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Più di due. Verso uno statuto giuridico della famiglia poliamore.

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Academic year: 2021

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(1)KCMY 150 mm. 150 mm. Anno XXXV - 4 Dicembre 2017 Trimestrale. ISSN 1123-1025. 210 mm. Estratto. JOVENE EDITORE NAPOLI.

(2) Più di due*. Verso uno statuto giuridico della famiglia poliamore Antonio Vercellone SOMMARIO: Introduzione. – 1. Unioni poliaffettive, famiglie di fatto e legge 20 maggio 2016, n. 76. – 2. Il risarcimento del danno per morte del partner. – 3. La tutela del diritto all’abitazione. – 4. I diritti nell’impresa familiare. – 5. Interdizione, inabilitazione e amministrazione di sostegno – 6. Famiglia poliaffettiva e diritti del partner detenuto. – 7. Contratti di convivenza. – 8. Lo statuto giuridico della famiglia poliaffettiva: prospettive e limiti. – Conclusioni.. Introduzione. – Guardare il diritto dalla prospettiva di chi ne è escluso e immaginare paradigmi nuovi oltre le strettoie imposte dalla dogmatica classica: è questo il terreno su cui il pluralismo dei modelli familiari sfida oggi il giurista1. In Italia, tuttavia, il dibattito accademico sembra abbia solo parzialmente intrapreso questo percorso2. L’asserita specialità del diritto di famiglia rispetto ai settori tradizionalmente considerati il “cuore” del diritto privato (i.e. il diritto privato patrimoniale) ha infatti alimentato il mito di una sua connotazione fortemente culturale, a cui si contrapporrebbe la tecnicità neutrale di obbligazioni e contratti3. I dogmi fondanti il diritto di famiglia (primo tra tutti il matrimonio) costituirebbero così espressione diretta del Volksgeist e, in quanto tali, sarebbero insuscettibili di una ridiscussione critica. La disciplina giuridica della famiglia tollererebbe, al più, lenti e progressivi adattamenti, e tra essi solo quelli idonei a non stravolgerne le categorie ordinanti. Si spiega così come interventi formalmente discriminatori e ispirati a logiche sostanzialmente conservatrici, come quello di recente attuato con l’introduzione delle cc.dd. unioni civili4, vengano salutati dall’ala progressista della società civile e della scienza giuridica come importanti conquiste di civiltà, piuttosto che come mediazioni al ri-. * Il titolo del presente saggio riprende quello del celebre volume di F. Veaux, E. Rickert, Più di due. Guida pratica al poliamore etico, Bologna, 2016. 1 La letteratura in materia di pluralismo delle forme familiari è sterminata, soprattutto in Nord America. Per un primo inquadramento, nella prospettiva dei socio-legal studies, si veda: E. Scott, R. Scott, From Contract To Status: Collaboration and the Evolution of Novel Family Relationship, in «Col. L. Rev.», 2015, 293374. 2 In questa prospettiva si colloca, ad es., la riflessione di M.R. Marella, Critical family law, «Journal of Gender, Social Policy and the Law», 19, 2, 2011, 721754. 3 Sul punto si veda M.R Marella, G. Marini, Di cosa parliamo quando parliamo di famiglia, Roma-Bari, 2014, 47-56. 4 V. art. 1 commi 1-35 l. 20 maggio 2016, n. 76 (c.d. “legge Cirinnà”).. 607.

(3) basso che rischiano di produrre risultati gravi in termini di esclusione sociale5. Il punto, più che ricorrendo alla teoria queer o a certe impostazioni del femminismo, che pure sulla questione annoverano pagine di grande rilievo6, può essere più efficacemente chiarito confrontando il livello di avanzamento del dibattito sulla famiglia rispetto a quello che sta investendo altri rami del diritto civile, come ad esempio la proprietà. Le istanze emerse a seguito della crisi del capitalismo finanziario hanno infatti condotto parte della dottrina a ripensare la proprietà a partire dall’accesso e a vagliare criticamente ciò che per lungo tempo è stato considerato il fulcro stesso dell’istituto dominicale: il diritto di esclusione7. Si è così iniziata ad abbandonare l’idea, invalsa fino agli inizi del nuovo millennio, per cui la tutela di “chi non ha” passa necessariamente attraverso l’allocazione di nuove sfere proprietarie, per intraprendere un percorso di “destrutturazione” della proprietà privata, trasformata in istituzione inclusiva, capace di impostare un uso condiviso dei beni secondo le direttive della partecipazione e della fruizione collettiva8. La stessa svolta non sembra potersi invece predicare per il diritto di famiglia, rispetto al quale le istanze più progressiste, tutte concentrate sul matrimonio same-sex, paiono ancora collocarsi nella logica 5 La natura sostanzialmente conservatrice, assimilazionista ed escludente della lotta per i matrimoni tra persone dello stesso sesso (e per quegli altri istituti che, come le unioni civili, ne rappresentano un succedaneo) è stata oggetto di approfondito studio, soprattutto nel mondo anglosassone. Per un’accurata ricognizione di questo dibattito si veda N. Barker, Not the Marrying Kind: a Feminist Critique of Same-Sex Marriage, Basinkstoke, 2012. Si colloca in questa linea la prima lettura della c.d. legge Cirinnà offerta da M.R. Marella, Effetti simbolici e redistributivi della Legge Cirinnà, in «Riv. crit. dir. priv.», 2016, 231-243; sul punto, della stessa autrice, si veda anche Queer Eye for the Straight Guy. Sulle possibilità di un’analisi giuridica queer, in «Pol. dir.», 3, 2017, pp. 383-414; una critica al samesex marriage dalla prospettiva del poliamore è offerta da E.F. Emens, Monogamy’s Law, Compulsory Monogamy and Polyamorous Existence, 29 «N.Y.U Review of Law and Social Change», 2014; contra, tuttavia, v. H. Aviram, G.M. Leachman, The Furutre of Polyamorous Marriage: Lessons from the Marriage Equality Struggle, 38 «Harvard Journal of Law and Gender», 269, 2015. 6 V. ex multis, K. Franke, The Curious Relationship of Marriage and Freedom, in E. Scott, M. Garrison (a cura di), Marriage at a Crossroads, Cambridge, 2012; P.L. Ettelbrick, Domestic Partnerships, Civil Unions or Marriage: One Size does not Fit All, 64 «Alb. L. Rev.»; M. Warner, The Trouble with Normal: Sex, Politics and the Ethics of Queer Life, Cambridge (MA), 2000; sulle direttive per un’analisi giuridica queer v. M.R. Marella, “Queer Eye”, cit. 7 V. A. Quarta, Non-proprietà. Teoria e prassi dell’accesso ai beni, Napoli, 2016. 8 Il riferimento è al recente dibattito in materia di beni comuni sul quale si rinvia, tra gli altri, a U. Mattei, Beni comuni, un manifesto, Roma-Bari, 2011; M.R. Marella (a cura di), Oltre il pubblico e il privato, per un diritto dei beni comuni, Verona, 2012; S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà e i beni comuni, Bologna, 2013; A. Quarta, M. Spanò (a cura di), Beni comuni 2.0. Contro-egemonia e nuove istituzioni, Milano-Udine, 2016.. 608.

(4) dell’estensione dell’esistente a chi non ha, invece che in un percorso di autentico ripensamento critico degli assetti vigenti. La differenza tra le due impostazioni non è tuttavia cosa da poco, posto che la prima, fondandosi sull’adattamento della realtà al diritto (piuttosto che sul contrario) postula la normalizzazione dei rapporti umani a immagine dei principi giuridici e, dunque, l’esclusione dal riconoscimento di chi da un tale percorso di normalizzazione viene tagliato fuori. Una narrativa diversa si può, tuttavia, ancora immaginare: occorre guardare alle situazioni affettive che restano bisognose di tutela e interrogare, a partire da esse, il diritto vigente per scorgerne gli elementi potenzialmente trasformativi9. Sotto questo profilo, i consorzi poliamorosi descrivono una realtà interessante10. Con il termine poliamory si indica una grande varietà di rapporti familiari, la cui cifra comune può essere ricondotta a due principali elementi. Il primo risiede nel superamento del concetto di coppia, che viene sostituito da relazioni di natura plurilaterale. Il secondo consiste nell’accettazione, da parte di tutti i componenti del ménage, di una serie di valori, finalizzati soprattutto a evitare (quantomeno sotto il profilo formale) che il rapporto assuma curvature di matrice gerarchica. E così, nella retorica classica del poliamore, vengono evocati princìpi quali “la conoscenza di sé, l’assoluta onestà, il consenso, l’auto-appartenenza, la prevalenza accordata al sesso e all’amore e rispetto alla gelosia”11. In alcune esperienze straniere, e in particolare negli Stati Uniti, il movimento poly è in rapida ascesa e comincia ad avanzare rivendicazioni pubbliche e istanze di riconoscimento. Il fenomeno non è tuttavia sconosciuto nemmeno al nostro Paese ove, pur mancando di una 9 È questo, peraltro, l’approccio metodologico che si è seguito in ambito proprietario, v. A. Quarta, M. Spanò, Il comune che c’è, in Id. (a cura di), Beni comuni 2.0., cit., 7-19, spec. 11-19. 10 Sull’esperienza delle relazioni poliamorose v. N. Baker, Not the Marrying Kind, cit. 173-187; E.F. Emens, Monogamy’s Law, cit.; H. Avidar, G. Leachman, The Future of Polyamorous Marriage, cit.; K. Weston, Families we Choose: Lesbians, Gays, Kinship, New York, 1991; M.R. Marella, G. Marini, Di cosa parliamo quando parliamo di famiglia, cit., 230-255. 11 M.R. Marella, G. Marini, op. cit., 241. Per una definizione giuridica delle relazioni poliamorose si veda U. Mattei, Il poli-amore come bene comune. Primissime riflessioni, in E. Grande, L. Pes (a cura di), Più cuori e una capanna. Prime riflessioni non solo giuridiche sul poliamore, Torino, 2018, in corso di pubblicazione. Secondo l’A.: “Dal punto di vista sociale (e dunque giuridico) il poliamore, o poliaffettività può essere descritto come quel fenomeno per cui un numero di persone più alto di due intreccia sentimenti e legami di carattere erotico e sentimentale, tanto omo- quanto eterosessuale, di regola nella consapevolezza generalizzata di tale situazione. Il gruppo può così esser visto come una comunità poliamorosa o poliaffettiva che eccede rispetto all’aggregato dei rapporti bilaterali fra le parti. Una comunità poliamorosa stabile tende a convivere o quantomeno a condividere spazi fisici. Ma la convivenza plurima more uxorio potrebbe non essere strettamente necessaria”.. 609.

