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Processi geneticamente meno evoluti nelle abilità lessicali dei ragazzi

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Processi geneticamente meno evoluti nelle abilità lessicali dei ragazzi

Luigi Aprile

Dipartimento di Scienze dell’educazione e dei processi culturali e formativi Università di Firenze

Presentazione del problema e obiettivi della ricerca.

Lo sviluppo delle abilità lessicali è un tema centrale per capire l’evoluzione mentale dei bambini. Edward Lee Thorndike, considerato il padre della moderna psicologia dell’educazione, si è occupato dello sviluppo del vocabolario dei bambini a più riprese: nel 1921, nel 1932 e nel 1944. Nel corso delle sue attività di ricerca, ha pubblicato tre libri, “The Teacher’s word book”, che avevano lo scopo di aiutare gli insegnanti a individuare, rispettivamente, le 10.000, 20.000, 30.000 parole più frequenti, ampiamente utilizzate, nei materiali per la lettura di bambini. Thorndike attribuiva una notevole importanza a questo lavoro di informazione, rivolto in modo particolare agli insegnanti, sulle parole più diffuse, dal momento che riteneva la lettura uno strumento per sviluppare le capacità di ragionamento. “Thinking and reasoning” si intitola uno dei suoi contributi più celebri, nel quale mette in luce gli stretti rapporti tra lettura e le attività di pensiero e ragionamento. La conoscenza delle parole è quindi per Thorndike uno strumento indispensabile per potenziare abilità di pensiero. Utilizzare parole conosciute avrebbe reso più semplici e fluidi tali processi di ragionamento.

Tra i primi strumenti che correlano le abilità lessicali e lo sviluppo dell’intelligenza vi è il test costruito da Alfred Binet in collaborazione con Théodore Simon, che

costituirà la base dello strumento, poi perfezionato fino ad oggi, chiamato scala d’intelligenza Stanford-Binet. Da allora, i più importanti test di valutazione dell’intelligenza, come ad esempio le scale Wechsler (WPPSI, 1967, tr. it. 1969; WISC-R, 1974, tr. it. 1986; WAIS-IV-R, 2008) contengono prove di vocabolario. Jean Piaget è un altro grande studioso che si è occupato dello sviluppo delle abilità

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(1923), in quello dedicato a “La rappresentazione del mondo nel fanciullo” (1926) e anche in opere successive, tra le quali spicca quella focalizzata su “La formazione del simbolo nel bambino” (1945), il tema dello sviluppo delle abilità lessicali è basilare per comprendere l’evoluzione dell’intelligenza del bambino.

Tra i classici, Vygotskij (1934) ha dedicato ampie parti del suo capolavoro, “Pensiero e linguaggio”, al problema delle connessioni, problematiche e complesse, tra lessico e sviluppo mentale. Uno dei capitoli, ancora oggi denso e articolato, ricco di riflessioni e suggerimenti per chiunque si occupi dell’educazione e dello sviluppo dei bambini e di soggetti nell’arco di vita, si intitola “Pensiero e parola”.

Ma come si sviluppano le abilità lessicali? Relativamente di recente, in particolare dagli anni ’70 in poi, gli studiosi si sono concentrati specificamente su questo tema, fornendo contributi di ricerca empirici.

Le abilità lessicali, si è osservato, sviluppano da forme meno complesse,

geneticamente meno evolute, verso modalità che sono state definite “aristoteliche”, perché più aderenti al concetto adulto di definizione. Le fasi evolutive di tali

trasformazioni sono state particolarmente studiate nelle età comprese dai 2-3 ai 7-8 anni (Al-Issa, 1969; Anglin, 1970, 1977, 1985; McNeill, 1970; Ehri e Richardson, 1972; Litowitz, 1977; Bartlett, 1977; Hermann, 1978; Nelson, 1978; Clark, 1979; Arcaini, 1982; Arcuri e Girotto, 1986; Kuczaj e Barrett, 1986; Powell, 1986; Miller e Gildea, 1987; Benelli, 1989; Girotti, Antonietti e Marchetti, 1990; Benelli, Lucangeli e Belacchi, 2002; Benelli, Belacchi, Gini e Lucangeli, 2006; Belacchi e Benelli, 2007).

La letteratura specialistica evidenzia, riguardo all’acquisizione delle forme più avanzate e mature, come le abilità lessicali siano caratterizzate da fenomeni di

sinonimia, antonimia, organizzazione categoriale e funzionale, sia con riferimento al contesto frasale, sia a processi di acquisizione che non fanno riferimento ad esso.

