Quale contributo alla più corretta valutazione del valore assunto dalla «Rivista di storia dell’agricoltura» nel panorama storiografico italiano e all’opera di Im-berciadori, in questa Appendice, ripubblichiamo alcuni articoli comparsi sulle pagine della Rivista, e documenti inediti conservati presso l’Archivio Imberciado-ri di Castel del Piano.
Renzo Giuliani
presentazione
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In occasione del bicentenario dell’Accademia Economico-Agraria dei Geor-gofili, il Consiglio Accademico inserì, nel programma delle manifestazioni commemorative della fausta ricorrenza, anche la pubblicazione di un’opera il-lustrativa delle caratteristiche, vicende e trasformazioni dell’agricoltura tosca-na nel periodo corrispondente ai due secoli di attività dell’Accademia (1753-1953), periodo estremamente interessante per l’agricoltura toscana oltre che per gli avvenimenti politici cui sono legati i nomi di insigni Georgofili. L’in-carico della elaborazione dell’opera venne affidato ad un noto studioso di sto-ria dell’agricoltura e precisamente all’accademico ordinario prof. Ildebrando Imberciadori.
Il copioso, interessantissimo materiale reperito, specialmente negli Archivi e nelle pubblicazioni dell’Accademia, consentirono al prof. Imberciadori di compiere un’opera originale del più alto interesse che l’Accademia pubblicò nel 1954 sotto il titolo «Campagna toscana nel ’700», opera che si riferisce al riodo che va dal 1737 al 1815 e che sarà seguita da un’altra opera relativa al pe-riodo dal 1816 ad oggi.
Il volume «Campagna toscana nel ’700» costituisce un ottimo saggio di sto-ria dell’agricoltura di un periodo fra i più interessanti dal punto di vista agra-rio. Il lavoro, compiuto con tanta passione e con tanto acume dall’Imberciado-ri dall’Imberciado-rivelò, fra l’altro, come negli Archivi e nelle memodall’Imberciado-rie edite ed inedite del-l’Accademia dei Georgofili si celi un copioso quanto interessante materiale re-lativo alla storia dell’agricoltura toscana ed italiana, materiale che attende di es-sere esumato e fatto conoscere. Un materiale non meno interessante si trova – come ha constatato lo stesso Imberciadori – in molti altri Archivi di Stato, Co-munali, di altre Accademie e di Privati.
L’opera dell’Imberciadori è valsa, fra l’altro, a richiamare la attenzione di
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diosi sulla necessità che anche in Italia si dia la dovuta importanza alla «Storia dell’Agricoltura» in quanto essa si identifica con la storia della nostra civiltà.
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L’Uomo primitivo visse esclusivamente di prodotti naturali della terra, vegetali ed animali, e per procurarsi questi ultimi egli divenne cacciatore e pescatore. Fu soltanto in un secondo tempo che l’Uomo, per procurarsi la-voro, indumenti ed alimenti animali, pensò di asservire alcune specie sel-vatiche di animali per allevarle prima in cattività poi in domesticità. L’as-servimento degli animali all’Uomo, vale a dire il loro addomesticamento, segnò una pietra miliare nella evoluzione della civiltà umana e costituì una conquista che, per la sua portata, può essere paragonabile a quella, relativa-mente recente, della invenzione del motore. Con l’addomesticamento di al-cune specie animali, infatti, l’Uomo da cacciatore e pescatore si trasformò in pastore e dette così inizio a quella che si può chiamare la civiltà pastora-le. Fu soltanto in un’epoca successiva che l’Uomo dette inizio alla coltiva-zione delle piante erbacee ed arboree, cioè all’agricoltura propriamente det-ta, nella quale inserì poi l’allevamento più o meno intensivo di bestiame, diventando così agricoltore ed allevatore.
L’addomesticamento della maggior parte delle attuali specie di animali oggi allevate avvenne fra i 10.000 ed i 2.000 anni a.C. per cui l’economia dei popoli delle antiche civiltà (Babilonesi, Assiri, Persiani, Egiziani, Cinesi, Gre-ci, Arabi, ecc.) fu essenzialmente un’economia pastorale. L’esercizio dell’agri-coltura propriamente detta avvenne molto più tardi, come lo dimostra il fat-to che il primo e più aufat-torevole scritfat-tore di cose agrarie dell’antichità fu Ma-gone il Cartaginese che visse dal 550 al 500 a.C. e che scrisse ben 28 volumi sull’agricoltura, una vera enciclopedia dello scibile agrario, che il Senato Ro-mano decise fosse tradotta in latino.
Come il fiorire delle antiche civiltà coincise col fiorire della pastorizia, co-sì, successivamente, i periodi di maggiore prosperità dei vari popoli coincise-ro con i più grandi pcoincise-rogressi dell’agricoltura, intesa come coltivazione delle piante ed allevamento del bestiame.
La storia della pastorizia e dell’agricoltura d’Italia è quanto mai interes-sante, soprattutto perché essa è la storia di un popolo di pastori e di agricol-tori in lotta continua contro un ambiente ingrato sia dal punto di vista oro-grafico (abbondanza di montagne e colline e scarsità di pianure, per di più ac-quitrinose e malsane) sia dal punto di vista della natura dei terreni e delle ca-ratteristiche del clima.
Ma la storia della pastorizia e dell’agricoltura italiane è interessante anche per le conquiste realizzate fin dall’antichità nelle tecniche dell’allevamento del bestiame e della coltivazione dei vegetali. Nelle opere di georgici latini, da quelle di M. Porcio Catone a quelle di P. Virgilio Marone ed a quelle di Mo-derato Columella troviamo un complesso di nozioni e di cognizioni di
carat-presentazione xxix tere tecnico ed economico che la scienza zootecnica ed agronomica moderna ha pienamente convalidato.
Ma la parte più interessante della storia dell’agricoltura italiana è quella che riguarda l’opera grandiosa ed imponente di redenzione delle terre acqui-trinose e malsane, di conquista di nuove terre, di difesa del suolo attraverso sapienti opere di sistemazione, di lotta contro la siccità attraverso grandi, me-die e piccole opere di irrigazione, ecc.
Noi pensiamo che se fosse possibile scrivere la storia della nostra agricol-tura, si scriverebbe il più grande elogio del popolo italiano, le cui gesta, nel campo agrario, suscitarono in tutti i tempi e suscitano tuttora grande ammi-razione in quanti visitarono e visitano il nostro Paese.
L’importanza dello studio e dell’insegnamento della storia dell’agricoltura italiana è oggi riconosciuta in molti Paesi, anche in quelli a prevalente carat-tere industriale, come gli Stati Uniti d’America, nelle cui Facoltà di Agraria esistono Cattedre riguardanti questa disciplina. A questo proposito vogliamo ricordare il grande stupore manifestato alcuni anni or sono da una missione di agronomi statunitensi in visita all’Accademia dei Georgofili quando chie-sero se la storia dell’agricoltura era insegnata nelle nostre Facoltà agrarie e ne ebbero risposta negativa.
