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Citare per alludere. Gli incipit ciceroniani nelle Familiares di Petrarca

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Academic year: 2021

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Rivista annuale · A Yearly Journal

Direttore · Editor in chief Enrico Fenzi

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Rossend Arqués · Zygmunt Baranski · Anna Fontes Baratto · Johannes Bartuschat Francesco Bausi · Maria Cecilia Bertolani · Theodore Cachey · Guido Cappelli

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(3)

petrarchesca

Rivista internazionale

3 · 2015

PISA · ROMA

FABRIZIO SERRA EDITORE

(4)

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(5)

SOMMARIO

saggi

Enrico Fenzi, L’egloga «Divortium» di Francesco Petrarca (con un’ipotesi su Epyst. iii 27 e

28)

11

Marco Grimaldi, Petrarca e l’astrologia medica

43

Paolo Rigo, Nella culla delle visioni

: Petrarca profeta e alcuni decessi sospetti

57

Leonardo Francalanci, I “Trionfi con il commento di Bernardo Ilicino” o il “Commento

di Bernardo Ilicino ai

Trionfi”

? Alcune riflessioni metodologiche dalla periferia del canone

petrarchesco

75

Alessandro Turbil, Le fil rouge de la doulce mémoire

: pour une analyse du langage

amou-reux des plus anciennes traductions françaises du

Triumphus Cupidinis

89

rassegne

Ilaria Giacalone, De insigni obedientia et fide uxoria

: dieci anni di studi sulla Griselda di

Petrarca (2003-2013)

109

note e discussioni

Amedeo Benedetti, Adolfo Bartoli e Petrarca

125

laboratorio petrarchesco.

le familiari

: la familiaritas, i classici, le tipologie d’esordio

A cura di Andrea Balbo, Sabrina Stroppa

Carlotta Donna, La familiaritas nelle epistole a Giacomo Colonna

139

Anastasia Mellano, L’amicizia come promessa di eternità. Le lettere di Petrarca a fra

Gio-vanni Colonna

149

Alice Borgna, Citare per alludere. Gli incipit ciceroniani nelle Familiares di Petrarca

161

Micaela Scarafia, L’esordio della Familiaris xxiv 5 a Seneca

169

Vincenzo Del Core, Elementi di linguaggio giuridico nella Fam.

ix 8, tra uso tecnico e

connessioni intertestuali

175

Abstracts

179

(6)

CITARE PER ALLUDERE.

GLI INCIPIT CICERONIANI NELLE FAMILIARES

DI PETRARCA

Alice Borgna

S

e la presenza di Cicerone nell’epistolario di Petrarca è notevolissima,

1

lo stesso non si può

dire per lo spazio incipitario. Sebbene in molti passi possa essere in atto un procedimento

allusivo o parafrastico, anche senza la citazione esplicita,

2

in generale Petrarca preferisce non

aprire le sue lettere con parole non sue. Se per molti luoghi del corpo delle epistole si è parlato

di una citazione quasi automatica, un riuso di formule dovuto alla completa memorizzazione

di opere ciceroniane,

3

gli exordia sembrano essere meno soggetti a simili meccanismi

: per

que-sto motivo, dunque, meritano particolare attenzione i limitati casi in cui la lettera si apre con

un rimando esplicito. Scopo di questa nota è mostrare come tale scelta, in molti casi, riveli un

sottile lusus letterario, in cui le formulazioni ciceroniane mettono in atto un raffinato

procedi-mento allusivo.

Le Familiares che si aprono con una citazione di Cicerone sono una decina.

4

Eccettuate le

due lettere dell’ultimo libro, testi la cui ricchezza di rimandi non poteva che coinvolgere anche

l’exordium,

5

il gruppo delle epistole rivolte a destinatari reali è così composto

:

iv 14, 1 (cit. da Att. vi, 1, 12) a Sennuccio da Firenze v 19, 1 (cit. da Deiot. 11) a Clemente VI

vii 4, 1 (cit. da Att. vii 3, 10) a Giovanni Coci vii 7, 1 (cit. da Rep. vi 18, 18) a Cola di Rienzo

viiii 7, 1 (cit. da Quint. fr. i1, 3, 1) a Ludovico di Beringen xii 8, 1 (cit. da Tusc. v 26, 74) a Lapo da Castiglionchio6

1 Cfr. Francesco Petrarca, Le Familiari. Edizione critica per cura di V. Rossi, 4 voll, Firenze, Sansoni, 1934. La raccolta

dei passi ciceroniani occupa ben quattro pagine dell’indice: cfr. pp. 317-321. Seguono Virgilio (tre pagine, pp. 371-373) e

Seneca (due pagine, 362-363).

2 «Sarebbe ora da studiare la presenza di tante fonti classiche, ora esplicite ora dissimulate nella scrittura epistolare

petrarchesca (e non solo epistolare)»: è l’auspicio di Ugo Dotti in Francesco Petrarca, Le Familiari, Introduzione,

traduzione e note di Ugo Dotti, Libro i, Roma, Archivio Guido Izzi, 1991, p. xii. Più di recente si veda Laure

Hermand-Schebat, Pétrarque épistolier et Cicéron: étude d’une filiation, Paris, Pups, 2011, pp. 457-465, con bibliografia aggiornata.