Un’ampia rassegna critica delle ricerche sulla “sinonimia” è stata effettuata da Herrmann (1978). Questo autore riesce a mostrare che la ricerca rilevante su questo argomento è disseminata all’interno di molte aree disciplinari. L’analisi di questa

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forma cognitivo linguistica mette in luce molti più fattori di quanto siano stati ipotizzati dalla semantica tradizionale (Hermann, 1978, p. 491). Hermann ha

evidenziato cinque concezioni principali riguardo alla sinonimia. Non sempre tuttavia si è proceduto alle relative verifiche empiriche. Ad esempio mancano ricerche tese a verificare l’esistenza di sinonimi assoluti, cioè parole che hanno significati del tutto identici e intercambiabili in ogni contesto. Esistono conferme, invece, sulla

definizione della sinonimia secondo la teoria dei livelli di parziale sinonimicità e dei livelli di intercambiabilità. Secondo queste teorie, due o più termini sono sinonimi se sono sostituibili in tutte le frasi rilevanti. Nessuna conferma è stata invece ottenuta sull’ipotesi della base referenziale delle sinonimie. Due parole che abbiano lo stesso referente non si possono dire sinonimie l’una dell’altra. Ad esempio, “Presidente” e “nuotatore” possono indicare lo stesso referente, ma non sono per questo sinonimi, come nella frase “X attraversò la piscina della Casa Bianca”. In sintesi, l’ipotesi cui si è pervenuti è che la sinonimia varia lungo un continuum di similarità nel significato. Le ricerche si sono focalizzate proprio su questo aspetto, analizzando i giudizi di persone riguardo la similarità fra significati. Nelle indagini sui sinonimi si ricorre a tre procedure: indicare due sinonimi, produrre un sinonimo rispetto a una parola data, riconoscere il sinonimo fra una lista di parole. I soggetti sono invitati a valutare i significati delle parole lungo un continuum che va da quelli irrelati a quelli identici. Le loro risposte sono poi classificate utilizzando criteri stabili di similarità nel significato. I vari punteggi mostrano un’elevata concordanza fra i soggetti in

differenti sessioni sperimentali. “Quando una o due parole, in una coppia di sinonimi, possiede significati molteplici, la similarità è in qualche modo più bassa se la

sinonimicità implica un significato meno frequente di una o più parole nella coppia sinonimica” (Hermann, 1978, p. 495). Queste differenze nel grado di comprensione sinonimica risultano evidenti dalla misurazione dei tempi di latenza (tempo

necessario per rispondere) impiegato per stabilire se una coppia di parole siano o no sinonimi. Nei casi in cui siano studiati “significati dominanti” il tempo è minimo. La frequenza con la quale un sinonimo viene scelto riflette presumibilmente il grado di

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somiglianza che lo lega alla parola stimolo. La quantità di produzione sinonimica, in risposta a uno stimolo, tende a corrispondere alle stime di familiarità della parola. Quanto più una parola è familiare, tanto maggiore è il numero di sinonimi prodotti. Una serie di ricerche hanno cercato di portare un contributo al chiarimento delle abilità implicate nei giudizi di sinonimia. “Logicamente la sinonimia dovrebbe esprimere la più esatta relazione di significato; cioè due sinonimi dovrebbero sovrapporsi di più nel significato di altre coppie di parole che rappresentano altre relazioni semantiche” (Hermann, 1978, p. 505). L’analisi fattoriale di Hunt,

Lunneborg e Lewis (1975) ha mostrato una elevata saturazione dei test di sinonimi nel fattore di “ragionamento rapido” ed un peso sempre positivo, ma assai meno forte, dovuto alla facilità di recupero dei nomi dalla memoria semantica. Craik e Lockhart (1972) hanno evidenziato che il tempo necessario per capire la sinonimia è maggiore di quello occorrente per identificare l’identità sensoriale di due parole. Sulla base di questi dati, sembra che la comprensione dei sinonimi rifletta un tipo di elaborazione ben più complessa e profonda rispetto a quella necessaria per giudizi che si basano su informazioni e caratteristiche di tipo sensoriale. Le risposte

sinonimiche sono meno frequenti rispetto ad altri tipi di associazioni, come ad esempio le definizioni per categorizzazione. Gli individui apprendono i sinonimi secondo due modalità: osservando le parole nel loro contesto (sia esperienziale, o narrativo linguistico); o mediante istruzioni, ad esempio imparano che la parola x ha lo stesso significato della parola y. A questo riguardo, è possibile pensare che le parole apprese dal contesto richiedano differenti processi (x – contesto - y) rispetto a quelle imparate con l’istruzione che x è sinonimo di y. Saltz (1971) ha confrontato le due condizioni sperimentali, controllando il grado di accuratezza nel riconoscimento di sinonimi. I risultati da lui ottenuti non evidenziano differenze tra le due condizioni. In conclusione, i sinonimi offrono la possibilità di variazioni stilistiche e di

miglioramento nell’esposizione, eliminando effetti indesiderati nel lettore o ascoltatore (quali piattezza, noia, affaticamento) e migliorando la comprensione

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attraverso una più adeguata definizione delle idee, con una facilitazione della comunicazione.

