misura di sicurezza, non sono ammesse perizie per stabilire l’abilità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche”.

La perizia continua a rimanere, però, uno degli argomenti e dei nodi centrali dell’elaborazione del nuovo codice. Diventa così uno dei temi che verrà trattato anche nel 27° Congresso Nazionale della S.I.M.L.A. (Società Italiana di Medicina Legale delle Assicurazioni) tenutosi a Chianciano nell’ottobre 1980. Dal Congresso si fanno strada diverse concezioni relative alla perizia:

De Fazio sosteneva di non aver alcun dubbio sulla necessità di mantenere l’istituto della perizia criminologica nella futura legge

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delega, questo, sulla base anche dell’evoluzione che la perizia psichiatrica, un tempo, prevista solo nei casi di sospetta patologia mentale in quel momento era richiesta anche nei casi di delitti particolarmente gravi dove non apparivano chiare le motivazioni alla base dell’atto delittuoso.

Ponti dichiarava, invece, che la perizia dovesse essere criminologica e non psicologica e dovesse fornire indicazioni sul trattamento penale da applicare e indicare elementi valutativi della capacità di delinquere.

Dato l’oggetto della perizia psichiatrica, le critiche appaiono abbastanza incisive tanto da far dubitare dell’affidabilità scientifica della perizia stessa.

Le istanze di tipo normativo elaborate dai criminologi italiani puntavano ad ottenere un giudizio “tecnico” sulla personalità del reo attraverso una perizia criminologica; processo che vede la sua realizzazione in due fasi, la prima riguarda l’accertamento della responsabilità e la seconda l’individuazione della sanzione e quindi del trattamento più adeguato al soggetto in questione. L’evoluzione della materia si può quindi sintetizzare in tre punti:

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1) Previsione della non ammissibilità della perizia criminologica art. 314 c.p.p. ‘30

2) Richieste di modifiche dopo l’entrata in vigore del codice, anche per la diffusione ed evoluzione degli studi criminologici in conseguenza dell’istituzione di scuole di criminologia

3) In più occasioni il legislatore prende in considerazione le richieste di modifica e non di rado le accoglie parzialmente

Riassumendo la criminologia ha richiamato l’attenzione sullo studio della personalità del reo al fine di individuare la sanzione e il trattamento ed ha criticato la non ammissibilità di perizia criminologica sancita dal c.p.p. ’30.

Nel prog. Prelim. c.p.p. ’78 fu invece prevista la perizia criminologica sull’imputato ma nonostante questo si esprimono opinioni contrarie al suo utilizzo dettate dalla difficoltà dell’indagine sulla personalità e per il rischio che venga condizionato l’accertamento della colpevolezza.

Nel codice penale ’88 viene confermato il divieto di perizia sulla personalità ma con una premessa “salvo quanto previsto per

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Questa premessa ha segnato un punto di svolta nel mondo della criminologia e della psicologia forense. Si auspica così un più oculato utilizzo della perizia .

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2.1 La perizia nell’attuale sistema penale

Va sin da subito precisato che attualmente quella che viene indicata convenzionalmente come perizia psichiatrica è, in realtà, psichiatrica solo in parte; in larga misura è, invece, anche una perizia criminologica e medico legale. I tempi in cui i magistrati chiedevano al perito (clinico) di esprimere un semplice giudizio diagnostico da cui derivava un giudizio di difetto o di assenza di imputabilità sono definitivamente tramontati.

Questo cambiamento è dovuto in primis ai progressi compiuti dalla psichiatria nel trattamento delle malattie mentali e dal cambiamento totale del percorso di vita dei soggetti psichici, grazie anche al cambiamento nell’approccio con il malato ed alla caduta dei pregiudizi in base alle sue capacità.