3 Michelangelo Picone, Dentro la biblioteca di Petrarca, in La bibliothèque de Pétrarque. Livres et auteurs autour d’un

humaniste, a cura di Maurice Brock, Francesco Furlan, Franck La Brasca, Turnhout, Brepols, 2011, pp. 21-34: 31. Ben nove sono le opere di Cicerone collocate nella parte alta della lista dei libri mei peculiares, la celebre nota apposta sul foglio di guardia finale del ms. Paris, Bibliothèque Nationale, Lat. 2201. Tra queste spiccano le Tusculanae disputationes, uno dei testi più citati, che Petrarca amava tanto da possederne almeno quattro manoscritti, tra cui il celebre codice postillato Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, Vitt. Em. 1632. In merito si legga Picone, Dentro la biblioteca, cit., pp. 30-34, con ulteriore

bibliografia; Vincenzo Fera, I libri peculiares, «Quaderni petrarcheschi», xvii-xviii, 2007-2008, pp. 1077-1100, e Silvia

Rizzo, Il copista di un codice petrarchesco delle Tusculanae: filologia vs paleografia, in Atti del convegno “Palaeography, humanism

and manuscript illumination in Renaissance Italy: a conference in memory of A. C. de la Mare”, in corso di stampa (letto per cor-tesia dell’autrice). Per un bilancio delle opere di Cicerone possedute da Petrarca si veda ora Hermand-Schebat, Pétrarque

épistolier, cit., pp. 112-121, con bibliografia aggiornata.

4 Come si è già detto, da questo novero sono state escluse le allusioni e il riuso di nessi ciceroniani, entrambi molto

frequenti. A titolo di esempio si possono citare Fam. xxi 9, 1 (allusione a Cic. Tusc. ii 48-50; 55); xxii 7, 1 (parafrasi da Cic.

fin. v 28-30, a cui viene accostato Paul. Ad Eph. 5, 28-30) e xxiii 11, 1 (adattamento di Cic. Tusc. i 109). Vi è poi anche un caso (ix 11 a Niccolosio Bartolomei) in cui la citazione (Cic. am. 11, 37) compare nel titolo dell’epistola.

5 La xxiv 3, 1 contiene una citazione da Cic. Sull. 23, mentre la xxiv 4, 1 da Cic. Am. 89 (anche se in realtà è una citazione

da Terenzio, Andr. 68).

6 In questo caso la citazione ciceroniana non è particolarmente significativa, in quanto l’argomento stesso della lettera

è de Cicerone atque eius operis, pertanto l’intera lettera è fitta di allusioni. Non si può naturalmente escludere che la scelta di aprire la lettera con una citazione dalle Tusculanae, pur nella familiarità di Petrarca con questo testo, rimandi

(7)

all’argo-alice borgna

162

xx 15, 1 (cit. da Att. i 12, 4 e xiv 7, 2) a Ludovico di Beringen xxii 9, 1 (cit. da Sull. 18) a Ludovico di Beringen.

Si tratta di una serie piuttosto varia, non solo per destinatari (anche se prevale il ‘suo’

Socra-te), ma anche per tematiche e per collocazione

: le lettere sono disposte lungo quasi tutta la

raccolta. Ancora più significativa, dunque, sarà la verifica della costante riproposizione di un

procedimento allusivo.

1. Una costante nella varietas

In una lettera databile tra il 1345 e il 1349 a Sennuccio del Bene, Petrarca si lamenta dei propri

servitori, un tema che nell’epistolario ricorre con una certa frequenza

:

1

tria michi servorum paria, sive, ut modestius loquar, humilium amicorum, sive, ut verius, familiarium hostium, domi sunt; primum quidem sic affectum ut alterius nimia simplicitas, alterius sit periculosa calliditas; secundum sic, ut hunc pueritia, hunc senectus reddat inutilem; tertium vero sic, ut huius furor, illius torpor odiosus sit, et iuxta illud socraticum a Cicerone relatum in epystolis, “alter frenis, alter calcaribus egeat”. (Fam. iv 14, 1)2

Vi appare un’allusione a Seneca, generata dal nesso humiles amici, che rimanda

immediatamen-te al celebre passo in difesa della dignità dei servi

;

3

la citazione ciceroniana è tratta da Att. vi

1, epistola scritta da Laodicea, dove l’Arpinate si trovava nel 50 a.C. in qualità di governatore

della Cilicia.

4

Come molte delle lettere ad Attico del periodo, è lunga e politematica

:

numero-si sono gli argomenti affrontati, dal campo politico, con questioni relative alla gestione della

provincia, fino a questioni più minute. Cicerone, infatti, aveva affidato alle cure dell’amico la

gestione degli affari familiari.

5

Proprio da uno di questi brani di taglio privato Petrarca trae la

citazione, rappresentata dalle parole con cui Cicerone descrive l’indole del figlio Marco e del

nipote Quinto, che lo avevano accompagnato nella sua missione

: «

Cicerones pueri amant inter

se, discunt, exercentur

; sed alter, ut Isocrates dixit in Ephoro et Theopompo, frenis eget, alter

cal-caribus

» (Cic. Att. vi 1, 12)

;

6

Petrarca sta probabilmente citando a memoria, dato che definisce

socraticum

un detto che invece Cicerone attribuiva a Isocrate.