Una ulteriore forma cognitivo linguistica attraverso la quale il vocabolario si sviluppa nelle sue espressioni più avanzate e mature è costituita dall’antonimia. A questo proposito, è stato evidenziato che mentre la sinonimia rappresenta relazioni tra parole basate sulla somiglianza dei significati, connessioni di tipo oppositivo si

rivelino estremamente più complesse (Nelson, 1985). L’antonimia esprime diverse modalità di contrasto, ognuna delle quali caratterizzata da specifiche dicotomie. Secondo Lyons (1977), l’opposizione binaria costituisce uno dei principi

fondamentali che governano la struttura di molte lingue. Sulla base delle indagini linguistico semantiche di Lyons, Powell (1986) evidenzia inoltre l’esistenza di un esteso numero di antonimi nel vocabolario che sembra scaturire da una generale tendenza, presente nelle culture occidentali, a polarizzare esperienze e giudizi in maniera da pensare per opposti. Un antonimo è costituito da una o più parole il cui significato può essere contrapposto a quello di altri termini. Il numero di antonimi è senz’altro inferiore rispetto ad altre relazioni semantiche. Questo sembra dipendere dal fatto che l’antonimia, che per definizione riduce il numero di scelte possibili, non è presente tra molte parole. L’espressione “antonimo”, coniata nel 1867, viene usata per indicare una parola il cui significato si oppone a quello di un’altra. La definizione offerta dal “Webster dictionary of synonyms” è la seguente: un antonimo è una parola opposta ad un’altra usata in modo tale da annullarne o negarne ogni implicazione. Secondo Nelson (1973), gli opposti possono essere classificati come “graduabili” (graduable) e “non graduabili” (ungraduable). I primi includono sempre un rapporto, mentre gli altri dividono l’universo del discorso in due sottoinsiemi complementari. Abbiamo ad esempio “maschio” (male) e “femmina” (female) che vengono

considerati opposti del secondo tipo, in quanto una persona non è più o meno

maschio o femmina: o lo è o non lo è. Invece “femminile” (femminine) e “maschile” (mascoline) sono termini del primo genere, in quanto una persona può essere più o meno maschile o più o meno femminile. Powell (1986) riporta tre tipi principali di

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opposizione fra parole. Il primo comprende termini “contraddittori” (complementari): tipo “scapolo” – “sposato”. Il secondo include termini “contrari”: ad esempio,

“salire” – “scendere”, parole che ammettono una certa gradualità. Il terzo indica parole che invertono o annullano il significato di altre: come ad esempio, “comprare” – “vendere”. Fra i diversi tipi di opposizione, i linguisti tendono a preferire il secondo tipo, come meglio rappresentativo della definizione di antonimia. Questa scelta sembra derivare dal fatto che i “contrari” permettono di procedere gradualizzando le definizioni dei concetti, consentendo operazioni di confronto. Un’altra classificazione propone due forme di definizione: antonimi polari e antonimi scalari. I primi

costituiscono un genere di categorizzazione che non ammette gradi intermedi, come ad esempio “marito” e “moglie”, si tratta di vocaboli dicotomici per cui ciascuno implica la negazione dell’altro. In tale insieme possono essere inclusi sia i termini “contraddittori” che quelli “reciproci”. Gli antonimi “scalari” ammettono invece una gradualità intermedia e sono spesso legati al processo di confronto, come ad esempio “bollente – caldo – tiepido – fresco – freddo”. I termini intermedi sono consentiti dall’esistenza di una “zona neutra” centrale, relativa alla dimensione del significato. La conoscenza dei limiti del significato permette che l’espansione del vocabolario sia precisa, accurata, stabile. L’opposizione distingue, aumenta la chiarezza, orienta la comprensione. Per quanto concerne l’efficacia degli antonimi in rapporto alla precisione dei processi di apprendimento, Grossman e Eagle (1970) hanno trovato che gli antonimi producono un numero più limitato di falsi riconoscimenti rispetto ai sinonimi e altri tipi di associazioni. Niemi, Vauras e von Wright (1980) hanno visto che la produzione di antonimi facilita una successiva produzione di sinonimi, mentre non si verifica il contrario. Gli antonimi si rivelano potenti generatori di categorie superordinate e attivatori semantici del campo generale di un concetto dato.

