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Struttura e Funzione nelle Neuroscienze Cognitive Contemporanee. Intervento tenuto in occasione della tavola rotonda Immagini delle strutture, immagini delle funzioni? Neuroscienze teoriche e applicate,

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La musica e i vincoli cognitivi: Quali confini a fruizione e composizione? Franco Delogu a,b, Riccardo Brunetti a,c, Carmela Morabito b1

Introduzione

La ricerca psicologica ha accumulato una considerevole mole di dati sperimentali che concorrono alla definizione dei meccanismi della mente musicale (Sloboda: 2005). La sperimentazione ha riguardato sia l’analisi dei processi percettivi, di apprendimento e di memoria coinvolti nei comportamenti e nelle elaborazioni musicali, che l’individuazione delle aree cerebrali implicate in tali processi. In particolare, l’individuazione di strutture e funzioni cerebrali coinvolte nel dominio musicale ha registrato progressi notevolissimi negli ultimi trent’anni anche grazie allo sviluppo delle tecniche non invasive di neuroimmagine (Peretz & Zatorre: 2003).

In linea con i principi e i metodi della psicologia cognitiva, da sempre impegnata nella ricerca dei vincoli e delle possibilità di un’elaborazione umana a capacità limitata, si assiste in psicologia della musica alla ricerca degli universalia, con la proliferazione di studi in cui si tenta la definizione dei limiti dell’elaborazione del musicale. La ricerca sperimentale, nel tentativo di indurre principi universalmente validi, ha rischiato talvolta delle derive “culturalmente etnocentriche” (Baily: 1985), tendendo a postulare implicitamente che l’elaborazione di melodia, ritmo, armonia sia basata su regole cognitive abbastanza omogenee e stabili. Questo è principalmente dovuto al fatto che la ricerca sperimentale pubblicata nelle riviste più influenti si effettua quasi esclusivamente in paesi che aderiscono con grande uniformità ai canoni della musica tonale occidentale. In questi paesi, ad esempio, la dimensione ritmica è dominata da strutture organizzate secondo una pulsazione isocrona, con suddivisioni binarie, ternarie o quaternarie e quella melodica è basata sulle precise gerarchie delle scale tonali. Anche quando la ricerca cognitiva si è avventurata nei territori 1 a: Dipartimento di Psicologia, Università di Roma “La Sapienza” / b: Dipartimento di Ricerche Filosofiche, Università di Roma “Tor Vergata”/ c: Università Europea di Roma.

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dell’atonalità, l’esplorazione è stata preferibilmente impostata come un’analisi di strutture composte in assenza di “gerarchie tonali” (seguendo le idee di Schoenberg: 1975)2, piuttosto che come un’esplorazione di diverse gerarchie tonali possibili in differenti milieu culturali (Carterette & Kendall: 1999).

D’altro canto, opinioni contrarie alla generalizzazione dei principi alla base del “cognitivamente musicale” fanno appello proprio alle distanze tra pratiche e stili musicali nelle diverse culture per sostenere l’impossibilità di definire, isolare, e quindi delimitare quello che è musica rispetto a ciò che non lo è. Si rimarca a proposito che la musica è intrinsecamente polisemica (Blacking: 1995), essendo qualcosa di diverso e assumendo ruoli e valenze differenti nelle diverse culture (Cross: 2003). L’espressione musicale è usata ad esempio per sostenere i combattenti in battaglia, per piangere i morti e comunicare con loro, per lavorare, per pregare, ed è così inestricabilmente legata al contesto che talvolta diventa addirittura inappropriato definirla “musica” nell’accezione del termine nell’ambito della cultura occidentale.

Uno degli aspetti centrali di questa disputa è di natura metodologica e concerne la scelta del punto di osservazione del fenomeno. Se da un lato qualcuno sostiene che per capire cosa sia davvero la musica dovremmo assumere il punto di vista di un biologo alieno (Pinker: 1997), qualcun altro ribadisce l’impossibilità di uno sguardo esterno, non esistendo alcun luogo extra-culturale da cui osservare la musica, e nessun significato extra-culturale da rilevare (Garnett: 1998).

Un altro problema che emerge nella ricerca dei vincoli in ambito musicale è che il vissuto soggettivo varia notevolmente da persona a persona, sia in funzione delle capacità musicali che dell’istruzione formale ricevuta. La variabilità individuale rende per certi versi imparagonabile un concertista con una persona senza alcuna specifica competenza musicale.

Di fronte all’enorme differenziazione delle esperienze e competenze musicali individuali e ad un’altrettanto grande diversità tra culture musicali, rimane lecito parlare di vincoli cognitivi nella fruizione e composizione della musica? La risposta è complessa e richiede un’analisi accurata di 2 Si veda, ad es., Krumhansl, Sandell, & Sergeant: 1987.