(5) connotazione politica così significativa, esso attrae ormai le scelte affettive di un numero sempre crescente di individui, che iniziano ad organizzarsi secondo reti sociali, culturali e associative12. Il poliamore invita così il civilista a ridiscutere la valenza ordinante della coppia e a vagliare il rilievo giuridico di assetti familiari in cui più di due persone si riconoscono in un unico ménage e si impegnano in un vincolo stabile di sostegno e supporto reciproco. È questo un percorso che offre la possibilità di scorgere, nelle trame del nostro ordinamento, i tratti di una nozione alternativa di famiglia, fino ad ora rimasta schiacciata sotto il peso della retorica matrimoniale, nozione il cui potenziale di rottura non è stato sino a questo momento sufficientemente valorizzato. 1. Individuare, a diritto vigente, un possibile statuto giuridico per i consorzi poliaffettivi richiede di indagare quei diritti che l’ordinamento riconosce alle famiglie di fatto, quelle famiglie, cioè, fondate su di un’unione non suggellata dal vincolo matrimoniale. Come noto, il nostro sistema, negli ultimi anni, è passato da un atteggiamento sostanzialmente agnostico nei confronti delle unioni diverse dalla famiglia legittima al riconoscimento di effetti giuridici anche a formazioni che prescindono dal matrimonio. È stato questo un percorso lento e progressivo che ha visto le Corti, ma anche il legislatore, fare leva sull’art. 2 Cost. e sul principio di eguaglianza per accordare di volta in volta diritti e doveri anche ai componenti di famiglie non sposate e parificare, in talune circostanze, la posizione del coniuge a quella del convivente13. Il risultato di questo processo – di cui si darà ampiamente conto nei successivi paragrafi – è stata una disciplina stratificata e frammentaria, in gran parte di matrice giurisprudenziale, la cui cifra caratteristica risiede in una portata applicativa multiforme ed estremamente flessibile, capace di accogliere relazioni affettive tra loro molto diverse non solo sotto il profilo del genere ma, come si vedrà, anche del numero dei soggetti coinvolti14. Quanto appena detto, tuttavia, deve oggi essere coordinato con le disposizioni recentemente introdotte dalla l. 20 maggio 2016, n. 76 12 Quanto affermato è facilmente riscontrabile consultando il principale sito web della comunità poliamore italiana: www.poliamore.org. 13 Sull’evoluzione della famiglia di fatto nel nostro ordinamento v. M. Dogliotti, Dal concubinato alle unioni civili e alle convivenze (o famiglie?) di fatto, in «Fam. dir.», 2016, 868-881. 14 La necessità di escludere ogni differenza, nella famiglia di fatto, tra coppie omo- ed eterosessuali, necessità da tempo invocata dalla dottrina (sul punto si veda, ad es., G. Alpa, Status e capacità. La costruzione giuridica delle differenze individuali, Bari, 1992, 18 ss.), è ormai ampiamente accolta anche dalla giurisprudenza. Ex multis Corte cost. 15 aprile 2010, n. 138; Cass. 15 marzo 2012, n. 4184; Cass. 11 gennaio 2013, n. 601.. 610.

(6) (c.d. “legge Cirinnà”) che, in materia di famiglia di fatto, prevede una nozione di convivenza strettamente legata al concetto di coppia. Una breve digressione si rende quindi necessaria al fine di impostare il sostrato tecnico-giuridico che guiderà il prosieguo dell’analisi. La legge in questione, che a causa delle vicende parlamentari che ne hanno condotto all’approvazione consta di un solo articolo e di ben 69 commi, disciplina due differenti istituti: le “unioni civili tra persone dello stesso sesso” (commi 1-35) e le “convivenze di fatto” (commi 3667). Alla luce della novella, dunque, le scelte affettive dei privati sono definitivamente ricondotte a due opposti modelli. Il primo è quello dello status che, per le coppie eterosessuali, si identifica con il matrimonio mentre per quelle omo-affettive, in virtù di una logica discriminatoria incompatibile con l’art. 3 Cost., con quel matrimonio depotenziato che prende il nome di unione civile. Il secondo è quello della famiglia di fatto, aperta indistintamente a unioni omo- ed etero-affettive, che trova oggi un riscontro positivo unitario nella regolamentazione delle convivenze15. È questa seconda parte della legge quella che qui interessa. Essa, infatti, avrebbe dovuto riorganizzare in un corpo organico quel sistema frammentario di tutele frutto della precedente elaborazione16. Sennonché, nell’ambito di un testo in gran parte lacunoso e tecnicamente incoerente, il legislatore ha mancato questo obiettivo. Da un lato, a fronte di un numero sostanzialmente esiguo di diritti di ultimo conio, la legge ha omesso di ribadire molte delle tutele già precedentemente riconosciute. D’altro lato, la portata soggettiva delle nuove norme appare maggiormente ristretta rispetto al previgente assetto, posto che, come accennato, i commi 36 e 37 dell’art. 1 prevedono espressamente che per conviventi di fatto, ai fini della nuova disciplina, debbano intendersi “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”, la cui coabitazione sia certificata da apposita dichiarazione anagrafica17. L’entrata in vigore della legge 76/2016 sembra dunque aver precluso a priori la possibilità di individuare nella disciplina delle convi15 Sugli opposti modelli dello status e dell’autonomia, e sui problemi che essi pongono, si veda M.R. Marella, Il diritto di famiglia fra status e contratto: il caso delle convivenze non fondate sul matrimonio, in E. Moscati, A. Zoppini (a cura di), I contratti di convivenza, Torino, 2002. 16 Che fosse questa l’intenzione del legislatore si desume chiaramente dai lavori preparatori e dal dossier licenziato dal Servizio Studi della Camera dei Deputati. V. Camera dei Deputati, Dossier n. 411, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze http://www.camera.it/leg17/ 126?tab=6&leg=17&idDocumento=3634&sede=&tipo=. 17 A tal proposito il comma 37 dell’art. 1 della l. 76/2016 espressamente richiama le rilevanti disposizioni del Regolamento Anagrafico della Popolazione Residente (artt. 4 e 13 comma 1 lett. b) del d.P.R 30 maggio 1989, n. 223).. 611.