L’opposizione è stata usata in diversi contesti di ricerca. Osgood (1953) ha utilizzato ad esempio la relazione antonimica per costruire la tecnica del “differenziale

semantico” (tecnica di valutazione che consente di studiare i significati connotativi dei vocaboli). Mediate ricerche comparative di diverse modalità di risposta (sinonimi,

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parole ortograficamente simili, parole correlate a livello semantico), è emerso che gli antonimi producono un numero inferiore di risposte sbagliate. Risulta inoltre che gli antonimi permettono una migliore valutazione dell’accuratezza e della precisione delle risposte.

L’organizzazione categoriale è un’altra delle forme cognitivo linguistiche mediante le quali il vocabolario si accresce e sviluppa durante il corso del ciclo vitale. Le indagini che si sono focalizzate su questo aspetto hanno proposto la tesi del nucleo formale percettivo come fattore dominante e trainante l’evoluzione delle abilità lessicali. E’ una teoria che ha origine dalle indagini di Jerome S. Bruner sui processi di categorizzazione e che vede in Eve V. Clark una delle esponenti di spicco (1973, 1978, 1979, 1986, 2009). Secondo questo punto di vista, la mente è un sistema

orientato all’acquisizione di simboli verbali. Questi simboli verbali nei loro elementi di base sono “unità lessicali”. Un’unità lessicale non è necessariamente una parola appartenente al codice della lingua di cui fa parte il bambino. Esse possono essere sequenze di suoni del tutto inventate: ad esempio, “wawa” per “cane”, “tee” per “gatto”, “deda” per “nonno”, ecc. (vd. Clark, 1973, pp. 79-81). Il punto essenziale è però che queste unità lessicali – appartenenti o meno al codice della lingua –

significano, si riferiscono a oggetti molto diversi tra loro. In questo senso, lo sviluppo semantico consiste in un processo di selezione compiuto tra oggetti molto eterogenei, per delimitarne, precisarne meglio i confini al di qua e al di là dei quali si trovano queste cose nel linguaggio degli adulti. Detto in breve, la mente umana (almeno quella delle culture occidentali oggetto di queste indagini) fin dall’inizio dello

sviluppo semantico opera mediante “processi di categorizzazione”. Prima il bambino sembra assegnare ad ogni unità lessicale categorie molto ampie di cose, più vaste di quelle degli adulti. Poi i bambini sembrano delimitare, all’interno di queste categorie più ampie, categorie più ristrette, più selezionate, fino al momento in cui l’unità lessicale non arriva a significare la stessa categoria utilizzata dall’adulto. Lo sviluppo consiste, in tal modo, in successive fasi di categorizzazione che portano il bambino ad elaborare categorie sempre più selezionate. Più selezionate nel senso che queste

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categorie diventano identiche a quelle degli adulti. Questi processi si fondano sulle caratteristiche formali percettive delle cose. Il rapporto mente – mondo sembra quindi guidato dai processi di categorizzazione su una base percettiva. Per fare un esempio, come acquisisce il concetto di “mela” il bambino in base a questo punto di vista? Il bambino a un certo momento utilizza un’unità lessicale corrispondente a ciò che nel codice della sua lingua è detto “mela”. E’ possibile che prima di dire “mela”, dica, poniamo, “gnam”, ma questo non cambia l’evoluzione del processo di sviluppo. Per semplicità espositiva, ammettiamo che il bambino sappia dire “mela”. Se il bambino sa solo il termine “mela” può chiamare con questo nome cose come le “pere”, le “arance”, ecc. In questo caso, la parola “mela” categorizza molti – o tutti – i tipi di frutta. Questo fenomeno è definito “sovraestensione”, perché la categoria di oggetti ai quali la parola mela si riferisce è molto più ampia di quanto sia previsto nel codice della lingua, nel linguaggio degli adulti. C’è una espansione dei limiti denotativi della parola mela. Lo sviluppo in entrambi i casi, anche se ovviamente in direzioni

opposte, consiste nell’eliminare (aggiungere, nei casi di “sottoestensione” del

vocabolo) categorie di oggetti che in base a considerazioni di tipo formale percettivo non corrispondono più, adeguatamente, alla parola “mela”. Sono queste successive esperienze percettive a mettere il bambino nella condizione di scartare certe categorie di cose come “non-mela” da altre come “mela”. Questo processo si conclude quando il soggetto ha raggiunto gli standard richiesti nella sua lingua, nella sua cultura, nel linguaggio degli adulti, per usare in modo appropriato l’unità lessicale “mela”.