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quali siano i vincoli proposti e di quanti e quali siano invece i gradi di libertà consentiti alla diversità individuale prima e a quella culturale poi.

1.La musica e i limiti strutturali del sistema cognitivo

Cominciamo con una descrizione di alcuni tra i principali vincoli che sono stati rilevati nel corso della storia della psicologia. Procedendo dal basso verso l’alto, iniziamo dai principi più basilari e temporalmente precoci, legati alla struttura e alla funzionalità del sistema uditivo, per poi occuparci di quelli più complessi, integrati e tardivi, connessi alla corteccia cerebrale.

I primi vincoli, come si è detto, dipendono dalle caratteristiche del sistema uditivo a livello coclearie e sono stati studiati già a partire dalla seconda metà del 1800 dalla psicofisica. Questo genere di studi ha come scopo, apparentemente paradossale, l’oggettivazione dell’esperienza soggettiva (Eherenstein & Ehrenstein: 1999), e nel corso di più di un secolo ha sviluppato diverse metodologie capaci non solo di identificare cosa è percepibile da cosa non lo è (attraverso l’individuazione cioè delle cosiddette soglie assolute), ma anche di quantificare la distinguibilità di due fenomeni percettivi al variare di uno o più parametri di energia fisica (attraverso le soglie differenziali). Con i metodi delle soglie è stato appunto possibile appurare che, all’interno della gamma dei suoni udibili, che va dai 20 ai 20000 Hz in un adulto medio, la musica si sviluppa grossomodo nell’intervallo di frequenza 20-5000 Hz (Rasch & Plomp: 1999). Fare o ascoltare musica al di sotto o al di sopra di questa gamma sembra impossibile, sempre che i fruitori di tale musica siano esseri umani. Sui meccanismi cocleari si fonda anche un principio già rilevato da Pitagora: il grado di consonanza tra due note simultanee (armonia) o note successive (melodia) è una funzione della semplicità del loro rapporto x:y, dove x è la frequenza di base associata con il primo tono e y quella associata con il secondo tono. Coerentemente con i principi fisici alla base sia della risonanza di una semplice corda tesa di dimensioni variabili sia della trasduzione cocleare, un rapporto di frequenza di 2:1 è percepito come il più consonante e corrisponde fenomenicamente con l’ottava, seguito come grado di consonanza da 3:2, fenomenicamente una quinta giusta. Tra gli altri

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rapporti, la quarta (5:4) e la terza (minore o maggiore) sono annoverati tra i più buoni dai soggetti a cui viene chiesto di valutare la consonanza. Nel versante dei cattivi basti citare il rapporto 10:7, che causa il ‘malfamato’ intervallo di quarta aumentata o tritono, soprannominato diabulus in musica (Smith: 1979), evitato nelle progressioni melodiche del canto medioevale e considerato come dissonanza esemplare nella musica classica occidentale. Così la consonanza dei rapporti più semplici, aspetto centrale della gradevolezza musicale (Krumhansl: 1990; Malberg: 1918), sembra trascendere motivi di esclusiva competenza culturale legandosi anche alla struttura e al funzionamento del sistema uditivo già a livello periferico.

Vincoli di natura percettiva si pongono a livelli di elaborazione appena superiori: è questo il caso della organizzazione gestaltica degli stimoli sonori e musicali. I principi di unificazione formale, studiati estensivamente a partire dalle ricerche degli psicologi della Gestalt nell’ambito della percezione visiva, sono stati riscontrati anche in ambito acustico e musicale (Bregman: 1990). Non è un caso che uno dei primi e forse il più celebre esempio di un tutto percettivo che è più della

somma delle sue parti, sia stato proprio una melodia: Von Ehrenfels (1890) scrisse appunto che una

melodia o un accordo musicale conservano la loro identità fenomenica dopo una trasposizione in altra chiave, dove tutte le note sono differenti da quelle che componevano la melodia prima della trasposizione. La melodia consiste quindi di forme organizzate che sono quasi completamente slegate dalle frequenze fisiche che la compongono

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Con questo semplice esempio e con altre innumerevoli dimostrazioni fenomenologiche sperimentali gli psicologi della Gestalt sottolineavano che l’emergenza fenomenica della figura rispetto allo sfondo si basa sull’analisi della relazione tra gli elementi piuttosto che su un’analisi degli elementi stessi. Nello specifico dell’acustico e del musicale, il sistema uditivo raggruppa i differenti stimoli in figure percettive secondo i principi di prossimità, somiglianza e buona continuazione (per una rassegna, Deutsch: 1999). I principi di unificazione formale, applicati al timbro, al ritmo, alla melodia e all’armonia consentono il raggruppamento e la segmentazione degli elementi del flusso sonoro (Bregman: 1990) e possono

