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Porfirio : commento agli Harmonica di Claudio Tolemeo: introduzione, testo critico, traduzione e note

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Academic year: 2021

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Scuola Dottorale Internazionale di Studi Umanistici

Indirizzo

Scienze Letterarie: Retorica e Tecnica dell'Interpretazione

Ciclo XXVI

Settore Disciplinare L-FIL-LET/05

PORFIRIO

Commento agli "Harmonica"

di Claudio Tolemeo

Introduzione, Testo critico, Traduzione e Note

I Supervisori

Prof.

ssa

Antonietta G

OSTOLI

Prof. Andrew B

ARKER

Il Direttore della Scuola

Il Dottorando

Prof. Roberto D

E

G

AETANO

Massimo R

AFFA

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Σιλβίᾳ θυγατρὶ φίλῃ

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el licenziare la mia tesi dottorale per sottoporla alla Commissione esaminatri-ce, desidero esprimere la mia gratitudine alle istituzioni e alle persone senza le quali questo lavoro non avrebbe mai visto la luce. Sono grato all'Università della Calabria e alla Scuola Dottorale Internazionale di Studi Umanistici per aver fatto sì che potessi dedicarmi a tempo pieno alla ricerca. Ringrazio Mar-gherita Ganeri, Coordinatrice del Dottorato, e tutto il Collegio Docenti, per aver credu-to nel mio progetcredu-to di ricerca ed averne seguicredu-to attentamente i progressi. All'Unical sono debitore, ancora, per avermi assegnato la borsa di mobilità che mi ha consentito di trascorrere il secondo anno di corso a Coventry come Visiting Academic presso il De-partment of Classics & Ancient History dell'Università di Warwick: un'esperienza che ha enormemente arricchito sia il mio profilo di studioso, sia il mio bagaglio umano, e dalla quale sono nati progetti, collaborazioni e amicizie ancora vivi e fruttuosi.

Il mio lavoro sarebbe stato molto più difficile senza l'efficienza e la cortesia del personale della Biblioteca di Area Umanistica dell'Università della Calabria, che mi ha fornito un ottimo ambiente di studio e un supporto logistico indispensabile; senza la pazienza e la professionalità con cui gli addetti al prestito interbibliotecario della Bi-blioteca Regionale di Messina hanno evaso le decine e decine di richieste di cui li ho subissati; e, last but not least, senza gli amici dello Staff della Humanities Library di Warwick e del Wolfson Research Exchange, luoghi che sono stati di fatto la mia casa durante il mio anno inglese.

Presentando in questi anni i risultati parziali della mia ricerca in diversi se-minari e convegni, ho potuto beneficiare delle osservazioni di molti amici e colleghi, che sarebbe impossibile menzionare tutti. Confidando nell'indulgenza degli altri, voglio qui ricordare almeno David Creese, Giuseppe Girgenti, Stefan Hagel, Angelo Meriani, Egert Poehlmann, Antonietta Provenza, Donatella Restani, Eleonora Rocconi, Maude Vanhaelen.

Il mio debito verso i docenti che hanno diretto la mia tesi è evidente in ogni pa-gina. Ho potuto sempre contare sull'esperienza, la sapienza filologica e l'affettuoso consiglio di Antonietta Gostoli; quanto all'altro mio supervisore, credo che tra i deside-ri più alti di ciascuno di noi vi sia quello di potersi confrontare con chi ha di fatto fon-dato la provincia degli studi in cui si è scelto di cimentarsi, e di poterne ricevere guida, critiche anche severe ma mai distruttive e incoraggiamento nei momenti di stanchezza;

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ebbene, tutto questo, insieme al dono di un'amicizia che mi onora, ho trovato in An-drew Barker.

Ai miei familiari e amici è invece toccato di misurarsi con il versante a bacìo di questi anni di studio. Su di loro sono ricadute le mie ansie improvvise, le altalene dell'autostima che accompagnavano gli alti e bassi della ricerca, i lunghi periodi di assenza fisica da casa e mentale dalle faccende domestiche; e a tutti loro va la mia grati-tudine per essere stati così splendidamente all'altezza di un compito non facile. Ma tra i volti a me cari impressi in queste pagine, come in una filigrana visibile solo a me, il più luminoso è quello di Silvia, mia figlia, che ha vissuto quasi metà della sua giovane esistenza in compagnia di Porfirio e, dopo qualche riluttanza, ha finito per accettarne la presenza nella vita familiare. Ora che è giunto il momento di prendere congedo da que-sto nostro ospite – invisibile certo, ma non per queque-sto meno reale e ingombrante – non riesco a fugare il pensiero che ella non gli abbia del tutto perdonato di averle conteso in troppe occasioni le attenzioni del suo papà. A parziale riparazione di quel torto, questa tesi è dedicata a lei.

Milazzo, Novembre 2013

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We find ourselves in a bewildering world. We want to make sense of what we see around us and to ask: what is the nature of the universe? What is our place in it and where did it and we come from? Why is it the way it is?1

ἐν ἅπασι γὰρ ἴδιόν ἐστι τοῦ θεωρητικοῦ καὶ ἐπιστήμονος τὸ δεικνύναι τὰ τῆς φύσεως ἔργα μετὰ λόγου τινὸς καὶ τεταγμένης αἰτίας δημιουργούμενα καὶ μηδὲν εἰκῆ, μηδὲ ὡς ἔτυχεν ἀποτελούμενον ὑπ' αὐτῆς […]2

1.L'ARMONICA GRECA: RAZIONALITÀ, EMPIRISMO E LORO SUPERAMENTO 1.1. Alla ricerca di un principio: suoni e ordine matematico

L'idea che esista una chiave unica di accesso alla molteplicità del reale esercita sugli esseri umani, e in particolare sui filosofi e gli scienziati, un fascino insop-primibile. Essa ha indotto e induce il ricercatore ad aprire le finestre di cui di-spone – siano esse quelle fornitegli dalla natura, come gli occhi e le orecchie, o quelle artificiali di cui nel tempo si è dotato, come il monocordo, il telescopio e l'acceleratore di particelle – per cogliere le tracce di un ordine la cui esistenza non riesce a fare a meno di postulare. Sotto questo profilo, non vi è molta diffe-renza tra la ricerca presocratica dell'ἀρχή e il desiderio degli scienziati moderni di combinare la relatività generale con la teoria quantistica per formulare, come ha scritto Stephen Hawking, "a complete, consistent, unified theory that would include all […] partial theories as approximations"3.

La convinzione dell'unicità di tale chiave convive però con l'idea che siano molteplici le strade per accedervi. Una tra le più care ai Greci fu appunto la ἁρμονική, la scienza armonica. È il caso di sgombrare subito il campo dalle

1 S. Hawking, A Brief History of Time. From the Big Bang to Black Holes, London 1988, p. 205. 2 Ptol. harm. I, 2, p. 5.19-22 D. «In tutti i campi è dovere dello studioso e dell'uomo di scienza dimostrare che le opere della natura sono costruite secondo una certa razionalità e un prin-cipio ordinato, e che nulla è a caso, né è stato compiuto dalla natura in modo improvvisato …».

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sedimentazioni che la storia delle idee e delle parole ha depositato sul termine: l'armonica greca non ha nulla a che vedere con vaghi ideali di pace o armonia interiore o universale; ancor meno ha in comune con la nozione di armonia nella musica moderna, che riguarda la combinazione simultanea di gruppi di note (bicordi, triadi, quadriadi ecc.) aggregati secondo determinati principî, gli effetti compositivi che ne derivano e le modalità della loro concatenazione. Essa era, invece, scienza delle relazioni tra le note (suoni di altezza definita, φθόγγοι) e dei modi in cui era possibile porre tali suoni in sequenze diacroni-che accettabili all'orecchio (ἐμμελεῖς) e quindi utilizzabili sia nella costruzione di scale intere o frammenti di scale (spesso complessivamente indicati come συστήματα), sia nella composizione e nell'esecuzione delle melodie (μέλη). Definito così, quest'oggetto di studio potrebbe sembrare non particolarmente appetibile per l'uomo d'oggi: a che scopo spendere tempo ed energie per com-prendere come alcuni teorici vissuti tra 2600 e 1700 anni fa ritenevano che si dovessero costruire le scale usate per l'esecuzione di musiche di cui nulla o quasi nulla ci rimane?

Tuttavia, e per fortuna, la ἁρμονική fu ben più di questo: almeno in una delle sue tendenze, quella che potremmo chiamare pitagorico-platonica, essa fu uno dei tentativi più affascinanti che il pensiero antico abbia compiuto per legare in un unico sforzo interpretativo il macro- e il microcosmo. Presup-posto di questa concezione era che, se alcune successioni di note venivano per-cepite come migliori di altre, ciò accadeva perché le relazioni numeriche tra quelle note replicavano i rapporti matematici (λόγοι) che si ritrovavano nel moto degli astri così come nelle combinazioni dei colori o nella struttura dell'a-nima umana. Assunto il principio, si poneva la necessità di stabilire quali fos-sero i rapporti migliori e per quali ragioni; da qui lo sviluppo di una complessa numerologia in cui le basi osservazionali cedettero sempre più il passo a co-struzioni che avevano in sé stesse e nell'eleganza matematica la propria legit-timazione come modelli per la comprensione del reale.