(7) venze plausibili forme di tutela per i consorzi poliamorosi. Una tale prospettiva, tuttavia, muta ove si voglia prendere sul serio quell’orientamento dottrinale (ad oggi maggioritario) che ritiene che i rapporti tra la nuova legge e il precedente assetto non possano essere letti in chiave abrogativa18. Secondo questa impostazione, una tale conclusione condurrebbe, infatti, a depotenziare fortemente la tutela della famiglia di fatto sotto entrambi i profili, oggettivo e soggettivo (si pensi, a tal proposito, al coniuge separato ma non divorziato che intraprende una nuova convivenza e che, tutelato dalle precedenti regole, è oggi escluso dalla definizione di cui al comma 36). Sarebbe questo un risultato paradossale, soprattutto ove si pone mente al fatto che la c.d. legge Cirinnà, nelle intenzioni del legislatore, è stata adottata al fine di potenziare l’abilitazione giuridica delle nuove forme familiari, non certo per frustrarla. L’opinione che si è consolidata tra i primi commentatori della riforma invita quindi a impostare il rapporto tra le due discipline in termini di coordinamento, piuttosto che di abrogazione, e ciò secondo le seguenti direttive19. I diritti rispetto ai quali la (seconda parte della) l. 76/2016 si pone in termini meramente ricognitivi di quanto già prima riconosciuto continuano a trovare la propria sfera di applicazione soggettiva alla luce della precedente regolamentazione e quindi anche oltre le strettoie imposte dalla definizione di cui al comma 36. La menzione del diritto nella nuova legge ha infatti, in questo caso, carattere meramente confermativo di quanto già previsto aliunde. Allo stesso modo, le tutele previgenti, ma che non sono state ribadite dalla legge, restano in vigore e mantengono la loro autonoma sfera applicativa. Se, infatti, la menzione nella nuova legge ha mero carattere confermativo, allora nessuna valenza abrogativa potrà predicarsi della mancata menzione. Quanto, infine, alle regole giurisprudenziali, non mi pare che la l. n. 76/2016 possa incidere su di esse né rendendo inapplicabili quelle non richiamate né restringendo la portata applicativa di quelle riprese dal testo, posto che esse sono state “ricavate dai principi fondamentali del sistema, che la nuova legge non modifica”20 e soprattutto poiché 18 V. U. Perfetti, Autonomia privata e famiglia di fatto. Il nuovo contratto di convivenza, in «NGCC», 1749-1765, 2016; L. Lenti, Convivenze di fatto. Gli effetti: diritti e doveri, in «Fam. dir.», 10, 2016, 931-943; L. Balestra, La convivenza di fatto. Nozione, presupposti, costituzione e cessazione, in «Fam. dir.», 2016, 10, 919- 931; l’intreccio tra questa impostazione e la possibilità che la famiglia di fatto divenga terreno per il riconoscimento di diritti in favore di unioni che non rispettino il requisito numerico della coppia è una strada che la dottrina da qualche tempo ha iniziato ad indicare: v., sul punto, M. Rizzuti, Prospettiva di una disciplina delle convivenze: tra fatto e diritto, giustiziacivile.com, 2016, 11; Id., Il problema dei rapporti familiari poligamici. Precedenti storici e attualità della questione, Napoli, 2016, 178207; R. Pacia, Unioni civili e convivenze, giustiziacivile.com, 2016, 204. 19 V. L. Lenti, Convivenze di fatto, cit., 931. 20 Ibid.. 612.

(8) ciò determinerebbe “lacune di tutela gravi, a causa della sua incompletezza”21. Quanto appena illustrato lascia allora aperta la possibilità di ricercare all’interno della famiglia di fatto la disciplina giuridica del poli-amore. Solo i (pochi) diritti di nuovo conio sono, infatti, vincolati alla ristretta definizione di cui al comma 36. Per quanto riguarda gli altri, occorrerà esplorarne i confini di applicazione soggettiva alla luce del precedente assetto: è questa l’analisi a cui sono dedicati i paragrafi che seguono. 2. Al fatto in sé della convivenza la legge 76/2016 riconduce, innanzitutto, il riconoscimento di taluni diritti di natura patrimoniale. Tra essi vi è quello previsto dal comma 49 dell’art. 1, a mente del quale “in caso di decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo, nell’individuazione del danno risarcibile alla parte superstite si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite”. È questa una norma che, in realtà, cristallizza nel dato positivo un principio già affermato dalla giurisprudenza22 la quale ormai da tempo, in caso di morte del partner, parifica alla posizione risarcitoria del coniuge quella del convivente23. Agli approdi fatti propri dalle Corti si dovrà allora guardare al fine di stabilire se la posta risarcitoria in questione possa essere accordata anche al componente del ménage poliamoroso il quale abbia perduto, a causa dell’altrui fatto illecito colpevole, uno o più dei propri partner. Sul punto occorre prendere le mosse da quanto stabilito dalla Corte di Cassazione che, nel confermare l’ammissibilità della costituzione di parte civile del convivente del defunto, vittima di omicidio colposo – costituzione di cui era stato chiesto il rigetto sulla base dell’assenza del vincolo matrimoniale tra il defunto e l’attore – ha avuto modo di precisare che, in questi casi, per la verifica della legitimatio ad causam “viene in considerazione non già il rapporto interno tra i conviventi, bensì l’aggressione che tale rapporto (subisce) ad opera del terzo”24. Secondo l’argomentazione avanzata dai giudici, la circostanza per cui la relazione interna tra le parti “non sia disciplinata dalla legge” è, infatti, del tutto irrilevante: “ciò che legittima il convi21 Ibid. 22 V. Cass.. 28 marzo 1994, n. 2988; Cass. 31 maggio 2003, n. 8828; Cass. 7 giugno 2011, 12278. 23 Sul punto v. Dossier Studi della Camera, cit., 3. Si veda, tuttavia, l’analisi di M. Blasi, La disciplina delle convivenze omo- e eteroaffettive, in AA.VV., La nuova regolamentazione delle unioni civili e delle convivenze. Legge 20 maggio 2016, n. 76, Torino, 2016, 248-251, la quale sostiene che la norma sia innovativa quantomeno sotto il profilo del regime probatorio. A rigore, dunque, il regime probatorio di maggior favore sarebbe riservato ai soli conviventi ex art. 1 comma 36 l. 76/2016. 24 Cass. 12 maggio 2014, n. 19487.. 613.

(9) vente a costituirsi parte civile” è il fatto in sé della sua violazione ad opera del danneggiante. Una tale violazione si configura, invero, come immediatamente lesiva “del diritto di libertà, nascente direttamente dalla Costituzione, alla continuazione del rapporto, diritto assoluto e tutelabile erga omnes, senza, perciò, interferenze da parte di terzi”25. Perché il danno sia risarcibile, tuttavia, occorre che il legame tra l’attore e il defunto fosse dotato di una certa stabilità, tale da far ragionevolmente supporre che “ove non fosse intervenuta l’altrui azione, la convivenza sarebbe continuata nel tempo”26. Nel ragionamento della Corte, dunque, la legittimazione all’azione risarcitoria si fonda su due elementi: i) un rapporto che implichi una comunione di vita caratterizzata dal reciproco sostegno morale e materiale; ii) una certa solidità di tale rapporto, da valutarsi in termini prognostici, quale attitudine della relazione a proiettarsi nel futuro. È questo, d’altra parte, il significato che va attribuito alle nozioni di convivenza e di stabilità, soprattutto se lette alla luce dei principi che governano le poste risarcitorie nella responsabilità aquiliana. Solo una relazione che si declini in una comunione di vita, e che quindi integri gli estremi della convivenza e non della semplice coabitazione, determina un patimento tale da legittimare il risarcimento del danno morale. Allo stesso modo, solo un sostegno materiale idoneo a ingenerare un affidamento circa la sua attitudine a protrarsi nel futuro è idoneo a far scattare il risarcimento del danno patrimoniale27. Se questa (ma esclusivamente questa) è la ratio, occorre allora assumere che qualsiasi relazione che soddisfi questi requisiti autorizza colui che ne è parte a richiedere il risarcimento del danno per morte del partner, e ciò a prescindere da come una tale relazione, nel concreto, si strutturi. In altre parole, se ciò che legittima il risarcimento è (solamente) la sussistenza di una comunione di vita stabile fondata sul reciproco sostegno morale e materiale, allora chiunque sia parte di una qualsiasi relazione che integri questi requisiti sarà legittimato a richiederlo. Una volta provati questi elementi, ogni ulteriore considerazione circa la struttura del vincolo risulta infatti non solo giuridicamente irrilevante, ma addirittura preclusa al giudice del merito. Mi pare sia questo il significato più intimo della pronuncia in questione, specialmente ove individua il danno risarcibile nella lesione del diritto assoluto di ciascuno alla tutela della propria dimensione affettiva, a prescindere dall’astratto riconoscimento legale dello schema del rapporto. 25 Ibid. 26 Ibid. 27 La stessa. Corte, nella pronuncia in analisi, precisa come il danno patrimoniale, nel caso di specie, vada individuato “nel venir meno degli incrementi patrimoniali che il convivente di fatto era indotto ad attendersi dal protrarsi nel tempo del rapporto”.. 614.