7

Tra i due testi vi è quindi una contiguità sia tematica (le questioni di economia domestica)

sia di toni, come emerge tanto dall’affetto che lega autore e corrispondente, quanto

dall’ironi-ca familiaritas riservata ai domestici. In questo senso sembra più probabile che Petrardall’ironi-ca con la

citazione non volesse rifarsi al modello greco, ma proprio al passo ciceroniano

; pare infatti più

adeguata al contesto petrarchesco una paterna considerazione in merito al comportamento di

mento della lettera, un resoconto del soggiorno a Valchiusa trascorso nella lettura di quattro orazioni: la Pro Plancio, la

Pro Sulla (di cui si parlerà infra), la de imperio Cn. Pompei e la pro Milone. Inoltre, elogiando la compagnia di Cicerone nella tranquillità della campagna (cfr. par. 4), Petrarca potrebbe anche alludere alla cornice narrativa delle Tusculanae.

1 Cfr. ad es. Fam. v 14; x 3, 30-35; xxii 12, 6-9; poi Senili iv 4, e De remediis utriusque fortunae i 33.

2 [In casa ho tre coppie di servi, o, per parlar più modestamente, di umili amici, o, a voler essere sinceri, di nemici

domestici. Il primo paio è di tal sorta che di uno è pericolosa la troppa ingenuità e dell’altro la l’astuzia; del secondo, l’uno

è reso inutile dalla giovinezza e l’altro dalla vecchiaia, il terzo, invece, è reso odioso dall’impetuosità dell’uno e dalla

pol-troneria dell’altro: a loro calza a pennello quel detto di Socrate riferito nelle lettere di Cicerone “uno ha bisogno di freno,

l’altro di sprone”]. Noto che familiaris hostis è nesso sconosciuto alla latinità classica, così come periculosa calliditas.

3 Sen. ep. 47, 1: «“Servi sunt.” Immo homines. “Servi sunt.” Immo contubernales. “Servi sunt.” Immo humiles amici.

“Servi sunt.” Immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunae».

4 Per la cronologia ciceroniana cfr. Nino Marinone, Cronologia ciceroniana, 2a edizione aggiornata e corretta a cura di

Ermanno Malaspina, Bologna, Patron, 20042, ora disponibile gratuitamente su www.tulliana.eu, sito ufficiale della

Socie-tà internazionale degli amici di Cicerone (siac) http://www.tulliana.eu/ephemerides/home.htm.

5 Ad esempio la possibilità di un terzo matrimonio di Tullia, cfr. Cic. Att. vi, 1, 10.

6 [I nostri cari giovani, Quinto e Marco, si vogliono bene a vicenda, imparano con profitto, si esercitano; tuttavia,

come disse Isocrate a proposito di Eforo e Teopompo, l’uno ha bisogno di freno, l’altro di sprone].

7 Anche a livello filologico si tratta di un errore poligenetico, dato che socraticum rispetto a isocraticum è evidentissima

lectio facilior (anche per la possibile alternanza ut/uti, che porta a soluzioni quali ut isocrates dixit / uti socrates dixit), e

infat-ti si trova egualmente distribuito nelle varie famiglie manoscritinfat-ti delle Epistulae ad Atinfat-ticum: cfr. Cicéron, Correspondance,

t. iv, Texte établi et traduit par L.-A. Constans et J. Bayet, Paris, Les Belles Lettres, 1950, p. 146, che registra in apparato tale alternanza, tralasciata invece da altri editori.

(8)

gli incipit ciceroniani nelle familiares di petrarca

163

due ragazzi, piuttosto che il severo giudizio di Isocrate sull’esuberanza pungente di

Teopom-po e sul lento procedere della scrittura storiografica di Eforo, modelli che mal si attagliano a

giudizi sull’indole di due servi.

Nell’epistola v 19, unica familiare indirizzata a Clemente VI, Petrarca consiglia al pontefice di

guardarsi dalla turba dei medici

:

febris tue nuntius, Beatissime Pater, tremorem membris meis et horrorem attulit; nec idcirco blandilo-quens aut similis dicar illi de quo Satyricus ait: “flet, si lacrimas conspexit amici”, et iterum: “si dixerit ‘estuo’, sudat”; sed illi potius qui, ut ait Cicero, de salute populi romani extimescebat, in qua etiam suam inclusam videbat; mea quidem ac multorum salus in tua salute fundata est. (Fam. v 19, 1)1

La ricchezza di citazioni che caratterizza l’epistola

2

influenza anche lo spazio incipitario, che

presenta ben due auctores. In primo luogo, vi compaiono due versi tratti dalla terza Satira di

Giovenale (vv. 101 e 103), dedicata alla critica del malcostume a Roma, giunto a un livello tale

che i cittadini onesti ma poveri soccombono di fronte alla concorrenza sleale dei Greci, che,

pur di compiacere i ricchi e procacciarsi da vivere, millantano conoscenze universali, compresa

quella della medicina. Non a caso, pochi versi prima del passo citato da Petrarca, Giovenale

lamenta come un greco esuriens, affamato, sappia essere allo stesso tempo grammatico, retore,

geometra, pittore, massaggiatore, indovino, funambolo, medico e mago.