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dar luogo ad affascinanti illusioni acustiche di natura musicale come l’illusione della scala (Deutsch: 1975) o il paradosso del tritono (Deutsch: 1986). L’onnipresenza dei principi gestaltici (riscontrabili in tutte le modalità sensoriali) come organizzatori della percezione, li rende degli ottimi candidati allo status di universali. Gli studi sulle invarianze nella percezione del ritmo e della melodia negli animali, condotti in particolare sugli uccelli (Hulse, MacDougall-Shackleton, & Wisniewsk: 1997; Shofner: 20042005), dimostrano inoltre che l’organizzazione gestaltica musicale, che prescinde dalle grandezze fisiche assolute e si basa piuttosto sui rapporti tra elementi, è una capacità biologicamente determinata presente pure negli ascoltatori e comunicatori non umani. L’emergenza di accenti fenomenici3 è un altro aspetto del musicale che sembra prescindere dalle differenze culturali ed individuali. Sia l’elaborazione temporale (Povel & Essens: 1985) che quella legata alle altezze melodiche (Pfordresher: 2003), danno origine ad accenti fenomenici, che risultano importanti indizi e punti di ancoraggio per la segmentazione della musica. L’accentazione fenomenica sembra anch’essa svincolata da condizionamenti di natura culturale dal momento che è presente già nei neonati (Trehub, Thorpe, & Morrongiello: 1987).

Uno degli aspetti più salienti e allo stesso tempo complessi della ricerca dei tratti universali riguarda l’organizzazione gerarchica e scalare delle note dei sistemi musicali. Se da un lato le scale differiscono da cultura a cultura, è pur vero che in esse è sempre individuabile un centro tonale e che sempre contengono “gradini” non tutti uguali tra loro. Sono numerosissimi i contributi teorici e sperimentali che propongono l’universalità dei rapporti di frequenza semplici (come ad es. nei già citati intervalli di ottava, 2:1, o di quinta, 3:2; Dowling & Harwood: 1986; Justus & Hutsler: 2005 per una rassegna), che descrivono vincoli nel numero e nell’organizzazione delle note che formano le scale musicali (Carterette & Kendall: 1999) e che analizzano l’organizzazione gerarchica dei gradi delle stesse (si vedano Krumhansl & Shepard: 1979 per le scale diatoniche occidentali;

3 Gli accenti vengono definiti come degli elementi psicologicamente marcati per la coscienza (Cooper & Meyer: 1960); nel caso degli accenti fenomenici, questa marcatura non è presente nella superficie musicale, ma viene proiettata su di essa dai processi sensoriali e percettivi dell’ascoltatore.

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Castellano et al.: 1984 per quelle indiane; Kessler, Hansen, & Shepard: 1984 per un paragone cross-culturale).

Per quanto riguarda l’organizzazione temporale numerosi studi hanno riscontrato che l’emergenza del metro dalla successione degli eventi, agisce come vincolo strutturante per la formazione automatica di gerarchie temporali. Mentre Lerdahl & Jackendoff (1983) ipotizzano che l’organizzazione percettiva delle sequenze musicali si basi sull’estrazione di una gerarchia di pulsazioni, individuando anche i limiti generali che contraddistinguono la percezione del metro, Povel & Essens (1985) sottolineano che è la disposizione degli accenti a creare sequenze più o meno ‘metriche’, permettendo l’estrazione di pulsazioni più o meno regolari. In seguito, grazie agli approfondimenti di London, lo studio dei limiti percettivi e cognitivi nella percezione del metro venne esteso anche cross-culturalmente e a diversi stili musicali (London: 2002 e 2004; si veda anche Parncutt: 1994). L’interpretazione di questi limiti nell’organizzazione metrica viene oggigiorno legata ai limiti dell’attenzione, in quanto il metro sembra essere principalmente un fenomeno attentivo (Jones, Boltz, & Kidd: 1982; Jones, Mackenzie, Moynihan, & Puente: 2002; London: 2004).

