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Berta e Adelaide: la politica di consolidamento del potere regio di Ugo di Arles

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di Giacomo Vignodelli

Reti Medievali Rivista, 13, 2 (2012)

<http://rivista.retimedievali.it>

Il patrimonio delle regine:

beni del fisco e politica regia tra IX e X secolo

a cura di Tiziana Lazzari

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1. Due pergamene di San Salvatore di Pavia

L’Archivio di Stato di Milano conserva, oggi all’interno del Museo Diplomatico1, due documenti originali datati lo stesso giorno dallo stesso

Berta e Adelaide:

la politica di consolidamento del potere regio di Ugo di Arles di Giacomo Vignodelli

DBI = Dizionario Biografico degli Italiani.

DD Lo I = Lotharii I et Lotharii II Diplomata, a cura di Th. Schieffer, in MGH, Diplomata Karolinorum, III, Berlin-Zürich 1966.

DD L II = Ludovici II Diplomata, a cura di K. Wanner, MGH, Diplomata Karolinorum, IV, München 1994.

DD K III = Karoli III Diplomata, a cura di P. Kehr, MGH, Diplomata regum Germaniae ex stir-pe Karolinorum, II, Berlin 1937.

DD Arn = Arnolfi Diplomata, a cura di P. Kehr, in MGH, Diplomata regum Germaniae ex stirpe Karolinorum, III, Berlin 1956.

DD B I = I Diplomi di Berengario I, a cura di L. Schiaparelli, Roma 1903 (Fonti per la Storia d’Italia, 35).

DD U L = I Diplomi di Ugo e Lotario, di Berengario II e di Adalberto, a cura di L. Schiaparelli, Roma 1924 (Fonti per la Storia d’Italia, 38).

DD O II, DD O III = Ottonis II et Ottonis III Diplomata, a cura di T. Sickel, MGH, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, II, Hannover 1888-1893.

DD H II, DD Ard = Heinrici II et Arduini Diplomata, a cura di H. Bresslau, H. Bloch, R. Holtzmann, MGH, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, III, Hannover 1900-1903. DD K II = Conradi II Diplomata, a cura di H. Bresslau, MGH, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, IV, Hannover 1909.

DD H IV = Heinrici IV Diplomata, a cura di D. von Gladiis e A. Gawlik, MGH, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, VI/II, Hannover 1941-1978.

DD F I = Friderici I Diplomata, a cura di H. Appelt, MGH, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, X/II, Hannover 1979.

1Archivio di Stato di Milano, Archivio Diplomatico, Museo Diplomatico. Editi in DD U L, n. 46,

pp. 139-141 e n. 47, pp. 141-144.

ISSN 1593-2214 ©2012 Firenze University Press DOI 10.6092/1593-2214/369 Il patrimonio delle regine: beni del fisco e politica regia fra IX e X secolo

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luogo: il 12 dicembre 937, nella «curtis quae dicitur Columbaris»2 in

Borgogna. I due diplomi gemelli contengono la costituzione del dotario di Berta di Svevia, regina vedova di Borgogna, e di quello di sua figlia Adelaide, futura regina italica. I dotari sono costituiti al momento del fidanzamento della madre, Berta, con Ugo di Arles, re d’Italia, e della figlia con Lotario II, figlio di Ugo e già associato al trono del padre.

Le due pergamene ci sono giunte all’interno dell’archivio del monastero pavese di San Salvatore: un dato che potrebbe apparire scontato perché quel monastero fu rifondato e ricostruito a fundamentis3dalla stessa Adelaide, 35

anni più tardi del fidanzamento con Lotario, su quello che restava di un anti-co oraculum longobardo. L’oraculum, anti-costituito da Ariperto all’esterno delle mura cittadine, aveva svolto la funzione di sepolcreto regio fino alla costru-zione di San Pietro in Ciel d’Oro da parte di Liutprando4, ed era stato in

segui-to abbandonasegui-to: solo l’intervensegui-to di Adelaide l’avrebbe trasformasegui-to in ceno-bio5, traditum all’atto stesso di fondazione all’abate cluniacense Maiolo

2L’odierna Colombier nel distretto di Morges, sul lago Lemano, nel Canton Vaud in Svizzera. 3 Così secondo l’Epitaphium Adelheidae di Odilone di Cluny: «Postmodum in Italia iuxta

Ticinensem urbem monasterium a fundamentis incepit et ad honorem Salvatoris mundi honori-fice imperiali auctoritate et sua largissima donatione perfecit, praediis et ornamentis amplissi-me ditavit, ac iam dicto patri Maiolo ordinandum regulariter tradidit». Odilo cluniacensis abbas, Epitaphium dominae Adheleidae augustae, a cura di H. Paulhart, in Die Lebenschreibung der Kaiserin Adelheid von Abt Odilo von Cluny, Graz-Köln 1962, pp. 34-36.

4È Paolo Diacono a darci questa informazione: nell’oraculum divenuto basilica furono

seppelli-ti Pertarito, figlio del fondatore Ariperto (668), Cuniperto (700) e Ariperto II (712): Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, a cura di L. Capo, Milano 1992, lib. IV, c. 48, p. 232, lib. V, c. 37, p. 284, lib. VI, 17, pp. 320-322, lib. VI, c. 35, pp. 336-338; S. Gasparri, Pavia longobarda, in Storia di Pavia, II, L’alto medioevo, Pavia 1987, pp. 19-68, in particolare p. 44.

5Non solo il già citato Epitaphium e le altre fonti cluniacensi ma anche le due bolle papali

con-cernenti la fondazione adelaidina del Salvatore confermano che si tratta di una nuova istituzio-ne: H. Zimmermann, Papsturkunden 896-1046, I, Wien 1984, n. 219, pp. 429-431 e n. 220, pp. 431-432. L’unico documento che menziona San Salvatore dopo Paolo Diacono e prima dell’in-tervento di Adelaide è un diploma stilato dalla cancelleria di Ugo e Lotario tra il 940 e il 944 col quale i regnanti confermano al vescovo di Pavia tutti i beni che possedeva prima dell’incendio della capitale causato dagli Ungari nel 924: tra questi beni c’è la «abbatia in honore Domini Salvatoris in campania non longe a Ticino sitam» (DD U L, n. 74, pp. 216-219). La definizione di abbatia andrebbe tuttavia intesa come chiesa canonica. Così secondo O. Capitani, Chiese e monasteri pavesi nel secolo X, in Pavia capitale di regno. Atti del IV congresso internazionale di studi sull’alto medioevo (10-14 settembre 1967), Spoleto 1969, pp. 107-154, in particolare pp. 139-141 e G. Forzatti Golia, Strutture ecclesiastiche e vita religiosa a Pavia nel secolo X, in San Maiolo e le influenze cluniacensi nell’Italia del Nord. Atti del Convegno internazionale nel Millenario di san Maiolo (994-1994), Pavia-Novara, 23-24 settembre 1994, a cura di E. Cau e A.A. Settia, Pavia 1998, pp. 31-84, in particolare pp. 54-57, cui si rimanda anche per l’interpre-tazione del precedente falso diploma di Rodolfo II: L. Schiaparelli, I Diplomi di Rodolfo II, in I Diplomi italiani di Ludovico III e di Rodolfo II, Roma 1910 (Fonti per la Storia d’Italia, 37), Diplomi falsi, n. 2 p. 136. Si vedano le posizioni precedenti all’intervento di Ovidio Capitani: A. Colombo, I diplomi ottoniani e adelaidini e la fondazione del monastero di S. Salvatore in Pavia, in Miscellanea pavese, Torino 1932 (Biblioteca della società storica subalpina, 130), pp. 1-39 e M.P. Andreolli, Aspetti politici e religiosi di Pavia rilevati nelle vicende storiche del

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«ordinandum regulariter»6. Scontata dunque la presenza dei due documenti

nel suo archivio perché il neonato monastero del Salvatore sarebbe stato dotato dall’imperatrice con i beni che provenivano dal suo dotario e da quel-lo della defunta madre.

In realtà non siamo in possesso dell’atto di fondazione del monastero (che dovrebbe risalire al 971-972), ma solo di una serie di successivi diplomi di conferma rilasciati dal figlio di Adelaide, Ottone II (982)7, dall’imperatrice

stessa a pochi mesi dalla propria morte (12 aprile 999)8 e da suo nipote

Ottone III (6 luglio 1000, subito dopo la morte della nonna)9. A questo primo

gruppo di diplomi fanno seguito le conferme concesse al monastero da Arduino (1002)10e da Enrico II (1014)11.

L’intera serie di documenti appare però assai problematica per differenti motivi12: Ovidio Capitani ha dimostrato che il documento del 982 (che

posse-diamo solo in una copia del secolo successivo e che già aveva insospettito Muratori per incongruenze nella datazione) deve essere interpretato come un falso di inizio XI secolo, probabilmente ottenuto interpolando un documento originale13. L’interpolazione riguarda i beni del monastero e tra questi

pro-prio le curtes che erano appartenute al dotario di Adelaide14: chi l’ha

compi-lato probabilmente intendeva fornire un supporto alle pretese del monastero sull’insieme di quei beni.