Sta di fatto, purtroppo, che in Italia non solo non esiste, nelle Facoltà di agraria, l’insegnamento della storia dell’agricoltura ma non esistono neppure Istituti o Centri di studio di questa disciplina.
L’Accademia Economico-Agraria dei Georgofili – che è la massima depo-sitaria di materiale riguardante la storia dell’agricoltura italiana – ha preso, pertanto, l’iniziativa di creare nel suo seno un «Centro di studio della storia dell’agricoltura». L’on. Prof. G. Vedovato, rendendosi interprete del desiderio dell’Accademia dei Georgofili, ha preso l’iniziativa di un progetto di legge per l’istituzione di detto Centro presso la nostra Accademia. E poiché si consta che il Capo del Governo, S.E. prof. A. Fanfani, è un appassionato cultore del-la storia dell’agricoltura, ci sia consentito di fare appello, in questa occasione, alla Sua sensibilità di studioso e di Uomo di Governo perché l’istituendo Centro presso l’Accademia dei Georgofili diventi presto una realtà.
Ma l’Accademia ha preso un’altra decisione a questo riguardo: ha deciso, cioè, di incoraggiare e dare ospitalità alla «Rivista di Storia dell’Agricoltura» che gli accademici ordinari prof. Ildebrando Imberciadori e prof. Mario Zuc-chini si accingono a pubblicare. Si tratta di una iniziativa interessante e co-raggiosa destinata, fra l’altro, a far conoscere agli studiosi italiani e stranieri la millenaria battaglia combattuta dagli agricoltori italiani per trasformare terre ingrate della nostra Penisola in aziende ad agricoltura intensiva. L’iniziativa merita, pertanto, di essere elogiata, incoraggiata e sorretta sia attraverso una intelligente opera di collaborazione sia e soprattutto attraverso gli abbona-menti sia da parte di tecnici e di studiosi sia da parte delle Istituzioni ed Or-ganizzazioni agrarie.
Gino Luzzatto
una iniziativa felice
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Giunto per legge di natura agli ultimi passi di una attività, che per più di 60 anni è stata dedicata, con costanza e passione superiori purtroppo ai risulta-ti, allo studio della storia economica, son lieto di vedere che una mia vecchia aspirazione trova finalmente un principio di attuazione per la felice iniziativa dei proff. Imberciadori e Zucchini, incoraggiata e aiutata dall’Accademia dei Georgofili.
Qualche anno fa, Giuseppe Medici, allora ministro d’Agricoltura, aveva riunito una sera a Roma, assieme a due valenti cultori di economia agraria, anche Armando Sapori e me, perché tracciassimo le prime linee di una storia dell’agricoltura italiana. Nonostante l’autorità del proponente ed il grande in-teresse dell’opera, tanto io che Sapori fummo d’accordo nel rifiuto, rilevando che l’impresa sarebbe stata immatura per la quasi totale mancanza di studi analitici, che permettessero una sicura conoscenza delle vicende dell’agricol-tura, nella estrema varietà delle singole zone d’Italia, dall’età romana fino ai nostri giorni.
Come io ebbi più volte occasione di rilevare, gli studiosi stranieri e poi an-che italiani di storia economica, si interessano, spesso con ottimi risultati, del-le vicende del commercio e dell’industria, nel mildel-lennio compreso fra la ca-duta della dominazione spagnola, e non solo non si spinsero alle ricerche sul-la vita economica dei due secoli successivi, per riprenderle soltanto con l’età delle riforme, ma trascurarono completamente la storia dell’agricoltura.
Una sola eccezione si deve fare per l’alto medio evo, per il quale gli studi condotti principalmente da storici del diritto, di alto valore, si rivolsero di preferenza, com’era naturale, alle vicende della proprietà fondiaria e dei con-tratti agrari, lasciando invece in piena oscurità quelle della tecnica, della mi-sura, del commercio e dei prezzi dei prodotti.
Dopo il mille, se le condizioni della proprietà e delle classi rurali hanno
una iniziativa felice xxxi talvolta attirato l’attenzione degli storici del Comune, soprattutto dal punto di vista politico-sociale, bisogna arrivare alla metà del sec. XVIII, perché, sot-to l’influenza delle idee fisiocratiche, l’agricoltura passi in prima linea e di-venti, più nel suo aspetto attuale che in quello storico, il tema preferito delle discussioni accademiche, delle stesse conversazioni dei salotti aristocratici.
Ma questo risveglio di interesse per i problemi agrari non durò molto a lungo e per più di un secolo, dopo i primi decenni dell’Ottocento, l’Italia, che pure ha avuto in questo periodo dei maestri di un valore universalmente ri-conosciuto nel campo della scienza agronomica, rimane gravemente al di sot-to della Germania, della Francia, dell’Inghilterra, degli Stati Uniti negli studi storici di questa materia.
Un tale disinteresse deve essere soprattutto assai lamentato perché la ri-cerca storica possa servire, come in altri campi, a rivendicare un primato del-la scienza e deldel-la pratica italiana: primato che indubbiamente si può vantare per le praterie irrigue dei bassi piani novaresi, milanesi e pavesi, per la flori-coltura della Riviera di Ponente, per gli uliveti della Liguria, della Toscana e del barese, per gli ortaggi del napoletano, per gli agrumi di Sicilia e di Cala-bria, ma non certo per le colture più largamente diffuse e più necessarie al-l’alimentazione, di cui una fonte non certamente sospetta, come l’Inchiesta agraria e soprattutto la Relazione finale di Stefano Iacini lamentavano, anco-ra nel 1885, lo stato estremamente arretanco-rato, col quale si accompagnavano le condizioni miserrime di vita dei lavoratori della terra. Molto più che, per la rivendicazione di un primato così parzialmente esistente, la necessità di ap-profondire, anzi di iniziare seriamente gli studi di storia dell’Agricoltura, è de-terminata sin dalla preminente importanza di questa forma di attività che fi-no a questi ultimi anni ha impiegato dal 50 al 60 per cento della fi-nostra po-polazione attiva, sia – in misura anche maggiore – dal fatto che tutto il cor-so della nostra vita economica, nei suoi alti e bassi, è determinato dalla situa-zione e dal mercato della produsitua-zione agricola.
Si pensi soltanto ad un esempio recente e ben conosciuto: alla crisi gra-vissima che ha colpito nel 1888 tutta l’economia italiana, e che, tolta qualche brevissima pausa, si è protratta fino al 1893. Se si apre qualunque volume di storia che tratta di quel disgraziato periodo, si vede che la crisi è attribuita al-la guerra commerciale con al-la Francia, al dial-lagare sfrenato delal-la specual-lazione edilizia, all’imprudenza della politica di credito, tutte cause indubbiamente vere, ma fra cui si dimentica la causa causarum, la rovinosa crisi agraria ini-ziatasi intorno al 1887-1888, per la concorrenza dei grani americani, che ne avevano fatto precipitare il prezzo ad un livello assolutamente insostenibile dai produttori europei.