Vincoli inerenti la selezione delle informazioni in ingresso, come quelli attentivi, e la capacità della memoria a breve termine, limitano quantitativamente e qualitativamente la possibilità di elaborazione del flusso musicale. L’impossibilità di prestare attenzione focalizzata a più stimoli nello stesso tempo e la selezione attiva dell’informazione in ingresso è stata ampiamente analizzata in psicologia, a partire dagli studi di Cherry (1953), sia su informazioni acustiche (Broadbent: 1958) che visuospaziali (Posner: 1980). Da ciò consegue che, così come è impossibile prestare attenzione a più conversazioni contemporaneamente, è analogamente impossibile seguire due linee melodiche indipendenti (Bregman: 1990; Handel & Oshinsky: 1981) o più livelli metrici allo stesso tempo (Jones & Boltz: 1989; si veda anche Swain: 1986 per una discussione sui limiti attentivi in musica). Anche la memoria di lavoro pone vincoli nell’elaborazione del flusso di note che si ascoltano. Lo

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correttamente nel giusto ordine di comparsa, pur variando sensibilmente a seconda dei materiali e dell’esperienza dell’ascoltatore indica chiaramente l’esistenza di una capacità mnestica limitata. Sembra poi che la memoria musicale agisca a diversi livelli gerarchici. Se infatti è possibile confondere una nota con l’altra nella riproduzione o nel ricordo di una melodia, ben più difficile è confondere la direzione ascendente o discendente del flusso sonoro: come nel linguaggio, anche la musica consta di eventi che non possono essere scambiati d’ordine se non con la perdita del senso della frase musicale (Palmer: 2005), e sono numerosi i lavori che hanno dimostrato la centralità dell’analisi del profilo melodico (melodic contour) nella percezione e nella memoria musicale4. Lo studio dei numerosi vincoli fin qui indicati, legati alla sensazione, alla percezione e alla cognizione, riceve supporto anche da quegli studi che indagano la relazione tra sistema nervoso e cognizione musicale. Negli ultimi trent’anni c’è stato grande interesse per l’individuazione dei substrati neurali dell’esperienza estetica e artistica nei diversi campi dell’arte (Zeki: 1999 per l’arte visiva e Peretz & Coltheart: 2003 per la musica). Dalle neuroscienze cognitive risulta chiaramente che struttura e funzione vincolano l’esperienza musicale. Un esempio importante è quello descritto da Maess e collaboratori in uno studio che individua nell’area di Broca i meccanismi neurali alla base della sintassi musicale (Maess et al.: 2001). La corrispondenza tra aree deputate all’elaborazione linguistica e musicale crea interessanti fenomeni di interferenza tra i due ambiti e sottolinea il fatto che la sintassi e diversi aspetti del musicale sono modulati dall’attività di una specifica area cerebrale (si veda il recente lavoro di Fedorenko, Patel, Casasanto, Winawer, & Gibson: 2009). La neuropsicologia della musica inoltre, con le descrizioni dei deficit clinici nella percezione e nell’esecuzione musicale che risultano da alterazioni del funzionamento cerebrale, ha dato un grande impulso alla conoscenza della mente musicale (Sacks: 2007, Peretz et al.: 2009). In particolare, sotto il termine amusia vengono raggruppati una serie di disturbi che vanno dall’inabilità nel riconoscere ritmi o melodie alla incapacità di riprodurli. L’amusia può essere 4 Cfr. Cutietta & Booth: 1996; si vedano Carroll-Phelan & Hampson: 1996, per la rilevanza modellistica del profilo melodico; Trehub, Thorpe, & Trainor: 1990, per la rilevanza dello stesso fin dalla primissima infanzia.

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congenita (Ayotte et al.: 2002) o può essere acquisita in seguito a lesione cerebrale (Ayotte et al.: 2000) e può manifestarsi anche in maniera selettiva, cioè in assenza di altri deficit neuropsicologici. Appare chiaro a questo punto come l’esperienza musicale sia vincolata al corretto funzionamento di specifiche aree cerebrali che unitamente concorrono a rendere comprensibile, interessante e gradevole quello che altrimenti potrebbe essere, e che spesso per i soggetti amusici effettivamente è, solo un fastidioso rumore.

In conclusione di questa breve e necessariamente incompleta rassegna dei limiti strutturali della cognizione musicale, potremmo affermare che l’esperienza della musica nei suoi diversi aspetti della percezione, esecuzione e composizione non può prescindere dai molti vincoli imposti dalla nostra natura biologica. La stabilità e il peso di questi limiti sono tuttavia costantemente modulati dalle influenze che l’ambiente esercita sul nostro sistema biologico/cognitivo e dalla plasticità che contraddistingue il nostro sistema nervoso.

2.Lo sviluppo situato: apprendimento

L’apprendimento e l’acculturazione hanno fortissimi effetti sui vincoli “universali” dell’esperienza musicale. Le peculiari esperienze culturali e personali sembrano infatti avere un ruolo cruciale nel determinare attraverso dinamiche di tipo top-down la nostra capacità di fruizione e performance musicale a diversi livelli, dalle funzioni cognitive più integrate e di alto livello, come quelle legate all’interpretazione, al giudizio e alla valutazione estetica, fino alle funzioni temporalmente precoci, come sensazione e percezione.