3

A questa citazione Petrarca ne fa seguire un’altra, questa volta tratta dalla pro rege Deiotaro di

Cicerone

:

4

un testo in cui la figura di un medico occupa un ruolo cruciale. Il discorso, infatti,

viene pronunciato da Cicerone nel novembre del 45 a.C. in difesa di Deiotaro, re dei Galati,

accusato dal nipote Castore di aver tentato di assassinare Cesare quando questi era stato suo

ospite in Galazia. Principale delatore di Deiotaro è Fidippo, il suo medico personale che,

cor-rotto da Castore, denuncia un’ipotetica congiura tramata del suo padrone ai danni di Cesare.

5

In questa orazione dunque il medicus, a cui Cicerone fa riferimento con ironico disprezzo, è

tra i principali artefici di un inattendibile complotto ai danni di Deiotaro tramato in modo

del tutto superficiale.

6

È dunque evidente come le due citazioni siano funzionali a Petrarca

per anticipare il tema della lettera, fugiendam medicorum turbam

: si rifugga un grande numero

di medici, che sono perlopiù ciarlatani (come i graeculi stigmatizzati da Giovenale) o, peggio

ancora, come il Fidippo di Cicerone, corrotti e delatori e infatti Petrarca invita il Pontefice a

diffidare in modo particolare di quelli che dovessero far sfoggio di eloquenza.

7

1 [L’annuncio della tua malattia, Beatissimo Padre ha riempito il mio corpo di tremori e brividi; non per questo mi si

taccia di essere adulatore oppure simile a quel tale di cui Giovenale dice “piange, se ha visto l’amico piangere” e ancora “se l’altro avrà detto ‘ho caldo’, lui suda”, ma piuttosto preferirei essere considerato come colui, come dice Cicerone, che

temeva per la salvezza del popolo romano in quanto in essa vedeva inclusa anche la sua; certo la salvezza mia e di molti

è fondata sulla tua salute]. Qualche osservazione sul lessico: horror et tremor è nesso, oltre che della medicina (cfr. Cels. i

9, 4 e ii 13, 1), anche della poesia: cfr. Lucr. vi 593 e Sen. Troad. 457; blandiloquens, termine molto prezioso, al nominativo

è attestato solo in Laberio, autore di mimi vissuto nel i sec. a.C. (cfr. Laber. Ap. Macr. Sat. ii, 7, 3); Cicerone (Nat. vi, 65)

cita un verso di Ennio che contiene blandiloquentia; il parallelo più vicino al passo di Petrarca è Sen. Ag. 289: «quid voce

blandiloqua mala consilia dictas?»; si dixerit: il testo di Giovenale ha, uniformemente, dixeris.

2 Plin. Nat. xxix 5, 11; xxix 7, 14; xxix 8, 17-18; xxix 8, 28; Plaut. Aul. 455.

3 Cfr. Iuv. iii 75-77: «quemvis hominem secum attulit ad nos: grammaticus, rhetor, geometres, pictor, aliptes, augur,

schoenobates, medicus, magus, omnia novit Graeculus esuriens». Su questo passo si legga il commento di Simona

Ma-nuela Manzella, Decimo Giunio Giovenale. Satira iii, Napoli, Liguori, 2013, pp. 149-150. Per capire come Giovenale abbia assai poca stima dei medici greci basta notare la significativa collocazione del medicus al fondo della climax discendente, che a partire dalla rispettabile, seppur umile, posizione del grammaticus giunge fino al mago. Nelle sue Satire i medici

com-paiono spesso intenti in attività non troppo elevate: ad esempio un’operazione alle emorroidi (ii 13) oppure l’evirazione

di un giovane schiavo, destinato a diventare un eunuco (vi 370). Per la satira contro i medici ciarlatani, piuttosto diffusa a Roma, si veda Jacques André, Être médecin à Rome, Paris, Les Belles Lettres, 1987, p. 171.

4 Cic. Deiot. 11: «vir huic imperio amicissimus de salute populi Romani extimescebat, in qua etiam suam esse inclusam

vide-bat». Questa citazione non è stata identificata da Vittorio Rossi nella sua edizione (p. 43): egli segnala, invece, un ben più

blando riferimento a Cic. fin. i 35: «saluti prospexit civium, qua intellegebat contineri suam».

5 Cfr. Rosalba Dimundo, Processo a un re, Venezia, Marsilio, 1997, pp. 9-11.

6 Cfr. Cic. Deiot. 17-18. In merito si vedano Harold Gotoff, Cicero’s Caesarian Speeches, Chapel Hill & London, The

University of North Carolina Press, 1993, pp. 143-147; Dimundo, Processo a un re, cit., pp. 111-114.