Accanto a questa tesi del nucleo formale percettivo, vi è anche la proposta, sempre originata dai lavori di Jerome S. Bruner, del “nucleo funzionale” elaborata compiutamente da Katherine Nelson (1974, 1978, 1985, 1986, 1989, 2007). Secondo questa prospettiva, il rapporto mente – mondo è la base fondamentale dello sviluppo. La mente è vista come qualcosa di unitario, anche se al suo interno si distinguono processi differenti tra loro. L’idea essenziale riguardo allo sviluppo concettuale e alla memoria semantica è che la mente è un sistema che “agisce” sul mondo. Essa tende a manipolarlo, a trasformarlo attraverso azioni. All’inizio queste azioni sono più

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semplici ed hanno un valore limitato nel grado di manipolazione: ad esempio, un neonato può compiere solo azioni riflesse come stringere le dita se qualcosa si viene a trovare nel palmo della mano, muovere le braccia, le gambe, scalciare, urlare,

succhiare, ecc. Tutte queste azioni servono, sono funzionali all’organismo per trasformare l’ambiente in base alle sue esigenze. Ma hanno anche la funzione complementare di produrre un adattamento dell’organismo alle condizioni

ambientali. E’ in questo contesto dinamico, interattivo, che la mente si sviluppa, ossia costruisce conoscenze sul mondo e, contemporaneamente, struttura, articola sempre meglio, coordina i processi che avvengono al suo interno. Questo significa che lo sviluppo del concetto di “mela”, poniamo, inizia molto tempo prima di capire a cosa ci si riferisce con la parola “mela”, o di essere capaci di dire “mela” per indicare un certo tipo di cose. Il concetto di “mela” si sviluppa in una fase prelinguistica, quando non si possono capire o produrre parole della propria lingua. Nel periodo precedente l’uso del linguaggio, il bambino mangia la mela. Anche se questo fatto all’inizio è soltanto un’azione: pappare la mela. Quando il bambino è in condizione di guardare la madre, ad esempio, mentre prepara la mela per fargliela mangiare, vede un certo tipo di oggetto che la mamma sbuccia, taglia, sminuzza, ecc. Poi osserva che questo preparato è messo in un recipiente – ad esempio, un piattino – dopo di che con un altro strumento gli viene presentato davanti alla bocca. A questo punto il bambino ripete l’azione di mangiare la mela. Situazioni di questo genere si ripetono

quotidianamente ed ogni volta il bambino vede prendere la mela in un certo luogo (ad esempio, più in cucina che nel bagno), vede che c’è qualcuno che la prende, la taglia e la prepara (ad esempio, la madre), sperimenta personalmente che la mela così trasformata finisce nella sua bocca per essere mangiata. In questo modo, il bambino apprende una serie di relazioni dinamiche e funzionali, rispettivamente: una relazione di luogo (locativo), una relazione di agente (attore) e una relazione di azione (azione). Naturalmente, queste routine quotidiane presentano alcune varianti. Ad esempio, nel caso della relazione di luogo, la mela può essere presa da una cesta sul tavolo di cucina, o da un vassoio su una mensola, ecc. Oppure, nel caso della relazione di

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agente, la mela può essere preparata dal padre anziché dalla madre. Inoltre, nel caso della relazione di azione, la mela può essere mangiata sul divano piuttosto che sul seggiolino, oppure può essere più dura del giorno prima, o più dolce, ecc. Tutte queste situazioni costituiscono delle varianti delle tre relazioni precedenti. Questo significa che esistono relazioni fondamentali che costituiscono il nucleo funzionale centrale (la mela si mangia – schema di azione principale), mentre altre sono

relazioni funzionali periferiche (la mela si trova nella cesta sul tavolo, ecc.). Queste informazioni sono disponibili al bambino insieme ad altre che riguardano la forma, il colore, ecc., dell’oggetto mela: ossia, le sue caratteristiche formali percettive che variano a seconda del tipo di mela (golden, stark, delizia, ecc.). Quando, intorno ai 12 mesi, il bambino apprende le prime parole, i concetti prelinguistici sono organizzati nuovamente e meglio precisati attraverso il linguaggio. Il concetto prelinguistico di mela, quando il bambino è in grado di capire o di produrre la parola “mela”, si arricchisce di ulteriori elementi. Per esempio, la parola “mela” è in rapporto ad altre come “frutta”, “cibo”, “buona”, ecc., che espandono il concetto di mela, attraverso informazioni del tipo: la mela è un frutto, la mela è buona, ecc. Inoltre il concetto di mela viene ad essere compreso in un sistema complesso: la memoria semantica o sistema semantico. Nella memoria semantica, la parola mela fa parte di ciò che è indicato dalla parola frutta: esiste una relazione gerarchica tra il concetto di mela e quello di frutta. Frutta indica una categoria di oggetti tra i quali ci sono anche le mele. La tesi del nucleo funzionale proposta da Katherine Nelson è stata sottoposta in questi anni a numerose verifiche teoriche ed empiriche. Queste indagini hanno accentuato i fattori contestuali e situazionali. L’apprendimento del concetto di mela non avviene tanto mediante ripetute esposizioni ad esperienze differenziate: la mela nella cesta sul tavolo, la mela della nonna, la mela tagliata, ecc. Le varie situazioni concrete e specifiche, invece, nelle quali il bambino si trova come attore, o spettatore, o entrambe queste possibilità, generano “rappresentazioni di eventi”, come specie di copioni o “script”. E’ proprio all’interno di queste rappresentazioni di eventi che si determinano quei “prodotti funzionali” tra le informazioni disponibili e dove si