In che modo dunque la nostra capacità di comprendere e creare musica è influenzata dall’esperienza? Si potrebbe essere tentati di interpretare le modificazioni cognitive legate all’esperienza come un processo di tipo additivo, tramite il quale alcune abilità crescono e alcuni limiti vengono faticosamente superati con l’effetto di conseguire una conoscenza sempre più approfondita dell’oggetto dell’apprendimento. Questo in parte è vero, ma non rende conto di alcuni importanti fenomeni che hanno luogo nell’acquisizione delle capacità musicali. In primo luogo pare

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che l’acculturazione, attiva o passiva, oltre a specializzare (e non accrescere o sviluppare) alcuni aspetti cognitivi (percezione, memoria, attenzione, etc.), ne lasci anche impoverire altri, appunto quelli non rilevanti per il particolare sistema musicale nel quale si è immersi, che quindi regrediscono ad un livello di grossolanità. Quando alcuni di questi aspetti sono impoveriti (come la capacità di discriminare i ritmi, Hannon & Trehub: 2005) risulta enormemente difficile riacquisirli, esattamente come accade quando, apprendendo tardivamente una seconda lingua, l’accento straniero (cioè il riferimento ad un certo sistema fonologico o prosodico) continuerà spesso ad essere percepibile dai soggetti madrelingua (Braitenberg: 2001; si veda Hood: 1960 a proposito delle difficoltà nell’apprendimento di diversi sistemi musicali). Nelle diverse culture, ma anche già nei singoli individui, le diverse dimensioni della musica quali ritmo, melodia, armonia, timbro possono assumere importanza più o meno centrale e di conseguenza svilupparsi a livelli di complessità e raffinatezza differenti. Ne è un esempio nel dominio temporale la povertà ritmica della musica occidentale barocca contrapposta alla complessità dei pattern ritmici sviluppati in determinate culture africane. Ciò, tra l’altro, può essere considerato un’evidenza a favore di un modello modulare (Fodor: 1983; Peretz e Coltheart: 2003) della cognizione musicale.

Una chiara prova del fatto che esperienza e cultura determinano un ulteriore restringimento di possibilità all’interno del musicalmente possibile è data dal fatto che nello sviluppo ontogenetico l’acculturazione musicale sembra procedere per sottrazione e focalizzazione piuttosto che per addizione ed estensione. In età evolutiva, a partire da una situazione iniziale di pluripotenzialità, si procede verso una riduzione del repertorio e la creazione di categorie discrete alle quali riferirsi per la lettura dei dati sensoriali. Così - in maniera analoga a quanto accade nello sviluppo delle abilità fonologiche, in cui si osserva una focalizzazione sul repertorio fonologico della propria lingua madre come accennato sopra - lo sviluppo delle competenze musicali melodiche e ritmiche sembra essere legato alla selezione, a partire da un iniziale insieme più esteso di possibilità, di un repertorio discreto e ridotto di soluzioni melodiche e ritmiche. Avviene così che i bambini siano paradossalmente più sensibili (nelle abilità di discriminazione, ad esempio, Hannon & Trehub:

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2005; Trehub: 2003) a diverse strutture musicali rispetto a quanto non lo siano gli adulti, che appaiono più vincolati al rispetto delle regole del proprio sistema di riferimento musicale. A partire da tale focalizzazione emergono i fenomeni di percezione categoriale in cui l’organizzazione percettiva è caratterizzata dalla presenza di confini netti e stabili tra categorie discrete cui vengono ricondotti i segnali del continuum sonoro. L’etnomusicologia dimostra che tali categorie variano a seconda della cultura. Ad esempio, sebbene sia i musicisti occidentali che quelli giavanesi mostrino fenomeni di percezione categoriale di intervalli e di non poter prescindere da una scala di riferimento, essi si riferiscono a “gradini” differenti: la scala diatonica per gli occidentali e le scale

Sléndro e Pélog per i giavanesi (Perlman e Kruhmansl: 1996). Qualcosa di analogo avviene anche

nel dominio del tempo: Sternberg e colleghi hanno dimostrato che musicisti professionisti, tra cui un celebre compositore e direttore d’orchestra, sono incapaci di riprodurre e riconoscere suddivisioni non abituali di un battito mentre non hanno difficoltà nella categorizzazione dei battiti ai quali sono abitualmente esposti (Sternberg et al.: 1982).