La scomparsa dello stereotipo del malato-incapace con la conseguenza che anche un malato può essere chiamato a rispondere delle sue azioni comporta che la sola diagnosi non sia sufficiente a produrre un giudizio di difetto di imputabilità: è

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necessario conoscere il tipo di malattia, da quanto tempo il soggetto ne è afflitto e con quale andamento procede e il grado di influenza sulla personalità.

Questa visione è stata fatta proprio dalla Magistratura che non accetta più perizie che semplicemente facciano derivare da un insieme di sintomi un giudizio di vizio di mente.

Sempre più spesso i Magistrati “chiedono di capire il percorso

mentale che ha condotto al progetto ed all’esecuzione del delitto, se ed in quale misura la malattia abbia avuto un ruolo ed in qual misura abbia inciso nelle scelte”12.

È esperienza comune che si arrivi a perizia non solo quando ci sono chiari e documentati elementi di disturbo mentale, ma anche in tutti quei casi giudiziari che si caratterizzano per particolare violenza, ferocia o semplicemente quando tutti gli elementi a disposizione per comprendere i fatti non siano sufficienti a dare risposte precise.

È questo il momento in cui la perizia psichiatrica diventa anche criminologica: è il momento in cui il perito confronta i dati

12

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clinici raccolti personalmente con i fatti, con gli elementi che esistono negli atti e con quella che è la realtà processuale.

Non si deve dimenticare che lo studio della dinamica del reato e della condotta mantenuta precedentemente, contestualmente e successivamente al fatto di reato può e deve essere utilizzata al solo scopo di verifica della fondatezza dell’ipotesi clinica come processo che convalida o “sconfessa” l’esistenza di un determinato quadro clinico al momento del fatto.

L’operazione di ricostruzione criminodinamica, unita ad un’ analisi del ruolo e del peso avuto dal disturbo mentale nella realizzazione del delitto preparano il campo alla fase di collegamento con la realtà normativa.

L’indagine sulla rilevanza del disturbo ha una doppia natura: psicopatologica e normativa.

La parte psicopatologica compete all’esperto (perito, figura che andremo ad analizzare più avanti) che sulla base delle conoscenze scientifiche dovrebbe spiegare al giudice se, come e perché l’infermità mentale diagnosticata abbia annientato o

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ridotto semplicemente la capacità d’intendere e volere dell’imputato.

Al giudice, invece, spetta la parte normativa ha cioè ha il compito di risolvere le questioni di responsabilità penale alla luce degli elementi forniti dall’esperto.

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2.2 La perizia psichiatrica nel processo penale

Indicare i confini entro i quali la perizia psichiatrica opera nel nostro procedimento penale presuppone la conoscenza della natura giuridica e delle finalità del mezzo stesso.

La perizia ha una doppia natura: mezzo di prova e mezzo di valutazione della prova.

La perizia entra in gioco quando è necessario svolgere una valutazione che richiede competenze tecniche e scientifiche che il giudice non possiede.

La perizia adempie a tre funzioni:

1) svolge indagini per acquisire dati probatori 2) interpreta i dati acquisiti

3) compie una valutazione su dati acquisiti

L’art. 220 dichiara ammessa la perizia quando “occorre svolgere

indagini”. La giurisprudenza, da parte sua, ha sempre affermato

la discrezionalità della perizia come mezzo di prova per cui anche di fronte a pareri tecnici e documenti forniti dalla difesa, la

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scelta del giudice di merito di disporre la perizia è discrezionale sia che essa porti ad un parere sia che porti ad una certezza.

L’art. 220 com. 2 c.p.p. pone il divieto per stabilire << il carattere dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche >>

Le caratteristiche della personalità che non danno luogo ad un infermità totale o parziale di mente, pur non incidendo sulla capacità di intendere e volere e quindi sulla responsabilità dell’imputato, hanno effetto nel processo penale in altro senso: il carattere del reo e le motivazioni ulteriori che l’ hanno portato a delinquere costituiscono uno dei parametri di commisurazione della pena ai sensi dell’ 133 com. 2 c.p. ma la loro rilevanza e la valutazione sulla loro incidenza per determinare il trattamento sanzionatorio è compito del giudice, che non può delegare a terzi la commisurazione delle “giusta pena”.