Bastò quel precipizio dei prezzi, che riduceva e alla fine annullava il pote-re di acquisto dei tpote-re quinti della popolazione italiana, per determinapote-re il ro-vesciamento della congiuntura e della rovina di molte industrie e di tutte le banche ordinarie.
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svegliato, e da parte di alcuni giovani – e non soltanto di giovani – si è co-minciato ad avere studi interessanti e promettenti. Per citare alcuni nomi sol-tanto, Mario Romani ci ha dato un bel volume sulla storia dell’agricoltura lombarda dagli ultimi anni del Settecento alla fine del dominio austriaco, e promette di completare la sua opera con un secondo volume sullo sviluppo della tecnica e della produzione; Bruno Caizzo nei suoi studi sull’economia del Comasco, allargati poi a tutta la Lombardia, dedica una parte delle sue ri-cerche all’agricoltura. Per il Veneto, Beltrami e Berengo hanno formato og-getto di indagini accurate ed intelligenti i catasti del Settecento e dei primi dell’Ottocento. Per la Toscana sono ben noti ed apprezzati gli studi dell’Im-berciadori, di cui non vi è davvero bisogno di parlare in questa rivista, di cui egli sarà magna pars. Per la Romagna sono particolarmente da segnalare gli studi intelligenti dello Zangheri, mentre per il mezzogiorno l’avvio dato dal Dal Pane con un primo saggio sul catasto di Minervino Murge è stato segui-to, con ottimi risultati, dal Villani e dal Villari.
Questi studi, di cui ho potuto citare quelli soltanto che mi sono noti, so-no indirizzati ad illustrare la storia della so-nostra agricoltura, per ciò che ri-guarda la distribuzione della proprietà e delle colture, i rapporti fra proprie-tari e lavoratori, le condizioni economiche di questi ultimi e la soppressione delle proprietà collettive e degli usi civici nel periodo di circa un secolo che precede e segue il 1800.
È ben naturale che si sia data la preferenza a questo periodo ed a questi argomenti, sia per l’abbondanza e per la natura delle fonti, sia perché appun-to in quesappun-to periodo si compiono molte delle trasformazioni che danno alla nostra agricoltura le caratteristiche, che ritroviamo predominanti in quasi tutte le nostre regioni all’indomani della proclamazione del Regno. Ma non bisogna dimenticare mai che fra tutte le attività economiche l’agricoltura è la più tenacemente conservatrice, per modo che molte pratiche culturali in uso oggi nelle nostre campagne conservano, pressochè immutati, i tratti fonda-mentali descritti da Catone, Varrone e Columella.
Vi è poi un’altra e ben più forte ragione che induce a non trascurare la sto-ria dei secoli lontani. Se fra il secolo XVIII e il XIX molto si è innovato nel-le condizioni della proprietà terriera e di una parte almeno delnel-le classi rurali, trasformazioni ben più radicali si erano compiute fra il mille ed il milledue-cento, quando effettivamente era stata fatta una vera rivoluzione agraria: ab-battimento e messa a coltura di vastissime foreste in pianura; prosciugamen-to di terreni acquitrinosi e palustri; dissolvimenprosciugamen-to del sistema curtense; af-francazione dei servi e frazionamento delle aziende agrarie; introduzione di nuove colture; tutte trasformazioni di cui è necessario tener conto, se si vuol comprendere l’ulteriore sviluppo della nostra agricoltura.
Per quei secoli, e in particolare fino al principio del Quattrocento, non vi è certamente l’abbondanza di fonti di cui possiamo disporre per l’età moderna. Ma se mancano, tolte rare eccezioni, i catasti, vi sono, ricchi di notizie, anche in materia agraria, gli archivi notarili, quelli dei monasteri, degli ospedali e di
xxxiii una iniziativa felice altre opere pie, e – un po’ più tardi – alcuni archivi privati: tutte fonti, che pos-sono fornire notizie preziose sul movimento della proprietà, sulle variazioni dei suoi prezzi e su quelli dei prodotti agricoli, sui trattati agrari, e spesso anche sul-la distribuzione delle culture e sulsul-la misura di alcune produzioni.
Appunto per questo allargamento del campo delle ricerche e per una loro necessaria coordinazione una rivista di storia dell’agricoltura può fare un’o-pera preziosa ed indispensabile.
Ricordo che uno storico della levatura di Marc Bloch non riteneva di sot-tomettersi ad un lavoro indegno delle sue rarissime qualità di critico e rico-struttore, dando in quasi tutti i fascicoli degli «Annales d’historie économi-que et sociale» notizie dettagliate di tutti gli studi, anche assai modesti, che si andavano pubblicando sui catasti delle varie zone agrarie della Francia, e lo faceva assiduamente per incoraggiare le ricerche e l’analisi, di quei ponderosi volumi, che egli giudicava la fonte più preziosa per la storia dell’agricoltura. Se la rivista, che oggi si inaugura, seguirà in questo l’esempio del Bloch, se al-le notizie sui catasti aggiungerà quelal-le su tutte al-le pubblicazioni di altre fonti e sugli studi che da esse si saranno tratti, gli studiosi disposti ad affrontare questi temi, ne troveranno un grande vantaggio e soprattutto eviteranno il pericolo della dispersione dei loro sforzi. Non bisogna infatti dimenticare che, accanto alle profonde diversità del regime agrario delle varie regioni, in molte di queste, anche topograficamente lontane, si presenta spesso una qua-si perfetta uniformità di condizioni.
Ottant’anni or sono Franchetti e Sonnino, fondando la loro «Rassegna Set-timanale», ebbero cura di assicurarsi in molte città ed anche in piccoli centri dei corrispondenti, pratici delle condizioni sociali del luogo, che andassero perio-dicamente delle relazioni, intese ad informare particolarmente sulle condizioni e sui problemi più urgenti della proprietà terriera e delle classi rurali.
Se la nuova rivista potrà seguire l’esempio dei due – allora giovani – to-scani e ottenere il maggior numero di relazioni che non riguardino soltanto la situazione presente, ma il suo confronto col passato, se con queste relazio-ni essa accompagnerà gli studi originali e numerose rassegne di quanto si è pubblicato e si va pubblicando in materia di storia dell’economia agraria; es-sa porterà un contributo prezioso per il coordinamento del lavoro dei singo-li ricercatori, darà una spinta a determinati e più utisingo-li indirizzi della ricerca, e finalmente riuscirà a rendere possibile la pubblicazione di quella storia del-l’agricoltura italiana, che è nel voto di tutti, ma che sarebbe vano e pericolo-sa di tentare senza questo lavoro di preparazione e di coordinazione.