1.2. La musica "presente e viva": i suoni musicali come dati empirici

Mentre il modello matematizzante dell'armonica si faceva sempre più autore-ferenziale, i musicisti pratici continuavano a produrre musica reale secondo regole e consuetudini autonome. Così, nonostante ragioni matematiche rendes-sero impossibile, all'interno della teoria pitagorica, dividere l'intervallo di un tono in due parti uguali, i musicisti continuavano tranquillamente a parlare di 'semitono'. Quando il teorico diceva 'tono', infatti, pensava a un rapporto 9/8, che non può avere un medio proporzionale nel campo dei numeri razionali

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poiché 8 non è un quadrato. Quando lo diceva il musicista, pensava invece al suo strumento, fosse esso a corda o a fiato, e alla possibilità di tendere una cor-da o aprire parzialmente un foro finché non dessero una nota che veniva per-cepita come situata "a metà strada" tra le due distanti un tono; oppure pensava a due posizioni del dito sulla corda o a due fori sulla canna dell'aulos, ossia a una distanza lineare che, in quanto tale, era perfettamente divisibile in due parti uguali. In un caso o nell'altro, il musicista non aveva difficoltà a parlare di semitoni. Si trattava, più che di uno scontro tra paradigmi scientifici, di una diversa prospettiva – del discreto per i pitagorici, del continuo per i musicisti pratici; e per comprendere tale diversità non occorre affatto postulare che i secondi ignorassero la teoria dei primi. Quando diciamo che il sole cala o si leva sull'orizzonte, non intendiamo certo abbracciare o difendere il modello geocentrico; e il fatto di sapere benissimo che la lunghezza del raggio non è commensurabile con quella della circonferenza non ci impedisce di usare il compasso per costruire l'esagono regolare. Semplicemente, esiste un approccio empirico alla realtà che fornisce approssimazioni perfettamente adeguate alle necessità della vita pratica: con buona pace del discretum dei matematici, la freccia colpisce il bersaglio, Achille supera la tartaruga e i musicisti suonano i semitoni.

L'approccio empirico all'armonica dovette essere ben più presente nel pensiero dei Greci di quanto possa apparirci oggi a uno sguardo sommario; iniziato forse già prima dell'avvento del pitagorismo, con gli esperimenti con-dotti su dischi metallici, vasi e altri oggetti sonori, esso affiancò costantemente lo sviluppo dell'armonica matematica, con la quale intrecciò un dialogo conti-nuo. Se oggi ci appare minoritario, ciò è dovuto al fatto che da un lato non ci rimane nessuna testimonianza diretta degli studiosi che se ne occuparono pri-ma di Aristosseno – tutto ciò che sappiamo della loro attività lo traiamo da fonti a loro avverse, come i dialoghi platonici; mentre dall'altro lato anche colui che avrebbe forse potuto considerarsi loro successore, Aristosseno, ne parla solo di sfuggita, e per lo più in tono tra il sarcastico e il dispregiativo, per mar-care la distanza tra le loro ricerche, a suo dire prive di basi metodologiche, e la costruzione che egli stesso andava sviluppando nei suoi Elementa harmonica.

Quanto ad Aristosseno, l'etichetta di 'empirico' che sovente viene appli-cata a lui e alla sua scuola gli si adatta solo in parte. Se infatti è indubbio che con il filosofo tarentino la percezione (αἴσθησις) scalza la ragione (λόγος) co-me principale criterio di giudizio dell'armonica, è anche vero che Aristosseno non rinnega né confuta il complesso di dottrine che stanno alla base del pitago-rismo musicale. Non si troverà nella sua opera superstite alcuna negazione della teoria quantitativa della variazione di altezza delle note, né del sistema di

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rapporti matematici che i Pitagorici solevano collegare alle cosiddette conso-nanze fondamentali di ottava, quinta e quarta. Piuttosto, Aristosseno ritiene tutto ciò irrilevante per l'armonica in quanto tale, ossia per la scienza della combinazione delle note nella formazione delle melodie. Non ha quindi senso, come ha notato recentemente Stefan Hagel (2012), rappresentarlo come un so-stenitore dell'irrazionale in musica, poiché non sembra che egli si sia neppure posto la questione. La cura che i Pitagorici mettevano nella definizione dei rapporti viene da lui reindirizzata, invece, verso un diverso obiettivo: stabilire una serie di regole – la cui struttura assiomatica risente fortemente, come è stato osservato, del modello euclideo – che governino il movimento melodico, i salti che si possono o non si possono trovare in una melodia, e le relazioni reci-proche tra le note non, potremmo dire, nell'astratto dei rapporti matematici, ma in situazione, ossia nello sviluppo diacronico della melodia come attività che coinvolge l'ascoltatore e la sua capacità di porre in relazione ciò che ascolta con ciò che ha già ascoltato. Rispetto al modello pitagorico, l'aristossenico pre-vede l'utilizzo di facoltà mentali diverse, come la riflessione (διάνοια) e soprat-tutto la memoria (μνήμη), essenziali per comprendere il valore o la funzione (δύναμις) di ogni nota all'interno di una determinata scala: valore e funzione che non derivano da un rapporto matematico, bensì dal sistema di relazioni che lega la singola nota alle altre della scala.

La teoria aristossenica parlava un linguaggio più vicino alle necessità dei musicisti pratici. Essa portò in primo piano un punto problematico con cui i seguaci del pitagorismo dovevano prima o poi misurarsi: come rendere conto, all'interno della loro teoria, del fatto musicale in quanto dato reale. Nella

Re-pubblica Platone aveva negato dignità all'empirismo dei cosiddetti ἁρμονικοί e

aveva promosso un'armonica che, al pari dell'astronomia, sapesse sollevarsi alla contemplazione dei problemi (εἰς προβλήματα ἀνιέναι) senza perdersi nei dettagli dei dati sensoriali. Non a caso, quando il Demiurgo del Timeo pla-sma l'anima del mondo secondo rapporti matematici che sono anche armonici, utilizza la più ovvia e aproblematica suddivisione della quarta: due toni di 9/8 e un λεῖμμα di 276/243. Questi intervalli, che appartengono al genere diatoni-co, sono certamente presenti nella pratica musicale, ma i rapporti che li espri-mono si possono ricavare da quelli fondamentali di quinta e quarta per mezzo di soli procedimenti aritmetici (sottrazione della quarta dalla quinta per ottene-re il tono e poi sottrazione del ditono dalla quarta per otteneottene-re il λεῖμμα) e non presuppongono alcuna contaminazione, per così dire, con la realtà fenomenica. Eppure già al tempo di Platone non mancavano tentativi di esprimere la varie-tà delle strutture musicali esistenti nella realvarie-tà rimanendo all'interno del para-digma pitagorico. Le divisioni dei rapporti all'interno della quarta calcolate da

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Archita di Taranto, che di Platone fu contemporaneo e amico, sono molto più varie e complesse di quella del Timeo; appare quindi tanto più significativo, come ha osservato Carl Huffman, che Platone ignori del tutto i risultati della ricerca di Archita, come se non ne condividesse il tentativo di render conto del reale, sia pure dall'interno della matematica pitagorica. Altrettanto significati-vo è poi il fatto che Aristosseno avesse ricevuto una formazione pitagorica nel-la natia Taranto e che nel-la sua famiglia fosse in rapporti con quelnel-la di Archita: come a dire che la reazione all'approccio antiempirista – o se si vuole il suo superamento – nasce, in un certo senso, da una costola dello stesso pitagori-smo.

La novità rappresentata da Aristosseno provocò, com'era prevedibile, reazioni e riposizionamenti tra le scuole di armonica. Uno dei suoi effetti più vistosi fu l'adozione da parte pitagorica di un modello di tipo assiomatico, qua-le emerge ad esempio dal trattato pseudoeuclideo noto come Sectio canonis; anche il crescente utilizzo del monocordo come strumento sperimentale e di-mostrativo doveva rispondere, come ha brillantemente argomentato David Creese, all'esigenza di contrastare le dimostrazioni degli avversari. Allo stesso tempo, la volontà di descrivere in termini pitagorici gli intervalli realmente usati dai musicisti pratici, che abbiamo già visto in Archita, doveva indurre altri teorici a tentare nuove divisioni dell'intervallo di quarta: è il caso di Erato-stene e forse anche di Didimo, della cui opera sappiamo da Tolemeo.