Le ragione della scelta fatta dal legislatore con l’art. 220 c.p.p. sono due.

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In primo luogo, l’esigenza di evitare il rischio che la perizia sulla personalità dell’imputato influenzi il conseguente giudizio sulla colpevolezza.

Sul versante opposto, non si possono nascondere profili diversi che riguardano la protezione di valori di notevole rilievo primi fra tutti quelli relativi alla commisurazione della pena.13

13

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2.3 Limiti oggettivi e soggettivi

Riguardo ai limiti soggettivi non vige la preclusione ad effettuare indagini relative ai profili psicologici e/o caratteriali verso la vittima.

Nonostante si tratti di questioni attinenti alla sfera psichiatrica nulla esclude che questi soggetti siano sottoposti a perizia per accertare elementi rilevanti sul piano penale; sono questi i casi di reati contro la violenza sessuale, della circonvenzione d’incapaci e così via.

Dall’altro lato abbiamo i limiti oggettivi, per quanto riguarda questi sappiamo che la perizia riguardante le qualità psichiche è espressamente consentita <<ai fini dell’esecuzione della pena e della misura di sicurezza>> dall’ art. 220 com. 2 c.p.p.

Fondamentale è però, tenere ben presente che l’osservazione scientifica della personalità del detenuto spetta agli operatori sociali, psicologi o educatori che operano all’interno della

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struttura penitenziaria mentre, l’accertamento dell’aspetto psico-criminale , spetta alla magistratura di sorveglianza.

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2.4 Provvedimento e condizioni d’ammissibilità

Dal punto di vista formale, l’atto con il quale si dispone la perizia è l’ordinanza in conformità al provvedimento tipo disciplinato all’ art. 190 com.1 c.p.p. correlata da motivazione pena la nullità. L’ordinanza in questione deve contenere l’oggetto delle indagini il che implica la determinazione dell’ambito nella quale sarà ammessa la perizia e allo stesso tempo fissa le basi sulle quali esercitare il contraddittorio.

In via generale la perizia è ammessa su iniziativa delle parti o è disposta d’ufficio (art.190 e 224 c.p.p.)

Le condizione d’ammissibilità dipendono poi, dalla fase del procedimento nella quale si fa richiesta di perizia. Le fasi del procedimento sono quattro: Indagini preliminari, udienza preliminare, pre dibattimento e dibattimento.

Nelle indagini preliminari il mezzo della perizia viene attuato sotto forma di incidente probatorio quindi è subordinato alla deteriorabilità del materiale da sottoporre a perizia. La richiesta

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sarà preceduta da un attenta valutazione delle parti soprattutto per fare una scelta in relazione alle diverse possibilità d’indagini tecniche che posso svolgersi nel processo. Perizia, consulenza tecnica, accertamenti tecnici non ripetibili hanno lo stesso scopo ma nel dibattimento avranno un peso diverso sulla formazione del convincimento del giudice.

L’intento di anticipare la perizia può corrispondere anche ad una strategia processuale; dai risultati di questa possono,infatti, dipendere le successive mosse processuali del P.M. relative alle richiesta da formulare al termine delle indagini e delle parti private in relazioni alla possibilità di scegliere riti semplificati. La possibilità di anticipare lo svolgimento della perizia ha però dei limiti ben precisi. È necessario, infatti, che l’indagine abbia ad oggetto <<una persona, una cosa o un luogo il cui stato è soggetto a modificazione non evitabile>> (art. 329 let. f c.p.p.) o deve trattarsi di una perizia << che se fosse disposta durante il dibattimento ne potrebbe determinare una sospensione superiore a sessanta giorni>> (art. 392 com. 2 c.p.p.) Se non ricorre

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nessuna delle due condizioni la perizia dovrà essere svolta nel corso del dibattimento.