7 Cfr. Fam. v 19, 8: «ut vero iam desinam, medicum non consilio sed eloquio pollentem velut insidiatorem vite,

sica-rium aut veneficum vitare debes» [in conclusione, ti esorto a evitare come un attentatore, un sicario o un avvelenatore

(9)

alice borgna

164

Ben nota è poi la puntualizzazione grammaticale contenuta nell’avvio della lettera del

set-timo libro indirizzata a Giovanni Coci, professore di teologia e vescovo di

Saint-Paul-Trois-Châteaux

:

Petitionis tue memor promissique mei non oblitus, Italiam sive - ne grammatica lite implicer, quam in epystolis Ciceroni suo movet Athicus - in Italiam vado. Scio quidem et memini quid me de ipsius Ciceronis libris in ordinem redigendis, et quarundam, ut dicere soles, veluti scintillarum lumine declarandis, sepe rogaveras. (Fam. vii 4, 1)1

Petrarca si richiama infatti alla questione contenuta in Att. viii 3, dove Cicerone risponde alle

critiche di Attico che gli aveva rimproverato l’uso di in nei complementi di moto a luogo con

nomi di città

:

venio ad “Piraeea”, in quo magis reprehendendus sum quod homo Romanus “Piraeea” scripserim, non “Piraeum” (sic enim omnes nostri locuti sunt), quam quod addiderim <“in”>; non enim hoc ut oppido praeposui sed ut loco; et tamen Dionysius noster et qui est nobiscum Nicias Cous non rebatur oppidum esse Piraeea. (Cic. Att. viii 3, 10)2

Tale citazione può servire all’autore per qualificarsi come fine conoscitore dell’Arpinate, e

soprattutto dell’epistolario ad Attico, al cospetto di un destinatario coltissimo. Giovanni Coci,

infatti, era il curatore della biblioteca papale di Avignone, e a nome del Pontefice aveva

chie-sto a Petrarca di stilare un elenco delle opere di Cicerone e di rischiararne alcune con lumina

scintillarum

, note che fossero quasi lampi di luce, un compito di cui Petrarca con la rarità della

citazione potrebbe volersi mostrare all’altezza e del quale, pur col topico schermirsi, in realtà

è ben lusingato, come mostra il prosieguo della lettera, ulteriormente impreziosita da esempi

eruditi

:

demum, quo ineluctabiles preces essent, ut Romanus Pontifex, qui fervoris tui conscius, hanc generosam bibliothece sue custodiam ita tibi credidit, ut olim nostri principes Iulius Cesar Marco Varroni, Cesar Augustus Pompeio Macro et rex egiptius Ptholomeus Philadelphus Demetrio Phalerio commisisse no-scuntur, curam prorsus ingenio tuo dignam; ut Romanus, inquam, Pontifex digredienti michi suum hac in re modestissime indicaret animum effecisti. Quid facerem? [...] Parebo si potero, nam et sibi parere necessarium, et tibi placere delectabile; contraque, preces tuas spernere durum, illius iussa negligere sacrilegum. (Fam. vii 4, 2-4)3

A ulteriore riprova di un gioco allusivo si può citare l’incipit della lettera settima dello stesso

libro, discusso «

sfogo di amaro rimprovero e al tempo stesso appassionata implorazione

»

4

con

cui Petrarca si accomiata da Cola di Rienzo,

5

accusandolo di aver rovinato quanto di buono

1 [Memore della tua richiesta e non dimentico della mia promessa, parto per l’Italia o, per non essere coinvolto in

quella controversia grammaticale che Attico solleva al suo Cicerone, verso l’Italia. Dello stesso Cicerone so bene e non dimentico che mi hai spesso chiesto di stilare un elenco di opere e di rischiarane alcune, per usare le tue parole, con note a costituire quasi lampi di luce].

2 [Passo ora alla questione di “Piraeea”, per la quale mi merito un rimprovero più per aver scritto “Piraeea” essendo io

un romano e non “Piraeum” (così infatti hanno sempre detto i nostri concittadini), che per il fatto di avere aggiunto “in”. In realtà ho aggiunto la preposizione non come riferita a un nome di città, quanto a una località e malgrado tutto il nostro caro Dioniso, e pure Nicia di Cos, che si trovano presso di me, non ritengono che il Pireo sia da considerarsi una città].

3 [Infine, perché le tue preghiere fossero ineluttabili, facesti in modo che il Pontefice Romano, il quale, consapevole

del tuo zelo, ti ha affidato la nobile curatela della della sua biblioteca, proprio come un tempo si sa che i nostri principi Giulio Cesare e Cesare Augusto la affidarono a Marco Varrone e a Pompeo Macro e il re dell’Egitto Tolomeo Filadelfo

a Demetrio del Falero, una cura senz’altro all’altezza del tuo ingegno; e ancora, facesti in modo che, quando mi trovavo

in procinto di partire, il Pontefice mi comunicasse assai garbatamente tale intenzione. Cosa avrei potuto fare? […]

Obbe-dirò, se ne sarò in grado: infatti obbedire a lui è necessario, far piacere a te, fonte di diletto; al contrario se disprezzare le

tue preghiere è scortese, ignorare i suoi ordini è sacrilego».

4 Ernest Hatch Wilkins, Vita del Petrarca e La formazione del Canzoniere, a cura di Remo Ceserani, Milano, Feltrinelli,

1985, pp. 101-102.