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formano i “nuclei funzionali centrali” corrispondenti ai vari concetti. In questo quadro, le componenti sociali – con chi, dove e come parla, vive, ecc., il bambino – acquistano un notevole rilievo. Ad esempio, il fatto che il bambino possa vedere dove la mamma prende la mela, come la taglia e la prepara, come viene poi presentata davanti alla bocca per essere mangiata, ecc., diventano momenti di scambio

interattivo sociale tra il bambino e chi si prende cura di lui, che rivestono un valore essenziale nella rappresentazione degli eventi e quindi nello sviluppo del sistema concettuale e di quello semantico.

Fra queste modalità mature sono state anche studiate le “polisemie”, ossia parole che hanno più di un significato, come ad esempio “raggio della circonferenza, raggio del sole, raggi della ruota”, così come l’incidenza del contesto linguistico nella soluzione delle ambiguità semantiche. Queste indagini sono state effettuate

soprattutto per capire attraverso quali processi si verifica l’arricchimento del

vocabolario che, a 5-6 anni, è stato calcolato avere un ritmo di crescita medio di 10-13 parole al giorno, mentre alla fine delle superiori può raggiungere 40.000 vocaboli, fino agli 80.000 e anche 100.000 nei soggetti con cultura a livello universitario e post-universitario (Chall, 1987; Nagy e Herman, 1987; Sternberg, 1987; Miller e Gildea, 1987). Gli studi sul contesto frasale per la comprensione di una parola si sono distinti per due linee differenti. Una, è quella delle ricerche sull’utilizzazione del contesto per la comprensione delle parole nuove o sconosciute. L’altra, è quella delle indagini nelle quali viene esaminato il ruolo del contesto per la definizione di parole “conosciute”, ma ambigue o polisemiche. La capacità di definire il significato di una parola fittizia aiutandosi con le relazioni contestuali che essa presenta, è stata studiata in ragazzi tra gli 8 e i 13 anni (Werner e Kaplan, 1950, Petter, 1955). Da queste indagini emerge che l’utilizzazione del contesto per comprendere il significato di parole sconosciute si realizza anche a livello della fanciullezza, ma che suggerimenti del contesto frasale per stimolare lo sviluppo lessicale sono particolarmente attivi verso le età della scuola media. Per quanto riguarda l’altra linea di ricerca, quella focalizzata sull’importanza del contesto per individuare i significati alternativi delle

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parole conosciute, ha utilizzato moderne procedure “on line” (l’attività mentale e i comportamenti del soggetto sono registrati attraverso varie apparecchiature mentre esegue un dato compito) che permettessero di seguire lo svolgersi dei processi nel tempo reale del loro verificarsi (Swinney, 1979; Simpson, 1981; Tabossi, Johnson-Laird, 1980; Tabossi, Colombo, Job, 1987; Job e Rumiati, 1988). I risultati di queste ricerche sono congruenti con i risultati delle sperimentazioni di Werner e Kaplan (1950, 1952) e di Petter (1955) per cui risulta che i bambini sono attivi

nell’utilizzazione del contesto, ma lo fanno in maniera spesso inappropriata.

Sul piano dei processi geneticamente precedenti, oggetto specifico di questa ricerca, abbiamo osservato che è possibile documentare modalità che sembrano correlate con “meccanismi generatori” di parole e che le indagini presenti nella letteratura specialistica hanno trovato soprattutto nei primi periodi dell’infanzia. Queste modalità sono caratterizzate, ad esempio, da forme circolari. Litowitz (1977) parla di “vincoli predicativi” (predicate linking) caratteristica delle forme intermedie nei cinque livelli da lei descritti nello sviluppo delle strategie definitorie. Secondo questi dati, pare che il bambino passi dalla semplice risposta mediante gesti, quando ad esempio alla domanda che cos’è, cosa significa “morso” il soggetto risponde facendo un movimento mimico con la bocca, a risposte di tipo aristotelico, come nel caso di domande tipo cos’è, cosa significa “asino” a cui i bambini rispondono “è un animale”. I vincoli predicativi si collocano fra il secondo e il terzo livello. Nel livello 2 il bambino associa una o due parole alla parola stimolo (ad esempio, domanda: “scarpa” risposta: “calzino”). Nel livello 2/3 si ha una ripetizione della parola stimolo con un predicato o la costruzione di una associazione con perno sulla parola stimolo (domanda: “dondolare” risposta: “dondolarsi”, “una persona dondola su un

dondolo”). Fenomeni osservati anche da Arcaini (1982) che parla di “tautologie” sia senza che con espansione: domanda “coda” risposta “la coda di un gatto”, “è una coda fatta di pelo” (p. 89). Anche Brandi e Cordin (1986) hanno osservato questi fenomeni. Ad esempio, a domande come cosa significa “triste” si osservano risposte tipo: “sono triste quando succede qualcosa di brutto, come muore qualcuno”. O con la