Per questo io che, purtroppo, ben poco potrò contribuire alla fortuna del-la rivista, mi auguro che i giovani non solo accolgano con entusiasmo l’aiuto che da essa potranno ritrarre, ma collaborino assiduamente ad essa, special-mente con rassegne, notizie ed informazioni.
Ildebrando Imberciadori
intento di una responsabilità
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Ci voleva la dedizione di Mario Zucchini per gettare alla luce il primo nu-mero di questa Rivista e tutta l’arditezza del suo spirito per caricarmi di una responsabilità molto grave ma che, adesso, per amore di un’idea non posso non accettare con buona volontà.
Risento il «conforto» di Arrigo Serpieri, grande economista e tecnico dal-la mente aperta a tutta dal-la vita storica, felice di constatare che «finalmente, an-che gli storici si erano accorti dell’agricoltura» mi ricordo anan-che di Giovanni Donna d’Oldenico che nel 1939 cercò calore di consensi per la nascita di una rivista di storia dell’agricoltura né posso dimenticare la fiducia e la speranza, accesa da Giuseppe Medici, di assicurare alla storia della agricoltura la rego-larità di un insegnamento universitario.
Adesso, intanto, la Rivista è nata: «protetta» dalla sorveglianza e dal seco-lare prestigio dell’Accademia dei Georgofili di Firenze, come assicura la paro-la affettuosa e fiduciosa del suo Presidente, Renzo Giuliani; salutata come «iniziativa felice», incoraggiata, consigliata da un Maestro di storia come Gi-no Luzzatto che ha avuto la bontà di rendersi interprete del compiacimento di tutto il mondo culturale.
Ora, anche a mio avviso, la Rivista deve nutrirsi di fatti, ideali e pratici, non solo coordinati ed interpretati in articoli e saggi di critica storica ma an-che offerti, sotto forma di documenti inediti, dall’altrui libera riflessione. La-vori critici, giudicati secondo coerenza di personale intenzione e illuminati dal riflesso della luce bianca, in quanto seno e matrice di tutti i colori nei qua-li si presenta l’umana vita storica. Documenti, bene scelti, segnalati o tra-scritti che dovranno costituire la materia nuova e necessaria per la costruzio-ne critica di una «storia dell’agricoltura e degli agricoltori». Se l’attività sto-riografica continua con la serietà scientifica e il ritmo con i quali, già da di-versi anni, essa si occupa della vita politica, economica, sociale, psicologica,
intento di una responsabilità xxxv giuridica e tecnica della campagna (esemplare, la scuola diretta da Luigi Dal Pane), non tarderà il tempo nel quale di alcuni secoli della nostra agricultura sarà possibile tracciare un profilo criticamente sicuro.
La Rivista, oltre che accendere libere conversazioni metodologiche, offri-re saggi di interpoffri-retazione concoffri-reta e segnalaoffri-re documenti di conoscenza nuo-va potrà mettere a disposizione aiuti bibliografici, attuali e retrospettivi, atti a rivelare filoni preziosi di storica elaborazione agraria, magari già scoperti ma non ancora messi a frutto. Infine, sia per la naturale completezza critica del-la disciplina sia perché del-la Rivista si rivolge non solo al mondo deldel-la cultura generale ma anche ad Istituti e persone e scuole che vivono la vita militante della scienza e dell’amministrazione agraria, è anche naturale che nella Rivi-sta abbiano luce studi e documenti della tecnica dell’agricultura, spesso per-sonalmente sperimentata e oggettivamente valutata.
Certo, guardando al futuro e al fine rimane impegno fondamentale quel-lo di riuscire a muovere ordinate ricerche di archivio in ogni regione d’Italia. Ci vorranno mezzi, tempo e «febbrile» pazienza: in notevole quantità. Ma co-sì potrà dissiparsi una diffusa perplessità dinanzi all’impegno di una organica e generale storia dell’agricultura e degli agricoltori.
Peraltro, anche per la complessità e innumerevoli varietà delle nostre eco-nomie locali, per la formidabile mole e la monotona laconicità dei documenti e per la riservatezza o incapacità espressiva della psicologia «campagnola», la storia dell’agricultura italiana è difficilissima e, per quanto ci si arrovelli, sarà sempre una storia affidata a molta discrezione intuitiva; ma sarà, almeno, an-corata a basi di «campione» e orientata dalla scelta di tempo e dal significato di fatti tipici, in uno spirito di «concordia discors».
E poiché la storia è sempre un fatto umano, cioè, un fatto di interesse uni-versale e perenne, e la storia dell’agricultura, per la sua causalità elementare e primigenia, non conosce limiti né di tempo né di spazio né può escludere ar-gomento o persona alcuna come motivo del suo interesse, l’invito a lavorare insieme è esteso e non vorrei dire più agli «stranieri» ma ad altri uomini, vi-venti, come studiosi, in altre nazioni. Oltre il reciproco interesse di civiltà cul-turale, ci sono altri interessi che spingono all’invito: specialmente oggi, non solo ogni nostro problema vitale è legato a quello degli altri e lo studio scam-bievole dei problemi aiuta a trovare la soddisfazione, competente e equilibra-ta, di capitali bisogni comuni ma anche la conoscenza storica di noi stessi e degli altri, del nostro lavoro e del lavoro altrui, della nostra dignità «persona-le» e della dignità «persona«persona-le» degli altri agevola la spiegazione dei fatti, la comprensione delle idee, il rispetto degli interessi, l’equità del giudizio.
In questo spirito e con intimo fervore, la Direzione saluta e ringrazia i Do-centi Universitari, i Tecnici, gli Uffici Ministeriali, tutte le persone e gli Isti-tuti che, in vario modo, collaborano alla vitalità della prima Rivista Italiana di Storia dell’Agricultura.
Ildebrando Imberciadori
la rivista di storia dell’agricoltura
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La mia relazione, condotta per semplici accenni problematici, sarà abbastan-za breve. Si tratta di dare uno sguardo al passato e all’avvenire della Rivista di storia dell’agricoltura, sia come voce nuova, ascoltata dopo lungo desiderio, sia come mezzo rispondente a nuovi bisogni; voce nazionale e organo di rappor-ti tra studiosi del mondo, convergenrappor-ti ad un medesimo fine.
Rivista, punto di incontro e di comune collaborazione culturale, come già scrisse il prof. Dal Pane.
Dopo il saluto, noi cercheremo di fare il punto sulla vita della Rivista, e anche la «rievocazione» potrà suggerire l’orientamento.
Ricordo di Gino Luzzatto
Ma, prima di tutto, il compimento di un dovere, gradito, anche se triste, per-ché, come ogni cosa degna, esso provoca soddisfazione di riconoscenza e buo-na volontà: il semplice ricordo di Gino Luzzatto.