Il secondo documento della serie, la donazione di Adelaide datata all’aprile del 999, risulta altrettanto sospetto. In esso sono omessi gli anni di regno di Ottone III, il contenuto contrasta con la libertà dei monaci, ed è compilato usando il formulario salico di trasferimento di beni, e perciò nelle sottoscrizioni è coerentemente definito «cartula ofersionis»: non una confer-ma confer-ma una donazione ex novo di tutti i beni del monastero fatta

dall’impera-monastero di San Salvatore (secoli VIII-XII), in Pavia capitale di regno cit., pp. 275-288. Per le diverse redazioni delle Vitae di Maiolo si veda D. Iogna-Prat, Agni immaculati. Recherches sur les sources hagiographiques relatives à saint Maieul de Cluny (954-994), Paris 1988, con edi-zione della Vita sancti Maioli nella cosidetta editio tertia (B.H.L. 5179) alle pp. 154-163; in par-ticolare Lib. II, c. 23, pp. 243-244.

6Odilo cluniacensis abbas, Epitaphium cit., p. 35. È importante notare che il monastero regio

non viene posto direttamente alle dipendenze di Cluny ma solo ordinato da Maiolo.

7DD O II, n. 281 (Capua, 30 settembre 982), pp. 327-328.

8Codex Diplomaticus Langobardiae, a cura di G. Porro Lambertenghi, in Monumenta Historiae

Patriae, XIII, Torino 1873, n. 997, coll. 1754-1759.

9DD O III, n. 375, (Pavia, 6 luglio 1000), pp. 802-803. 10DD Ard, n. 1 (Pavia, 20 febbraio 1002), pp. 699-700.

11DD H II, n. 284 (Roma, 1014), pp. 335-337, e n. 301 (Pavia, 1014), pp. 374-375.

12L’intera questione è efficacemente riassunta da R. Pavoni, La curtis di Owaga e i falsi del

Santo Salvatore di Pavia, in Studi di storia ovadese. Atti del convegno promosso in occasione del 45° di fondazione dell’Accademia Urbense e dedicati alla memoria di Adriano Bausola: Ovada, 7-8 dicembre 2002, Ovada (Alessandria) 2005, pp. 105-128, in particolare pp. 105-120.

13Capitani, Chiese e monasteri pavesi cit., pp. 137-144. 14Ibidem.

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trice in punto di morte, che dimenticherebbe quindi donazioni e conferme precedenti15. Anche questo “lascito testamentario” ci è pervenuto solo in

copia successiva e anch’esso sembra costruito nel tentativo di conferire al monastero del Salvatore diritti di proprietà su tutto l’insieme dei beni che erano stati del dotario di Adelaide, nonché su altre numerose terre.

Ciò che alimenta maggiormente il sospetto sui primi due documenti è la circostanza che il successivo diploma di Ottone III (il primo della serie che possediamo in originale) contiene la conferma solo della metà dei beni16, che

troviamo invece in quello che sarebbe stato emesso da Ottone II nonché nel “testamento” redatto solo qualche mese prima dall’imperatrice: il nipote, a pochi mesi dalla morte di Adelaide, avrebbe dunque sottratto metà dei beni al monastero da lei fondato e senza fare alcuna menzione di un simile ridi-mensionamento?

I più rilevanti tra i beni che non compaiono nella conferma di Ottone III sono proprio quelli che erano presenti nei dotari. Coerentemente, l’unico altro documento della serie che possediamo in originale, e cioè la conferma di re Arduino dei beni del monastero, contiene lo stesso gruppo di curtes pre-senti nel diploma di Ottone III, escludendo quindi la maggior parte dei beni derivanti dal dotario di Adelaide e presenti nei due primi, sospetti, docu-menti.

Solo nel 1014 abbiamo il primo diploma regio che conferma l’intera serie di possessi del monastero secondo la lista allargata presente nell’interpola-zione del documento di Ottone II. Se la recognitio del diploma effettuata dalla cancelleria di Enrico II deve essere considerata originale (dato non del tutto certo)17, dobbiamo immaginare che i monaci avessero preparato il

docu-mento in base ai falsi e alle interpolazioni dei documenti precedenti, otte-nendone poi la conferma dall’imperatore. E, anzi, potremmo dedurne che gli altri falsi fossero stati preparati proprio in funzione del riconoscimento da parte di Enrico II18. Se invece l’intero diploma di Enrico fosse da ritenere

15Pavoni, La curtis di Owaga cit., pp. 111-112. Il falso diploma di Ottone II doveva però basarsi

su una conferma in originale dell’imperatore, che l’imperatrice ometterebbe di ricordare nella sua donazione. Lo stesso documento interpolato ricorda un precedente diploma di Ottone I, che non possediamo ma la cui concessione da parte del marito della fondatrice appare probabile. Anche questo documento sarebbe tralasciato dal “lascito testamentario” di Adelaide.

16Delle 34 unità presenti nel diploma di Ottone III e nella donazione di Adelaide solo 16 sono

presenti nella conferma di Ottone III. Tra le 18 mancanti vi sono 4 curtes presenti nel dotario di Adelaide (Marengo, Corana, Cornino e Valli) e 1 presente in quello di Berta (Orba). Queste importanti curtes fiscali non possono essere ricomprese nella generica dicitura finale «in ceteris aliis locis» (come avrebbe voluto Colombo) che riguarda piuttosto le pertinenze dei luoghi cita-ti. Si veda Pavoni, La curtis di Owaga cit., p. 109 e nota 17; Colombo, I diplomi ottoniani e ade-laidini cit., p. 20.

17Pavoni, La curtis di Owaga cit., p. 117.

18Il contesto in cui è emesso il documento potrebbe in certa misura avvalorare questa ipotesi: il

diploma fa parte della serie di elargizioni effettuate da Enrico II all’indomani della definitiva sconfitta di Arduino nel 1014 nei confronti di enti rilevanti del settore nord-occidentale del regno, con evidente funzione remunerativa o di riconciliazione per la lotta appena sostenuta.

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falso, esso costituirebbe solo l’ultimo della serie delle falsificazioni del mona-stero del Salvatore.

Sappiamo d’altra parte che Marengo, una delle più importanti curtes pre-senti nel dotario di Adelaide, assente nella conferma originale al Salvatore del 1000, ma in seguito rivendicata dai suoi monaci, era stata donata dallo stesso Ottone III, il 22 novembre 1001, al monastero femminile pavese detto «della Regina» che dipendeva da San Salvatore di Brescia. Insieme con Marengo l’im-peratore donava al monastero della Regina anche la corte di «Gamundium», originariamente contenuta nel dotario di Berta, precisando che di entrambe quelle curtes si erano in precedenza impadroniti Berengario II e Adalberto re, senza tuttavia citare il ruolo del monastero del Salvatore nella vicenda19.

La storia del controllo dei beni contenuti nei due dotari appare dunque molto complessa: con certezza possiamo dire soltanto che delle 8 unità che costituivano il dotario di Adelaide (5 curtes e 3 monasteri regi) solo una20fu

originariamente tra i possedimenti del monastero del Salvatore di Pavia; i monaci in seguito rivendicarono il possesso di tutte e cinque le curtes, ma non dei monasteri regi. Delle 17 unità costituenti il dotario di Berta (15

cur-tes, 1 castellum e 1 abbazia) San Salvatore non ne possedette

originariamen-te nessuna, e anche in seguito, al massimo delle proprie preoriginariamen-tese (legittime o meno che fossero), ne rivendicò solamente una21.

Se i due diplomi gemelli non potevano essere usati dai monaci che per provare il possesso di una piccola parte dei loro beni, mentre altre fondazio-ni (e forse anche privati beneficiati o il fisco regio stesso) detenevano eguali diritti su altri beni contenuti in essi, perché l’archivio del Salvatore di Pavia conservava gli originali dei dotari?

La risposta va forse cercata nella motivazione stessa dell’istituzione del cenobio da parte di Adelaide, motivazione che, in assenza dell’atto di fonda-zione, ci è stata conservata all’interno di una bolla papale dell’aprile del 972. Con essa Giovanni XIII comunica al vescovo di Pavia che il monastero è stato posto dalla sua fondatrice sotto la sua autorità:

Quia precellentissima filia Adelehis augusta, divinis amoris fervore succensa, non longe a moenibus ticinensis civitatis monasterium in propriis22constituit, sanctosque ac venerabiles coenobitas ibidem undecumque potuit colligere curavit, qui in sanctae conversationis proposito, secundum beatissimi Benedicti normam regulariter sub abbate viventes incessanter Domini maiestatem exorarent, tam pro requie prioris viri sui gloriose memoriae Lotharii regis, quamque pro statu imperii et clementissimi filii nostri Ottonis invictissimi augusti, simul etiam et communis filii et eorum ac nostri item Ottonis augustis suaeque animae mercede23.

19DD O III, n. 415 (Ravenna, 22 novembre 1001), pp. 849-850: è un documento originale. 20Cioè la curtis di «Olonna», si veda infra.

21La curtis dell’Orba, si veda infra.

22Ovidio Capitani interpreta l’espressione «in propriis» come «dotandola con beni propri»

piut-tosto che «in un luogo di sua proprietà»: Capitani, Chiese e monasteri pavesi cit., p. 141.