1.3. Ragione e percezione: avversarie ma non troppo

All'avvento della teoria aristossenica seguì, dunque, l'instaurarsi di una sorta di κοινή in cui tutti erano ben consapevoli delle differenze concettuali tra i due principali orientamenti – prima tra tutte quella riguardante la nozione di inter-vallo musicale –, mentre a livello pratico tali differenze apparivano assai meno rilevanti. La stessa terminologia aristossenica degli intervalli, che comprendeva vocaboli inaccettabili in linea di principio per i Pitagorici, come ἡμιτόνιον, venne poco a poco incorporata in una sorta di lessico musicale unificato, grazie alla consapevolezza che alcuni termini venivano usati in un'accezione estesa (καταχρηστικῶς). A questo riequilibrio e aggiustamento delle divergenze teo-riche faceva riscontro, sul piano della musica pratica e del suo insegnamento, un processo di volgarizzazione e semplificazione della teoria musicale di cui non abbiamo documenti diretti, ma che possiamo intuire da indizi sparsi nelle fonti – non ultimo proprio il Commento porfiriano, come ha mostrato recente-mente Andrew Barker. Tale vulgata si contraddistingue per l'impiego di imma-gini icastiche per illustrare i concetti chiave dell'aristossenismo – la

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concatena-viii

zione di un filo di tessuto per la voce parlata, il frammentarsi di un tronco d'al-bero e il cadere dei suoi pezzi per la voce diastematica; o ancora, l'ampiezza dei passi all'interno di una stanza per simboleggiare la grandezza degli intervalli in un tetracordo – che sembrano dettate dalle necessità della prassi didattica più che dall'ambizione di costruire sistemi teorici.

Avvolti nel mistero gli empiristi pre-aristossenici e nell'anonimato i maestri di musica post-aristossenici, non v'è da stupirsi se lo sviluppo della scienza armonica finì per apparire ai teorici e filosofi delle epoche più tarde come uno scontro tra la scuola pitagorica e l'aristossenica. Tale doveva essere l'impostazione dell'opera di Didimo (I sec. d.C.) significativamente intitolata

Sulla differenza tra gli Aristossenici e i Pitagorici (Περὶ τῆς διαφορᾶς τῶν

Αριστοξενείων τε καὶ Πυθαγορείων) ma anche degli Elementi pitagorici di

musica di Tolemaide di Cirene (III a.C.-I d.C.?), incentrati, a quanto pare, su

una contrapposizione tra i fautori del λόγος e dell'αἴσθησις come criterio fon-damentale dell'armonica. La posta in gioco, filosoficamente, era ben più impor-tante della liceità di chiamare 'semitono' la presunta metà di un tono: si tratta-va piuttosto di riflettere sull'affidabilità dei sensi e delle sensazioni, sul giusto equilibrio tra ragione e percezione – in altre parole, sul rapporto tra anima e mondo.

1.4. Gli "Harmonica" di Claudio Tolemeo: oltre le dicotomie

In questa temperie concettuale si inserisce Claudio Tolemeo, nel II sec. d.C., con gli Harmonica. Fortemente influenzato – come apprendiamo da Porfirio – dalla lettura di Didimo e forse anche di Tolemaide, egli sceglie ambiziosamente di porre la propria opera come superamento di entrambe le scuole del passato. Ai Pitagorici rimprovera uno sbilanciamento verso il polo razionale, che li spinge a cadere nell'assurdo allorché rifiutano di considerare come consonante un intervallo, quello di undicesima, che suona perfettamente consonante all'o-recchio, sol perché il rapporto che lo esprime, 8/3, non si presenta nella forma superparticolare che per essi è sinonimo di eleganza e bellezza matematica; oppure a cadere nel ridicolo quando si avventurano in complicati procedimenti numerologici come il calcolo delle cosiddette 'dissimiglianze' (ἀνόμοια) per legittimare la propria gerarchia di eccellenza all'interno delle consonanze. Agli Aristossenici, specularmente, rimprovera un'eccessiva dipendenza dal dato empirico e soprattutto i difetti logici del loro sistema, nel quale, a suo dire, i vari elementi vengono definiti in modo circolare, facendo riferimento ad altri elementi del sistema, senza che si giunga mai a un principio che, proprio in quanto esterno al sistema medesimo, possa assicurarne la consistenza

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episte-ix

mologica. In altre parole, gli Aristossenici definiscono il numero di parti mini-me di cui i vari intervalli sono composti (due toni e mini-mezzo la quarta, tre toni e mezzo la quinta, sei toni l'ottava, ecc.), ma non definiscono mai in cosa consi-stano quelle parti. Tolemeo muove invece da un assunto diverso, che si regge sull'ilemorfismo aristotelico: egli assume che, dato un oggetto sensibile, la ra-gione si rivolga alla sua forma (εἶδος) e alla sua causa (αἴτιον), mentre la per-cezione alla materia (ὕλη) e all'affezione (πάθος). Ciò gli permette – almeno nelle intenzioni – di risolvere la contrapposizione tra ragione e percezione con il ricorso al principio sintetizzato nell'espressione aristotelica σῴζειν τὰ φαινόμενα, «preservare l'apparenza dei fenomeni». Poiché la natura non commette errori, né fa alcunché a caso, i sensi non possono essere fallaci; tutt'al più, possono soffrire di una certa debolezza (ἔνδεια) e quindi lasciarsi sfuggire i dettagli più precisi della realtà (τὸ ἀκριβές), mentre riescono a coglierne gli aspetti più grossolani (τὸ ὁλοσχερές). Quindi, se l'orecchio percepisce un in-tervallo come consonante, possiamo essere certi che esso è consonante. La ra-gione non può contraddire la percezione, ma può intervenire per spiegare

per-ché quel dato intervallo è percepito come consonante; in più, essa può

dimo-strare che utilizzando criteri razionali è possibile ottenere un altro intervallo che l'orecchio riconoscerà come ancora più preciso del primo, proprio come l'occhio è in grado di riconoscere che una circonferenza tracciata a mano libera è imprecisa se a questa ne viene accostata un'altra disegnata con l'ausilio del compasso. In questo modo Tolemeo si pone al riparo, almeno in linea di prin-cipio, dagli eccessi dei predecessori. Per lui il compito dello scienziato, tanto nell'armonica quanto nell'astronomia, non è accertarsi se vi sia accordo tra i fenomeni osservati e ciò che secondo ragione dovrebbe accadere: l'esistenza di quell'accordo, più che essere il risultato della ricerca, ne è invece il presuppo-sto. Sicché lo scienziato è chiamato a mostrare che esso vi è e in qual modo esso vi

sia.

In realtà, a dispetto delle dichiarazioni metodologiche dei primi capitoli del trattato, Tolemeo non è poi così equidistante dalle posizioni delle due scuo-le. Il suo orientamento complessivo è fondamentalmente pitagorico, come di-mostra non soltanto il peso accordato al monocordo come strumento didi-mostra- dimostra-tivo, ma soprattutto il fatto che tutte le sue divisiones tetrachordi nei vari generi e nelle varie sfumature sono ispirate all'eccellenza e alla preferibilità dei rapporti superparticolari. La volontà dello scienziato di afferrare tutte le sfumature del-le scadel-le effettivamente usate dai musicisti pratici, traducendodel-le però in una forma matematicamente elegante, lo porta a un grado di complicazione mate-matica mai raggiunto prima, almeno a nostra conoscenza, in un trattato di teo-ria musicale. D'altro canto, la sua concezione della scienza e dei suoi obiettivi

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x

lo conduce a costruire dei legami tra le due discipline che una lunga tradizione – facente capo, ancora una volta, ad Archita – rappresentava come sorelle: l'armonica e l'astronomia. Gli ultimi capitoli degli Harmonica sono occupati da una serie di analogie tra i toni presenti nel sistema di due ottave e i movimenti degli astri, così come tra le strutture intervallari dei diversi tetracordi e le parti dell'anima; anche se tali collegamenti, come ho dimostrato altrove, sono possi-bili soltanto a prezzo di una certa semplificazione dei risultati raggiunti nelle parti più tecniche dell'opera. La summa della scienza armonica antica si chiude, così, aprendo una finestra sul mondo dell'infinitamente grande e sul piccolo cosmo dell'uomo, del suo agire sociale e politico e della sua ψυχή. Un'apertura che da un lato suona in sintonia con l'idea, cara agli intellettuali dell'età anto-nina (si pensi, ad esempio, a Galeno), della συμφωνία tra i saperi e dell'unità di principio e metodo delle diverse scienze, mentre dall'altro lascia intravedere un'esigenza di unità che non doveva lasciare indifferenti i filosofi neoplatonici.