Di Lui, scomparso il 30 marzo, la Rivista di storia dell’agricoltura ricor-derà, in modo migliore, la personalità di studioso. Per ora, noi rendiamo omaggio alla sua memoria, con affetto sincero e gratitudine particolare.
Prima di tutto, noi gli siamo grati per l’intelligenza e il calore col quale egli fu solito aiutare i giovani studiosi ad uscire dall’incertezza, mortificatrice, del dubbio e dello scoraggiamento: per difficoltà obiettiva o per incompren-sione altrui. Anche in questo senso e nel nostro specifico campo, un cuore, che ricorda, accosta la figura di Gino Luzzatto a quella di Arrigo Serpieri, am-bedue singolarmente benemeriti di giovanile arricchimento culturale.
Poi, noi ricordiamo Gino Luzzatto come lo studioso, insigne, che volle sa-lutare il nascere, quasi temerario, della nostra Rivista e ci fece l’onore di
la rivista di storia dell’agricoltura xxxvii ziarne la vita scrivendo l’articolo intitolato: Un’iniziativa felice : articolo che, mentre disegnava le ombre e le luci della nostra adolescente storiografia agra-ria, suggeriva consigli metodologici, indicava fertili, arabili campi alla nostra ricerca, illuminava alcuni fondamentali criteri di interpretazione.
Egli gradì, poi, di far parte al Comitato Scientifico della Rivista e ne seguì la prima vita con stima, con fiducia e con affetto personale. Poche mesi pri-ma di morire, il 1° ottobre 1963, quando già la sua salute gli imponeva ogni riguardo, egli prometteva ancora la sua personale collaborazione.
Anche per questi motivi, noi non dimenticheremo né la nobiltà della sua figura né l’efficacia del suo insegnamento. Nel fondo dell’anima vive uno spi-rito di gratitudine e di ammirazione che ci «conforta all’opera».
Saluto a Pomposa e a Spoleto
Dopo il ricordo di un Maestro, il saluto al Comitato delle celebrazioni pompo-siane : S.E. il Vescovo di Comacchio, insieme a Mons. Antonio Samaritani, sta al centro del nostro omaggio: come promotore di studi e come ospite, si-gnorilmente distinto.
Vorrei aggiungere che il saluto nostro si anima, singolarmente, proprio nel respiro dello spirito «pomposiano»: spirito di Medio Evo, offerto, qui, dall’e-sempio di un Monastero, creatura e rappresentante di quell’anima benedetti-na che dette, per secoli, alito di vita all’adolescente Europa.
Spirito di Medio Evo: di quell’età, in cui ogni grandezza della vita rag-giunse i fastigi delle altezze alpine: nella teologia e nella filosofia; nella poesia e nell’architettura; nella pittura e nella scultura; nel diritto, nel commercio e anche nell’agricoltura se disboscamenti, estensione di seminati e prati irrigui e bonifiche e piantagioni e nuova agronomia e diffusa sicurezza di possesso e moltiplicazione di proprietà dettero risoluzione ai problemi del tempo e im-postarono l’ossatura della moderna economia agraria.
La storia di Pomposa, per certi aspetti, Monastero modello, alimenta il fuoco del nostro spirito come Spoleto, sede e centro di una scuola di alti stu-di mestu-dioevali, dà, oggi, particolare compiacenza all’idea nostra e alla nostra volontà di lavoro, quando annunzia che il tema della prossima «settimana di studio» nell’aprile del 1965, preparata dai migliori cultori di storia del mon-do, sarà quello dell’agricoltura: che non sarà soltanto ripensamento o aggiun-ta di motivi giuridici, già coltivati da nostri studiosi insigni di storia del di-ritto, ma sarà anche studio della tecnica, del movimento economico e del mo-vimento spirituale, che dalla terra derivò.
Sarà storia non solo dei terreni e della proprietà ma anche degli uomini che nella vitalità della terra vissero con una loro mente e un loro cuore, con una loro tecnica e un loro interesse, come noi viviamo.
La Rivista di storia dell’agricoltura cercherà di portare, nei limiti della di-screzione e in modo autonomo, un suo contributo.
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Ad ogni modo, alla luce di questo spirito, europeo e italiano, si riflette il saluto a Pomposa, «monasterium princeps», e a Spoleto, cittadella custode e moderna interprete della civiltà medioevale.
Come nacque la Rivista
Così, come Pomposa ci richiama ad un tempo rivoluzionario, anche nei cam-pi della nostra agricoltura, Spoleto dà sensibilità ad un preciso, attivo dovere della nostra cultura. L’annuncio spoletino, dico la verità, ci compensa di una certa mortificazione che provammo, nel settembre del 1962, quando, al Con-gresso internazionale di storia economica, ad Aix-en-Provence, dinanzi ad una vera folla di studiosi, convenuti da ogni parte del mondo, il tema dell’e-conomia agraria del Medio Evo nostro fu trattato, degnamente, s’intende, da studiosi inglesi e francesi: direi, con un certo rincrescimento degli stranieri stessi. Se ne ebbe la sensazione quando, prendendo la parola, ebbi la fortuna di poter annunziare che anche in Italia era, ormai, nata una Rivista di storia dell’agricoltura e che l’Università di Perugia, nella sua Facoltà di scienze poli-tiche-economia e commercio, stava preparando l’istituzione di una cattedra, sia pure complementare, riservata all’insegnamento di storia dell’agricoltura. Di questa duplice, lieta notizia e del rilievo, ben illuminato, che ormai, come mi scrisse il Serpieri, «anche gli storici si erano accorti che esisteva l’a-gricoltura» e che gli occhi di maestri e di giovani (vedi la scuola bolognese e veneta e napoletana e piemontese) si erano già volti allo studio delle campa-gne, sia pure per tempi non medievali, apparve chiara la soddisfazione gene-rale; e di questa comune congratulazione augurale si rese poi generoso, caval-leresco interprete George Duby, dell’Università di Aix-Marseille, sia nella sua rivista «Etudes rurales» sia sugli «Annales».
Dunque la Rivista italiana, che prometteva e chiamava ad un comune la-voro italiani e stranieri, era nata! E da ogni parte d’Italia, gli studiosi, per let-tera e a voce, dettero saluto e augurio.
Veramente, il torinese dott. Giovanni Donna d’Oldenigo, allievo di Giu-seppe Medici, anche per questa benemerenza pionieristica eletto a far parte del comitato scientifico, fin dal 1941 invitava a collaborare al progetto di un nuovo periodico intitolato: Archivio storico agrario; ma solo alla fine del 1961 comparve la prima Rivista italiana di storia dell’agricoltura.