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parola “paura” si rilevano risposte come: “paura del buio”. Un’altra modalità è

l’attribuzione di un significato sulla base di similitudini grafiche o fonetiche. Arcaini (1982) parla di attrazione fonetica, come ad esempio alla domanda su “uscio” si osservano risposte come “guscio”. Una terza modalità è costituita dagli effetti di vicinanza delle parole nella catena parlata, detti anche rapporti “sintagmatici” (de Saussure) o “rapporti di contiguità” (Jacobson). Una quarta modalità è il cosiddetto “valore d’immagine” di una parola. Asch e Nerlove (1960) hanno osservato come i bambini di 4-5 anni descrivono certi termini solo riferendosi ad oggetti fisici, ad esempio “una persona dolce” è così perché “le piacciono cose dolci”, o “la mamma è dolce perché cucina cose dolci”. Solo intorno a 7-8 anni, hanno trovato che i ragazzi sono capaci di comprendere anche i significati psicologici delle parole a “doppia funzione”, come nel caso di “brillante”, così dicono che “le persone brillanti sono simpatiche e allegre”. Un significativo contributo a queste indagini lo ha fornito Paivio (1971, 2006), con la teoria del “doppio codice”. Infine, una quinta modalità è costituita dalla “frequenza d’uso”, “significato dominante” delle parole. Nel modello di Morton (1979) le parole ad alto livello di frequenza costituiscono uno stimolo che facilita l’attivazione di un “rilevatore”, detto “logogen”, che agisce sulla base delle caratteristiche fisiche di una parola (cfr. anche Job e Rumiati, 1988, pp. 29-30).

Obiettivo di questa ricerca è mostrare che, accanto ai processi evolutivi più maturi, dalla terza alla quinta elementare, sono presenti queste modalità

geneticamente precedenti che utilizzano la stessa parola (“tautologie”), o termini simili graficamente e foneticamente (“vincoli grafo-fonemici”), o parole vicine (“effetti consecutivi”), o parole che richiamano “immagini” cui si riferiscono i termini da definire (“valore d’immagine”), o i significati più frequenti, anche se errati, delle parole da definire (“frequenza d’uso-significato dominante”). Dal momento che si tratta di “meccanismi generatori” di parole, in una fase evolutiva importante (Piaget, ad esempio, assegna a questo periodo l’inizio dell’evoluzione di quei meccanismi mentali che portano al passaggio dallo stadio delle operazioni logiche applicate a situazioni concrete a quello delle operazioni logiche applicate a

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situazioni formali o astratte) la nostra ipotesi è quindi che queste modalità

geneticamente meno evolute siano ancora presenti nei ragazzi dalla terza alla quinta elementare, non come forme episodiche e rare, ma in modalità sistematiche e

consistenti, anche se decrescenti nella misura in cui i soggetti progrediscono nello sviluppo.

Metodo

Soggetti

(inserire circa in questo punto la Tabella 1 – Composizione del campione di scuola elementare)

Procedure e materiali.

Il disegno sperimentale è stato articolato in due fasi. Nella prima, a 100 bambini (femmine e maschi) per ciascuna fascia di età, dalla terza alla quinta elementare, è stato chiesto di definire una lista di parole tratte da brevi brani di lettura selezionati da libri di testo della scuola elementare. Tali brani sono stati scelti anche in relazione a indici (sintetico e relativo a 8 dimensioni specifiche) forniti da un campione di insegnanti delle elementari, riguardo le loro opinioni, da esprimere lungo una scala da 0 a 10, circa la validità del brano in generale (indice sintetico) e a 8 dimensioni specifiche quali la comprensibilità e l’adeguatezza dal punto di vista emotivo, affettivo, degli interessi, della formazione morale, sociale, linguistica, estetica e scientifica. Sono stati utilizzati i brani (narrativi e descrittivi) che presentavano indici di gradimento superori all’80% per quanto riguarda la valutazione sintetica e

superiori a una media di pari livello per gli altri indici. A tali brani, è stato applicato anche l’indice di leggibilità di Flesch (DuBay, 2004), i cui valori sono risultati variare da 64 a 73. In questa prima fase, abbiamo osservato, oltre alle modalità più mature di cui abbiamo parlato sopra, anche forme cognitivo linguistiche meno evolute quali