5 Nella vasta bibliografia mi limito a rinviare a: Josef Macek, Pétrarque et Cola di Rienzo, «Historica», xx, 1965, pp. 5-51;

Ugo Dotti, Le prospettive storico-politiche di Petrarca nella crisi del Trecento (Cola di Rienzo - l’Impero - il Principe), in Francesco

Petrarca e l’opera latina: tradizione e fortuna. Atti del Convegno internazionale (Chianciano-Pienza, 19-22 luglio 2004), a cura

di Luisa Secchi Tarugi, Firenze, Cesati, 2006, pp. 205-218; Enrico Fenzi, Per Petrarca politico: Cola di Rienzo e la questione

(10)

gli incipit ciceroniani nelle familiares di petrarca

165

aveva costruito, di aver deviato dal cammino di giustizia intrapreso ed essere diventato satelles

reproborum

: «

Fecisti, fateor, ut sepe per hoc tempus illud apud Ciceronem loquentis Africani

dictum multa cum voluptate repeterem

: “Quis est hic qui complet aures meas, tantus et tam

dulcis sonus

?”

» (Fam. vii 7, 1).

1

Forse non a caso l’exordium di questa amara epistola contiene una citazione dal Somnium

Scipionis

,

2

testo in cui Cicerone, adattando allo spirito repubblicano il principio dell’apoteosi

el-lenistica, riserva l’assunzione in cielo non genericamente ai giusti di Platone, ma, identificando

la somma virtus con la civitatis gubernatio,

3

ne fa la ricompensa del grande reggitore dello stato.

Le parole scelte da Petrarca diventano dunque spia preziosa di un messaggio ben più denso,

laddove si consideri il testo da cui sono state estrapolate. Se per Petrarca grave torto di Cola

fu quello di aver preferito la resa a una morte sommamente gloriosa,

4

avrà qualche significato

la scelta di inserire nell’incipit una proposizione tratta da un testo che identifica l’unica via di

accesso al cielo in una virtù che si esplichi nel servizio per la patria.

5

2. Cicerone e

Socrates

Nel gruppo di epistole contenenti citazioni ciceroniane, anche quelle indirizzate al suo

Socra-te, l’amico carissimo Ludovico di Beringen, paiono offrire il medesimo lusus. Inizia con una

citazione ciceroniana la Fam. viii 7, commosso pianto per le vittime della pestilenza del 1348, un

testo che dall’occasione si apre a un generale lamento della condizione umana.

6

Mi frater, mi frater, mi frater - novum epystole principium, imo antiquum, et ante mille fere quadringentos annos a Marco Tullio usurpatum -; heu michi, frater amantissime, quid dicam? Unde ordiar? Quonam vertar? Undique dolor, terror undique. (Fam. viii 7, 1)7

In questo caso la ripresa da una lettera al fratello Quinto è facilmente giustificabile sia a livello

contenutistico,

8

sia di toni, in quanto si tratta di una delle disperate epistole che Cicerone scrive

dall’esilio. La triplicazione del richiamo affettivo, tipica del linguaggio sacrale, è spia di una

commozione nell’accingersi a scrivere che Petrarca ben condivide con Cicerone.

Ancor più significativa è la citazione contenuta nell’incipit della lettera xxii 9, dedicata al

racconto di come Petrarca avesse, dopo un’iniziale resistenza, perdonato il figlio, che in

pre-cedenza aveva cacciato di casa e confinato ad Avignone come punizione per la sua condotta

dissoluta.

9

1 [Spesso, lo confesso, hai fatto in modo che io ripetessi con gioia, in questi tempi, quelle stesse parole che Cicerone

faceva dire all’Africano: “Che cosa è questo dolce suono, così generoso e piacevole, che riempie le mie orecchie?”].

2 Cic. rep. vi 18. Per il codice macrobiano (London, British Library, Harley 5204, xi sec.), contenente il commento

all’opera, annotato da Petrarca dopo il 1350, e la relativa bibliografia, cfr. Nicholas Mann, Petrarch Manuscripts in the

British Isles, «Italia medioevale e umanistica», xviii, 1975, p. 493; anche Giuseppe Billanovich, Dalle prime alle ultime

letture del Petrarca, in Il Petrarca ad Arquà. Atti del Convegno di Studi nel vi centenario 1370-1374 (Arquà Petrarca, 6-8 nov.

1970), a cura di Giuseppe Billanovich e Giuseppe Frasso, Padova, Antenore, 1975, pp. 13-50: 49; e Luca Marcozzi, Petrarca

Platonico. Studi sull’immaginario filosofico del Canzoniere, Roma, Aracne, 20112, pp. 98-99, con ulteriore bibliografia.

3 Cfr. Cic. rep. i 2: «usus autem eius (scil. virtutis) est maximus civitatis gubernatio». In merito ancora valido

Alessan-dro Ronconi, Somnium Scipionis, Firenze, Le Monnier, 1961, p. 20.