Le categorie sviluppate con l’apprendimento spesso costituiscono vere e proprie gabbie ricettive e

interpretative da cui è difficilissimo, se non impossibile, sfuggire. Studi particolarmente interessanti

a tal proposito riguardano le abilità musicali del bambino (vedi Trehub: 2003 per una rassegna) che spesso, come si è detto, superano quelle degli adulti in quanto ancora non limitate o riferite ad un contesto musicale specifico. Una di queste “gabbie” è descritta da Trainor e Trehub in un esperimento che ha messo a confronto il riconoscimento di brevi melodie da parte di adulti e bambini. Il compito dei soggetti consisteva nel confrontare due brevi melodie che venivano presentate una di seguito all’altra e che potevano essere identiche o differire per una nota. Mentre sia gli adulti che i bambini riescono a rilevare bene sottili variazioni quando queste alterano la successione armonica del brano, i bambini si mostrano più bravi degli adulti nel rilevare variazioni che rispettano la successione armonica. Gli autori hanno interpretato la difficoltà degli adulti come un effetto della loro continua esposizione ad uno specifico ambiente musicale e la maggiore abilità dei bambini come effetto di una residua libertà dai vincoli del sistema musicale in cui stanno

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crescendo (Trainor & Trehub: 1992). Questi risultati permettono di cogliere appieno l’importanza della sopraccitata pluripotenzialità: la caratteristica che rende possibile ai neonati di adattarsi al tipo specifico di musica presente nel loro ambiente culturale. In questo stesso filone interpretativo si situano i dati di Lynch e collaboratori (1990) che dimostrano che adulti acculturati alla musica tonale occidentale non riescono a rilevare sottili stonature in melodie giavanesi mentre i bambini riescono bene in tale compito.

Il fatto che questi vincoli siano derivati dall’esperienza non significa che siano più leggeri, meno influenti, o meno hardwired di quelli universali. Essi si basano su meccanismi epigenetici di plasticità neurale che permettono letteralmente di scrivere l’esperienza nella struttura e nel funzionamento del sistema nervoso, facendo della cultura la nostra “seconda natura” (Edelman, 2006). Tale plasticità non sembra coinvolgere solo aspetti complessi della percezione e della memoria musicale, ma anche le semplici risposte della corteccia uditiva. Le risposte neurali della corteccia uditiva infatti non sono un riflesso passivo dell’attività periferica dell’orecchio, sono piuttosto dinamiche e influenzabili da meccanismi di condizionamento quali il rinforzo e la punizione (Weinberger & Diamond: 1987). L’esperienza arriva quindi a modellare il sostrato neurale da cui la mente musicale emerge. Ad esempio, i polpastrelli dei violinisti hanno dimensioni maggiori nell’homunculus, la rappresentazione corticale – sensoriale e motoria – della superficie del corpo, rispetto a quelli dei non violinisti (Elbert et al.: 1995).

In analogia con il dominio linguistico e in particolare con la teoria generativo-trasformazionale (Chomsky: 1957) è possibile a questo punto proporre alcune linee interpretative sullo sviluppo della cognizione musicale e dei suoi vincoli. Da una condizione pluripotenziale di partenza, legata alle caratteristiche innate del nostro sistema cognitivo (simile alla Grammatica Universale), attraverso l’apprendimento si andrebbe strutturando una specializzazione sempre maggiore delle abilità di decodifica della musica (simile quindi alla Grammatica Mentale). Un punto fondamentale in questa interpretazione teorica, è appunto la perdita di potenzialità che si crea a seguito di tale specializzazione e dello sviluppo di una “Grammatica Mentale d’ascolto musicale”. Gli effetti

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dell’acculturazione descritti sopra convergono infatti nel riconoscimento del fatto che attraverso l’esperienza noi diventiamo più abili a decodificare i codici musicali che ci circondano e perdiamo

abilità cognitiva per quelli a noi più estranei.

3.Allargare i confini: l’expertise e la sperimentazione musicale

Ma è possibile “sconfinare”? Uscire dalle limitazioni imposte prima dalla capacità limitata del sistema cognitivo e poi dalla focalizzazione su un repertorio tipico di una cultura? In effetti, l’expertise e la sperimentazione sembrano offrire una possibilità di evasione dalle gabbie naturali e culturali. Gli esempi possibili sono innumerevoli.

Se in genere le persone arrivano a definire “non-musica” le azzardate dissonanze proprie di particolari avanguardie, con l’acculturazione attiva e l’istruzione è possibile spostare nell’ascolto la curva di gradevolezza verso il complesso (o meno canonico) passando ad esempio da Mozart e Louis Armstrong a Schoenberg e Ornette Coleman. Gli ascoltatori preferiscono quegli stimoli musicali in grado di indurre un livello ottimale di attivazione fisiologica (Berlyne: 1974). Secondo la teoria dell’attivazione di Berlyne, la gradevolezza dello stimolo in funzione della sua complessità avrà il profilo di una u rovesciata, la cosiddetta curva di Wundt, dove stimoli troppo semplici o troppo complessi saranno scartati dall’ascoltatore. È evidente che l’origine dell’asse semplice-complesso può essere spostato a seconda della situazione o delle caratteristiche dell’ascoltatore (Hargreaves & North: 1997).