(10) Il diritto in analisi si presta così ad una sfera applicativa che va ben oltre la semplice convivenza more uxorio – intesa nella sua accezione etimologica di mimesi in fatto della coppia sposata – una sfera applicativa idonea a proiettarsi su qualunque legame fondato su di una comunione di vita stabile, inclusi quei casi in cui esso si declini nelle forme di un ménage poliaffettivo28. Sembrerebbe questa l’unica soluzione coerente con i principi enunciati, se non si vuole giungere al risultato paradossale di ritenere, da una parte, il patimento provato dai partner superstiti della famiglia poliamorosa immeritevole di tutela per il solo fatto del numero dei suoi componenti e, dall’altra, di considerare irrilevanti, per la medesima ragione, i vincoli di solidarietà economica che tra essi si possono creare. 3. Nel quadro dei diritti patrimoniali che la nuova legge accorda ai conviventi di fatto, una posizione di rilievo occupa l’articolato sistema di garanzie sulla casa di comune abitazione previsto dai commi da 42 a 44. È questo un insieme di regole il cui grado di specificità e pregnanza era sconosciuto al precedente assetto e che, sotto questo profilo, si configura dunque come effettivamente nuovo. Se la portata applicativa (diretta) di queste disposizioni va quindi limitata ai soli conviventi di cui al comma 36, questo non vuol dire che il diritto all’abitazione delle altre forme di convivenza non goda di alcuna protezione. Le norme in questione si collocano, invero, nel solco di quella ricca elaborazione pretoria che già precedentemente si era occupata di chiarire la posizione abitativa dei componenti della famiglia di fatto e che aveva finito per accordare al convivente non proprietario un nucleo minimo di garanzie29. In realtà, per lungo tempo si è ritenuto che ove la proprietà (o l’eventuale altro titolo che legittimasse l’occupazione dell’immobile) spettasse a uno solo dei conviventi, l’altro non potesse invocare alcun tipo di tutela. Secondo questa impostazione, infatti, la convivenza, quale situazione di mero fatto, non sarebbe meritevole di rilievo giuridico onde il partner non titolare – in applicazione delle regole di diritto comune – andrebbe considerato quale mero ospite o, addirittura, alla stregua di un detentore di servizio30. Sennonché questa tesi sconta l’equivoco di rendere i principi giuridici del tutto avulsi dalla realtà di fatto nell’assimilare, attraverso una finzione fin troppo evidente, alla figura dell’ospite colui che con il 28 Il ragionamento fin qui condotto, oltre alla morte, può essere esteso al caso di lesioni del partner: v. Cass. 29 aprile 2005, n. 8976. 29 Sull’elaborazione precedente all’entrata in vigore della l. 76/2016 si veda l’approfondita analisi di E. Carbone, Possesso e detenzione nella famiglia di fatto, in «Riv. trim. dir. proc. civ.», 1, 2011, 37-57. 30 V. A. De Cupis, Il concubinato nel diritto privato, in «Foro pad.», 1961, 3, 82; in giurisprudenza, ex multis, si veda Cass. 16 febbraio 1956, n. 436; Trib. Roma 22 gennaio 1953; Pret. Torino 17 marzo 1960; Pret. Vigevano 10 giugno 1960.. 615.

(11) titolare del diritto condivide l’abitazione per ragioni ben diverse, e assai più significative, della semplice ospitalità31. Le Corti hanno quindi iniziato a riconoscere il convivente quale detentore qualificato dell’immobile32, secondo un’impostazione successivamente accolta anche dalla dottrina33. È questo un approdo che consente non solo di proteggere, attraverso la tutela possessoria, la parte debole del rapporto che venga improvvisamente estromessa dalla casa comune dall’opera dell’altro partner o di un terzo (si pensi, ad esempio, al caso dei genitori che, proprietari dell’immobile concesso in comodato al figlio, approfittano del ricovero ospedaliero di quest’ultimo per cambiare la serratura dell’alloggio in cui egli convive con la propria compagna, poiché contrari alla relazione tra i due34). Esso permette, altresì, di individuare alcune garanzie minime che il convivente può attivare nei confronti degli eredi del partner proprietario, in caso di morte di quest’ultimo. Ed infatti, secondo l’orientamento maggioritario, l’interesse patrimoniale ereditario cede di fronte all’intimità di una stretta comunione di vita, onde, nel conflitto tra il possesso fittizio dell’erede ex art. 460 cod. civ. e la detenzione qualificata del convivente superstite, è quest’ultima a dover prevalere35. Gli eredi non potranno dunque procedere alla materiale apprensione del bene (ché, in tal caso, si configurerebbe immediatamente spoglio36) e dovranno accordare al compagno (o alla compagna) del loro dante causa un congruo termine per trovare un’altra abitazione. Per l’occupazione dell’immobile nel periodo che intercorre tra la scomparsa del partner e l’individuazione della nuova soluzione abitativa gli stessi non saranno autorizzati, inoltre, a pretendere dal convivente superstite alcuna somma a titolo di risarcimento o compenso. In via generale, poi, la detenzione qualificata del convivente preclude agli eredi la legittimazione ad esercitare nei suoi confronti la tutela possessoria, potendo essi al più agire in petitoria al fine di vedere dichiarato estinto il suo titolo di detenzione37. 31 Che l’uso di un immobile come casa familiare postuli esigenze di tutela capaci di prevalere sull’assetto formale dei diritti reali e personali che sovrintendono al godimento e alla disposizione del bene sembra ormai assurgere a principio generale. Sul punto v. R. Albanese, L’assegnazione della casa familiare: note critiche su uso e proprietà, in «Riv. crit. dir. priv.», 3, 2015, 467-492. 32 Si veda, ex multis, Cass. 21 marzo 2013, n. 7214; Trib. Milano, 18 gennaio 2003. 33 Contra, tuttavia, v. R. Sacco, R. Caterina, Il possesso, Milano, 2014, 181 ss. 34 Cass. 2 gennaio 2014, n. 7. 35 V. E. Carbone, Il possesso, cit., 50-52. 36 In tal senso, Cass.15 settembre 2014, 19423. 37 V. E Carbone, Il possesso, cit., 52. Sono queste garanzie che si aggiungono all’ipotesi, importante sotto il profilo teorico ma probabilmente non molto frequente, in cui il convivente superstite, in virtù di possesso ultraventennale, possa dimostrare l’usucapione del diritto reale di abitazione sulla casa comune: in tal senso v. Trib. Torino, 28 febbraio 2002.. 616.

(12) Bisogna, a questo punto, domandarsi se la posizione del detentore qualificato, con tutte le conseguenze che abbiamo ora esaminato, possa riconoscersi anche al componente del ménage poliamoroso che, convivendo con i propri partners, non sia tuttavia titolare di alcun diritto sulla casa comune. Anche in questo caso, la risposta va ricercata nella ratio sottesa al riconoscimento. Come si è già avuto modo di accennare, chi abita con il proprio compagno/a lo fa per ragioni ben differenti dalla mera ospitalità. Secondo la giurisprudenza sono precisamente tali ragioni che, ben lungi dall’essere giuridicamente irrilevanti, qualificano la posizione abitativa del partner. Esse, infatti, costituiscono la causa e l’oggetto di un negozio giuridico di natura familiare, la convivenza di fatto: è proprio in forza di questo negozio che il partner non proprietario può vantare un titolo autonomo di detenzione del bene38. Occorre, a questo punto, verificare gli elementi essenziali del negozio in analisi. Da un attento esame delle rilevanti pronunce in materia, essi debbono individuarsi i) in una particolare affectio che lega le parti, che possa qualificarsi di natura familiare e ii) nel fatto che esse, in virtù di una tale affectio, abbiano stabilito una comunione di vita di cui la coabitazione rappresenti espressione fondamentale. Non sembra, dunque, che tra gli elementi essenziali del negozio se ne possa annoverare la necessaria bilateralità, posto che anche i componenti di un consorzio poliamoroso possono essere animati da un’affectio familiare che contempli le caratteristiche ora vedute. In altre parole, se la ratio ultima del riconoscimento va individuata nella distinzione tra il convivente e l’ospite, distinzione che si fonda sul fatto che il primo ha una relazione con il bene che origina da un rapporto affettivo qualificato con il suo proprietario, non mi pare che, in presenza di un tale rapporto, il solo fatto della pluralità delle parti che lo compongono sia in grado di far degradare – nuovamente – la posizione del convivente a quella dell’ospite. Il numero, infatti, è un elemento che non trova spazio in questa costruzione giuridica. Ancora, quindi, la tutela (benché, in questo caso, effettivamente minima) non interviene in virtù di una certa morfologia del rapporto affettivo (la mimesi in fatto della coppia sposata) quanto, piuttosto, in applicazione di criteri sostanzialistici e funzionali. Si può quindi affermare che, sebbene al convivente poliamoroso non siano applicabili le regole previste dai commi 42-44 della l. 76/2016, la sua posizione abitativa non sia del tutto sprovvista di tutela, potendo egli, al pari degli altri componenti di famiglie di fatto che non integrino i requisiti previsti dal comma 36, invocare la detenzione 38 Per una più approfondita analisi di questa tesi v. E Carbone, Il possesso, cit., 46-48.. 617.