1.5. Porfirio e gli "Harmonica"

Che un'opera siffatta destasse l'interesse del filosofo Porfirio di Tiro (234/235-305 ca.) non farà quindi meraviglia. Certo, è probabile che alcuni aspetti del trattato tolemaico non lo entusiasmassero affatto, se proprio non lo infastidi-vano. La disinvoltura con cui Tolemeo aveva trattato le sue fonti, attingendo largamente ad autori del passato anche recente – soprattutto a Didimo e Tole-maide – senza neppure menzionarli, doveva apparire disdicevole a Porfirio, che alla scuola ateniese di Longino aveva appreso l'acribia filologica e l'esegesi rigorosa dei testi, in particolare filosofici. Altrettanto censurabile doveva sem-brargli il fatto che Tolemeo avesse passato occasionalmente sotto silenzio le fonti in contrasto con la sua rappresentazione della scienza armonica e del suo sviluppo. Per esempio, tutta la trattazione tolemaica dei fattori che agiscono sulla variazione di altezza delle note si fonda sull'assunto che questa abbia natura quantitativa, senza che l'autore faccia parola dell'esistenza di un'altra corrente di pensiero, tutt'altro che trascurabile, che invece la descriveva in ter-mini qualitativi. Così, per far giustizia di questa scorrettezza metodologica, Porfirio regala ai suoi lettori, forse senza sospettare l'importanza che la sua scelta avrebbe avuto per i posteri, un lungo estratto dal De musica di Teofrasto, altrimenti perduto, che contiene una interessantissima confutazione dell'assun-to quantitativo. Però il nostro filosofo fu sicuramente affascinadell'assun-to dall'imponen-te sapienza madall'imponen-tematica dispiegata nelle pagine degli Harmonica, e soprattutto – se dobbiamo giudicare dal modo in cui scelse di impostare il commento – dalla riflessione di Tolemeo sui meccanismi e i criteri con cui l'uomo forma i propri

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giudizi e su di essi costruisce i concetti e infine la scienza. Come vedremo, le pagine in cui vengono delineate le fasi della formazione del giudizio sono tra le più preziose di tutto il Commento e suscitano nel lettore il rammarico che Porfi-rio non abbia superato le parti più tecniche della metà del secondo libro di To-lemeo e non sia giunto a commentare il terzo, in cui si trovano sia l'inquadra-mento dell'armonica nel suo rapporto con le altre scienze, sia i parallelismi con l'astronomia e la psicologia ai quali accennavo sopra. Chi si accosta al

Commen-to con l'aspettativa di trovarvi novità importanti nel campo dell'armonica in

quanto tale va incontro a una delusione: l'apporto di quest'opera alla nostra comprensione tecnica della teoria musicale antica è per lo più modesto e per così dire preterintenzionale, nel senso che avviene allorché le fonti citate siano per noi particolarmente preziose poiché sono le uniche disponibili. Porfirio non è un musico e non introduce alcuna innovazione nella teoria armonica; anzi in alcuni passaggi è persino possibile che egli non comprendesse perfettamente il testo che stava commentando. La sua opera sembra confermare il fatto che non si può parlare di una teoria musicale neoplatonica come di un oggetto netta-mente distinguibile, in termini tecnici, dall'apice rappresentato dagli Harmonica di Tolemeo. Insomma egli lesse gli Harmonica con l'occhio del filosofo che rite-neva l'armonica una parte costitutiva dell'edificio del sapere, ma non certo la sua pietra d'angolo.

Forse anche per questa ragione, il Commento non è tra le opere porfiria-ne più studiate.Da un lato l'apparente aridità della materia, l'incompiutezza e forse anche l'idea che si trattasse di un lavoro giovanile, hanno indotto gli sto-rici della filosofia a non attribuire all'opera molta rilevanza ai fini della com-prensione generale del pensiero di Porfirio, com'è evidente a chi consideri la rarità e l'esiguità, tra gli studi porfiriani dell'ultimo cinquantennio, dei contri-buti che toccano anche marginalmente il rapporto del filosofo con l'armonica.1

Dall'altro lato la struttura disomogenea e a volte caotica dell'opera, le occasio-nali incoerenze e la generale mancanza di una revisione finale hanno fatto sì che anche gli studiosi di musica greca antica vi si accostassero per lo più come a un repertorio di fonti e citazioni, valido non tanto in sé, quanto per il materia-le che contiene. Ad esempio, nel II volume dei Greek Musical Writings di An-drew Barker, che raccoglie in traduzione inglese annotata le fonti della teoria armonica e acustica, figurano tutti gli autori citati da Porfirio – lo pseudo-Aristotele, Teofrasto e i cosiddetti minor authors Eliano, Eraclide, Panezio, To-lemaide, Didimo, cui è dedicato un capitolo apposito2 – ma, significativamente,

1 Si veda ad esempio, in generale, l'utilissima rassegna bibliografica di Girgenti 1994. 2 Barker 1989: 229-244.

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manca proprio il Commento. Questo tipo di approccio, che vede l'opera essen-zialmente come un contenitore, può ancora dare qualche frutto, specie per quanto riguarda l'esatta definizione dei confini di alcune citazioni, i casi di citazioni che ne contengono altre e i passaggi in cui il commentatore utilizza chiaramente materiale lessicale altrui, pur senza indicare la fonte.1 Sviluppi più

recenti della ricerca hanno mostrato, tuttavia, che il Commento merita attenzio-ne anche come opera in sé. Uno dei primi contributi in tal senso è quello di Stephen Gersh (1992), che ha proposto un'interpretazione complessiva dell'o-pera come descrittiva dell'approccio neoplatonico alla teoria armonica, eviden-ziando tra l'altro come Porfirio attribuisca un nuovo peso filosofico a vocaboli come δύναμις, λόγος, ἁρμονία, che avevano già una precisa collocazione nel lessico tecnico dell'armonica. Negli ultimi anni poi l'opera sembra finalmente oggetto di un interesse più ampio.2

Non sappiamo a quale momento della vita di Porfirio risalga il

Com-mento, né se sia frutto di un unico periodo di studio o sia stato invece composto per intervalla. Come vedremo, possiamo immaginare che egli abbia letto il

trat-tato tolemaico da giovane, mentre si trovava ad Atene, nel fervore dei suoi studi di filologia e matematica; oppure che, ormai più che trentenne, si sia de-dicato agli Harmonica mentre era alla ricerca di un'armonia più personale – quella che aveva perduto negli anni romani e che adesso cercava di ritrovare, tra i suoi studi e la corrispondenza con Plotino, nella quiete di Lilibeo. Ci piace però pensare che l'ignoto Eudossio abbia letto il Commento che Porfirio gli indi-rizzava con la stessa gratitudine con cui lo riceve il lettore d'oggi, e che abbia risposto con la benevolenza che l'autore si attendeva:

1 In questa edizione, ad esempio, suggerisco che alcune frasi sul rapporto tra i concetti di isotonia e omofonia (114.9-11) appartengano in realtà a Tolemaide di Cirene; in un altro luogo (24.5) ho leggermente ridefinito l'esatto punto in cui termina un'altra citazione da Tolemaide. Tuttavia è ormai tempo che l'opera venga vista anche da altre angolazioni. Pro-prio le citazioni possono offrire l'occasione, ad esempio, per cercare di ricostruire i percorsi che hanno condotto il commentatore a collocare determinati passi di certi autori in un de-terminato ordine, per giungere a una migliore comprensione della sua rete di letture e del tipo di biblioteca di cui disponeva (un tentativo in questo senso è da me proposto in Raffa 2013a).

2 Nel Novembre del 2011 ha avuto luogo presso la Humboldt-Universität di Berlino, per la prima volta, un nternational Workshop dedicato esclusivamente a quest'opera (Porphyry's Commentary on the Harmonics of Claudius Ptolemy, Humboldt-Universität zu Berlin, 4-5 No-vembre 2012, a cura di Christoph Helmig e Dorothea Prell, http://www.topoi.org/wp-content/uploads/2011/01/Poster_Porphyry.pdf). In più, oltre alla presente edizione, sta per vedere la luce l'edizione con traduzione inglese e commento di Andrew Barker (Cambri-dge).

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ἃ μὲν οὖν ἀναγκαῖον ἦν μοι προειπεῖν, ἔστι ταῦτα. παρεὶς δέ σοι κρίνειν τὴν ἐξήγησιν ἐντεῦθεν ἄρχομαι τοῦ προκειμένου.