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Compito dei monaci è pregare tanto per lo status imperii e per la salvez-za degli Ottoni quanto per l’anima del defunto primo marito di Adelaide, Lotario II. Il ricordo di Lotario, «rex gloriosae memoriae», nelle preghiere dei monaci del Salvatore, e cioè nel monastero che si configura come il “luogo ufficiale” della memoria regia sul suolo italico, fondato dall’imperatrice madre alle porte di Pavia e affidato a Maiolo perché lo ordinasse24, non è solo

un dovere dettato dalla pietà di una regina vedova per lo sposo premorto, ma ha un significato politico preciso: riunire simbolicamente Lotario e gli Ottoni significa sottolineare la legittimità del passaggio della corona italica dal primo ai secondi, mediata fisicamente dalla stessa fondatrice, Adelaide. Una legittimità tanto più sottolineata quanto più funzionale all’oblio della paren-tesi berengariana. I monaci sono dunque i custodi di una “memoria regia” e di un’identità politica precisa che pone in evidenza il legittimo radicamento della famiglia imperiale in Italia e con ciò fornisce un’interpretazione specifi-ca del ruolo di Adelaide, legittima moglie e regina di Lotario e di Ottone.

In questo quadro identitario, memoriale e politico più che strettamente giuridico andrà allora collocata la presenza degli originali dei dotari nell’ar-chivio di San Salvatore: essi sono i documenti che sanciscono l’assunzione di Adelaide nella famiglia regia italica da parte di re Ugo (937). La costituzione del dotarium è il documento che per eccellenza definisce la ricevente come

legitima uxor e quindi regina legittima25. Salvo che la presenza dei due

docu-menti nell’archivio del Salvatore fornirà in seguito ai monaci la base per ampie rivendicazioni patrimoniali.

2.1. Due carte gemelle per un doppio matrimonio

Non sappiamo dunque né quale sia stata la disponibilità di Adelaide sui beni del dotario né l’eventuale uso che essa ne fece tra il momento del fidanzamento nel 937 (quando la futura imperatrice aveva solo sette anni26) e la fondazione del

monastero all’inizio degli anni Settanta; né quale fosse stata la sorte di tutti i beni che non appaiono nella conferma concessa da Ottone III nel 1000. Non sappia-mo nemmeno se l’imperatrice avesse qualche diritto sui beni del dotario di sua madre Berta o se l’unica curtis che pervenne in seguito al monastero del Salvatore vi fosse giunta solo dopo essere riconfluita nel fisco regio27.

24Non è però dipendenza cluniacense: è una fondazione pienamente ottoniana, regia: Forzatti

Golia, Strutture ecclesiastiche e vita religiosa cit., p. 56.

25R. Le Jan, douaires et pouvoirs des reines en France et en Germanie (VIe-Xesiècle), in Dots et

Douaires dans le haut Moyen Âge, a cura di F. Bougard, L. Feller, R. Le Jan, Paris-Rome 2002 (Collection de l’École française de Rome, 295), pp. 457-497, in particolare p. 462.

26G. Arnaldi, Adelaide, in DBI, I, Roma 1960, pp. 246-249.

27Se ciò fosse vero dovremmo immaginare che sia stato Ottone I a donarla al Salvatore,

proba-bilmente in un diploma parallelo alla fondazione del monastero da parte della sua consorte, documento che egualmente non possediamo, ma la cui esistenza possiamo come accennato con-getturare in base alla conferma interpolata di Ottone II che cita appunto un precedente simile atto emanato dal padre.

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Se la gestione da parte di Adelaide28dei beni che le erano stati conferiti

rimane per noi insondabile (a prescindere dall’età della regina), i due diplo-mi, conservati nelle loro pergamene originali, costituiscono tuttavia una testimonianza unitaria e significativa della politica di chi li ha promulgati e cioè di re Ugo di Provenza: scopo di questo studio è l’analisi della strategia attuata da re Ugo nel costituire quelle dotazioni alla fine del 93729.

I due dotari gemelli sono, come detto, datati lo stesso giorno, il 12 dicem-bre, dallo stesso luogo, la «curtis quae Columbaris dicitur», l’odierna Colombier sul lago Lemano. In quel giorno e in quel luogo doveva essersi celebrato un doppio fidanzamento regio: Ugo, re d’Italia, si sarebbe unito a Berta, regina di Borgogna e vedova del suo antico nemico, Rodolfo II. Lotario II, associato al trono paterno fin dalla più tenera età e che, al tempo, doveva avere tra gli otto e i dieci anni30, si sarebbe unito alla figlia di Berta, Adelaide,

che come detto di anni non doveva averne più di sette.

Il doppio fidanzamento doveva rappresentare l’esito delle trattative tra italici e borgognoni seguite a quello che potremmo definire un blitz di Ugo: Rodolfo II era morto in settembre e il re d’Italia aveva fatto in modo di pre-cedere il rivale Ottone nella corsa per imporre la propria tutela alla famiglia regia e, insieme, al regno di Borgogna. Sappiamo che Ugo a inizio ottobre si trovava ancora tra Lazio e Toscana sulla via del ritorno dalla sua terza sfor-tunata spedizione romana, che l’aveva visto scendere a patti con il rivale Alberico II grazie alla mediazione di Oddone di Cluny. Il 5 ottobre infatti, nella località non identificata «ad pontem Andria»31, il re rilasciava un

diplo-ma di conferdiplo-ma dei beni dell’antica abbazia regia di San Salvatore in Monte Amiata32. La decisione di affrontare i passi alpini per raggiungere la vedova

del suo avversario all’inizio della stagione invernale è indizio eloquente sul-l’importanza che l’operazione matrimoniale doveva avere per Ugo.

28Probabilmente trascurabile il ruolo di sua madre Berta che lasciò Pavia già pochi mesi dopo la

celebrazione del matrimonio. Si veda Berta di Svevia, in DBI, 9, Roma 1967, pp. 429-431; Liudprandus Cremonensis, Antapodosis, in Liutprandus Cremonensis, Opera omnia, a cura di P. Chiesa, Turnhout 1998 (Corpus Christianorum, Continuatio Mediaevalis, CLVI), pp. 3-150, lib. IV, c. 14, p. 105.

29Per l’opportunità dell’analisi di singoli diplomi dei re tardo e post-carolingi, e tra di essi in

par-ticolare di quelli emessi da re Ugo, come strumenti di azione politica a tutti i livelli, non solo da un punto di vista “strategico-patrimoniale”, ma anche come veicoli di comunicazione simbolica del potere si veda F. Bougard, Charles le Chauve, Bérenger, Hugues de Provence: action politi-que et production documentaire dans les diplômes à destination de l’Italie, in Zwischen Pragmatik und Performanz. Dimensionen mittelalterlicher Schriftkultur, Turnhout 2011, pp. 57-84, cui si rimanda anche per la bibliografia relativa a questo approccio interpretativo.

30M. Marrocchi, Lotario II, in DBI, 66, Roma 2005, pp. 177-179; M. Parisse, Adélaïde de

Bourgogne, reine d’Italie et de Germanie, impératrice (931-999), in Adélaïde de Bourgogne. Genèse et représentations d’une saintété impériale. Actes du colloque international du Centre d’études Médiévales - UMR 5595 (Auxerre, 10 et 11 décembre 1999), Dijon 2002, pp. 11-26.

31Forse vicino a Sollicciano, Firenze, si veda L. Schiaparelli, Ricerche storico-diplomatiche,

parte V: i diplomi di Ugo e Lotario, in «Bullettino dell’Istituto storico Italiano», 34 (1914), p. 34.

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Il re non intendeva solo prevalere nel confronto con gli altri regnanti post-carolingi e scongiurare il controllo sassone della Borgogna che si sareb-be rivelato fatale per la sua sopravvivenza. La posta in gioco era anche un possibile ritorno al controllo della Provenza, l’area da cui era partito il suo percorso politico e alla quale aveva dovuto rinunciare pochi anni prima: dopo l’iniziale scontro Rodolfo II e il re italico si erano accordati in una sorta di patto di non aggressione e di spartizione di sfere d’influenza: il re di Borgogna avrebbe rinunciato alle sue mire sulla corona italica e Ugo avreb-be lasciato che il rivale estendesse il suo potere sulla Provenza. Ora si pre-sentava a Ugo la possibilità di tornare a imporre la sua autorità sulle sue terre di origine33.

L’esito positivo di questo colpo di mano aveva dunque portato al doppio fidanzamento regio e con esso alla simultanea redazione dei nostri documen-ti. I due diplomi oltre alla datazione topica e cronica condividono anche un identico formulario e appaiono scritti contestualmente da due differenti mani. Il dotario di Berta è stilato nel suo testo da un primo, ignoto, notaio ed è quin-di riconosciuto da una seconda mano, con tutta probabilità quella del notaio Giseprando34. Lo stesso Giseprando, detto Gezo, personaggio ben noto della

cancelleria di Ugo, notarius e cappellanus regio che giungerà nel 938 alla cari-ca di cari-cancellarius35, dopo aver riconosciuto il primo documento ha proceduto

all’estensione del dotario di Adelaide, scritto per intero dalla sua mano. La chiara appartenenza del secondo notaio alla cancelleria italica potreb-be indurci a pensare, data la natura pattizia dell’accordo prematrimoniale, che il primo scrivente fosse invece uomo dei borgognoni. Non abbiamo tutta-via certezze al riguardo: la sua mano ricomparirebbe undici anni più tardi in un documento con cui Aleramo ottenne da Lotario II alcuni beni per il pro-prio fidelis Varemondo36.