(13) qualificata sulla casa in cui si attua la comunione di vita, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Sempre in materia abitativa un breve cenno merita, infine, la disposizione di cui al comma 45 dell’art. 1, a mente della quale: “nel caso in cui l’appartenenza ad un nucleo familiare costituisca titolo o causa di preferenza nelle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare, di tale titolo o causa di preferenza possono godere, a parità di condizioni anche i conviventi”. Il fatto che la disposizione in analisi si innesti su di una materia di competenza regionale impedisce la possibilità di intraprendere sul tema un discorso completo e unitario39. Per ciò che qui rileva, tuttavia, è importante sottolinearne due aspetti. Il primo è che il comma in questione ha di fatto portata confermativa di ciò che già era previsto dalla gran parte delle discipline legislative e amministrative, tutt’ora in vigore, adottate a livello regionale. Il secondo è che, tali discipline, recano spesso norme che ne proiettano l’ambito soggettivo di applicazione ben oltre la ristretta nozione di convivenza prevista dalla legge Cirinnà, secondo schemi che, a ben vedere, sono in grado di accogliere tra le loro trame anche le unioni poli-amorose. Si pensi, ad esempio, a quanto previsto all’art. 3 comma 2 della delibera CIPE 13 marzo 1995, recepita da numerose leggi regionali, la quale, in materia di accesso all’edilizia sovvenzionata, dispone che possano essere “considerati componenti del nucleo familiare anche persone non legate da vincoli di parentela o affinità, qualora la convivenza istituita abbia carattere di stabilità e sia finalizzata alla reciproca assistenza morale e materiale”. È questa una disposizione che, nuovamente, apre ad una verifica fondata sull’affectio e sulla portata sostanziale del rapporto, piuttosto che sul numero dei suoi componenti. 4. Il comma 46 della legge n. 76/2016 ha introdotto nel codice civile l’art. 230-ter per disciplinare, sulla falsariga di quanto previsto dall’art. 230-bis, i diritti del convivente nell’attività di impresa del partner. La novella si colloca, a ben vedere, nel solco di quel dibattito che, ormai da anni, vede la dottrina e la giurisprudenza impegnate nel ricostruire l’inquadramento giuridico del lavoro prestato dai partner all’interno della famiglia di fatto. Sul punto, sebbene con differenti accenti, le nostre Corti sono concordi nel ritenere che il lavoro del convivente in favore dell’altro o del ménage debba presumersi prestato affectionis vel benevolentiae causa e, quindi, a titolo gratuito. Sotto questo profilo, la posizione del 39 Sul problema delle competenze legislative in materia abitativa si rinvia a E. Olivito, Il diritto costituzionale all’abitare: spunti teorico-dogmatici e itinerari giurisprudenziali, in «Pol. dir.», 3, 2016, 376 ss.; un’analisi più approfondita della norma in questione è offerta da M. Blasi, La disciplina delle convivenze, cit., 236242.. 618.

(14) convivente viene quindi parificata a quella del coniuge: è, infatti, la “comunanza di vita”40 fondata su di “una stabile e duratura comunione spirituale e materiale”41 – più che il vincolo di coniugio in quanto tale – ad escludere (quantomeno presuntivamente) l’onerosità delle prestazioni. È evidente come una tale regola, specialmente ove non bilanciata da istituti idonei a contemperarne le conseguenze sperequative, possa tradursi in un odioso strumento di subordinazione del convivente più debole e condurre a soluzioni manifestamente inique42. Prima della legge n. 76/2006, ci si interrogava, dunque, sull’opportunità di applicare anche ai componenti della famiglia di fatto le tutele previste dall’art. 230-bis del codice civile, introdotte, come noto, dalla riforma del 1975 per offrire una garanzia (minima) al coniuge che impiegasse nella famiglia (o nell’impresa familiare) tutta o buona parte della propria capacità lavorativa43. L’orientamento in passato prevalente negava, tuttavia, questa possibilità44. Il terzo comma della disposizione in analisi, deputato a definirne l’ambito soggettivo di applicazione, nomina, infatti, soltanto il coniuge, i parenti e gli affini. Nessun riferimento è fatto, invece, al convivente ciò che, secondo l’impostazione per lungo tempo prevalente, costituiva argomento sufficiente per escluderlo dalle garanzie previste dalla norma. Sennonché, una tale impostazione poggia su di un approccio ermeneutico fortemente squilibrato. Ad un’interpretazione elastica che finisce per estendere – in malam partem45 – anche al convivente una regola originariamente pensata con riguardo ai soli coniugi (e, cioè, la presunzione di gratuità del lavoro familiare) si fa infatti conseguire un formalismo esasperato per negargli i conseguenti strumenti di tutela. Essa non può dunque essere accolta. Una più recente linea interpretativa sostiene dunque la configurabilità di un’impresa familiare fondata su di una convivenza di fatto46. Secondo questo orientamento, l’art. 230-bis svolgerebbe, in40 Cass. civ. 17 febbraio 1988, n. 1701. 41 Pret. Minturno, 28 aprile 1982. 42 V. A.C. Jemolo, Convivere come coniugi, in «Riv. dir. 43 Mi pare evidente, peraltro, come, in realtà, l’unica. civ.», 1965, 2, 407. tutela effettiva per la parte debole del rapporto consista nell’abbandono definitivo del principio di gratuità del lavoro familiare. Sul punto, e sulle conseguenze distributive di questa impostazione, v. M.R. Marella, Il diritto delle relazioni familiari tra stratificazioni e ‘resistenze’. Il lavoro domestico e la specialità del diritto di famiglia, in «Riv. crit. dir. priv.», 2, 2010, 233-272. 44 In giurisprudenza v., ex multis, Cass. 29 novembre 2004, n. 22405; Cass. 2 maggio 1994, n. 4204. Di questo avviso, nonostante il mutato atteggiamento della giurisprudenza, resta in ogni caso parte della dottrina, v. G. Oberto, Ancora sulla pretesa gratuità delle prestazioni lavorative subordinate rese dal convivente more uxorio (nota a Cass. 19 settembre 2015 n. 19304) in «Fam. dir.», 2016, 232 ss. 45 G. Oberto, Ancora sulla pretesa gratuità, cit., 232. 46 In giurisprudenza v., ad es., Cass. 15 marzo 2006, n. 5632. Che sia questa l’impostazione consolidata trova conferma nel fatto che essa è stata ormai recepita. 619.

(15) fatti, “un ruolo importante, inquadrando su di un piano giuridico un fenomeno di organizzazione spontanea di lavoratori, che assume rilevanza di per sé e non in quanto fondato sulla legittimità del matrimonio”47. In altre parole, se la particolare affectio e la comunione di vita che legano i conviventi sono elementi sufficienti a far presumere la gratuità del lavoro prestato dall’uno in favore dell’altro, allora non si capisce perché questi stessi elementi non possano giustificare l’applicazione anche nei loro confronti dell’art. 230-bis, posto che le due discipline sottendono rationes complementari, che condividono il medesimo presupposto fattuale. Da quanto detto emergono, dunque, due fattori, entrambi estremamente rilevanti ai nostri fini. Il primo è che, già prima della l. 76/2016, la giurisprudenza era giunta ad affermare l’applicabilità, anche in favore del convivente, delle tutele previste dall’art. 230-bis cod. civ. Il secondo, invece, che, anche in questo caso, sono affectio e comunanza di vita, piuttosto che vincoli formalizzati o particolari requisiti strutturali del rapporto, a definire il perimetro della nozione rilevante di famiglia. Consapevoli dei problemi di coordinamento che ciò può comportare, problemi che, tuttavia, possono essere facilmente rimediati per via interpretativa48, occorre dunque concludere osservando anche dalla manualistica istituzionale: v. F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, XVI ed., Napoli, 2016, 326. Essa impone, tuttavia, di riconsiderare la portata dell’elenco di cui al terzo comma dell’art. 230-bis. Se ne potrebbe allora ipotizzare una valenza meramente dichiarativa, idonea, al più, a produrre conseguenze sul piano probatorio. E così, se per i soggetti indicati dal terzo comma lo speciale vincolo individuato dalla norma farebbe presumere il rapporto di affectio e comunanza di vita con l’imprenditore, tutti gli altri soggetti che con esso convivono saranno tenuti a provarne in positivo l’esistenza. 47 B. De Filippis, Unioni civili e contratti di convivenza, Padova, 2016, 267. 48 Ed invero, il legislatore della l. 76/2016, in luogo di estendere espressamente anche ai conviventi il disposto di cui all’art. 230-bis (ciò che sarebbe stato senz’altro preferibile), ha optato per riservare a questi ultimi una disciplina ad hoc, disciplina contenuta, appunto, nel nuovo art. 230-ter. Sennonché, l’art. 230-ter prevede per il convivente tutele assai meno pregnanti di quelle che l’art. 230-bis riserva al coniuge (sul confronto tra le due disposizioni v. F. Rossi, Sub. Art. 1 comma 46, in C.M. Bianca (a cura di), Le unioni civili e le convivenze. Commento alla legge n. 76/2016 e ai d.lgs. n. 5/2017, d.lgs. 6/2017, d.lgs. 7/2017, Torino, 2017, 579-584). L’impostazione che qui si sostiene, se letta nella sua portata generale, rischia dunque di condurre alla conclusione paradossale per cui alla convivenza “atipica” (fattispecie che ricomprende tutte le ipotesi di convivenza che, come quella poliaffettiva, non rispettano uno o più dei requisiti di cui al comma 36) finirebbe per applicarsi una disciplina che offre una protezione più intensa rispetto a quella riservata ai conviventi di fatto che integrano la definizione fatta propria dalla nuova legge. Al fine di ovviare a questo problema, evitando al contempo di legittimare pericolosi vuoti di tutela, si prospettano due differenti opzioni. La prima, meno garantista ma probabilmente più coerente sotto il profilo sistematico, consiste nel considerare l’art. 230-ter quale norma di riferimento per la disciplina dell’impresa familiare al di fuori della famiglia legittima, norma applicabile, dunque, a tutte le ipotesi di famiglia di fatto, comprese quelle escluse dalle ristrette maglie del comma 36 dell’art. 1. In alternativa, valorizzando l’irragionevolezza della distin-. 620.