«Queste le premesse che era necessario che io fa-cessi. Da qui in avanti inizio il compito che mi sono prefisso e lascio a te giudicare il commento»

(5.17-18)

2.L'OPERA

2.1. Il titolo

ὑπόμνημα, ὑπόθεσις, ἐξέγησις, ἑρμηνεία: sotto questi titoli una cospicua tradizione manoscritta (vd. infra) ci consegna il Commento agli 'Harmonica' di

Tolemeo attribuito a Porfirio, che termina alla fine del cap. II, 7. Nonostante

l'autore stesso, nell'unica occasione in cui si riferisce alla propria opera (5.18), usi il nome di ἐξέγησις, il titolo più frequente e attestato nei manoscritti gliori1 è ὑπόμνημα: termine dall'ampio spettro semantico, che comprende

di-versi generi di scrittura filosofica. Come risulterà chiaro dall'analisi della forma e della struttura dell'opera, non è possibile descriverla come ὑπόμνημα nello stesso senso in cui Galeno aveva così definito il suo trattato De usu partium2

un testo autonomo e in sé compiuto, che a differenza del nostro non vive in rapporto simbiotico con un altro; d'altra parte, l'opera non possiede neppure la sistematicità che caratterizza, ad esempio, il Commento di Alessandro agli

litici primi di Aristotele, per la quale pure il filosofo di Afrodisia aveva usato la

denominazione di ὑπόμνημα.3 Delle varie accezioni del termine rimane allora

quella, più vicina all'etimologia e probabilmente più antica, di «raccolta di ap-punti», concepita come aiuto alla memoria per una conferenza o un ciclo di

1 ὑπόθεσις si trova nei mss. 30 e 63; ἐξήγησις si trova, aggiunto a ὑπόμνημα, nel 50 e nel 73; infine ἑρμηνεία è affiancato a ὑπόμνημα nei mss. 6, 71, e 74, tutti appartenenti alla cosiddetta "famiglia g" di Düring, da lui considerata poco attendibile (1932: XXXVI; XXII-XXIV; vd. pure infra). Il ms. 54, della famiglia m, non reca alcun titolo. (NB: i numeri in grassetto si riferiscono alla mia numerazione dei mss., cfr. la tabella alle pp. li e ss.)

2 Galen. de plac. Hipp. et Plat. I, 10.17.1-3 οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ ἐν ταῖς ἀνατομικαῖς ἐγχειρήσεσι καὶ τοῖς Περὶ χρείας μορίων ὑπομνήμασιν ἐπὶ πλέον ὑπὲρ ἁπάντων τούτων διέξιμεν. 3 Alex. Aphrod. in Arist. top. p. 7.12 Wallies περὶ τοῦ ὅρου τοῦ συλλογισμοῦ καὶ τῶν πρὸς αὐτὸν ὑπό τινων προσαπορουμένων εἴρηται μὲν ἡμῖν καὶ ἐν τοῖς εἰς τὰ Πρότερα ἀναλυτικὰ ὑπομνήμασιν· κτλ.

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lezioni:1 fisionomia alla quale il Commento porfiriano – con le sue forti

disomo-geneità quantitative e qualitative, il suo dettato disadorno e a tratti quasi sciat-to e la sua stessa incompletezza – sembra corrispondere molsciat-to meglio che alle precedenti.

2.2. Autenticità e unità

Alcune caratteristiche della tradizione manoscritta (per la quale vd. infra) potrebbero indurre a vedere una sorta di cesura tra la fine di I, 4 e l'inizio di I, 5. In primo luogo, la seconda parte è introdotta nel ms. 55 (= V187 di Düring)

con un nuovo titolo (εʹ. περὶ τὼν εἰς τὰς ὑποθέσεις τῶν συμφωνιῶν τοῖς Πυθαγορείοις παραλαμβανομένων), che poi è quello del relativo capitolo degli Harmonica di Tolemeo; secondariamente, l'esordio di I, 5 con una citazio-ne sulla causa comucitazio-ne di «tutte le note», tratta dall'introduziocitazio-ne della Sectio

canonis pseudoeuclidea (90.7-8 χρὴ γινώσκειν ὅτι τῆς ἁρμονικῆς «πάντες οἱ

φθόγγοι γίνονται πληγῆς τινος γενομένης· κτλ.»), dà al discorso un tono incipitale, che potrebbe far pensare all'avvio di una nuova opera. A ciò si ag-giunga il fatto che, probabilmente per un infortunio della tradizione manoscrit-ta (vd. infra), il ms. 53 = A di Düring) reca la dicitura Πάππου ὑπόμνημα εἰς τὰ ἀπὸ τοῦ εʹ κεγαλαίου καὶ ἐφεξῆς e poi introduce la terza parte come τοῦ αὐτοῦ ἐξήγησις εἰς τὸ δεύτερον τῶν ἁρμονικῶν τοῦ Πτολεμαίου. Inoltre nel ms. 11 l'opera è intitolata Θέωονος Αλεξανδρέως ἁρμονικὰ κεφ. αʹ. Τί ἡ αἴσθησις τῆς συμφωνίας ἡ καταλαμβανομένη τῆς ἁρμονικῆς e l'incipit, che poi è quello del commento a I, 5, è enfatizzato da un'apostrofe indirizzata a un tal Filone (χρὴ γινώσκειν, ὦ Φίλων ἐμοί, ὅτι τῆς ἁρμονικῆς κτλ.).

Non sorprende quindi che siano sorte le questioni, tra loro correlate, della paternità e dell'unità del Commento. Almeno a partire dall'umanista sviz-zero Lucas Holste si impose l'attribuzione a Porfirio della sola prima parte e delle altre due a Pappo Alessandrino. Holste, dopo aver studiato alcuni codici vaticani e parigini,2 era categorico in proposito:

"Porphyrii commentarius in harmonica Ptolemaei. Habetur bis terve in bibliotheca Vaticana; idemque in Christianissimi Galliarum Regis bibliotheca Parisiensi

1 Vd. e.g. Pl. Phaedr. 276d 1-4 οὐ γάρ· ἀλλὰ τοὺς μὲν ἐν γράμμασι κήπους, ὡς ἔοικε, παιδιᾶς χάριν σπερεῖ τε καὶ γράψει, ὅταν [δὲ] γράφῃ, ἑαυτῷ τε ὑπομνήματα θησαυριζόμενος, εἰς τὸ <λήθης γῆρας> ἐὰν <ἵκηται>,κτλ. Sulle sottili differenze tra i termini riguardanti il concetto di "commento" nelle scuole filosofiche (ὑπόθεσις, ἐξήγησις, ἑρμηνεία e soprattutto ὑπόμνημα) rimando generaliter a Romano 1994: 593-596.

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xv

asservantur. Principium eius hoc est: Πολλῶν αἱρέσεων οὐσῶν – φαίνεται [3.1-3]. Totus ferme commentarius contextus est ex antiquiorum autorum locis […]. neque tamen in universum ἁρμονικῶν opus scripsit Porphyrius, sed in quatuor dumtaxtat prima capita: caetera dein Pappus pertextuit. Ita enim in alio manuscripto Vaticano titulus indicat. Πορφυρίου ἐξήγησις εἰς δʹ πρῶτα καφάλαια τοῦ πρώτου τῶν ἁρμονικῶν Πτολεμαίου. Sequitur deinde, Πάππου ὑπόμνημα εἰς τὰ ἀπὸ τοῦ εʹ κεφαλαίου, καὶ ἐφεξῆς."1

Sulla stessa linea si sarebbero collocati il Fabricius e il Montfaucon. Tuttavia il fatto che nei codici disponibili in Oxford (vd. supra) non vi fosse traccia dell'at-tribuzione a Pappo suscitava le perplessità di Gerard Langbaine:

"Atqui in Codicibus illis quos nos Oxonii MSSos evolvimus tres […] nullum prorsus hujusce rei vestigium extat."2

Dalle posizioni del filologo inglese prese le mosse John Wallis, che trattò l'ope-l'opera come un corpo unico e l'attribuì senza dubbio al filosofo di Tiro per le seguenti ragioni: a) tale attribuzione era esplicitamente affermata dalla titolatu-ra dei codici oxoniensi; b) due codici degli Harmonica, che egli chiama G e I, recavano alla fine di II, 7 l'annotazione ἰστέον ὅτι μέχρι τοῦδε μόνον, τὴν Πορφυρίου ἐξήγησιν εὕρομεν («si tenga a mente che il commento di Porfirio si trova solo fino a questo punto»);3 c) non vi erano ragioni, né stilistiche né

contenutistiche, per postulare l'esistenza di un diverso autore per la seconda parte.