I giudizi soggettivi sulla consonanza nelle diverse “musiche” vengono poi influenzati da elementi ben più complessi di quelli presenti nelle risposte cocleari. Anzi, i rapporti di consonanza più semplici (come l’ottava o la quinta) vengono spesso evitati, in quanto banali o non sufficientemente sofisticati da risultare interessanti (si pensi agli accordi a 5 o 6 note così comuni nel jazz).

Un altro dei limiti descritti sopra riguarda la capacità limitata della memoria a breve termine musicale. Anche in questo caso l’expertise è capace di dilatare i confini del musicalmente possibile:

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grazie ai processi di raggruppamento e all’intervento della memoria motoria i musicisti sono in grado di ricordare ed eseguire a memoria brani molto lunghi (Palmer & Schendel: 2002).

L’avanguardia e la sperimentazione, con i loro intenti spesso dichiaratamente “eversivi”, sono state spesso strumento di rottura e sconfinamento. Il panorama artistico musicale si è prodotto in sperimentazioni più o meno estreme nella composizione di musica “colta” contemporanea durante tutto il ventesimo secolo e, negli ultimi 50 anni, nelle sperimentazioni legate al fenomeno della

world music e della musica elettroacustica (ora anche espressamente digitale). Mentre alcune di

queste sperimentazioni vengono velocemente relegate (a volte temporaneamente) nel dimenticatoio, possiamo osservare che altre trovano talvolta un’integrazione nella produzione musicale, a volte in modi per così dire “inaspettati”: si veda ad esempio come le iniziali sperimentazioni della world

music si siano andate lentamente integrando nella musica pop, o come le sperimentazioni più

“selvagge” della musica contemporanea abbiano trovato un’applicazione fiorente nel linguaggio delle colonne sonore cinematografiche (per esempio particolarmente nelle produzioni di alcuni registi come Stanley Kubrick o David Lynch).

All’interpretazione proposta sopra, per cui l’ascolto viene regolato da grammatiche generative (Lerdahl: 1988), embodied, emergenti dall’interazione natura/cultura, è necessario aggiungere un tentativo di spiegazione della “selezione del cambiamento”, che riesca a tenere conto dei mutamenti propri di ogni sistema dinamico, inclusi quelli musicali.

Partiamo quindi da una constatazione naïve: molta musica sperimentale è talmente lontana dai nostri attuali canoni di fruibilità da risultare poco intelligibile e talvolta completamente incomprensibile ai più. Questa stessa reazione può essere prodotta similmente da musica proveniente da diverse culture.

Di Scipio (1998) sottolinea che ogni opera musicale è, volente o nolente, un’opera concettuale. Talvolta, sostiene l’autore, la portata concettuale di opere o movimenti arriva a livelli che potrebbero sembrare dirompenti: si vedano, ad esempio, la forte negazione della naturalità del suono da parte dell’esperienza storica della musica elettronica (Pousseur: 1958), o le provocazioni

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stocastiche di John Cage. Dal canto nostro, vogliamo sottolineare come ogni opera, nella sua realtà sonora, esprima anche, implicitamente o esplicitamente, una proposta di fruizione. In questo senso, attraverso la sua forma, che sia compositiva o improvvisata, la musica si propone sempre all’ascoltatore con un invito a focalizzare l’attenzione su alcune delle sue caratteristiche. Ascoltare una suite di Bach invita sicuramente ad un ascolto diverso rispetto a una sonata di Mozart: lo sviluppo frasale nei due esempi è radicalmente diverso ed induce immediatamente l’ascoltatore ad un focus attentivo estremamente differente. Potremmo dire che mentre la sonata mozartiana è generalmente organizzata in brevi frasi melodiche facilmente segmentabili, il fraseggio bachiano si contraddistingue proprio per il suo carattere cangiante senza soluzione di continuità.

Il livello di fruizione della musica è quindi insito nell’incontro tra l’ascoltatore e la musica stessa (Nattiez: 1990): questo incontro/scontro può dunque risultare in un particolare livello e tipo di fruizione, in relazione alle caratteristiche del brano da una parte e dell’ascoltatore dall’altra.