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“tautologie”, “vincoli grafo-fonemici”, “effetti consecutivi”, “valori di immagine”, “frequenza d’uso – significato dominante” nelle risposte prodotte dai ragazzi alle domande sui significati delle parole presentate, mediante domande come: “Cosa significa x (le parole tratte dai brani)?” o “Che cos’è un x (le parole tratte dai

brani)?”. I soggetti erano invitati a fornire le risposte che ritenevano più opportune. Ai ragazzi, inoltre, era dato tutto il tempo che era loro necessario per produrre le loro risposte per iscritto. Per avere, tuttavia, la possibilità di verificare in modi più rigorosi l’ampiezza e consistenza di queste forme meno evolute, abbiamo proceduto ad elaborare delle prove con quattro risposte a scelta multipla, inserendo ovviamente tra le alternative errate tali forme meno evolute delle abilità lessicali manifestate. In questa seconda fase del disegno sperimentale, a partire dalle definizioni prodotte dai ragazzi, abbiamo costruito prove che poi abbiamo sottoposto ad item analysis, con il calcolo degli “indici di difficoltà”, “capacità discriminativa”, “indice di attendibilità”, mediante la formula di Kuder-Richardson. In questo modo, è stato possibile effettuare un’accurata selezione di item, metrologicamente validi, con i quali misurare le abilità lessicali dei ragazzi. Il test definitivo è arrivato a comporre 8 prove: prova 1, sinonimi non contestuali; prova 2, sinonimi contestuali; prova 3, antonimi non contestuali; prova 4, antonimi contestuali; prova 5, categorie non contestuali; prova 6, categorie contestuali; prova 7, funzionali non contestuali; prova 8, funzionali contestuali.

(inserire circa in questo punto le Tabelle 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9)

Risultati e discussione

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Per quanto riguarda le abilità cognitivo linguistiche più mature, quali sinonimi, antonimi, categoriali, funzionali, sia non che contestuali, i risultati ottenuti sono i seguenti.

(inserire circa in questo punto le Tabelle 10, 11 e 12)

L’item analysis ci ha dunque consentito di lavorare con prove metrologicamente valide. Per ogni item, è stato possibile calcolare gli indici di difficoltà, la sensibilità discriminativa e la plausibilità delle alternative proposte come distrattori. Per quanto riguarda gli indici di difficoltà, in particolare, abbiamo calcolato i valori ottenuti tenendo conto della correzione per scelte date a caso, sia senza tener conto di tale correzione.

Le prove hanno dimostrato che i valori che misurano le abilità più mature crescono nel passaggio dalla terza, alla quarta fino alla quinta elementare, come ipotizzato (vedi le tabelle 10, 11 e 12).

È stato però possibile evidenziare che, accanto a questo trend evolutivo per le abilità lessicali più mature, sono ancora presenti i processi geneticamente meno evoluti che abbiamo ipotizzato nelle abilità lessicali dei ragazzi dalla terza alla quinta elementare, come risulta dalla Tabella 13.

(inserire circa in questo punto la Tabella 13)

Come si può osservare, i valori tendono a decrescere dalla terza alla quinta elementare. Ma sono ancora presenti, oltre che in terza anche in quarta e fino alla quinta elementare, con valori consistenti.

A questo proposito, abbiamo verificato in che misura le risposte “errate” tautologiche, i vincoli grafo-fonemici, gli effetti consecutivi, i valore d’immagine, le frequenze d’uso-significato dominante, fossero modalità cognitivo linguistiche significative e diffuse. Abbiamo quindi fatto i confronti con i distrattori costituiti da

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risposte errate generiche che avevamo inserito nelle prove. I risultati ottenuti sono presentati nella Tabella 14.

(inserire circa in questo punto la Tabella 14)

Nella quasi totalità dei casi, in cui tale confronto è stato effettuato, i valori del t di Student calcolato sono risultati significativi, a dimostrazione del fatto che le forme cognitivo linguistiche geneticamente meno evolute da noi individuate sono processi consistenti rispetto alle risposte errate generiche.

Conclusioni

Alla luce di questi risultati, è possibile concludere che le abilità lessicali evolvono senz’altro nelle forme mature in cui si esprimono e manifestano nel ragazzo, quali le modalità cognitivo linguistiche della sinonimia, antonimia,

categorie, funzionalizzazioni, sia con riferimento al contesto che senza tale vincolo. Sul piano dei processi geneticamente meno evoluti che accompagnano tale sviluppo, sembra necessario tener conto di tali modalità nel favorire l’evoluzione delle abilità lessicali dei ragazzi.

Come si vede dai dati, anche se decrescono dalla terza alla quinta, si tratta di valori significativi che devono trovare una spiegazione plausibile nella ricerca futura.

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