Era stata concepita nell’incoraggiante tradizione della secolare Accademia dei Georgofili di Firenze, allora presieduta da un tecnico insigne, Renzo Giu-liani; vide la luce per la fede, l’arditezza e l’abnegazione di Mario Zucchini, Ispettore Generale del Ministero dell’Agricoltura, Georgofilo, già allievo di Ar-rigo Serpieri, cultore di ricerche storiche, sin dalla giovinezza incoraggiato dal-la parole, competente e promettente, di Gino Luzzatto e di Luigi Dal Pane.
La Rivista ora sta vivendo il suo quarto anno di vita. È nata povera e del-la povertà ha sentito anche i riflessi di incertezza. Il suo peso finanziario
pog-la rivista di storia dell’agricoltura xxxix giò ancora, per oltre un anno, sulle spalle di Mario Zucchini che, bussando pazientemente alle porte degli uffici ministeriali e ai meno sensibili uffici pubblicitari, raccolse la sufficienza alimentare.
Nell’anno scorso, la comprensione dell’Istituto di tecnica e propaganda agraria, che fa capo al Ministero dell’Agricoltura ed è presieduto dal severo e sicuro amico, Guido De Marzi, si è assunta la responsabilità amministrativa della Rivista stessa. Rimane sempre presente la necessità di provvedere, tutti insieme, al sostentamento finanziario, necessario per le spese di stampa, sem-pre crescenti anche per la molteplicità di suggerite o richieste iniziative.
L’Accademia dei Georgofili, presieduta, adesso, dall’agronomo insigne, Marino Gasparini, ci accompagna con la forza del suo prestigio.
Primo orientamento della rivista
Per la redazione, la Rivista, in questi primi tempi, ha compiuto opera di orientamento e di assaggio. Ha invitato alla collaborazione ed ha atteso il se-guito delle moltissime parole buone, incoraggianti.
Dall’estero hanno offerto e dato collaborazione studiosi dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra; dalla Francia e dalla Germania; dalla Spagna e dall’Olanda; dalla Polonia e dalla Grecia.
Saggiando le possibilità di ogni regione italiana, la Rivista ha potuto pub-blicare articoli interessanti la Sardegna e la Sicilia; le Puglie, la Calabria e la Lucania; le Marche, l’Umbria e il Lazio; la Toscana e l’Emilia; il Veneto e la Lombardia.
Sono stati articoli di metodologia, di tecnica agronomica, di diritto, di spunti sociologici, di arte ispirati all’agricoltura, di silvicoltura e pastorizia, di geografia storico-economica, di informazione.
I tempi interessati sono stati quelli preistorici, i tempi classici, i medieva-li, i moderni, i quasi contemporanei.
Sono stati graditi, in modo particolare, articoli di Maestri, come quelli di Avanzi, Bandini, Dal Pane, Desplanques, Giuliani e Luzzatto.
Per altro verso, si è non meno apprezzato il contributo di tutti gli altri sti-mati collaboratori e di chi ha inviato documenti inediti, informazioni, noti-zie, rilievi tecnici, sull’esempio già indicato da Sonnino e Franchetti.
Sintesi di qualche tesi di laurea sono pronte per la pubblicazione. La par-tecipazione ai Convegni di Reggio Emilia, in onore di Filippo Re; di Reggio Calabria, Catanzaro e Cosenza, per la storia calabra del ’600; di Napoli, per la Società nazionale di Economia Agraria, presieduta dall’illustre componen-te del Comitato scientifico ed economista, Mario Tofani, ha dato modo di constatare un diffuso interessamento al problema storico-agrario e di racco-gliere adesioni e collaborazione effettiva anche da parte di aiuti e giovani as-sistenti: le scuole di Dal Pane e di Perdisa a Bologna e quella di Vanzetti a Pa-dova sono state le più pronte al mantenimento della promessa.
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In parole di sintesi, può essere affermato che, da qualche tempo, domanda anche che la redazione si renda sempre più critica e scelta, tenendo, peraltro, conto sia del merito culturale in sé sia del diverso interesse dei lettori abbonati.
Nel momento, preme, dunque, il desiderio di poter pubblicare saggi di-stinti, per esuberanza, dagli articoli della Rivista; preme il proposito di vede-re come andavede-re incontro alle aspirazioni di certe Regioni, come la Sardegna, tese all’indagine ordinata della loro storia agraria; preme la ricerca del modo col quale la Rivista possa dare voce ai risultati di indagini specifiche, pro-mosse, per la preistoria, dal prof. Forni o per le invenzioni strumentali, dalla Società di storia della tecnica di Milano; preme il disegno di trovare come la Rivista possa diventare mezzo di rivelazione documentario di informazione e ragionamento bibliografico, retrospettivo e attuale, italiano ed estero, secon-do il suggerimento dell’amico Violante.
Fermo, per altro, questo principio: che la Rivista vuole essere soltanto una voce e un mezzo: non aspira ad atti indiscreti per tutta una vasta opera di ini-ziativa che spetta a chi, in coordinamento di cattedre e di istituti, come si au-gurava il prof. Dal Pane, ha altra competenza, altri mezzi ed altro potere. La Rivista, come voce e come incontro, deve soltanto uscire dall’aprile della sua adolescenza: quando la vegetazione è tutta degna del massimo rispetto ma è tutta tenue promessa e fragilità.
Un programma accennato
In altre parole, sembrerebbero necessarie due cose essenziali: una collabora-zione sempre più criticamente qualificata ma che non scoraggi ogni altro ap-porto concreto, utile e necessario: non solo, il muratore ha bisogno del ma-novale ma è anche tanto giovevole la metodologica autonomia personale ed è tanto bello essere rispettosamente diversi l’uno dall’altro, in varietà e serietà di contributo.
L’altra cosa necessaria e pregiudiziale è quella di un finanziamento corri-spondente ai bisogni culturali, giustificati e seri.
Poi, vorrei esprimere due desideri: che almeno un certo ordinato indiriz-zo di ricerca di studio possa essere rivolto verso i secoli centrali del nostro mil-lennio, che sono i meno conosciuti e mal giudicati, e che tra le «fonti» si dia giusto rilievo, oltre a quelle catastali, contrattuali, contabili, tecniche, lettera-rie, a quelle degli Statuti rurali, di cui possediamo, regione per regione, an-che edito, un più accessibile tesoro, non ancora esaminato con criterio di sin-golarità e comparazione.
Si è già obiettato che gli Statuti rurali possono dare un’idea falsa della si-tuazione economica che un diritto di derivazione incerto e statico può avere cristallizzato o deformato. Ma non è questo, adesso, il problema che, per al-tro, potrebbe essere ben trattato e discusso.
la rivista di storia dell’agricoltura xli tecnica, economica politica e spirituale, con metodo di interdipendenza e re-ciproca illuminazione. Noi sentiamo il bisogno di fare storia di civiltà, e la no-stra è stata, in modo preminente civiltà agraria. Ora, lo statuto rurale, di cui ogni paese o villaggio è provveduto, non è soltanto un codice invecchiato nel tempo ma è documento di società rurale, complessa e completa.