In udienza preliminare invece, escluso il caso in cui si debba verificare l’infermità mentale rispetto alla capacità d’intervenire nel processo, non c’è generalmente spazio per la perizia.

Il requisito della “non rinviabilità” è l’unica condizione che consente al presidente di ammettere le prove esclusivamente su richiesta nella fase predibattimentale.

L’ultima fase è quella del dibattimento dove la perizia è ammessa su richiesta delle parti o disposta d’ufficio.

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2.5 Acquisizione

Il provvedimento con il quale si dispone la perizia è un atto che in sé deve contenere la nomina del perito e l’indicazione del giorno, dell’ora, del luogo fissati per la comparizione.

La perizia svolta sotto forma di incidente probatorio richiede che i soggetti legittimati a partecipare siano avvisati perlomeno due giorni prima della data fissata.

Al perito serve l’intervento del giudice per il compimento di alcune attività allo scopo di evitare che resti ignoto alla difesa e proprio per questo si è stabilito che, previa autorizzazione egli possa prendere visione esclusivamente degli atti, documenti o cose prodotte delle parti che sono acquisite al fascicolo del dibattimento.

Altra importante autorizzazione è quella relativa al coinvolgimento di terze persone al fianco del perito. Il loro intervento è autorizzato solo per svolgere attività materiali e che

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non implichino apprezzamenti o valutazioni. (art. 228 com.2 c.p.p.)

Nel meccanismo d’acquisizione della perizia le tracce scritte e quelle orali hanno delle caratteristiche particolari. Occorre fare una differenza di base tra l’ audizione del perito (art. 227 c.p.p.) con la quale egli risponde verbalmente ai quesiti e il suo esame che consente un contraddittorio sui contenuti del parere e sull’attendibilità della fonte.

Come abbiamo visto la relazione scritta può essere autorizzata dal giudice ma, l’audizione non deve mai mancare per completare tutte le attività del perito.

Va, però, precisato che la lettura della relazione scritta interviene solo dopo l’esame. Si tratta di una modalità che va a tutelare il metodo dell’oralità da cui deriva:

a) che i contenuti scritti diventano prova soltanto a seguito del meccanismo orale

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c) che la lettura può avvenire automaticamente solo se manca la richiesta di esame14

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2.6 L’influenza della perizia psichiatrica sulle decisioni

del giudice e sui programmi di trattamento

In passato esisteva un vero e proprio legame tra psichiatria e diritto, avevano prospettive comuni di difesa del sociale e realizzavano così un sistema di controllo rigido.

La perizia aveva luogo solo in caso di palese anormalità e se era accertata una delle malattie indicate si riconosceva il vizio di mente. La perizia non era neanche richiesta dall’imputato perché nel caso fosse riconosciuto infermo di mente, era internato nell’ OPG automaticamente secondo un meccanismo presuntivo.

Al perito era richiesto di svolgere un ruolo di etichettamento del periziando, coadiuvando il giudice quando si supponeva la presenza di un infermità senza influenze di tipo terapeutico o criminologico.

La causa del disturbo mentale doveva essere ricercata in un’ alterazione del cervello.

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La malattia mentale era considerata alla pari di ogni altra malattia organica e per quanto riguardava il piano terapeutico, il malato di mente veniva trasferito in manicomio dove doveva rimanere fino a quando non fosse guarito e ciò comportava a volte anche la degenza a vita.

I malati di mente erano soggetti affetti da una malattia organica particolare, la follia, la pazzia e per questo dovevano essere curati ma anche allontanati perché ritenuti irresponsabili e pericolosi. Il folle era incapace di intendere e volere quindi veniva prosciolto e accompagnato al manicomio criminale.

In Italia è richiesto non solo il riconoscimento dell’infermità ma anche la valutazione su come questa abbia compromesso la capacità d’intendere e volere del soggetto.