33Sul patto tra Ugo e Rodolfo II e in generale sul rapporto del primo con il regno di Borgogna si

veda: G. Sergi, Istituzioni politiche e società nel regno di Borgogna, in Il secolo di ferro: mito e realtà del secolo X, Atti della XXXVIII Settimana internazionale di studi del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 19-25 aprile 1990, Spoleto 1991, pp. 205-242; G. Sergi, I confi-ni del potere. Marche e signorie fra due regconfi-ni medioevali, Torino 1995, pp. 305-306 e nota 40; G. Castelnuovo, Un regno, un viaggio, una principessa: l’imperatrice Adelaide e il regno di Borgogna, in Le storie e la memoria, scritti in onore di Arnold Esch, a cura di R. Delle Donne e A. Zorzi, Firenze 2002 (anche in <www.ebook.retimedievali.it>), pp. 215-234. C.B. Bouchard, Burgundy and Provence (879-1032), in New Cambridge Medieval History, III, a cura di T. Reuter, Cambridge 1999, pp. 328-345.

34DD U L, pp. 139 e 142; Schiaparelli, Ricerche storico-diplomatiche cit., pp. 39-40.

35I. Scaravelli, Giseprando, in DBI, 56, Roma 2001, pp. 617-619. Giseprando ottenne la cattedra

episcopale di Tortona tra fine marzo e inizio aprile del 945: chiaro indizio del suo tradimento di re Ugo e di un suo ruolo nel colpo di mano che portò alla deposizione di Ugo e all’assunzione della carica di summus consiliarius da parte di Berengario esattamente in quei giorni. Negli anni Cinquanta Giseprando ottenne anche il controllo dell’abbazia di San Colombano di Bobbio.

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2.2. Adelaide o Guilla?

Prima di affrontare il contenuto dei documenti è necessario rendere conto di un errore che Giseprando ha commesso nella stesura del dotario di Adelaide, un errore che ci pone un enigma di difficile soluzione: il notaio ha sbagliato il nome della promessa sposa. In tutto il documento infatti il nome di Adelaide è scritto su rasura di un precedente «Uuilla»37. Come spiegare un

simile errore, ammesso che di errore si tratti?

Sia la rilevanza e la conseguente ufficialità del documento, sia la natura stessa dell’atto, di cui la ricevente è protagonista, rendono in effetti poco cre-dibile l’ipotesi di trovarci di fronte a una mera svista del notaio. Dovremmo allora immaginare che il diploma prevedesse originariamente un’ignota Guilla come ricevente? E che quindi fosse stato preparato per un fidanza-mento pianificato precedentemente per Lotario e magari mandato a monte dall’occasione unica offerta a Ugo dalla morte di Rodolfo II, e dalla conse-guente possibilità di unire il figlio ad Adelaide?38

Quest’ultima ipotesi è evidentemente da escludere: non solo perché diffi-cilmente la cancelleria regia italica avrebbe riciclato per Adelaide una perga-mena già confezionata, limitandosi a sostituire il nome della promessa sposa e non solo perché la natura di “dittico” che caratterizza, come cercheremo di dimostrare, i due dotari rende improbabile e di difficile comprensione l’estensione dell’uno separatamente dall’altro. Ciò che impedisce di immagi-nare che la pergamena fosse stata preparata per un ipotetico precedente matrimonio del figlio del re è la semplice constatazione che la ricevente della stesura originale, Guilla, è detta «filia divae memoriae Rodulfi regis»: al momento della sostituzione del suo nome con quello di Adelaide questa parte del testo non necessitò di alcuna correzione. Ciò limita il campo delle ipotesi a due alternative.

37DD U L, pp. 139 e 142.

38Conosciamo in effetti due aristocratiche attive nel regno italico in quegli anni, entrambe

cugi-ne prime di Adelaide, che portavano il nome di Guilla (si veda lo schema gecugi-nealogico allegato). La prima era però decisamente più anziana di Lotario e, ciò che più conta, sua consanguinea: era nata dall’unione di Bosone, fratello di Ugo e quindi zio del giovane re, con un’altra Guilla, sorel-la di Rodolfo II; verso il 931 era andata in sposa a Berengario II. Poco dopo sorel-la stesura dei nostri dotari sarebbe dovuta scappare in Baviera al seguito del marito. La seconda Guilla era invece nata dall’unione di Gualdrada, anch’essa sorella di Rodolfo II, con il più fedele seguace italico del re borgognone, l’hucpoldingio Bonifacio. Era figlia quindi di un nemico di Ugo, Bonifacio, che nel 929 il re aveva estromesso dalla carica marchionale di Spoleto. A metà degli anni Quaranta il matrimonio di Uberto, l’altro figlio di re Ugo, con questa seconda Guilla ne sancirà il tradi-mento perpetrato nei confronti del padre: G. Vignodelli, Il Filo a piombo. Il Perpendiculum di Attone di Vercelli e la storia politica del regno italico, Spoleto 2011 (Istituzioni e società, 16), pp. 113-114, 221-222, 230. M. Nobili, Le famiglie marchionali nella Tuscia, in I ceti dirigenti in Toscana in età precomunale, Atti del I convegno (Firenze, 2 dicembre 1978), Pisa 1981, pp. 79-105, in particolare p. 97, ora riedito in M. Nobili, Gli Obertenghi e altri saggi, Spoleto 2006, pp. 125-149. Si veda anche la riproduzione di una delle correzioni in calce al testo.

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La prima, un’ipotesi indimostrabile e che come tale va intesa, è che il 12 dicembre 937 Lotario sia stato effettivamente fidanzato a Guilla e non ad Adelaide. Questa Guilla dovrebbe essere una sorella maggiore della futura imperatrice, promessa al giovanissimo re nel 937 ma morta prima di convo-lare alle nozze, che si sarebbero dovute svolgere al più presto due anni dopo. Guilla è in effetti l’altro nome ricorrente delle donne rodolfingie e ben si atta-glierebbe a una primogenita del re di Borgogna39. Adelaide, trasferita a Pavia

insieme alla madre e alla sorella, avrebbe allora preso il posto di questa dopo la sua morte, e a quel punto la cancelleria italica avrebbe corretto il nome nel dotario.

Un dato che potrebbe in qualche misura avvalorare questa ipotesi è la giovanissima età di Adelaide nel 937: la legislazione carolingia vietava l’unio-ne matrimoniale ai minori di 12 anni, e contemporal’unio-neamente sanciva che le promesse di fidanzamento non potessero avere durata superiore ai 2 anni, impedendo quindi il fidanzamento ai minori di 10 anni40. Come ricordato

Adelaide nel 937 di anni non ne aveva più di 741.

La seconda ipotesi che possiamo formulare riguardo alle correzioni è che i documenti fossero stati preparati prima di giungere in Borgogna e che

l’en-tourage di Ugo ritenesse erroneamente che la giovanissima figlia del

defun-to Rodolfo II si chiamasse appundefun-to Guilla, un nome, come detdefun-to, del tutdefun-to plausibile per una bambina rodolfingia. Una volta giunti a destinazione, pale-satosi l’errore, Giseprando sarebbe intervenuto sul documento contestual-mente all’apposizione di recognitio e datatio, correggendo il nome della 39Il nome Guilla entrò nello stock onomastico rodolfingio dal matrimonio di Rodolfo I, nonno di

Adelaide, con Guilla, forse figlia di Bosone I di Vienne, e quindi sorella di Ludovico III il Cieco, che divenne la prima regina rodolfingia. Sull’onomastica delle donne rodolfingie e in particolare sulla ricorrenza del nome Guilla e Adelaide si veda: R. Le Jan, Adelhaidis: le nom au premier millénaire. Formation, origine, dynamique, in Adélaïde de Bourgogne. Genèse et représenta-tions d’une saintété impériale cit., pp. 29-42 e in particolare p. 33.

40Le leggi germaniche non prevedevano (ad eccezione del diritto longobardo) un’età minima per

i matrimoni. Il Concilio del Friuli (796-797) aveva però stabilito che esso non si potesse celebra-re infra aetatem, cioè prima dell’acquisizione da parte del soggetto della capacità di agicelebra-re legal-mente, e cioè secondo la legge salica (come secondo quella longobarda) prima dei dodici anni. Il canone del concilio del Friuli era stato poi recepito nei capitolari carolingi: Capitula e concilio-rium canonibus collecta, in Capitularia regum Francorum, I, a cura di A. Boretius, Hannover 1883, cap. 1, p. 232; Concilium Forojuliense, PL, 99, coll. 283-242, in particolare c. 9, coll. 298-299. Capitula legi salicae addita, in Pactus legis Salicae, MGH, Leges nationum germanica-rum, IV/1, a cura di K.A. Eckhardt, Hannover 1962, pp. 237-275, cap. 5, p. 262; Liutprandus, Leges de anno XII, in Leges Liutprandi, in MGH, Leges, IV, Hannover 1868, pp. 96-182, cap. 58, p. 130; V.A. Giraudo, L’impedimento di età nel matrimonio canonico (can. 1083). Evoluzione storica e analisi delle problematiche attuali della dottrina e della prassi, Roma 2007, pp. 42-58. Si veda F. Schupfer, Il diritto privato dei popoli germanici con speciale riguardo all’Italia, II, Roma 1914, p. 282.