Gli statuti rurali sono specchio della variatissima economia locale. Sono sorgente di informazione tecnica, commerciale, sociale, sia pure in circoli concentrici di economia chiusa.
Non sono soltanto costruzioni formali ma sono «monumenta», direbbero i latini, di molteplice realtà e di viva umanità.
Allora, non di rado, triplice redazione e revisione nel corso di oltre quat-tro secoli di vita, ha collaborato non solo il giurista-notaio, che al diritto co-mune e al diritto sovrano-statuale (e anche dell’autonomo diritto costituzio-nale e amministrativo e pecostituzio-nale del singolo luogo) ha dato il suo posto e la sua formulazione, ma ha collaborato tutto il popolo che, direttamente, in assem-blea generale o, indirettamente, in consiglio particolare e nei suoi rappresen-tanti, detti, appunto, «statuari», scelti ed eletti alla composizione o revisione statutaria, ha portato la voce genuina e viva e immediata di ogni interesse già maturo e di ogni interesse acerbo ma voluto per l’avvenire.
Negli statuti rurali si trova espressa, libera e autonoma, una certa anima di popolo che rivela impegni, pratici e spirituali, insospettati e crea caratteri moralmente mirabili. È intera la drammatica vita sociale, economica e finan-ziaria di un tipico paese di Maremma negli statuti di Montepescali, stupen-di, del 1427.
È in uno statuto rurale del 1571, quello di Casteldelpiano sul Monte Amiata, che si trova una delle pagine più intelligenti che abbia mai letto sul primario interesse, collettivo e privato, sul diritto scolastico e sul dovere del-l’istruzione e dell’educazione «dei figli di ciascuno».
Se, poi, quel che soprattutto conta nella pagina storica, che è pagina di re-surrezione, è quel che Dante chiami il «movimento umano», che ogni valore passato rende presente e immette nell’universale, perenne interesse della per-sona, guardate, ad esempio, come vive, addirittura, il congegno di una gran-diosa opera economica nel lavoro di un semplice operaio, che obbedisce alla regola di uno statuto, così come la sente e la interpreta la parola del Soresi, che Mario Romani riporta in testa al suo studio su di un secolo di vita agri-cola in Lombardia: «Durante la irrigazione iemale è soprattutto necessaria la estrema vigilanza del camparo. Ed è appunto in quest’epoca che più viva si fa la nostra ammirazione per questo modesto lavoratore, che dalle prime ore del mattino alle ultime della sera, quando le classiche nebbie della Bassa Lom-bardia avvolgono impenetrabili la campagna, o quando la neve turbina, o al-ta ricopre il suolo, avvolto in un grosso pastrano, i piedi e le gambe calzate in alti stivali, il caratteristico badile dal lunghissimo manico sulla spalla, cam-mina, cammina solitario, attraverso la marcita, tutto sorvegliando, a tutto provvedendo perché l’acqua in leggero e costante velo scorra senza
interru- xlii
zione alcuna a vivificare ovunque la marcita, a rendere possibile la raccolta di freschi foraggi, quando tutto intorno la campagna è assopita nel riposo in-vernale, e sui campi brulli o biancheggianti di neve, solo la marcita, nel suo caratteristico colore smeraldino, indica, con la sua vitalità, il prodigio che la perspicacia degli agricoltori lombardi ha saputo creare».
Oppure, sempre ad esempio, pensiamo a quel mandriano del Purgatorio dantesco, che, di notte, alberga all’addiaccio, a guardia del branco di bestie, sue o del padrone, che «quete riposano», perché, lui, armato di lungo, nodo-so bastone, avvolto in un rozzissimo mantello, vigila perché «fiera non sper-ga» gli animali a lui affidati: è una macchia umana, seduta per terra, accanto al fuoco acceso: è una statua ossutamente legnosa ma viva: statua di durezza al sacrificio, di fierezza nella vigilanza, di coraggio contro il pericolo, che dà vita a tutto il «paesaggio» pastorale del Medio Evo.
A pensarci bene, intorno alla modestissima figura di questi due lavoranti, si adunano i «come» e i «perché» e i «quando» e i «quanto» dei problemi idri-ci di bonifica, di canalizzazione, di carico finanziario, di effiidri-cienza distributi-va e produttidistributi-va; o di pascoli e di concimazioni allo stabbio, di produzione lat-tiera, di alimentazione popolare e di vendita, condizionate anche dal modo col quale quel camparo e quel mandriano, in povertà ricca di merito, vivono nell’anima dell’opera economica, secondo regola statutaria.
In realtà, sullo sfondo di qualsiasi disegno economico spicca sempre la fi-gura dell’uomo che quel così detto «paesaggio» ha creato e mantiene vivo.
Ora, (e questo è solo un motivo sul tema dello statuto rurale) di questi uomini, del loro lavoro, è piena la vita degli statuti e delle carte municipali derivate e connesse.
Rilevandola, economicamente e spiritualmente, si arricchisce la dottrina e il tesoro morale di cui l’anima vive.
Storia dell’agricoltura come elemento essenziale della storia nazionale
Se, poi, volessimo dare anche un più ampio sguardo, in più grande esempio, potremmo, forse, credere che non si conosce una parte essenziale anche del-la nostra ultima storia nazionale e umana, se non si fa posto aldel-la storia dell’a-gricoltura e degli agricoltori, come scriveva Gioacchino Volpe.
Adesso, non si può dimostrare con ampia chiarezza ma, a mio modesto avviso, se si dimentica o non si riconosce in doverosa evidenza e non si rece-pisce nella storiografia comune quanto, per esempio, a partire della seconda metà del ’700, il lavoro, intellettuale e manuale, servendosi di studio, di ca-pitale, di fatica e di pena, di intelligenza e di volontà, come dice il Cattaneo, ha creato nel piantare viti e olivi e frutti in ogni parte d’Italia; nel prosciuga-re e canalizzaprosciuga-re; nel coltivaprosciuga-re a fiori le rocce; nell’avviaprosciuga-re a risanamento le Ma-remme; nel costruire case coloniche; nel moltiplicare, talvolta, per dieci la produzione mentre la popolazione lavorante cresceva per due; quando un
la rivista di storia dell’agricoltura xliii giovane correva alle armi sotto le bandiere del primo Risorgimento ma due giovani rimanevano nel campo a vangare e scassare e piantare, per tutti, non si conosce, nella sua meno incompleta e mirabile verità, nella sua autonomia e distinzione, la storia del Risorgimento del popolo italiano.