Tuttavia la tesi analitica avrebbe trovato ancora illustri sostenitori. Charles-Émile Ruelle, dopo aver esaminato l'Escurialensis gr. 556 nel corso di

1 Holstenius 1655: 38-39 passim (corsivi originali). 2 Riportato da Wallis 1699: 187.

3 I = Coll. S. Johann. Gr. 30, XVI sec. = n. 41 nella recensio del Düring, appartenuto a William Laud, Arcivescovo di Canterbury, da lui donato al St. John's College di Oxford e poi giunto a Wallis grazie a William Levinz, Regius Professor of Greek in Oxford; e G = Coll. Trin. Can-tabrig. I, XVII sec. = n. 7 del Düring, che Wallis aveva avuto da Thomas Gale, allora prefetto della S. Paul's School di Londra. Wallis sapeva che G era stato copiato da I non molti anni prima che che i due mss. venissero portati alla sua attenzione, tanto da considerare i due testimoni come uno solo ("G & I, habeo itidem instar unius", Wallis 1699: Praefatio ad Ptol. harm., senza n. di pag.). In ogni caso, va notato come la posizione di Wallis non sia esente da contraddizione: mentre nella Praefatio a Tolemeo egli riconosceva l'irrilevanza di G in quan-to descriptus e mostrava di non ritenere particolarmente attendibili gli scolii ("Codici I, pas-sim adscripta erant […] scholia (partim marginalia, partim interlinearia) incerto authore […] sed quae sine magno damno abesse possunt […]", ibid.), nella Praefatio al Commento (1699: 187) utilizzava proprio uno scolio presente in enbtrambi i codici per avvalorare la paternità porfiriana dell'opera.

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una missione di studio condotta per conto del governo francese nei primi anni '70 del XIX secolo, recuperava l'ipotesi dello Holste che il Commento dovesse essere ripartito "entre plusieurs rédacteurs" e, prendendo per autentica l'apo-strofe a Filone all'inizio di I, 5 che si legge in quel manoscritto (vd. infra), iden-tificava l'ignoto personaggio nel matematico Filone di Tiana citato, appunto, da Pappo.1 Ma in quello studio il Ruelle si spingeva ancora oltre: egli infatti

identi-ficava Eudossio, dedicatario della prima parte del Commento (vd. supra), con il retore cui sono indirizzate alcune epistole di Libanio e Gregorio di Nazianzo.2

Ora, poiché questo Eudossio era fiorito nel pieno IV secolo, era impossibile che Porfirio, morto intorno al 305, potesse avergli dedicato un suo scritto: quindi, concludeva il Ruelle, Porfirio non poteva essere autore neppure della prima parte del Commento. Pertanto il commento a I, 1-4 veniva da lui assegnato a Pappo e il resto, secondo l'intestazione dell'Escurialensis gr. 556, a Teone d'Ales-sandria.3 È appena il caso di sottolineare i difetti metodologici di

quest'argo-mentazione, che da un lato dava credito al solo manoscritto escurialense contro l'evidenza dei molti altri all'epoca già noti – e ciò nonostante lo studioso fosse a conoscenza del fatto che il manoscritto era stato copiato da quell'Andreas Darmarios la cui fama di falsario era già nota al Boissonade, al Colville e allo stesso Holste;4 dall'altro lato, di fronte all'impossibilità cronologica di un

rap-porto tra Porfirio e l'Eudossio conosciuto da Libanio e Gregorio di Nazianzo, negava a Porfirio anche la paternità della prima parte del Commento, benché unanimemente attestata da tutti i codici, mentre non considerava neppure la possibilità che vi fossero diversi personaggi con questo nome (ma su questo vd. infra).

Quella del Ruelle rimane comunque una posizione estrema. Fino ai primi anni del XX secolo gli studiosi oscillavano tra la ripartizione dell'opera

1 Papp. Alex. Collect. IV, 36, vol. I, p. 270 Hultsch (la proposizione in cui è menzionato Filone è la n. 36 e non 30 come erroneamente indicato da Ruelle 1875: 514).

2 Nell'epistolario di Libanio ricorre un Eudossio, di origine armena, che fu vescovo di Antio-chia (Liban. ep. 645 et 646, vol. X, pp. 590-591 Förster); Seeck (1906: 132) distingue questo personaggio dall'onomimo retore cappadoce con interessi filosofici noto a Gregorio di Na-zianzo (Greg. Naz. ep. 37.2; 38.3) e dal di lui figlio, anch'egli destinatario di alcune epistole del Nazianzeno (174-180; 187) e forse dell'epistola VIII, 31 di Simmaco (però l'interlocutore di Simmaco, a differenza dei due Eudossi di Gregorio, doveva essere probabilmente pagano: vd. McGeachy 1949: 226, n. 25).

3 Ruelle 1875: 514.

4 Su Andrea Darmario e sulla sua controversa figura di copista che all'occorrenza "aggiusta-va" la realtà secondo le aspettative dei suoi ricchi committenti, sia pure senza allontanarsi mai troppo dalla verosimiglianza, vd. e.g. Browning (1955: spec. 200).

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tra Porfirio e Pappo1 e la sospensione del giudizio.2 L'unico tentativo di negare

l'unità dell'opera su basi contenutistiche è quello di P. Leander Schönberger (1914: 127-128), che vedeva una contraddizione tra la teoria qualitativa dell'al-tezza sposata dall'autore del commento a I, 4 e quella quantitativa esposta all'inizio del commento a I, 5. A suo dire lo iato tra le due concezioni era trop-po forte per trop-potersi spiegare soltanto con l'utilizzo di due fonti diverse da parte di un unico autore; egli dunque ipotizzava che il progetto di Porfirio commen-tare gli Harmonica nella loro interezza fosse stato interrotto dalla morte e poi proseguito da Pappo.

Sarebbe toccato a Ingemar Düring di dire una parola definitiva sulla questione. Forte di una recensio di ampiezza fino ad allora ineguagliata, lo stu-dioso svedese poté agevolmente dimostrare la genesi paleografica dell'errore che attribuiva la seconda parte del Commento a Pappo (vd. supra) e, di conse-guenza, ebbe buon gioco nel demolire le tesi del Ruelle. Quanto agli argomenti analitici di tipo contenutistico, egli recuperò quanto sostenuto dal Wallis circa la sostanziale unità stilistica dell'opera (vd. supra), e in più rilevò l'esistenza di rimandi tra le diverse parti del Commento, che si spiegano soltanto con l'unita-rietà di composizione. Infine l'allusione dell'autore a un altro suo scritto a pro-posito dell'estensione della cosiddetta "scala del Timeo" (115.30-116.1) fu da lui intesa, assai plausibilmente, come riferita al perduto Commento scritto da Porfi-rio a quel dialogo platonico.3

La questione della paternità del Commento può dirsi dunque risolta: si tratta di un'opera unitaria, scritta dal filosofo Porfirio di Tiro. Tuttavia altri problemi rimangono aperti, come vedremo nelle pagine che seguono.

2.3.Destinatario e dedicatario

Nell'approccio alla questione di quale lettore Porfirio avesse in mente per il

Commento è opportuno considerare il piano del destinatario, inteso come la

figura ideale di riferimento, e quello del dedicatario, cioè la persona storica cui l'opera fu effettivamente dedicata. I due piani non sono del tutto separabili, poiché ovviamente l'autore deve aver visto nel dedicatario un degno rappre-sentante delle caratteristiche e delle aspettative che postulava nel destinatario;

1 Così Jan in MSG: 116; Hultsch 1878: XII. 2 Boll 1894: 93.

3 Düring 1932: XXXVIII-XXXIX. Ai luoghi citati dal Düring come esempi di rimandi interni se potrebbero aggiungere parecchi altri; qui basterà notare, con Andrew Barker, come la conce-zione del rapporto tra ragione e perceconce-zione richiamata a II, 1 (151.5-16) sia in perfetto accor-do con la digressione gnoseologica di I, 1 (11.4-15.29).

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tuttavia da un punto di vista metodologico converrà mantenerli distinti, poiché se da un lato si può tracciare abbastanza agevolmente un profilo del destinata-rio sulla base delle conoscenze che l'autore presuppone in lui, con lo scopo di comprendere meglio l'humus nella quale il nostro testo fu concepito, l'identifi-cazione del dedicatario – l'Eudossio nominato nell'incipit – è invece destinata, a meno che non intervengano elementi nuovi, a rimanere oggetto di un'onesta professione di ignoranza, o tutt'al più di caute congetture come quella che a-vanzerò nelle prossime pagine.