41Se la forza coercitiva di queste norme andasse presa alla lettera ne conseguirebbe che anche

Lotario II in quello stesso 937 aveva già compiuto i dieci anni di età. Se ciò fosse vero bisogne-rebbe retrodatare la sua nascita di qualche mese rispetto al periodo proposto dalla storiografia (928-930). Si veda M. Marrocchi, Lotario II, in DBI, 66, Roma 2005, pp. 177-179.

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destinataria. Se accettiamo questa seconda ipotesi l’errore del notaio ci per-metterebbe di dedurre che le due carte erano state preparate interamente nel regno italico, privando i Borgognoni di qualunque possibilità di contrattazio-ne: a maggior ragione la scelta dei beni da elargire e l’ideazione della strate-gia politica sottostante a quella scelta sarebbero da ascrivere esclusivamente al re italico.

Che la promessa sposa di suo figlio si chiamasse Adelaide o Guilla, le intenzioni di Ugo nel formare il dotario che le avrebbe assegnato parallela-mente a quello che riservava per Berta, appaiono chiare non appena i beni che li compongono vengono messi su una carta. La distribuzione geografica e la natura dei beni contenuti nei due documenti rendono infatti evidente il carattere di “dittico” delle due dotazioni: come tale proponiamo di leggerli, seguendo parallelamente l’ordine delle concessioni nelle due pergamene42.

3.1. A nord degli Appennini: il cuore del regno

In entrambi i dotari la prima tranche di beni è costituita da grandi curtes fiscali situate intorno a Pavia, nel cuore del regnum43. Ecco la dotazione di

Berta:

Quapropter omnium fidelium sanctae Dei Aecclesiae nostrorumque presentium ac futurorum industria noverit, qualiter prefate Berte reginae sponsae meae quasdam cortes iuris nostri44, cortem scilicet de Senna et cortem de Gaumundio cortemque de Setiaco et castellum de Rivo Torto atque cortem de Urba cum omnibus earum perti-nentiis, quae plus quam mille mansos habere videntur45.

L’elencazione prende inizio dalla curtis più orientale, «Senna», da iden-tificare con l’odierna Senna Lodigiana, posta alla confluenza del Lambro nel Po46. La «curtis Senna» (o più raramente «Sinna») era stata una delle tappe

degli itinerari regi dalla metà del secolo IX: definita «palatium regium» dalla cancelleria di Ludovico II nell’85247, venne poi frequentata da Arnolfo

42Si veda la mappa Berta e Adelaide: quadro d’insieme. Nella mappa i beni sono numerati

secondo l’ordine in cui vengono elencati nei rispettivi diplomi.

43Si veda la mappa Berta e Adelaide: il cuore del regnum. 44Per il significato dell’espressione «iuris nostri» si veda infra. 45DD U L, n. 46, p. 140.

46P. Darmstädter, Das Reichsgut in der Lombardei und Piedmont (568-1250), Strassburg 1896,

p. 174; C. Brühl, Fodrum, Gistum, Servitium regis. Studien zu den wirtschaftlichen Grundlagen des Königtums in Frankenreich und in den fränkischen Nachfolgestaaten Deutschland, Frankreich und Italien vom 6. bis zur Mitte des 14. Jahrhunderts, Köln-Graz 1968, p. 414.

47DD L II, n. 10 (Senna Lodigiana, 3 dicembre 852), pp. 82-83. La definizione di «palatium» di

questa curtis come delle altre che incontreremo dovrà essere ricondotta agli usi cancellereschi piuttosto che alla concreta esistenza di una struttura palaziale: F. Bougard, Les palais royaux et impériaux de l’Italie carolingienne et ottonienne, in Palais royaux et princiers au Moyen Âge. Actes du colloque international tenu au Mans les 6, 7 et 8 octobre 1994, Le Mans 1996, pp. 181-196, anche in <www.biblioteca.retimedievali.it>.

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(896)48e da Berengario I (quattro attestazioni tra il 911 e il 917)49. Si

tratta-va dunque di una delle curtes magnae del fisco regio.

Il novero delle donazioni procede spostandosi a ovest e tracciando un cer-chio in senso anti-orario all’interno dell’area occupata dall’antica e ampia foresta regia dell’Orba, la «vastissima silva Urbis»50. I beni elencati

corri-spondono agli odierni Castellazzo Bormida («Gamundium»)51, Sezzadio

(«Setiacum»)52, Retorto («castellum de Rivo Torto»)53 e Casal Cermelli

(«Urba»)54, oggi tutti in provincia di Alessandria. La città, fondata in onore di

papa Alessandro III due secoli e mezzo più tardi, non esisteva ancora e al suo posto si estendeva un’ampia palude data dalla confluenza di Orba e Bormida nel Tanaro e di quest’ultimo nel Po. A monte della palude, in un’area corri-spondente al medio e basso corso dell’Orba, si trovava una delle più ampie concentrazioni di terre fiscali del regnum e, contemporaneamente, la più vicina alla capitale Pavia55. Questa circostanza aveva fatto della «silva Urbis»

la foresta regia per eccellenza fin dai tempi del regno longobardo: Paolo Diacono, che nell’Historia Langobardorum la cita più volte, fa risalire la fre-quentazione regia della silva a re Cuniperto56. La foresta aveva mantenuto la

sua natura di area fiscale compatta ed estesa e insieme la sua funzione vena-toria attraverso tutto il periodo carolingio e post-carolingio: solo una trenti-na d’anni prima dell’estensione delle nostre carte re Lamberto vi aveva perso la vita in un incidente di caccia57.

Le curtes principali della foresta regia erano Urba, anch’essa definita «palatium regium» e parte dell’itinerario di Ludovico II, e la sua gemella Marengo, che incontreremo tra poco. L’identificazione puntuale della «curtis 48DD Arn, n. 143 (Senna Lodigiana, 27 aprile 896), pp. 217-219.

49DD B I, n. 75 (Senna Lodigiana, 911), pp. 206-208, n. 99 (Senna Lodigiana, 26 luglio 915), pp.

259-262, n. 110 (Senna Lodigiana, 25 maggio 916), pp. 281-283, n. 115 (Senna Lodigiana, 27 ago-sto 917), pp. 296-299.

50Paolo Diacono, Storia dei Longobardi cit., lib. V, c. 39, pp. 288-292. Sulle cacce regie nella

selva di Orba si veda V. Fumagalli, Il regno italico, Torino 1978, p. 75; M. Montanari, La foresta come spazio economico e culturale, in Uomo e spazio nell’alto medioevo. Atti della L Settimana di studio (Spoleto, 4-8 aprile 2002), Spoleto 2003, pp. 326-327, in particolare p. 327.

51Darmstädter, Das Reichsgut cit., p. 245; Brühl, Fodrum, Gistum, Servitium regis cit., p. 427,

nota 384.

52Darmstädter, Das Reichsgut cit., p. 246; Brühl, Fodrum, Gistum, Servitium regis cit., p. 470,

nota 92.

53Darmstädter, Das Reichsgut cit., p. 245; Brühl, Fodrum, Gistum, Servitium regis cit., p. 627,

nota 241.

54Darmstädter, Das Reichsgut cit., p. 241. L’identificazione proposta da Darmstädter della

«cur-tis de Urba» con le attuali Silvano d’Orba o Rocca Grimalda è scorretta. Si veda infra, nota 56; Brühl, Fodrum, Gistum, Servitium regis cit., p. 402, nota 252.

55R. Pavoni, E. Podestà, La valle dell’Orba dalle origini alla nascita degli Stati regionali, Ovada

(Alessandria) 2008, pp. 49-62 e A.A. Settia, Viabilità e corti regie nell’Italia occidentale: Marengo e le “vie marenche”, in Itinerari medievali e identità europea, a cura di R. Greci, Bologna 1999, pp. 97-115.

56Paolo Diacono, Storia dei Longobardi cit., lib. V, c. 37, p. 284, lib. VI, c. 58, pp. 360-364. 57Liudprandus Cremonensis, Antapodosis cit., lib. I, cc. 40-42, pp. 27-29.

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de Urba» con l’attuale cascina La Torre a Casal Cermelli è stata condotta a partire dai documenti e quindi confermata dagli scavi archeologici58. Le altre

due curtes e il castello di Retorto che il nostro dotario affianca alla curtis

magna dell’Orba sono centri minori appartenenti allo stesso complesso

fisca-le, nati probabilmente per “filiazione” dai due nuclei principali a ragione del progressivo dissodamento della grande foresta59.