Tutto questo ci porta a distinguere due ambiti di influenza della perizia psichiatrica:

1) la decisione del giudice

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Alcuni studi hanno rivelato che dopo anni di proscioglimenti indiscriminati per difetto d’imputabilità, la tendenza ad emettere sentenze sommarie ha rallentato, per fronteggiare una criminalità organizzata crescente, che vedeva gli imputati allegare disturbi psichici per ottenere il riconoscimento della non imputabilità e di conseguenza destinati al trattamento di misura di sicurezza OPG. Un autore di un reato grave riconosciuto non imputabile e pericoloso è destinato alla misura di sicurezza, ma, se non ha un disturbo avrà la revoca della misura di sicurezza come atto dovuto non sussistendo più le condizioni per poterla mantenere. Il codice penale prevede che il difetto d’imputabilità, in linea generale possa essere riconosciuto dal giudice, come detto in precedenza, tanto nella fase dell’udienza preliminare quanto nel corso del dibattimento.

Se è riconosciuto nella fase dell’udienza questo porta ad “una

sentenza di non luogo a procedere”

Se riconosciuto nel corso del dibattimento porterà ad una sentenza di assoluzione.

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Prendendo sempre in riferimento l’età del soggetto se l’imputato è di età inferiore ai 14 anni opera la presunzione assoluta di non imputabilità. Nel dubbio sull’età dell’imputato, oppure se l’imputato avesse o meno compiuto i 14 anni al momento del fatto, opera una presunzione relativa, e quindi evidenziabile dalla prova contraria, di minore età e da qui ne scaturisce la presunzione assoluta di non imputabilità.

Se il soggetto ha un età compresa tra i 14 e i 18 anni c’è presunzione relativa di difetto di imputabilità.

Nel caso di dubbio sull’età e il dubbio rimanga anche dopo che il giudice abbia disposto la perizia vige comunque la presunzione relativa.

Se è il minore ad essere incapace d’intendere e volere si procede con il trattamento curativo e, l’ art. 222 com. 4 c.p. stabilisce che anche i minori di 14 anni o maggiori di 14 ma infradiciottenni, si applica la misura dell’OPG se hanno commesso un reato in condizioni di infermità psichica o intossicazione da alcool ecc… Il codice penale poi, distingue il vizio di mente in totale e parziale agli art. 88 e 89.

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Se vi è vizio totale l’imputato è pericoloso e si applica la misura di sicurezza dell’ OPG.

Se il vizio è parziale ed ha ridotto grandemente la capacità di intendere e volere, l’imputato è condannato ad una pena ridotta e se è socialmente pericoloso allora sarà assegnato alla casa di cura e di custodia.

Nel nostro sistema penale, ma anche in quelli della maggior parte dei paesi europei, le conclusioni dei periti esercitano una minima influenza sulla programmazione del trattamento dei malati di mente.

Allo psichiatra si chiede di pronunciarsi su questioni che sono prettamente giuridiche: l’imputabilità e la pericolosità sociale; e quest’ultima sappiamo essere la probabilità di recidiva di un comportamento delittuoso e quindi al perito è richiesto un parere caratterizzato dalla scarsa attendibilità.

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Il perito

2.7 Il suo ruolo nell’ambito del processo penale negli

anni

La tematica della psichiatria forense è stata attraversata da diverse correnti critiche tra di loro estreme, da una parte si identificava il “delinquente” con il “malato” e quindi si richiedeva di svolgere delle indagini sulla personalità del reo e dall’ altra parte c’era una visione opposta che rifiutava il concetto di “malattia mentale” e chiedeva l’eliminazione di ogni tipo di indagine psichiatrica nel processo penale.

Tutto questo ha reso difficile anche il ruolo del perito nell’ accertamento dell’imputabilità e della pericolosità sociale perché metteva in discussione alcuni elementi teorici che fino a quel momento erano stati dati per scontati.

Il perito è colui che è dotato di una particolare conoscenza di un

certo ordine di cose ed in ambito giuridico in via generale e

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quindi, una visione scientifica al mondo giuridico contribuendo così ad aumentare la discrezionalità del sistema penale.