Esaminiamo dunque il piano del destinatario. Lo spazio culturale con-diviso, per così dire, in cui il commentatore intende costruire il proprio discor-so, così come viene delineato fin dalle pagine introduttive (3.1-5.18), si inqua-dra prevedibilmente entro coordinate platoniche. Il dettato è impreziosito da una citazione esplicita dal Simposio (5.5) e, se è giusta la mia supposizione, da un'altra, assai più occultata nelle pieghe del discorso, dalla VII Lettera (4.22-5.1, vd. ad loc.); ma Platone è presente anche a un livello più profondo, come ad esempio nell'esaltazione del valore della matematica e dei suoi procedimenti dimostrativi quali strumenti di conoscenza (3.19-4.8). Il lettore del Commento non doveva essere, quindi, un principiante in fatto di filosofia, tanto più se si considera che almeno in un'occasione Porfirio lo esorta ad approfondire un problema non facile – se l'altezza delle note abbia natura quantitativa o qualita-tiva – per proprio conto, evidentemente poiché lo ritiene capace di studio au-tonomo (53.2-3). D'altra parte, se dalla filosofia ci spostiamo nei campi più set-toriali della matematica e dell'armonica, sembra che Porfirio postuli nel desti-natario un livello di conoscenze sensibilmente inferiore. Quanto alla matemati-ca, si pensi alla pedante meticolosità con cui Porfirio illustra operazioni aritme-tiche anche semplici, come quelle relative alla somma e differenza degli inter-valli musicali e dei rispettivi rapporti (104.5-112.3), oppure alla descrizione minuziosa dei calcoli necessari per esprimere le divisioni tetracordali di Tole-meo secondo serie numeriche coerenti (142.14-150.22). Quanto all'armonica, ci si sarebbe aspettati che uno che si accingeva allo studio del trattato di Tolemeo non fosse del tutto ignaro dei rudimenti della teoria musicale; invece Porfirio non dà nulla per scontato, tanto che non ritiene superfluo soffermarsi su un concetto basilare come la distinzione aristossenica tra voce continua e discreta, per di più utilizzando un repertorio di esempi e immagini – quella del tronco che si spezza per illustrare il "cadere" della voce discreta su determinate altezze (86.17-24); oppure quella delle colonne (125.19-24), o dei passi più o meno lun-ghi, per spiegare i diversi modi di dividere il tetracordo (95.13-19) – tratto, con ogni verosimiglianza, dalla vulgata dei maestri di musica più che dalle opere del filosofo di Taranto (vd. note ad loc.). Si può affermare quindi che Porfirio si

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rivolgeva a una comunità di lettori dotti, forse filosofi anch'essi, non specialisti di armonica, ma interessati ad essa come a un necessario complemento della propria cultura: lettori che potessero avvertire il bisogno di accostarsi a un'ope-ra difficile come gli Harmonica di Tolemeo – già percepita come la summa di una parte importante della enkyklios paideia – pur non essendo in grado di af-frontarla senza l'ausilio di un commento. In questo tipo di comunità, la mag-giore specializzazione di uno dei membri viene di volta in volta in soccorso delle esigenze e delle carenze degli altri. Un ambiente siffatto presenta molti punti di contatto non solo con quanto sappiamo della scuola ateniese di Longi-no,1 ma anche con la descrizione che lo stesso Porfirio fa della scuola di

Ploti-no;2 a questo punto però la questione del dedicatario interseca quella della

datazione del Commento, che affronterò più avanti (vd. infra).

Passiamo ora al piano del dedicatario. Poiché né il testo in sé, né le noti-zie in nostro possesso sulla vita e le relazioni di Porfirio permettono di dare a questo nome una concreta fisionomia storica, gli studiosi hanno mostrato per lo più un giustificato scetticismo sulla possibilità di identificare Eudossio. Il Düring, dopo aver giustamente rigettato l'idea del Ruelle che egli fosse il me-desimo personaggio ricordato da Libanio e Gregorio di Nazianzo (vd. supra), affermava doversi trattare, ohne Zweifel, di un allievo di Porfirio.3 Ciò è

ovvia-mente possibile; tuttavia la semplice relazione gerarchica tra maestro e allievo non spiega, a mio avviso, alcune sfumature del testo. Ad esempio, il modo con cui Porfirio si rivolge a Eudossio alla fine dell'introduzione, quando affida la propria fatica al giudizio di lui (ἃ μὲν οὖν ἀναγκαῖον ἦν μοι προειπεῖν, ἔστι ταῦτα. παρεὶς δέ σοι κρίνειν τὴν ἐξήγησιν ἐντεῦθεν ἄρχομαι τοῦ προκειμένου, 5.17-18), ancorché probabilmente dettato da semplice politeness piuttosto che dall'effettiva convinzione che Eudossio fosse in grado di valutare l'opera di Porfirio, sembra piuttosto nascere all'interno di una relazione più paritaria, forse anche d'amicizia. Quindi, tenuto conto anche del profilo generale del destinatario, tenderei a ritenere che la figura storica del nostro dedicatario debba essere quella di un dotto, con forti interessi filosofici, vissuto non oltre la prima metà del IV secolo. Ora, un repertorio prosopografico auto-revole come il PLRE (I, 290) non registra individui con il nome di Eudossio prima degli anni '80 del IV secolo, ossia ben dopo la morte di Porfirio; tuttavia una più recente integrazione di Sergio Roda (1980: 99) segnala la menzione di

1 Vd. e.g. Euseb. praep. ev. X, 3.1. 2 Vd. e.g. Porph. V. Plot. 7-10.

3 Düring 1932: XXXI "Die Schrift ist einem gewissen Eudoxios zugeeignet, ohne Zweifel ei-nem Schüler des Porphyrios."

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un filosofo platonico in un'iscrizione musiva in distici elegiaci1 del complesso

edilizio dell'antica Heliopolis, in Celesiria (oggi Baalbek, nella Valle della Be-qā').2 Per comodità riproduco l'iscrizione e la sua trascrizione secondo il testo

di Rey-Coquais (1967: 170-171)3:

Iscrizione musiva dal palazzo di Baalbek

(da M. Chéhab, «Bullettin du Musée de Beyrouth» 15, 1958, tav. XXI, 3)

οἶκον Ολυμπίοιο παῖς τεκτήνατο τοῦτον Πατρίκιος, σοφίης ἄξιος Εὐδοξίου τοῦ Πλατωνιαδᾶο σαόφρονος· ἀλλὰ καὶ αὐτὸς

ἄξια τῆς προ[γ]ηνῶν εὐσεβίης φρόνε[ε]

παῖς: πάϊς malim metri causa; ἄξιος: ἅξιο[ς] Mouterde-Chéhab ἄξιον Peek; ἀλλά: <ἄ>λλα Chéhab; προ[γ]ηνῶν: προ[γη]νῶν Mouterde-Chéhab προ[φ]ανῶν Peek; φρόνε[ε]: φρονέε[ι] Peek.

«Questa dimora l'ha costruita il figlio di Olimpio, Patrizio, degno della sapienza di Eudossio, saggio platonico; e anche per il resto egli aveva pensieri degni della pietà degli antenati».

1 IGLSyrie VI, 2886. Commento linguistico e stilistico di Mouterde-Chéhab 1957: 43-46; Peek 1976. Vd. pure Dareggi 1999.

2 Antico insediamento ellenistico (Cohen 2006: 254-255, con bibliografia), Heliopolis era tra il II e il III secolo un fiorente centro religioso e commerciale; fra l'altro, poiché si trovava sulla via delle spezie che andava dal Mediterraneo all'estremo Oriente, era molto ben collegata a Tiro, città natale di Porfirio.

3 Concordo con la Puech (2000, 302) nel non accettare le letture proposte da Peek 1976: in particolare, leggere ἄξιον [scil. οἶκον] in luogo di -ος significherebbe intendere che l'edificio, e non il proprietario, sarebbe stato degno della sapienza di Eudossio; il che è quantomeno bizzarro.

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Poiché l'assetto complessivo dell'edificio è il risultato di una serie di amplia-menti successivi, non è facile datare l'iscrizione; d'altra parte, è evidente che da questa datazione non può venire nulla più che il terminus ante quem per il floruit di Eudossio, la cui cronologia, di conseguenza, rimane incerta in ogni caso. Per dare una misura degli estremi cronologici di tale incertezza, basti ricordare che questo personaggio è stato identificato tanto con il platonico Eudosso di Cnido (IV sec. a.C.)1, quanto, in una recente ipotesi di Gianna Dareggi (1999), con il

noto giureconsulto Eudossio, fiorito addirittura nel V secolo d.C.2 Quest'ultima

ipotesi si scontra con il fatto che le caratteristiche dei mosaici sembrano sugge-rire un arco temporale compreso tra la seconda metà del III secolo e la fine del IV;3 la prima è invece assai meno probabile, non soltanto per la difficoltà di

spiegare la differenza tra εὔδοξος e εὐδόξιος, con buona pace di chi ha voluto vedervi un aggiustamento ortografico metri causa, ma soprattutto perché il le-game tra Patrizio, ricco intellettuale siriano di età imperiale, e Eudosso di Cni-do, originario della Caria e vissuto almeno sette secoli prima, appare troppo debole per motivare la menzione del secondo nei versi autocelebrativi fatti apporre dal primo nella propria dimora. La presenza del nome di Eudossio si spiega assai meglio, a mio avviso, se si ipotizza che egli fosse un filosofo cono-sciuto e apprezzato nella comunità locale di Heliopolis, legato a Patrizio per il fatto di essere un suo parente o antenato, oppure di essere stato suo maestro.4

In questo quadro appare per lo meno possibile, anche se non dimostrabile con certezza, che la vita di Eudossio si sia in parte sovrapposta a quella Porfirio, e

1 Mouterde-Chéhab 1957: 45-46; Rey-Coquais 1967: 170 e n. 2; Dareggi 1999: 191.

2 Per ammissione della stessa Dareggi, l'ipotesi non è dimostrabile con certezza (1999: 193 "Tuttavia il condizionale – ancora una volta – resta d'obbligo!"), poiché non vi sono elementi sufficienti per provare che Patrizio e Eudossio fossero effettivamente i noti giuristi della scuola di Berito fioriti nel V secolo (ibid.: 191, n. 7).