Se passiamo ora a considerare i beni donati ad Adelaide notiamo che l’elencazione prende inizio proprio da Marengo, la curtis gemella di «Urba»:

Quapropter omnium fidelium sanctae Dei Ecclesiae nostrorumque presentium ac futu-rorum industria noverit, qualiter prefatae Adeleidae sponsae meae qu[asdam] cortes iuris nostri, videlicet cortem de Marinco et cortem de Coriano, cortem quoque de Olonna cum omnibus eorum pertinentiis ad quas mille mansi pertinere cernuntur60.

Anche Marengo61 figura tra le grandi curtes fiscali frequentate già dai

sovrani carolingi e che meritano perciò l’epiteto cancelleresco di «palatium regium». Abbiamo l’attestazione di due soste per ciascuno degli imperatori Lotario I (825 e 837)62, Ludovico II (860 e 872)63e Lamberto (896 e 898)64,

che, come ricordato, proprio nei pressi di Marengo trovò la morte. Con l’ag-giunta della «corte de Marinco» i due dotari dunque sommano tutte le curtes fiscali conosciute nell’area della «silva Urbis».

La lista dei beni prosegue verso oriente, ritornando quindi verso Senna Lodigiana, la curtis da cui era partito il dotario di Berta: il nucleo successivo, «Coriano», è infatti da identificare con l’odierna Corana65, sulla sponda destra

del Po, nel punto della sua confluenza con il torrente Curone, circa a metà stra-58Bougard, Les palais royaux et impériaux cit., pp. 14-15; F. Bougard, La Torre (Frugarolo,

prov. di Alessandria). Relazione preliminare delle campagne di scavo 1989-1990, in «Archeologia medievale», 18 (1991), pp. 369-379; E. Bonasera, F. Bougard, M. Cortellazzo, La Torre (Frugarolo, prov. di Alessandria). Campagne 1991-1992, in «Archeologia medievale», 20 (1993), pp. 333-352; P. Guglielmotti, Un luogo, una famiglia e il loro “incontro”: Orba e i Trotti fino al secolo XV, in Le stanze di re Artù. Gli affreschi di Frugarolo e l’immaginario cavallere-sco nell’autunno del Medioevo, a cura di E. Castelnuovo, Milano 1999, pp. 25-43, anche in <www.biblioteca.retimedievali.it>; G. Pistarino, La corte dell’Orba dal Regno Italico al Comune di Alessandria, in «Studi medievali», ser. 3a, 1 (1960), 2, pp. 499-513.

59Settia, Viabilità e corti regie cit., pp. 106-107. 60DD U L, n. 47, pp. 143.

61La curtis corrisponde all’odierna Spinetta Marengo: Brühl, Fodrum, Gistum, Servitium regis

cit., p. 402. Darmstädter, Das Reichsgut cit., pp. 238-240.

62DD Lo I, n. 4 (Marengo, 14 febbraio 825), pp. 60-62 e n. 35 (Marengo, 15 dicembre 837), pp.

112-115.

63DD L II, n. 31 (Marengo, 7 ottobre 860), pp. 127-132, n. 56 (Marengo, 6 gennaio 872) pp.

175-178.

64I Diplomi di Lamberto, a cura di L. Schiaparelli, in I diplomi di Guido e di Lamberto, Roma

1906 (Fonti per la Storia d’Italia, 36), n. 5 (Marengo, 25 luglio 896), pp. 80-85, n. 10 (Marengo, 2 settembre 898), pp. 94-96, n. 11 (Marengo, 30 settembre 898), pp. 96-98.

65Darmstädter, Das Reichsgut cit., pp. 196-197; Brühl, Fodrum, Gistum, Servitium regis cit., p.

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da quindi tra le corti dell’Orba e la capitale Pavia. Anche questa curtis era stata parte dell’itinerario di Ludovico II66, pur senza meritare l’appellativo di

pala-tium, nonostante non dovesse essere affatto un centro minore67. Nell’896

l’im-peratore Lamberto ne aveva fatto dono alla madre Ageltrude68, cosa che non

impedì a Berengario I di risiedervi e rilasciarvi due diplomi nel 91569. Né,

evi-dentemente, aveva impedito al bene di riconfluire nel fisco pubblico dopo la morte di Ageltrude, così da essere nella disponibilità di Ugo nel 937.

Dopo Coriano incontriamo «Olonna» cioè l’odierna Corteolona, sulla sponda sinistra del Po alla confluenza dell’Olona70. Abbiamo dunque

oltre-passato Pavia: la corte «Olonna» è posta esattamente a metà strada tra la capitale e la corte di Senna; le due curtes insieme formano due tappe, caden-zate ogni 15 chilometri circa, tra Pavia e Piacenza, lungo l’asse del Po. Infatti anche il grande nucleo curtense fiscale di «Olonna» aveva rappresentato una sosta molto frequentata negli itinerari regi carolingi: abbiamo per essa quat-tro attestazioni di Lotario I (825, 836 e 838)71, due di Ludovico II (856 e 874)

di cui si conservano sei diplomi rilasciati a Corteolona72, due di Carlo III il

Grosso (881 e 886)73, una di Ludovico III il Cieco (900)74 e quattro di

Berengario I (tra l’888 e il 920)75.

66DD L II, n. 69 (Corana, 8 dicembre 874), pp. 201-202. 67Bougard, Les palais royaux et impériaux cit., p. 5.

68I Diplomi di Lamberto cit., n. 4 (Pavia, 4 maggio 896), pp. 78-80.

69DD B I, n. 95 (Corana, 1 febbraio 915), pp. 250-252, n. 100 (Corana, 1 settembre 915), pp.

262-264. L’altra attestazione di questo luogo nei diplomi di Berengario (n. 15, «Coriano», 29 luglio 896, pp. 49-51) si riferisce evidentemente a un centro fiscale minore nel mantovano che portava quel nome: Lamberto si trovava in quei giorni a Marengo e aveva appena donato la corte di Corana alla madre. Si veda anche P. Guglielmotti, Ageltrude: dal ducato di Spoleto al cuore del regno italico, in questa sezione monografica.

70A. Riccardi, Le vicende, l’area e gli avanzi del regium palatium e della capella e monastero di

S. Anastasio dei re Longobardi, Carolingi e Re d’Italia nella corte regia ed imperiale di Corte Olona, Milano 1889; C. Calderini, Il palazzo di Liutprando a Corteolona, in Contributi dell’Istituto di archeologia dell’Università del Sacro Cuore di Milano, 5, a cura di M. Cagiano de Azevedo, Milano 1975, pp. 174-203. È Calderini ad aver dimostrato la corretta identificazione del centro curtense con l’attuale Cascina Castellaro presso Corteolona. Brühl, Fodrum, Gistum, Servitium regis cit., pp. 402, 404-406; Darmstädter, Das Reichsgut cit., p. 189.

71DD Lo I, n. 5 (Corteolona, 31 maggio 825), pp. 62-64, n. 29 (Corteolona, 10 agosto, 836), pp.

104-105, n. 36 (Corteolona, 4 febbraio 838); Hlotarii capitularia italica, a cura di A. Boretius, in MGH, Legum sectio II, Capitularia regum Francorum, 1, Hannover 1883, nn. 157-158 (823), pp. 316-320 e nn. 163-165 (825), pp. 326-331.

72DD L II, n. 18 (Corteolona, 5 marzo 856), pp. 100-102, nn. 64-68 (Cortolona, 1 settembre, 9 e

13 ottobre 874), pp. 191-200.

73DD K III nn. 36-37 (Corteolona, 14 e 27 aprile 881), pp. 62-64; Annales Fuldenses sive Annales

regni Francorum orientalis, a cura di F. Kurze, MGH, Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum separatim editi, 7, Hannover 1891, p. 114 (ad annum 886).

74L. Schiaparelli, I Diplomi di Ludovico III, in I Diplomi italiani di Ludovico III e di Rodolfo II

cit., n. 3 (Corteolona, 14 ottobre 900), pp. 8-10.

75DD B I, n. 3 (Corteolona, 7 maggio 888) pp. 13-25, n. 55 (Corteolona, 17 giugno 905), pp.

155-158, n. 85 (Corteolona, 9 agosto 912), pp. 226-230, nn. 124-125 (30 giugno e 1 luglio 920), pp. 322-328.

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L’analisi di questa prima tranche di beni dimostra in primo luogo che ci troviamo davanti a una doppia donazione di grandi dimensioni: l’insieme dei beni fin qui elencati supera i 2000 mansi. Le cinque curtes di Berta sono infatti quantificate complessivamente come «plus quam mille mansos haben-tes»; cui si sommano le tre di Adelaide, cui «cernuntur pertinere» mille mansi. Il dato quantitativo, tuttavia, non ci deve sorprendere: esso è in linea con quanto sappiamo dei dotari delle regine italiche precedenti76.