(16) come anche l’art. 230-bis rappresenti, nuovamente, una norma capace di accogliere ogni tipo di unione, purché contraddistinta dalla serietà e dalla stabilità del relativo vincolo, incluse, dunque, le convivenze poliamorose. 5. Accanto ai diritti di natura patrimoniale, la seconda parte della legge 76/2016 prevede una serie di tutele che possiamo definire “di assistenza”49, poiché disciplinano la posizione del convivente a fronte di alcune specifiche situazioni di vulnerabilità del proprio partner. Tralasciando quelle disposizioni che – a causa della loro scarsa portata applicativa – sembra rispondano più a esigenze mediatiche che a effettivi bisogni di tutela50, particolare attenzione, in questo contesto, merita il rapporto, espressamente richiamato dalla nuova legge, che intercorre tra famiglia di fatto e istituti di protezione delle persone prive di autonomia. Ai sensi del comma 49 dell’art. 1 l. 76/2016 il convivente “può essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno” del proprio partner ove quest’ultimo venga interdetto, inabilitato ovvero sia fatto oggetto del decreto di cui agli artt. 404 e seguenti cod. civ. È questa una norma inutile. Non solo, a mente delle disposizioni codicistiche, chiunque può essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno, ma il codice già inserisce la persona stabilmente convivente nel novero dei soggetti sui quali la scelta del giudice deve a tal fine ricadere in via preferenziale51. La disposizione in analisi è dunque priva di portata normativa e si risolve in un mero rinvio alle norme codicistiche che regolano la posizione del convivente nei casi di incapacità del partner52. Nel titolo XII del libro primo del codice (dedicato alle misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia) la “persona stabilmente convivente” rileva sotto tre differenti aspetti: in primo luogo essa è, al pari dei parenti più stretti, legittimata a prozione tra i due trattamenti, soprattutto ove considerata alla luce degli interessi in gioco, si potrebbe invocare la necessità di un’interpretazione costituzionalmente orientata che imponga l’applicazione a tutti della disciplina di maggior favore prevista dall’art. 230-bis. 49 Così le qualifica M. Blasi, La disciplina delle convivenze, cit., 197. 50 Il riferimento è, chiaramente, a quanto disposto dal comma 39, art. 1, l. 76/2016 a mente del quale “in caso di malattia o ricovero i conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita, di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche, private o convenzionate, previste per i coniugi e i familiari”. L’incoerenza sistematica di questa disposizione, insieme alla sua scarsissima portata applicativa e innovativa, è stata rilevata da più parti in dottrina. Sul punto si veda, ad es. L. Lenti, Convivenze di fatto, cit., 185; M. Blasi, La disciplina delle convivenze, cit., 204-208. 51 V. artt. 408, primo comma e 424, terzo comma, cod. civ. 52 O nelle ipotesi che legittimano il ricorso all’amministrazione di sostegno.. 621.

(17) porre la domanda di protezione53 nonché, come si è detto, inserita nell’elenco dei soggetti che il giudice deve preferire nel procedimento di nomina del tutore, del curatore o dell’amministratore di sostegno. Al convivente, inoltre, al pari del coniuge, degli ascendenti e dei discendenti, non si applica la regola di cui agli artt. 426 e 410 comma 3 cod. civ., regola che libera il tutore, il curatore e l’amministratore di sostegno dall’obbligo di proseguire nell’incarico decorsi dieci anni dalla nomina. Quanto si è fin qui argomentato conduce a una duplice, preliminare, conclusione: se, da un lato, la portata soggettiva della disciplina in analisi è svincolata dalla ristretta definizione di cui al comma 36, dall’altro, il tipo di unioni che essa, effettivamente, contempla dipende da chi, in concreto, possa essere definito “persona stabilmente convivente” ai sensi dei richiamati articoli del codice civile. Il punto, invero, è questione ampiamente discussa54. Secondo larga parte della dottrina55, questa espressione sarebbe in grado di ricomprendere chiunque condivida col beneficiario i medesimi spazi abitativi (e quindi, ad esempio, anche il coinquilino, il badante, ecc). Questa impostazione, tuttavia, non può essere accolta. In primo luogo, la legge parla di convivenza, locuzione che evoca un rapporto qualificato da una particolare intensità, e non di mera coabitazione, termine che il legislatore avrebbe ben potuto impiegare ove avesse voluto dare rilievo a situazioni che si risolvono nella mera condivisione dello stesso alloggio56. Inoltre, il dovere di proseguire gratuitamente in un incarico molto oneroso, anche oltre i dieci dalla nomina, si giustifica solo a fronte di un vincolo solidaristico e affettivo particolarmente intenso, come testimonia il fatto che il convivente è assoggettato a tale obbligo insieme ai soli parenti più stretti del beneficiario57. Le medesime ragioni, tuttavia, conducono ad escludere che la nozione di “persona stabilmente convivente” possa essere circoscritta al 53 V. artt. 406, primo comma e 417, primo comma, 54 Sul punto v., ampiamente, U. Roma, Le nozioni. cod. civ. di stabile convivenza e di convivenza nella disciplina dell’amministrazione di sostegno, dell’interdizione e dell’inabilitazione, in «NGCC», 10, 2006, 504 ss. 55 Ad es. A. Chizzini, L’amministrazione di sostegno, in G. Bonili, A. Chizzini, L’amministrazione di sostegno, Padova, 2007, 340. 56 Sul rilievo della distinzione tra convivenza e coabitazione nell’ambito della disciplina in analisi insiste U. Roma, Le nozioni di stabile convivenza e di convivenza, cit., 340-342; sulla portata generale di una tale distinzione v. Id., Convivenza e coabitazione, Padova, 2005. 57 V. U. Roma, Le nozioni di stabile convivenza e di convivenza, cit., 348. Questa impostazione, d’altra parte, mi pare confermata dalla stessa lettura sistematica della disciplina del matrimonio e, in particolare, dal disposto di cui all’art. 143, secondo comma, cod. civ. La norma, nel disporre che dal matrimonio deriva, tra le altre cose, anche l’obbligo di coabitazione, mostra di tenere quest’ultima distinta dalla convivenza, secondo uno schema in cui la coabitazione rappresenta solo uno tra i vari elementi che concorrono a dar vita alla convivenza matrimoniale.. 622.

(18) solo convivente more uxorio, impegnato con il beneficiario in una relazione di coppia a struttura para-coniugale, posto che, appunto, il fondamento della disciplina in analisi risiede nella mera esistenza di un legame affettivo e solidaristico connotato da un’intensità tale da giustificare la preferenza di cui artt. 408 e 424 cod. civ. nonché la deroga prevista dagli artt. 426 e 410 cod. civ. e non su di una specifica forma o declinazione di un siffatto legame. La nozione rilevante di “convivenza”, in altre parole, va in questo contesto individuata avendo riguardo agli specifici interessi in gioco: la legge inserisce il convivente tra i soggetti da preferire per l’ufficio di tutore, curatore ecc. in virtù delle garanzie assicurate dall’esistenza di una comunione di vita con il beneficiario. Allo stesso modo, l’obbligo di proseguire nell’incarico anche oltre il termine superato il quale viene generalmente consentita la rinuncia all’ufficio si fonda sulla presunzione che il convivente abbia stabilito con il beneficiario un vincolo stabile di sostegno morale e materiale, rispetto al quale, dunque, un tale obbligo si configura come diretta e coerente conseguenza. Se questo è il punto, ci troviamo allora, ancora una volta, innanzi a una disciplina in cui la nozione di convivenza assume quel significato di “comunione di vita caratterizzata da un vincolo stabile di sostegno morale e materiale” che, prescindendo del tutto dalla concreta morfologia di un tale vincolo, risulta capace di accogliere le più disparate forme di unione, incluse quelle poliaffettive. D’altra parte, non mi pare si possa individuare alcun valido argomento idoneo a suffragare la tesi per cui il convivente del beneficiario debba giuridicamente cessare di essere considerato tale per il solo fatto di non essere l’unico. Ove ciò avvenga, il solo effetto, quantomeno ai fini del procedimento di nomina, sarà piuttosto quello di far concorrere tutti i conviventi tra loro con il medesimo grado di preferenza58, fermo – in ogni caso – il principio per cui la scelta viene infine operata dal giudice con esclusivo riguardo al caso concreto e al miglior interesse del beneficiario. 6. Nell’ambito delle tutele di assistenza previste dalla nuova legge, particolare attenzione merita il comma 38 dell’art. 1, a mente del quale “i conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge dall’ordinamento penitenziario”. Si tratta, ancora una volta, di una norma che si limita a prendere atto di un’evoluzione già intervenuta, posto che l’ordinamento penitenziario, quantomeno in relazione ai suoi istituti più rilevanti, da tempo ormai parifica il convivente al coniuge del detenuto. La prospettiva civilistica che guida la nostra analisi suggerisce di omettere un approfondito esame della questione. Ai fini del nostro ragionamento occorre, tuttavia, evidenziarne quantomeno un aspetto. 58 Oltre che, ovviamente, con tutti gli altri soggetti indicati dagli artt. 408 e 424 cod. civ.. 623.