3 In particolare, al III-IV secolo andrebbe assegnato il mosaico raffigurante i Sette Sapienti, mentre alla fine del IV secolo risalirebbe quello con la nascita di Alessandro Magno (vd. Mouterde-Chéhab 1957: 48-49; Dareggi 1999: 190 e nn. 2 e 5; Roda 1980: 99). Quanto all'iscri-zione, le sue caratteristiche stilistiche sono ritenute compatibili con le 'acclamazioni' in voga fino al V secolo. La Dareggi (1999: 190) sostiene che il Mouterde avrebbe avvicinato l'iscri-zione «al linguaggio tipico delle 'acclamazioni' del IV-V sec. d.C.», ma in effetti sembra che ella forzi leggermente il pensiero dello studioso francese in funzione della sua tesi (vd. n. prec.), giacché il Mouterde (Mouterde-Chéhab 1957: 44) scriveva che "le style rappelle – par la répétition des mots ἄξιος, ἄξια – le langage des 'acclamations' jusqu'aux IVe et Ve siècles" (corsivo mio); quindi egli non escludeva una datazione più alta. Peek (1976) la assegna dubi-tativamente al III secolo.

4 L'Eudossio di Baalbek è assegnato al IV secolo da Puech 2000; tuttavia il Dictionnaire des Philosophes Antiques lo distingue dal dedicatario del Commento porfiriano, cui è riservata una diversa, brevissima entry (Goulet 2000).

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quindi che il dedicatario del Commento possa essere proprio lui. Non si do-vrebbe dimenticare, infine, chesia l'iscrizione, sia l'intero complesso edilizio di Baalbek sembrino ispirati agli ideali culturali di un'aristocrazia locale ancora fortemente legata al paganesimo: il che rende ancor più plausibile una comu-comunanza di ideali, se non un'amicizia, tra questo Eudossio e l'autore del Κατὰ Χριστιανῶν.1

2.4.Datazione: il Commento nel contesto del pensiero porfiriano

Non è impresa semplice assegnare la stesura del Commento a un determinato momento della vita del suo autore, giacché il testo, ancora una volta, non offre alcun elemento di datazione. Altrettanto difficile è collocarlo nel quadro di una pretesa evoluzione del pensiero porfiriano, sia perché il Commento è un unicum nella produzione del nostro filosofo e mal si presta a confronti con gli altri suoi scritti, sia perché è assai dubbio che nel complesso dell'opera di Porfirio si pos-sano individuare chiare direttrici di sviluppo.2 Ritengo però che si possa

tenta-re di portenta-re in tenta-relazione alcune idee affermate nel Commento – soprattutto, come vedremo, in materia di gnoseologia – con i contesti culturali e filosofici con i quali Porfirio entrò in contatto nelle diverse fasi di quell'avventura complessa e variegata che fu la sua vita culturale. Non sarà inutile, pertanto, richiamare qui brevemente i concetti e i problemi più importanti che riguardano la nostra co-noscenza di questo iter.

A partire dall'ormai classico studio di Joseph Bidez (1913), è invalso l'u-so di periodizzare la vita del nostro secondo uno schema che comprende la fase siriaca (dalla nascita nel 234/235 fino al trasferimento ad Atene), quella ateniese trascorsa alla scuola di Longino (fino al 263) e infine quella romana, che inizia appunto nel 263.3 Questa tripartizione fornisce tuttora un'utile

corni-ce cronologica di riferimento, sebbene la lettura in un corni-certo senso teleologica che ad essa era legata originariamente, soprattutto nel pensiero dello stesso Bidez e poi di Francesco Romano (1979) – un percorso in cui Porfirio si sarebbe

1 Vd. Mouterde in Mouterde-Chéhab (1947: 44-45); Rey-Coquais (1967: 171); Cracco Ruggini (1965: 8-10, spec. nn. 14-16). Tutta la concezione del complesso edilizio esprime fedeltà all'i-deale culturale pagano: si pensi ai mosaici raffiguranti i Sette Sapienti a banchetto e soprat-tutto la nascita di Alessandro Magno (Chéhab in Mouterde-Chéhab 1957: 32-36; 46-48). 2 Smith 1987: 722-723.

3 Questa data è abbastanza sicura: vd. Porph. V. Plot. 4.1-4 τῷ δεκάτῳ δὲ ἔτει τῆς Γαλιήνου βασιλείας ἐγὼ Πορφύριος ἐκ τῆς Ἑλλάδος μετὰ Ἀντωνίου τοῦ Ῥοδίου γεγονὼς καταλαμβάνω μὲν τὸν Ἀμέλιον ὀκτωκαιδέκατον ἔτος ἔχοντα τῆς πρὸς Πλωτῖνον συνουσίας, κτλ.

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progressivamente allontanato dalla fascinazione di un Oriente magico ed eso-terico, che aveva assorbito nei primi anni di vita, per ascendere prima alla logia e parzialmente alla filosofia per merito di Longino, e infine alla pura filo-sofia con Plotino – sia stata già da tempo revocata in dubbio.1 Essa però non

basta a dissipare l'oscurità in cui è avvolta tutta la seconda parte della vita di Porfirio, ossia i quasi quarant'anni che vanno dal momento in cui egli lasciò Roma per la Sicilia (268) alla data presunta della morte (305). Per cominciare, non sono chiare le ragioni per le quali il filosofo lasciò Roma, sei anni dopo esservi giunto, e si recò in Sicilia, a Lilibeo (nei pressi dell'odierna Marsala), presso un certo Probo. Il noto racconto dello stesso Porfirio, secondo il quale Plotino intuì il pericolo che il suo discepolo cedesse alle tentazioni suicide pro-vocate «da uno stato di morbosa melancolia»2 e gli consigliò di partire,

salvan-dogli così la vita, è riportato da Eunapio (IV-V sec.), nella sua Vita di Porfirio, in una versione sensibilmente diversa: prima di tutto il malessere di Porfirio non dipende da cause patologiche, ma dalla sua reazione all'insegnamento del ma-estro, che lo porta a detestare il suo stesso corpo e la sua natura umana;3 in

secondo luogo, mentre Porfirio sottolinea che dopo quella partenza non avreb-be più rivisto il maestro – Plotino infatti sarebavreb-be morto nel 270 a Minturno, al confine tra Lazio e Campania, malato e senz'altra compagnia che quella dell'a-mico medico Zeto e del fidato allievo Eustochio –, Eunapio narra come Plotino cercò l'allievo (che in questa versione era fuggito da Roma all'insaputa del ma-estro e non partito su sua esortazione), gli parlò a lungo e lo riconciliò con la vita – un episodio che doveva ispirare a Giacomo Leopardi il celeberrimo

Dilogo di Plotino e di Porfirio. Come risultato di quelle discussioni, che Plotino

a-vrebbe registrato in uno dei suoi scritti, Porfirio aa-vrebbe addirittura prodotto un commentario (ibid., 8-10).4 Non è necessario qui addentrarsi nelle possibili

ragioni della divergenza tra le due versioni:5 importa invece sottolineare, anche

1 Clark 2000: 6-7 con bibliografia alla n. 29.

2 ἐκ μελαγχολικῆς τινος νόσου, Porph. V. Plot. 11.

3 Eunap. V. Soph. IV, 1.7 εἶτα ὑπὸ τοῦ μεγέθους τῶν λόγων νικώμενος, τό τε σῶμα καὶ τὸ ἄνθρωπος εἶναι ἐμίσησεν, κτλ.

4 Eunap. V. Soph. IV, 1.78-10. Lo scritto plotiniano sarebbe da identificare, a parere del Soda-no e di altri, in Enn. 1.4; quanto al commento di Porfirio, sarebbe uSoda-no dei suoi scritti perduti, forse proprio lo ὑπόμνημα a Enn. 1.4 noto allo stesso Eunapio (Sodano 2006: 213-217). 5 Le divergenze tra le versioni di Porfirio ed Eunapio sono discusse accuratamente in Soda-no (2006: 199-244). In particolare, riguardo al viaggio in Sicilia, SodaSoda-no tende a dar credito a Porfirio e a considerare il racconto di Eunapio come frutto di amplificazione retorica (ibid., 210-213). Altri, tuttavia, hanno avanzato riserve sull'attendibilità di Porfirio. Alla base della separazione da Plotino potrebbero esservi stati anche motivi dottrinali, ad esempio una divergenza sulla valutazione delle Categorie di Aristotele (e.g. Saffrey 1992). Pare infatti che

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