Quel che può invece sorprenderci è la qualità dei beni donati: non tanto perché tutte le curtes sono importanti centri fiscali o parte di essi, tutte di antica frequentazione regia e di grande estensione; quanto perché i beni donati corrispondono a tutte le curtes regie conosciute in un area che ha come centro Pavia, come asse il Po, come limite occidentale il grande com-plesso fiscale dell’Orba e come limite orientale Piacenza. Ugo dona alla sua nuova moglie e alla futura nuora l’intero sistema delle curtes regie situate nel cuore del regno; a Berta sono donate le due estremità del complesso dei beni, la dotazione di Adelaide completa con le tre curtes centrali. Oltre a dimostra-re la stdimostra-retta interconnessione delle due dotazioni, la loro natura di dittico77, le

donazioni rendono evidente come dietro alla costituzione dei dotari vada cer-cata una precisa strategia patrimoniale e quindi politica del re italico. 3.2. La costruzione dell’egemonia: il re contro i potentes italici

Negli anni Trenta del secolo X Ugo era finalmente riuscito a prevalere sulle aristocrazie italiche: fino a quel momento infatti i maggiori avversari del suo potere erano stati gli stessi marchiones che lo avevano chiamato a regna-re in Italia. Liquidati nella prima metà del decennio i suoi fratellastri, gli Adalbertingi di Tuscia, il re era riuscito a sventare il tentativo di Arnoldo di Baviera di sottrargli la corona (935); questa circostanza aveva permesso a Ugo di intervenire contro i potentes italici anche nel nord del regno. Ma non fu solo la congiura sventata (così come il precedente tentativo dei giudici pavesi Gualperto ed Everardo detto Gezo) a offrire al re la possibilità di imporre un ricambio nei ranghi delle aristocrazie: l’eliminazione dei vecchi

proceres italici e la loro sostituzione con nuovi aristocratici di origine

infe-76Le Jan, Douaires et pouvoirs des reines cit., pp. 471-472; T. Lazzari, Una mamma carolingia

e una moglie supponide: percorsi femminile di legittimazione e potere nel regno Italico, in C’era una volta un re. Aspetti e momenti della regalità, a cura di G. Isabella, Bologna 2005 (Dpm quaderni - Dottorato 3), pp. 41-57 (anche in <www.biblioteca.retimedievali.it>); P. Delogu, «Consors regni»: un problema carolingio, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», 76 (1964), pp. 47-98; C.G. Mor, «Consors regni»: la regina nel diritto pubblico italiano dei secc. IX-X, in «Archivio giuridico», 135 (1948), pp. 7-32. Si veda inoltre il contributo di R. Cimino, Angelberga: il monastero di San Sisto di Piacenza e il corso del fiume Po, in questa stessa sezione monografica.

77Che, come detto, renderebbe incomprensibile l’estensione del dotario di Adelaide

separata-mente da quello della madre: motivo in più per non ritenere che il documento fosse stato prepa-rato per un precedente fidanzamento con un’ipotetica Guilla.

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riore o esterna al regno è, come noto, la caratteristica principale della politi-ca di Ugo fin dagli anni Venti78.

Eliminati gli Adalbertingi era giunto il momento degli Anscarici: tra il 935 e l’anno dell’estensione dei nostri dotari il re era riuscito ad allontanare dal cuore del regno Anscario II, marchio di Ivrea di stirpe anscarica e insie-me nipote di Ugo79: il re vedeva in lui un grave pericolo per il proprio trono.

La “promozione” di Anscario II al titolo marchionale di Spoleto, oltre ad allontanare il potente marchio dalle basi territoriali della sua famiglia e dalla capitale Pavia, costituì il primo passo di una complessa macchinazione che permise a Ugo di far eliminare il nipote entro il 940. La morte del fratellastro convinse Berengario II, l’altro marchio anscarico, a lasciare l’Italia nell’anno successivo80.

Queste macchinazioni e insieme la lotta senza quartiere di re Ugo contro le aristocrazie italiche, e in primo luogo contro i suoi stessi parenti, ci sono descritte da Liutprando nell’Antapodosis81 e da Attone di Vercelli nel suo

Perpendiculum82. In questo scritto, redatto nella seconda metà degli anni

Cinquanta per convincere un ignoto destinatario che una nuova chiamata di Ottone di Sassonia in Italia avrebbe costituito un grave errore politico oltre che morale, Attone descrive in modo analitico le caratteristiche di un potere nato dall’usurpazione di un trono già occupato, modellando questo racconto sul regno di Ugo di Provenza83. Il vescovo di Vercelli pone l’accento

sull’ini-ziale mancanza di potere concreto di un re che è stato chiamato non per comandare ma per essere comandato, al quale, oltre a far difetto un patrimo-nio personale nel regno (l’eredità della madre Berta è in mano ai suoi fratel-lastri Adalbertingi e al nipote Anscario II), è precluso l’accesso ai beni fiscali per l’immediata infedeltà delle alte aristocrazie che gestiscono quei beni84.

78Per un quadro d’insieme sulla politica di Ugo nei confronti delle aristocrazie italiche e sulla

storiografia relativa si veda Vignodelli, Il Filo a piombo cit., pp. 69-90 e 203-230, e F. Bougard, Le royaume d’Italie (jusqu’aux Ottons), entre l’Empire et les réalités locales, in De la mer du Nord à la Méditerranée. Francia Media, une région au cœur de l’Europe (c. 840 - c. 1050). Actes du colloque international (Metz, Luxembourg, Trèves, 8-11 février 2006), Luxembourg 2011, pp. 487-510.

79Figlio di Adaberto di Ivrea che aveva sposato in seconde nozze Ermengarda, sorella di Ugo

(figlia di Berta di Tuscia e del suo primo marito Tebaldo di Arles). Dal primo matrimonio di Adalberto con Gisla, figlia di re Berengario I era nato Berengario II. Si veda lo schema genealo-gico.

80 P. Delogu, Berengario II, in DBI, 9, Roma 1967, pp. 26-35; Liudprandus Cremonensis,

Antapodosis cit., lib. V, c. 10, p. 128.

81Liudprandus Cremonensis, Antapodosis cit., lib. III, c. 47, pp. 92-93, lib. V, cc. 4-5, pp.

124-125. Si veda G. Gandino, Il vocabolario politico e sociale di Liutprando da Cremona, Roma 1995 (Nuovi studi storici, 27), pp. 208-210.

82 G. Goetz, Attonis qui fertur Polipticum quod appellatur Perpendiculum, Leipzig 1922

(Abhandlungen der sachsischen Akademie der Wissenschaften zu Leipzig. Philologisch-Historische Klasse, 37/2), pp. 3-70; Vignodelli, Il Filo a piombo cit., pp. 75-91 e 203-223.

83Ibidem, pp. 43-47 e 67-106. 84Ibidem, pp. 69-75.

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Tutto l’operato di Ugo fino agli anni Trenta è quindi presentato come un tentativo di appropriarsi con ogni mezzo dei beni pubblici e di quelli derivanti dall’eredità materna: Ugo è presentato da Attone come un grande accentra-tore di possessi, un accumulaaccentra-tore che non divide però ciò che ha conquistato se non con i propri più stretti famigliari, dimenticandosi di beneficiare chi lo ha aiutato a creare quel patrimonio.

L’iniziale debolezza di Ugo è un dato noto alla storiografia e ricordato, tra le altre fonti, anche dai Miracula Columbani, che raccontano come all’inizio del proprio regno il re non osasse agire direttamente contro i potentes che si erano impadroniti dei beni del monastero regio di San Colombano: «Rex potestative eam non valebat illis auferre; metuebat enim illos, ne si aliquid contra eorum voluntatem ageret, regni dampnum incurreret»85.

Ugo perciò dovette agire in modo indiretto: dopo aver preposto all’abba-zia Gerlanno, un uomo proveniente dal seguito della regina Alda, sua prima moglie (non un uomo del re quindi), fece organizzare il trasporto delle reli-quie di Colombano da Bobbio a Pavia, dove provocò un teatrale confronto sulle spoglie del santo con i potentes suoi avversari, che dovettero soccombe-re86. La trappola tesa da Ugo era stata resa possibile proprio dal patronato di

Alda sul monastero regio, opportunamente sottolineato dal re in modo da far apparire la translatio come un’iniziativa di Alda: è lei la protagonista del rac-conto dei Miracula Columbani, è lei a intraprendere l’azione che il re «pote-stative» non avrebbe potuto compiere e a promettere ai monaci la vittoria sui loro nemici87.

L’operato di Ugo in quell’occasione costituisce un ottimo esempio della sua politica. Con un’unica azione il re riesce a riottenere il controllo dei beni del monastero regio; riesce quindi anche a pervenire a una rinegoziazione (se non all’attribuzione ex novo) della ricchissima, e strategica, pars beneficiaria delle terre di San Colombano88. Al contempo Ugo sferra un colpo mortale a

85Miracula Sancti Columbani, a cura di H. Bresslau, MGH, Scriptores, 30-II, Hannover 1934,

pp. 993-1015, in particolare c. 8, pp. 1001-1002.

86Ibidem, c. 16, pp. 1005-1006 e c. 21, pp. 1007-1008; F. Bougard, La relique au procès: autour

des miracles de saint Colomban, in Le règlement des conflits au Moyen Âge. XXXIecongrès de la

Société des historiens médiévistes de l’enseignement supérieur public (Angers, mai 2000), Paris 2001, pp. 35-66, in particolare p. 40; F. Bougard, Entre Gandolfingi et Obertenghi: les comtes de Plaisance aux Xeet XIesiècles, in «Mélanges de l’École Française de Rome - Moyen Âge», 101

(1989), 1, pp. 11-66. Su Guido di Piacenza e i Gandolfingi si veda V. Fumagalli, Vescovi e conti nell’Emilia occidentale da Berengario I a Ottone I, in «Studi medievali», ser. 3a, 14 (1973), pp.