(19) L’evoluzione a cui si è fatto cenno si colloca in un percorso che ha visto il legislatore, la dottrina e la giurisprudenza valorizzare il ruolo della famiglia nella fase trattamentale, quale parte integrante della funzione rieducativa della pena ai sensi dell’art. 27, secondo comma, della Costituzione. Il mantenimento da parte del detenuto delle proprie relazioni familiari, ma anche il supporto istituzionale a un loro eventuale recupero, sono infatti considerati dalla legge quali importanti argini ai rischi derivanti dal c.d. “processo di prigionizzazione”, isolamento sociale e recidiva in primo luogo59. Se questa è la ratio, nel diritto penitenziario la qualificazione come “familiare” di un rapporto va allora impostata a partire dalla prospettiva intima propria di ciascun detenuto, se del caso anche tralasciando gli schemi tipici e i modelli di legge. È questo quanto deve desumersi da quei recenti approdi della dottrina e della giurisprudenza che sempre più invocano la necessità di interpretare le norme del diritto penitenziario alla luce di una nozione ampia di famiglia, una nozione che prenda le mosse da quanto “riconducibile alla sfera affettiva del detenuto”, in grado di “superare ogni distinzione tra situazioni di fatto e di diritto”60. Alla luce di queste considerazioni, il significato che, per l’ordinamento penitenziario, assume la parola convivente non potrà, dunque, limitarsi al “convivente more uxorio”, mimesi in fatto del coniuge sposato, ma dovrà abbracciare qualsiasi relazione affettiva stabile di comunione di vita che, in virtù di reciproco sostegno, assume un ruolo di rilievo nella sfera intima del condannato. In altre parole, se l’interesse tutelato è quello della valorizzazione della dimensione affettiva del detenuto in chiave rieducativa e di (ri)socializzazione, e non la promozione di un certo modello familiare, è allora il concreto atteggiarsi dei rapporti intimi dell’interessato – e non un’astratta struttura di rapporto predeterminata ex lege – la stella polare che dovrà guidare il giudice nell’individuazione della nozione rilevante di convivenza nel caso concreto. Ritenere, così, che il detenuto componente di una convivenza poliamorosa possa liberamente intrattenere colloqui con i propri partners, richiedere un permesso di visita nel caso in cui uno di essi versi in grave pericolo di vita e accedere a tutti quegli altri diritti pacificamente accordati dall’ordinamento penitenziario al convivente para-coniugale mi sembra dunque una conclusione non solo coerente con un’interpretazione teleologica delle fonti primarie ma anche costituzionalmente necessaria. In caso contrario, infatti, l’intervento dell’interprete si risolverebbe in un’indebita interferenza nelle scelte affettive 59 Sul punto v. M. Blasi, La disciplina delle convivenze, cit., 199-204 e riferimenti ivi indicati. 60 Ivi, 202.. 624.

(20) del detenuto, contraria non solo alla ratio delle rilevanti disposizioni in materia ma anche al principio rieducativo della pena. 7. La l. 76/2016 prevede che i conviventi more uxorio possono regolare i propri rapporti patrimoniali mediante un contratto di convivenza, di cui disciplina forma, opponibilità a terzi, contenuto, patologie e cessazione degli effetti61. Il ricorso alla via pattizia per regolare le conseguenze della vita in comune era, tuttavia, prassi ampiamente diffusa presso le famiglie di fatto già prima della novella del 2016, prassi, peraltro, avallata dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritarie che, in assenza di una specifica menzione nel diritto positivo, salutavano ormai i contratti di convivenza come legittima espressione della capacità dispositiva delle parti. Omettendo in questa sede un’approfondita analisi del ruolo dell’autonomia privata nella famiglia non matrimoniale, tema rilevantissimo ma che esula dai ben più limitati obiettivi del presente contributo, il punto che urge qui invece affrontare è se la tipizzazione del contratto di convivenza operata dalla nuova legge abbia l’effetto di impedire a unioni differenti da quella descritta dall’art. 1 comma 36 di accedere ad una qualsiasi forma di regolamentazione negoziale della vita in comune. Se parte della dottrina ha effettivamente sostenuto questa tesi62, l’opinione maggiormente accreditata ritiene, invece, che accanto al contratto tipico di convivenza, riservato alle sole coppie che posseggono i requisiti dettati dalla l. 76/2016, permangano importanti spazi di operatività per accordi di natura atipica63, a cui potrebbero invece accedere tutte le altre formazioni familiari64. In punto regolamentazione, questi accordi sarebbero “da un lato, affrancati, in via immediata, dalla disciplina offerta dalla nuova legge, dall’altro tributari analogicamente di quest’ultima nei limiti della compatibilità”65. E così, ad esempio, se il contratto di convivenza atipico 61 V. l. 20 maggio 2016, n. 76, art. 1, commi 50-64. 62 V., ad es., G. Oberto, I rapporti patrimoniali nelle. unioni civili e nelle convivenze di fatto, in AA.VV., La nuova regolamentazione, cit., 59 ss. I rischi che la definizione di cui al comma 36 art. 1 l. 76/2016 possa determinare una ingiustificata limitazione dell’autonomia privata sono messi in luce da F. Macario, I contratti di convivenza tra forma e sostanza, in «Contr.», 2017, 7 ss. 63 A sostegno di questa tesi v. P. Sirena, Sub commi 57-58, in C.M. Bianca (a cura di), Le unioni civili e le convivenze, cit., 680-684; U. Perfetti, Autonomia privata e famiglia di fatto. Il “nuovo” contratto di convivenza, in «NGCC», 2016, 1749 ss.; R. Villa, Il contratto di convivenza nella legge sulle unioni civili, in «Riv. dir. civ.», 2016, 1340 ss.; D. Achille, Il contenuto dei contratti di convivenza tra tipico ed atipico, in «NGCC», 11, 2, 2017, 1570-1581. 64 Ferma, ovviamente, la necessità che il contratto realizzi interessi meritevoli di tutela ex art. 1322, comma secondo, cod. civ. Sul punto, v. F. Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, 143 ss. 65 U. Perfetti, Autonomia privata e famiglia di fatto, cit., 1752.. 625.

(21) non è vincolato ai requisiti di forma prescritti ad validitatem dall’art. 1 comma 51 l. 76/2016, le parti non potranno, rispetto ad esso, invocare quegli effetti premiali che presuppongono una positiva disciplina di legge, quale ad esempio l’opponibilità a terzi del regime patrimoniale prescelto. La dottrina, nel valorizzare questo approccio, ha evidenziato come esso permetta di evitare che ad unioni da sempre annoverate tra i più tipici esempi famiglia di fatto venga improvvisamente preclusa la possibilità di ricorrere a uno degli strumenti più qualificanti di questa fattispecie: il contratto di convivenza. Il riferimento, in particolare, è alla coppia convivente in cui uno dei componenti sia legalmente separato ma non ancora divorziato o a quelle coppie che, pur convivendo, non intendono o non possono effettuare la dichiarazione anagrafica di cui all’art. 1 comma 37, ad esempio per ragioni di riservatezza ovvero poiché i partner, per motivi di lavoro, durante la settimana, abitano in due città differenti. Mi pare, tuttavia, che la conseguenza più rilevante di questa impostazione sia, in realtà, quella di costruire una fattispecie contrattuale – quella atipica – aperta a chiunque, convivendo, intenda regolare le conseguenze patrimoniali della propria vita in comune ma non possegga i requisiti previsti dalla nuova normativa, inclusi, dunque, i consorzi poliaffettivi. Guardando la questione da questa angolazione, non mi sembra, infatti, possibile ravvisare alcuna valida ragione ostativa (ma sul punto si tornerà meglio in seguito) a che anche i conviventi poliamorosi, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, stabiliscano contrattualmente, ad esempio, il regime degli acquisti familiari, dettagliate tutele sulla casa di comune abitazione, la partecipazione alle spese per la vita comune, una disciplina per il riconoscimento economico del lavoro prestato all’interno del ménage, le conseguenze dello scioglimento del vincolo ecc. La prospettiva del poliamore appare, anzi, particolarmente coerente con la fattispecie negoziale in questione. Essa, in ultima analisi, configura un rapporto in cui le prestazioni “di ciascuna parte concorr(ono) alla creazione e al funzionamento di una struttura comune che risponde all’interesse di tutte le parti”66. Il contratto di convivenza va così qualificato come contratto associativo, un tipo contrattuale, quindi, in cui la plurilateralità costituisce la regola e la bilateralità l’eccezione. Non stupisce, dunque, che sia proprio il contratto di convivenza il terreno sul quale, in molti ordinamenti, si sta combattendo la lotta per il riconoscimento giuridico delle famiglie poliaffettive, come dimostrano le ormai sempre più frequenti notizie provenienti dal panorama 66 È questa la nozione di contratti associativi proposta da V. Roppo, Il contratto, Milano, 2011, 350.. 626.