4 Fam. xiii 6, 5. Cfr. Dotti, Le prospettive storico-politiche di Petrarca, cit., p. 206.

5 Come reso esplicito nella chiusa della lettera: «videbis te non dominum reipublice, sed ministrum» (par. 10).

6 Questa, insieme con le due seguenti (8-9), costituiva in origine un’epistola sola. Nella sistemazione successiva

Petrar-ca separò la lunga lettera in tre diversi testi e pose questa come una sorta di proemio: cfr. la nota di Ugo Dotti

nell’edizio-ne a sua cura Francesco Petrarca, Le familiari, vol. ii, Torino, Aragno, 2007, p. 1125.

7 [O fratello mio, o fratello mio, o fratello mio - un esordio nuovo per un’epistola, anzi antico, dato che che fu usato già

quasi millequattrocento anni fa da Marco Tullio - ahimè, fratello amatissimo, che dire? Donde cominciare? Dove

rivolger-mi? Ovunque dolore, terrore ovunque]. E cfr. Cic. Quint. fr. i, 3, 1: «mi frater, mi frater, mi frater, tune id veritus es ne ego

iracundia aliqua adductus pueros ad te sine litteris miserim aut etiam ne te videre noluerim?». Analogo caso di

espressio-ne triplicata, sempre in un contesto fortemente connotato da affetto, in Fam. xvi 4, 4: «vale, mi Tiro, vale, vale et salve».

8 Come infatti già nota anche Gerard Passannante, The Lucretian Renaissance: Philology and the Afterlife of Tradition,

Chicago, The University of Chicago Press, 2011, pp. 19-22.

9 Il forte contrasto tra Petrarca e Giovanni bene emerge dalla xxii 7, datata 30 agosto 1359, drammatica epistola

diretta-mente rivolta al figlio, in cui il padre lo accusa di condurre una vita dissipata, e oppone un primo netto rifiuto alla richiesta del figlio di rappacificarsi e tornare a vivere insieme. Sulla sua figura cfr. Arnaldo Foresti, Aneddoti della vita di Francesco

(11)

alice borgna

166

Homo blandus et fallax, idemque si liceat et violentus et minax, quem mecum exitum invenerit, queris. Quid verum infitier et non potius cum Cicerone confitear qua “mollitie sum animi ac lenitate”? Nun-quam illius lacrimis ac precibus restitissem. (Fam. xxii 9, 1)1

La citazione è tratta dalla Pro Silla,

2

l’orazione tenuta da Cicerone nel 62 a.C. in difesa di un

catilinario, L. Cornelio Silla, accusato di aver preso parte attiva alle congiura. Si tratta di un

di-scorso che ha spesso lasciato perplessa la critica, in quanto pronunciato (seppur tiepidamente)

3

in difesa di un uomo che era stato vicino a Catilina

: una scelta ritenuta poco coerente già dai

contemporanei, come mostra il fatto stesso che Cicerone esordisca cercando una

giustificazio-ne alla sua posiziogiustificazio-ne,

4

piuttosto scomoda. Certo, sostiene Cicerone, Silla era stato amico di

Ca-tilina, ma non vi sono prove che agli avesse effettivamente preso parte alla congiura. Per questo

motivo Cicerone alla fine ha deciso di non negargli la sua assistenza, anche in modo da non

dare prova di crudeltà e pregiudizio.

5

Per avvalorare quanto affermato, Cicerone ribadisce che

la scelta di difendere Silla è stata ben ponderata

: ben diverso invece il caso di Autronio Peto,

col-lega di Silla come console designato nel 66 a.C. (e entrambi destituiti per broglio elettorale), che

ugualmente aveva richiesto la sua difesa. In quel caso nulla avevano potuto le preghiere

: l’uomo

era eccessivamente colluso con Catilina, e Cicerone non si era piegato di fronte alle sue

suppli-che. Proprio da questa scena è tratta la citazione che Petrarca inserisce nella sua epistola

:

veniebat enim ad me et saepe veniebat Autronius multis cum lacrimis supplex ut se defenderem, et se meum condiscipulum in pueritia, familiarem in adulescentia, conlegam in quaestura commemorabat fuisse; multa mea in se, non nulla etiam sua in me proferebat officia. Quibus ego rebus, iudices, ita flectebar animo atque frangebar ut iam ex memoria quas mihi ipsi fecerat insidias deponerem, ut iam immissum esse ab eo C. Cornelium qui me in meis sedibus, in conspectu uxoris ac liberorum meorum trucidaret obliviscerer. Quae si de uno me cogitasset, qua mollitia sum animi ac lenitate, numquam me her-cule illius lacrimis ac precibus restitissem. (Cic. Sull. 18)6

Ancora una volta la citazione esplicita mette in atto un procedimento allusivo

: con poche

parole Petrarca amplia la scena alludendo anche all’immagine dell’uomo pentito che si getta

ai piedi di chi ha offeso per ottenere perdono e aiuto. Non è difficile scorgere in filigrana

un’al-lusione, da un lato all’incontro reale tra Petrarca e il figlio, dall’altro alla colpevolezza del figlio

stesso. Il nesso, infatti, è tratto da un contesto che vede come protagonista un uomo, Autronio,

la cui condotta dissoluta è ampiamente illustrata da Cicerone nei paragrafi precedenti

:

7

dietro

questa figura Petrarca potrebbe celare quel figlio difficile, che odiando i libri come serpenti,

8

e

1 [Mi chiedi quale risultato abbia ottenuto presso di me quell’uomo blando e bugiardo e, se potesse, anche violento e

minaccioso. Perché dovrei negarti la verità e piuttosto non confessare, usando le parole di Cicerone “che sono di animo

sensibile ed indulgente”? “Non avrei mai resistito alle sue lacrime e alle sue preghiere”]. Osservazioni lessicali: blandus et

fallax è nesso della commedia: cfr. Pomp. Bonon. 164 (= Prisc. GL 2, 282 K); e poi poetico: cfr. Tibull. iii 6, 46; non

lon-tano anche Sen. ben. vi 30, 5: “quis blandissime fallat”. Violentus et minax è invece un accostamento sconosciuto al latino

classico. 2 Cic. Sull. 18.

3 La confutazione dei capi d’accusa è infatti sbrigativa e superficiale: «la diresti una causa di routine, assunta

probabil-mente contro voglia, che si anima solo quando l’ex console, che si sente dimenticato o misconosciuto o, peggio ancora,

vilipeso, difende la propria opera di parens patriae»: Giovanni Bellardi, Le orazioni di Marco Tullio Cicerone, ii, Torino,

utet, 1981, p. 69; Dominic Berry, Cicero. Pro Sulla Oratio, Cambridge, Cambridge University Press, 1996, pp. 59-62.

4 Sulle varie posizioni della critica in merito ai motivi che portarono Cicerone a difendere un rappresentante della

parte avversa (per fare ancora una volta l’apologia del suo operato? per bisogno di denaro?) cfr. Bellardi, Le orazioni di

Marco Tullio Cicerone, cit., p. 59; Berry, Cicero. Pro Sulla Oratio, cit., pp. 26-33. 5 Cfr. Cic. Sull. 1.

6 [Veniva da me Autronio e veniva ancora a supplicarmi tra lacrime copiose di assumere la sua difesa e ricordava di

essere stato mio compagno di studi durante la fanciullezza, poi amico di gioventù e collega nella questura, ricordava poi i molti favori che io avevo reso a lui e anche alcuni che era stato lui a rendere a me. Da tutto questo, o giudici, ero così commosso nell’animo e così piegato, da scordare le macchinazioni che quello stesso aveva tramato ai miei danni, tanto da dimenticare perfino che era stato lui a mandare Gaio Cornelio ad assassinarmi nella mia stessa casa, davanti agli occhi di mia moglie e dei miei figli. E se avesse mirato a me solo, che sono di animo sensibile ed indulgente, non avrei mai resistito alle sue lacrime e alle sue preghiere].

7 Cic. Sull. 15-17. In merito cfr. Berry, Cicero. Pro Sulla Oratio, cit., pp. 161-168.

8 Cfr. Fam. xix 17, 9: «librum horret ut colubrum», ma anche Fam. xiii 2, 2-4: «hominem nullum vidi magis a literis

(12)

gli incipit ciceroniani nelle familiares di petrarca

167

schernendo con sorrisetti le passioni del padre,

1

gli aveva dato tali e tante delusioni che

neppu-re una morte pneppu-rematura poté cancellaneppu-re.

2

In conclusione, si è notato come negli incipit delle Familiares le parole di Cicerone vengano

in-serite verbatim non tanto per il loro valore intrinseco, quanto piuttosto come spia di un

raffina-to procedimenraffina-to allusivo, reso ancora più stimolante da fatraffina-to che, non di rado, le formulazioni

scelte, non avendo un significato particolare, possono sembrare inserite per automatismo o

innescate dalla profondissima conoscenza che Petrarca aveva dell’opera dell’Arpinate. Al

con-trario, dai testi esaminati pare emergere una coerenza significativa e costante tra l’argomento

della lettera e il testo ciceroniano da cui viene tratta la citazione. Tali exordia parrebbero

dun-que da inserire all’interno di un quadro allusivo più ampio che sfiderebbe il destinatario (e

suc-cessivamente il lettore dell’epistolario) a cogliere il nesso intertestuale attivato dall’excerptum.

1 Cfr. Fam. xxii 7, 5-6.

2 Anche dopo il perdono il rapporto rimase difficile, come testimonia la lettera xxiii 12, 15-16 del 1° dicembre 1360,

dieci mesi dopo la riconciliazione. Giovanni Petrarca morì di peste a venticinque anni, nel luglio 1361. Sui sentimenti

provati dal padre alla sua scomparsa si veda ad esempio la lettera del 10 agosto a Guglielmo da Pastrengo: «Deo gratias,

qui me longo labore, sed non sine dolore liberavit» (Variae xxxv = Disp. 48; cfr. Francesco Petrarca, Lettere disperse, a

cura di Alessandro Pancheri, Parma, Fondazione Pietro Bembo - Guanda, 1994, p. 364). In merito ancora valido Foresti,

(13)

composto in carattere dante monotype dalla

fabrizio serra editore, pisa · roma.

stampato e rilegato nella

tipografia di agnano, agnano pisano (pisa).

*

Maggio 2015

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