Ennis e Litwack hanno affermato che quando uno psichiatra si accinge a formulare un giudizio di pericolosità ha le stesse probabilità di successo di una persona che si affida al lancio della monete per prendere una decisione.

Oltre tutto l’errore più frequente nel quale incorre il clinico è quello di sovrastimare la pericolosità dei soggetti esaminati, con il negativo risultato di aggravare ingiustamente le misure repressive15 .

Altra difficoltà pratica viene riscontrata nel fatto che il perito per poter rispondere ai quesiti che gli vengono posti nella perizia criminologica, non potendo ricorrere a strumenti scientificamente consistenti, per accettare la visione giuridica finisce per sostituirsi di fatto al giudice senza averne la preparazione.

Introdurre la perizia criminologica nel processo penale, così come previsto dal progetto di riforma del Codice Penale, allo

15 BANDINI, GATTI, Perizia psichiatrica e perizia criminologica: riflessioni sul ruolo del perito

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scopo di fornire motivazioni della personalità e della pericolosità del soggetto porterebbe a compiere errori ed ad utilizzare il perito in modo non corrispondente e consono al suo ruolo.

Altri errori derivano dal fatto che spesso il perito è condizionato dal contesto nel quale opera ed adegua i suoi metodi e le sue valutazioni alle aspettative del committente.

In alcuni casi il perito elabora la sua valutazione relativa all’imputabilità ed alla pericolosità del soggetto lasciandosi condizionare, anche pesantemente, dalla gravità e dall’allarme sociale suscitato dal reato o dall’atteggiamento di maggiore o minore collaborazione dell’imputato con la giustizia.

Errori gravi possono poi generarsi dalla convinzione che ci sia una corrispondenza tra determinate diagnosi psichiatriche e le categorie giuridiche della cosiddetta << piena imputabilità >> del << vizio parziale >> e del << vizio totale >> di mente.

In molti c’è la convinzione che ad una diagnosi di << psicosi >> corrisponda il << vizio totale >>, che ad una grave forma di <<

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nevrosi >> corrisponda il << vizio parziale >> e che alla << psicopatia >> corrisponda la piena imputabilità16 .

L’uso di questo rigido schema impedisce una corretta valutazione della maggior parte dei soggetti sottoposti a perizia.

Sono frequenti gli episodi in cui il così detto “malato di mente” compie un reato in una condizione che gli permette di comprendere il significato del suo gesto e di conseguenza autodeterminarsi.

Dall’ altra parte sono, tuttavia, presenti casi in cui i soggetti che, non “appartengono” a nessuna della categorie sopra elencate, compiano reati in condizione patologiche episodiche, che non incidono in modo duraturo, ma che al momento dei fatti determinano un annullamento delle capacità di valutare la realtà e di scegliere in modo autonomo.

16 BANDINI, GATTI, Perizia psichiatrica e perizia criminologica: riflessioni sul ruolo del perito

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2.8 La scelta, gli ausiliari e la sostituzione del perito

La nomina del perito viene fatta dallo stesso giudice che ha disposto la perizia scegliendo tra gli iscritti negli appositi albi o tra le persone fornite di particolare competenza nella specifica disciplina in questione (art. 221 c.p.p.)

Presso ogni tribunale è stata prevista l’istituzione di un albo dei periti diviso in categorie di esperti in medicina legale, psichiatria, balistica, circolazione stradale…

L’iscrizione all’albo può avvenire solo per coloro che abbiano una “specifica competenza nella materia” e che diano sufficienti garanzie di correttezza e professionalità.

L’art. 221 c.p.p. prevede la possibilità di affidare a più persone l’elaborazione della perizia e quindi si introduce la possibilità della forma collegiale “quando le indagini e le valutazioni risultino di notevole complessità ovvero richiedano distinte conoscenze in differenti discipline”

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