(22) comparatistico e, in particolare, dal Brasile e dalla Colombia, sistemi che, sotto questo profilo, costituiscono senz’altro gli esempi più interessanti67. 8. Giunti a questo punto occorre chiedersi, tentando così una sorta di riepilogo, quale sia, dunque, lo statuto giuridico delle famiglie poliamorose nel nostro ordinamento. A tal proposito, vengono in primo luogo in rilievo i diritti previsti dalla seconda parte della l. 76/2016, testo che, per l’importanza e la portata simbolica che assume nella sistematica della famiglia non matrimoniale, ha costituito il punto di riferimento della nostra analisi. Tra questi diritti, come si è avuto modo di argomentare, ai ménage poliamorosi sono direttamente applicabili quelli che, semplicemente ribaditi dalla nuova legge, trovano tuttavia aliunde il proprio fondamento o la propria disciplina e risultano dunque svincolati dalla definizione di cui al comma 36 dell’art. 1. Dietro tali tutele è infatti possibile scorgere una nozione composita di famiglia che, prescindendo da qualsiasi considerazione strutturale e subordinando l’ambito soggettivo di applicazione del diritto al fatto in sé di una comunione di vita stabile caratterizzata da sostegno morale e materiale, appare idonea ad accogliere anche le famiglie poliaffettive, dal momento che svincola la valutazione giuridica del rapporto dal numero dei soggetti che lo compongono. E così, ai conviventi poliamorosi andranno senz’altro riconosciuti il diritto al risarcimento del danno in caso di morte di uno dei partner; il diritto di accedere alle tutele in materia di impresa familiare; il diritto di attivare le procedure previste dal titolo XII del libro secondo del codice civile e di essere preferiti – al pari degli altri familiari stretti – nella scelta del tutore, del curatore o dell’amministratore di sostegno di uno dei propri compagni; il diritto di essere riconosciuti quali familiari del partner detenuto ad ogni effetto rilevante per l’ordinamento penitenziario; nonché – ferme le considerazioni in precedenza svolte in punto frammentarietà delle fonti – il diritto di essere parificati a qualsiasi altro consorzio familiare ai fini dell’accesso agli alloggi di edilizia pubblica, ove l’appartenenza ad un nucleo familiare costituisca titolo o causa di preferenza nelle graduatorie di assegnazione. 67 Sull’ordinamento brasiliano si veda la nota pubblicata dal IBDFAM (Istituto Nazionale Brasiliano per il Diritto di Famiglia) Rio de Janeiro registra mais uma união poliafetiva, reperibile online http://ibdfam.org.br/noticias/59617/; nonché le brevi considerazioni di F. Tartuce, Da escritura publica de união poliafetiva - breves considerações, in «Migalhs» 2017, http://www.migalhas.com.br/FamiliaeSucessoes/104,MI257815,31047Da+escritura+publica+de+uniao+poliafetiva+Breves+consideracoes; sull’unione a tre recentemente celebrata in Colombia e sulla sua matrice squisitamente contrattuale (nonostante le differenti notizia di stampa) v. http://www.eltiempo.com/justicia/cortes/union-de-tres-hombres-en-medellin-no-es-unmatrimonio-100174.. 627.

(23) Un ragionamento simile va impostato per tutte quelle altre forme di tutela che la seconda parte della legge Cirinnà ha omesso di richiamare e che, per questa ragione, non sono state oggetto della nostra analisi. Non mi pare, ad esempio, si possa individuare alcun valido motivo per escludere il convivente poliamoroso dalla protezione contro gli abusi familiari prevista dagli artt. 342-bis e seguenti cod. civ. nel caso in cui uno dei propri partner adotti condotte idonee a causare un grave pregiudizio alla sua integrità psichica, fisica o morale. Allo stesso modo, la ratio della norma di cui all’art. 190 c.p.p. impone di accordare anche al componente di una famiglia poliaffettiva la facoltà di astenersi dal deporre nel procedimento penale in cui sia imputato uno dei propri compagni. Ancora: in materia di conto corrente cointestato ai conviventi, le ragioni che hanno condotto la giurisprudenza di merito68 ad approntare regole probatorie volte a valorizzare il ruolo del lavoro domestico nella valutazione della presunzione di cui agli artt. 1854 e 1298 cod. civ. non mi sembra vengano meno per il solo fatto che il contratto con la banca, invece che da una coppia, sia stato concluso da più soggetti tutti membri di un’unica relazione poliamorosa ecc. Un discorso a parte va invece impostato per quei diritti previsti dalla legge Cirinnà i quali si configurano come effettivamente nuovi rispetto al previgente assetto. Come si è a più riprese avuto modo di affermare, essi, proprio poiché dotati di effettiva portata innovativa, a rigore, possono trovare applicazione diretta esclusivamente nei confronti delle coppie che soddisfano i requisiti previsti dal comma 36. Al più, laddove la legge abbia inciso rafforzando la protezione di diritti già precedentemente oggetto di una qualche forma di tutela, sarà quest’ultima, e non il nuovo assetto, a poter operare in via immediata nei confronti del consorzio poliamoroso. E così, se è vero che, in caso di morte del partner proprietario, il diritto a continuare ad abitare nella casa in cui si è svolta la vita comune (art. 1 comma 45 l. 76/2016) spetterà al solo convivente di cui al comma 36, la posizione abitativa del componente del consorzio poliaffettivo non è, tuttavia, del tutto priva di tutela potendo egli, come si è visto, pur sempre far leva sulla sussistenza del ménage per fondare una posizione di detenzione qualificata sul bene, con tutte le conseguenze che da ciò derivano. Ma attenzione: dire che le regole che abbiamo definito “nuove” non sono suscettibili di applicazione diretta nei confronti delle unioni poliaffettive non equivale a dire che esse non possano in alcun modo operare anche nei loro confronti. A tal fine soccorre, in primo luogo, il contratto di convivenza nel quale le parti possono ben dedurre, rendendole dunque tra loro operative, discipline la cui applicazione è in via automatica riservata alle sole fattispecie familiari tipiche. E così, ad esempio, i componenti della famiglia poliamorosa potranno stabilire negozialmente il diritto 68 Si. 628. veda Trib. Bolzano, 20 gennaio 2000..

(24) agli alimenti in favore di chi tra essi, venuto meno il vincolo e versando in stato di bisogno, non sia in grado di provvedere a sé stesso, sul modello previsto dall’art. 1 comma 65 della l. 76/2016. In secondo luogo, occorrerà esplorare le potenzialità offerte da opzioni ermeneutiche fondate su interpretazioni estensive o analogiche, specialmente ove sorrette da precisi indici costituzionali. È questo il percorso che si può ad esempio ipotizzare in relazione comma 40 art. 1 l. 76/2016 il quale, nel consentire “al convivente di fatto” di designare l’altro come suo “rappresentante con poteri pieni o limitati” in caso di malattia, per le decisioni in materia di salute e, in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie, di fatto introduce nel nostro ordinamento una “prima positivizzazione del testamento biologico”69. Tralasciando le (più che condivisibili) critiche avanzate dalla dottrina sull’inadeguatezza tecnica della disposizione in analisi70, inadeguatezza ben poco auspicabile in una materia così delicata, appare evidente l’irragionevolezza insita in una disciplina che circoscrive al solo convivente ex art. 1 comma 36 l. 76/2016 la legittimazione passiva alla nomina di rappresentante. Questo non solo poiché, ad una prima lettura, da una tale legittimazione sembrerebbero addirittura esclusi il coniuge e il partner civilmente unito, incoerenza che può tuttavia essere colmata attraverso un’interpretazione sistematica della nuova norma71, ma soprattutto perché una scelta così personale non tollera limitazioni soggettive legalmente imposte, dovendo essere rimessa in toto alla libera disponibilità dell’interessato72. Alla luce di tutto quanto fino ad ora esposto, è dunque possibile tracciare una prima conclusione di massima: alle convivenze poliaf69 Così F. Mezzanotte, Sub commi 40-41, in C.M. Bianca (a cura di), Le unioni civili e le convivenze, cit., 523. 70 V. ad es, C. Bona, La disciplina delle convivenze nella l. 20 maggio2006 n. 76, in «Foro it.», 2016, 1, 2093 ss.; M. Blasi, La disciplina delle convivenze, cit., 204208. Molte delle criticità sollevate dalla dottrina erano peraltro già state segnalate nel corso dell’iter di approvazione della legge (si vedano, in tal senso, le Audizioni di L. Balestra e M. Velletti innanzi alla II Commissione della Camera dei Deputati, seduta del 15 marzo 2016). 71 Sul punto si veda l’argomento proposto da F. Mezzanotte, Sub commi 4041, cit., 527-529. 72 Contra, F. Mezzanotte, ivi, 529, il quale sostiene come, una volta reintrodotta in via interpretativa nell’alveo di applicazione della nuova norma ogni possibile manifestazione di uno stabile rapporto di coppia, se ne possa riconsiderare l’eventuale irragionevolezza, posto che rientrerebbe in una legittima scelta di indirizzo politico (“non necessariamente affetta da irragionevolezza”) quella di “radicare la disciplina della «rappresentanza» negli atti del fine vita nell’alveo della relazione di coppia, quantomeno in via di prima istanza”. La questione appare in ogni caso oggi parzialmente superata dalla recente approvazione, da parte del Senato della Repubblica, del D.D.L. S-2801, che introduce in via generale l’istituto delle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento e del fiduciario di ultime volontà. La novella è intervenuta nelle more della pubblicazione del presente contributo: delle novità da essa previste, pertanto, non si è potuto tenere conto.. 629.

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