Entrando nello specifico delle avanguardie nel primo novecento, secondo Lerdahl (1988), che focalizza il suo commento sulla musica seriale, quest’ultima risulta cognitivamente opaca. In questo particolare caso di musica post-tonale, infatti, l’autore riscontra un’impenetrabilità della struttura soggiacente ai brani sviluppati con le sue particolari tecniche compositive. In effetti, la sperimentazione psicologica ha dimostrato come delle sequenze basate su trasposizione, inversione, etc. siano poco riconoscibili e discriminabili (Dowling & Fujitani: 1971; Dowling & Harwood: 1986). Eliminare quindi alcuni parametri fondamentali per la fruizione ai quali si è vincolati, come ad esempio le gerarchie tonali, dovrebbe portare l’attenzione dell’ascoltatore verso altre caratteristiche. Diciamo “dovrebbe” perché spesso questo tentativo di spostamento dell’attenzione, e quindi della modalità di fruizione, in altre direzioni, non ha successo: esemplare è il caso aneddotico di un viaggiatore artico che fece ascoltare ad un cantante esquimese la registrazione di una canzone scritta da uno dei più famosi compositori europei; l’esquimese sorridendo commentò “Molte molte note, ma niente buona musica” SE QUESTA FRASE è CITATA IN SACHS MI

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sperimentazioni contemporanee vengono recepite semplicemente come “rumore” dalla maggior parte degli ascoltatori.

Sembra quindi che le proposte di fruizione della sperimentazione musicale necessitino di un terreno fertile per poter attecchire, ma se le proposte si allontanano troppo dalle specificità insite in un sistema musicale (e quindi negli ascoltatori), una conseguenza probabile è che la musica risulti inascoltabile, troppo “concettuale” o addirittura “non musica” (sulle difficoltà della definizione del concetto di musica si veda Giannattasio: 1998). Così, l’apprezzamento di alcune sperimentazioni risulterebbe spesso impossibile, proprio per l’incapacità di effettuare quel “salto” cognitivo che la nuova proposta ci invita a fare.

È facile comprendere a questo punto come l’expertise possa essere vista come uno strumento utile al superamento di barriere cognitive. L’esperto contemporaneo, che probabilmente coglie con più interesse e comprende in modo differente le nuove proposte rispetto agli ascoltatori naïve, gradisce stimoli più complessi e può modulare il suo livello di fruizione in base allo stimolo che gli si presenta all’ascolto. Tuttavia, non bisogna dimenticare che se da un lato lo sviluppo di expertise ci permette di assaporare le variazioni e le sperimentazioni di uno specifico ambito musicale, dall’altro limita la nostra possibilità di fruire la musica esterna al nostro contesto di specializzazione (si veda il paragrafo precedente e il caso del cantante esquimese), impedendoci di apprezzare (o addirittura di percepire) le variazioni significative per espressioni musicali al di fuori del dominio in cui siamo divenuti esperti. Sviluppare expertise in più di un dominio musicale (ad esempio per la musica di due culture distinte), può essere estremamente complicato e presentare delle difficoltà insormontabili (Baily: 1985; Hood: 1960).

Coda

Ma in fin dei conti, è utile analizzare i vincoli cognitivi e neurofisiologici per capire meglio l’esperienza della musica? Può sembrare che l’individuazione dei vincoli sopra descritti nasconda la

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tendenza a ridurre l’esperienza artistica ed estetica al risultato dell’azione di strutture relativamente indipendenti che hanno sede in diverse aree specifiche del cervello. Un approccio classicamente e rigidamente modulare difficilmente può rendere conto del vissuto reale dell’ascolto musicale, che è sempre esperienza globale, integrata, emozionale. In realtà, il porre in relazione l’esperienza musicale con le funzioni cognitive e i sistemi neurali che la sottendono non comporta né l’identificazione dell’esperienza con uno stato cerebrale, né l’assunzione di una posizione riduzionista che intende circoscrivere il soggettivo, il simbolico (Schneider: 1979 e 1984) o l’ineffabile (Jankélévitch: 1961) nei limiti delle dinamiche neurofisiologiche o dell’elaborazione delle informazioni. Questo lavoro, piuttosto, vuole sottolineare che l’esperienza è vissuta da un sistema biologico, che ha potenzialità e limiti dati dalla sua storia evolutiva, dalla struttura e dalle funzionalità che lo caratterizzano. Se è vero che l’esperienza di dolore non corrisponde con l’attività delle fibre C (Putnam: 1963) resta vero non solo che senza le fibre C non c’è esperienza di dolore, ma anche che esse modulano l’esperienza di dolore con il loro funzionamento. Coerentemente con una teoria che pone l’emergenza del mentale a partire dai meccanismi neurofisiologici (Clark: 1997; Edelman: 2006) ma non la sua identificazione con essi, legare l’esperienza artistica ed estetica ai vincoli dell’attività cognitiva e nervosa non significa sminuirne la complessità, ma può essere utile per ridurre la distanza ancora grande tra le esperienze del corpo e i vissuti della mente.

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