137-204, in particolare pp. 155-170; F. Bougard, Gandolfo, in DBI, 52, Roma 1999, pp. 183-184.

87F. Bougard, Gerlanno, in DBI, 53, Roma 1999, pp. 432-434; G.M. Cantarella, Rileggendo le

Vitae di Maiolo. Qualche nota, qualche ipotesi, in San Maiolo e le influenze cluniacensi nell’Italia del Nord, Pavia 1998, pp. 85-104.

88Riguardo alla pars beneficiaria delle terre di San Colombano si veda M. Nobili, Vassalli su

terra monastica tra re e “principi”: il caso di Bobbio (seconda metà del secolo X - inizi del seco-lo XI), in Structures féodales et féodalisme dans l’Occident méditerranéen (Xe-XIIIe siècles). Bilan et perspectives de recherches, Roma 1980, pp. 299-309, ora riedito in Nobili, Gli Obertenghi e altri saggi cit., pp. 113-124.

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Guido, vescovo di Piacenza e potentissimo consiliarius di Berengario I, che insieme con i suoi famigliari si era impadronito di quei beni: suo fratello Raginerio viene presto rimosso dalla carica di comes di Piacenza e rimpiaz-zato da Gandolfo. Anche quest’ultimo era originariamente un seguace di Berengario I, e alleato del vescovo Guido, ma aveva intuito l’opportunità di piegarsi al volere del nuovo re.

In questo quadro di concorrenza con le vecchie aristocrazie per il con-trollo dei beni pubblici, il significato della costituzione di due dotari con simi-li caratteristiche risulta quindi molto eloquente: il re riserva per sé, attraver-so la donazione alla propria conattraver-sorte, e, in prospettiva, salvaguarda per la futura coppia regia Lotario-Adelaide, l’insieme dei beni fiscali nel centro del proprio regno, in quello che tradizionalmente costituisce il cuore del

domai-ne royal italico89. Separare quei beni dalla gestione normale del fisco

pubbli-co, “blindandoli” nella costituzione dotale, oltre a garantirne probabilmente un controllo più stretto, può significare anche procedere a una rinegoziazio-ne della loro gestiorinegoziazio-ne, affidata a uomini di più stretta fiducia del re e, ciò che più conta, provenienti da uno strato inferiore delle aristocrazie. L’accentuazione della “verticalità” nella gestione degli honores e nei rapporti con le aristocrazie in generale è uno dei mezzi caratteristici della politica di Ugo. Tagliare fuori gli strati superiori dei potentes italici e rimpiazzarli con aristocratici di origini inferiori permette al re di contare su una schiera di seguaci di indubbia fedeltà e, soprattutto, facilita la possibilità di rimuoverli all’occorrenza.

L’intento di Ugo è dunque rinsaldare il controllo di quello che è tradizio-nalmente lo spazio privilegiato dell’azione regia, il cuore del regnum, orga-nizzato intorno a Pavia. Un altro tratto caratteristico del suo regno è la cen-tralità che assume la capitale e con essa il palatium fortificato che il re ha fatto erigere sulle macerie del precedente, devastato dall’incendio ungaro del 92490. Con Ugo l’amministrazione della giustizia e l’emissione dei diplomi si

fanno cittadini, e in primo luogo pavesi91. Se il fermo dominio di Pavia è

tra-dizionalmente il requisito necessario per l’esercizio dell’autorità regia in Italia, con Ugo la capitale rappresenta anche un caposaldo indispensabile per imporre il proprio potere sulla pianura padana, il cui controllo è spartito fra i proceres italici, e nella quale il re, proveniente dalla Tuscia, deve aprirsi a fatica un varco. Lo spazio disegnato dalle donazioni intorno a Pavia rappre-89Per l’idea di domaine royal nel regno italico corrispondente al centro della pianura padana si

veda F. Bougard, Italia e Francia: proposte per un confronto, in corso di stampa in Italia, 888-962, una svolta? Atti del IV seminario internazionale del centro interuniversitario per la storia e l’archeologia dell’alto Medioevo, Cassero di Poggio Imperiale, Poggibonsi, 4-6 dicembre 2009.

90Vignodelli, Il Filo a piombo cit., pp. 46-48. Si veda il primo placito tenuto nel «palatium

novi-ter aedificatum» da Ugo (935): C. Manaresi, I placiti del “Regnum Italiae”, Roma 1955 (Fonti per la storia d’Italia, 92), n. 133, p. 497.

91F. Bougard, La justice dans le royaume d’Italie aux IXe-Xesiècles, in La giustizia nell’alto

medioevo (secoli IX-XI). Atti della XLIV Settimana di studio (Spoleto, 11-17 aprile 1996), Spoleto 1997, pp. 133-176.

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senta certo il domaine royal di Ugo, ma è forse anche il solo spazio in cui il re possa agire liberamente: certamente è l’unico in cui Ugo non debba con-correre con i poteri marchionali.

Ciò appare ancora più chiaro se allarghiamo il nostro sguardo alle due

curtes magnae successive sull’asse tracciato dalle nostre donazioni:

«Auriola» a ovest e «Sexpilas» (Sospiro) a est92. Le due curtes costituiscono

le tappe successive degli itinerari regi ai due lati della nostra area, entrambe definite «palatia» dalle cancellerie italiche, entrambe del tutto comparabili con quelle contenute nei dotari, ma destinate a una fine diversa da quelle.

<inserire la mappa Berta e Adelaide: Auriola e Sospiro>

La curtis di «Auriola» nel comitato di Vercelli93era uscita

definitivamen-te dal fisco regio quattro anni prima quando Ugo, sotto petizione del condefinitivamen-te Ingelberto94, uno dei suoi uomini borgognoni, aveva deciso di donarla ad

Aleramo, definito «fidelis» del re e «comes»95. Cosa significa donare ad

Aleramo una curtis regia posta nel comitato vercellese?

Significa in primo luogo sottrarla al controllo dei marchiones di Ivrea, e cioè di Anscario II96. Non sappiamo con certezza di che comitato fosse comes

Aleramo, forse di quello di Acqui, forse di quello di Vercelli97. In ogni caso la

donazione implica una significativa diminuzione del potere marchionale anscarico che su entrambi quei comitati doveva estendere la propria autori-tà: se Aleramo non era in quel momento comes di Vercelli, né gestiva quel bene per qualche altra forma delegata, assegnarglielo ora da parte del re equi-valeva a sottrarlo al comitato vercellese cambiando gli equilibri di potere locali, senza che i marchiones di Ivrea potessero fare alcunché.

92Si veda la mappa Berta e Adelaide: Auriola e Sospiro.

93A.A. Settia, Nelle foreste del Re: le corti “Auriola”, “Gardina” e “Sulcia” dal IX al XII secolo, in

Vercelli nel secolo XII. Atti del quarto Congresso storico vercellese (Vercelli 18-20 ottobre 2002), Vercelli 2005, pp. 353-409, in particolare pp. 363-368, anche in <www.biblioteca,retimedievali.it>; Darmstädter, Das Reichsgut cit., p. 241, con collocazione della curtis sbagliata: per via dell’errata lettura di «comitatus aquensis» invece che «vercellensis» Darmstädter propone una località nei pressi di Rossiglione, sul torrente Stura affluente dell’Orba nella sua porzione ligure. L’identificazione precisa della località è ancora incerta, sappiamo però che si trovava tra i torrenti Lamporo e Stura (vercellese) e quindi a nord dell’odierna Trino Vercellese. Carlrichard Brühl segue Darmstädter: Brühl, Fodrum, Gistum, Servitium regis cit., p. 402. Ne trattano anche Bougard, Les palais royaux et impériaux cit., p. 14 e R. Merlone, Sviluppo e distribuzione del patrimonio alera-mico (secoli X e XI), in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», 90 (1992), 2, pp. 635-689, in particolare pp. 646-649. La curtis risulta frequentata da Lotario I (tre attestazioni) e Ludovico II (2 attestazioni): DD Lo I, n. 1 («Aureola curte», 18 Dicembre 822), pp. 51-52, n. 31 («curte Auriola», 27 gennaio 837), pp. 107-108, n. 40 («curte Auriola», 17 agosto 839), pp. 121-127. DD L II, n. 6 («curte Auriola», 3 ottobre 852), pp. 76-77, n. 13 («curte Auriola», 25 agosto 853), pp. 88-91.

94 E. Hlawitschka, Franken, Alamannen, Bayern und Burgunder in Oberitalien (774-962),

Freiburg im Breisgau 1960 (Forschungen zur oberrheinischen Landesgeschichte, 8), p. 208.

95DD U L, n. 35, pp. 107-108.

96Sergi, I confini del potere cit., pp. 162-163. Il comitato di Vercelli non solo rientrava nella

marca anscarica ma costituiva anche «una delle basi più solide» del potere dei marchiones di Ivrea.

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