Il tema è immenso e di particolare fascino, anche perché è un motivo di rivendicazione e di giustizia sociale, ed io mi fermo e ritocco terra, ben rile-vando che la Rivista di storia dell’agricoltura, nel mondo di tante voci cultu-ralmente concordi, desidera ardentemente essere come antenna, sensibile ad ogni appello, al richiamo, all’orientamento.
Per questo, la Rivista domanda consigli critici, proposte, collaborazione più stretta: nella precisa finalità possibile; nell’intelligente e autonomo meto-do; nel proseguimento del programma più vasto e difficile; nella ricerca del finanziamento, sufficiente e sicuro.
La domanda, con stima e fiducia, a voi che avete particolare prestigio e potere, competenza sicura e passione sincera, e vi ringrazia.
Ildebrando Imberciadori – Mario Zucchini
lettera ai collaboratori della rivista
*
Illustre Professore,
nell’intento di secondare il desiderio di molti studiosi, e sotto gli auspici del-l’Accademia dei Georgofili, il cui nome è, da secoli, garanzia di serietà scienti-fica, sarebbe nostra intenzione far nascere la Rivista di storia dell’agricoltura.
Penseremmo che la Rivista dovesse uscire in fascicoli trimestrali o quadri-mestrali, di circa 100 pagine l’uno, e ci proporremmo di fare in modo che la collaborazione fosse compensata.
Il contenuto, in studi e recensioni, potrebbe riguardare qualsiasi periodo della nostra o altrui storia e per qualsiasi argomento: sia di storia della tecni-ca agraria sia di storia della vita degli agricoltori, nel signifitecni-cato più ampio della parola.
Anche la pubblicazione di documenti significativi, inediti o rari, potrebbe es-sere desiderata, come particolare accoglienza potrebbe trovare l’offerta di “tesi di laurea” che, in diverse Facoltà interessate (Agraria, Lettere, Giurisprudenza, Scienze politiche, Economia e Commercio) avessero degnamente trattato argo-menti riguardanti, in senso lato, la storia dell’agricoltura e degli agricoltori.
In nome di questo alto interesse “umano”, culturale e politico, nazionale e internazionale, noi La preghiamo di darci la luce del suo giudizio e l’onore della sua collaborazione: col consiglio, con la promessa o, meglio, con l’invio di contributi scritti.
Le saremo, ad ogni modo, tanto grati di una sua parola preziosa e La sa-lutiamo con riconoscenza.
Per la Redazione Ildebrando Imberciadori
Mario Zucchini
* Archivio Imberciadori, Castel del Piano, Lettera autografa a Ildebrando Imbercia-dori (10 marzo 1962).
Gioacchino Volpe
lettera a ildebrando imberciadori
*
Caro Professore,
ho ricevuto il primo fascicolo della Rivista che lei mi annunciò; ho letto qual-che articolo compreso il suo su la Toscana del primo Ottocento; mi rallegro della vostra iniziativa. Io, come “storico” tout court, mi sento vicino alla sto-ria dell’agricoltura più che a qualsiasi altro ramo di stosto-ria, data la complessità della vita agricola e il suo identificarsi per secoli con la vita economica nel suo complesso, per cui le trasformazioni della società sono una cosa sola – causa ed effetto – con le trasformazioni della agricoltura, prima nell’ordine giuridi-co-sociale, poi anche economico. (Aggiungo, fra parentesi, che io sono, di na-scita e di sentimento, un “terrone”, e che fino al mio quindicesimo anno, il mio più grande divertimento era aiutare mio padre nella cura del nostro bel-lissimo orto, avanti che le vicende della vita mi strappassero di lì, mi portas-sero verso il nord, facesportas-sero di me un raccontatore di storie. Ma anche fra queste storie, per 20 anni io non mi occupai se non di campagne e contadi-ni toscacontadi-ni, nella fase del loro risvegliarsi e trasformarsi e concorrere alla tra-sformazione di tutta la società medievale: campagne di Pisa, campagne di Volterra, campagne di Massa, campagne di Lunigiana ecc.).
Lei mi invita a collaborare. Volentieri lo farei. Ma oramai il lavorare è per me più un desiderio che una possibilità; e la possibilità va poco oltre qualche articolo di giornale a fondo politico o la nuova edizione di vecchi miei libri, fra cui, di recente, Sansoni ha pubblicato il mio Medioevo italiano tutto risonante di echi di quella Toscana medievale, agricola, contadina ed anche cittadina.
Grazie ancora e mi creda suo
Ildebrando Imberciadori
a modo di curriculum…
*
… E allo scopo di fornire un elemento ideale all’equità del giudizio, deside-ro fare il punto sul mio lavodeside-ro. Ma, prima di fermarmi sul bilancio consun-tivo, ho il piacere di informare che la mia attività di studio continua regolar-mente, sempre più ascoltando le osservazioni altrui e correggendo il tiro.
In questi ultimi tempi, il mio sguardo si è allargato, cautamente, ai confini della nazione e dell’Europa; ma, nel passato, la mia attenzione si è fermata sul-la storia economico-agraria delsul-la Toscana: regione, per tanti rispetti, di in-confondibile rilievo anche agricolo, ma pur sempre regione. Ora, sulla Toscana ho già scritto tre volumi: uno, sul Medio Evo; uno, sul ’700 e uno, sull’800; ma è in corso, ormai, di avanzata elaborazione anche un volume sulla campagna to-scana del ’600, e già concettualmente imbastito è un quinto volume sull’8-900: volume che, facendo ancora perno sull’archivio dell’Accademia dei Georgofili, bicentenario osservatorio di prim’ordine regionale, nazionale e internazionale, dovrebbe concludere in continuità ed ampiezza un certo profilo storico econo-mico-agrario. Così il mio lavoro sulla Toscana si sta configurando come un al-bero, schematico, direi, stilizzato, che affonda le radici nell’Alto Medio Evo, consolida il tronco nei secoli intermedi e allarga la fronda nell’aria moderna.
Dico: lavoro “schematico”, e potrei aggiungere: “provvisorio e mutevole”, perché, data la lunghezza del tempo e la sterminata documentazione, esso avrà carattere e intenzione di contributo e sarà pur sempre lavoro di “assag-gio”, “provocatore” di problemi e soluzioni diverse.
Bisognava pur cominciare.
* * *
Partendo, dunque, dal secolo IX, desidero arrivare, per saggi, al secolo XX. Il tempo è lungo, e la pretesa può sembrare, giustamente, presuntuosa;
a modo di curriculum… xlvii ma tutta l’economia agraria toscana, in sintesi, è solcata da due vene domi-nanti, di cui non è impossibile, per documentazione o per intuizione plausi-bile, seguire il corso, rettilineo, pur nella sua varietà: e cioè, il piccolo possesso a viti e olivi ed orti, e il podere mezzadrile a voce economica molteplice: ar-borato, seminativo, pascolativo: piccolo possesso e podere mezzadrile che hanno creato, col lavoro, il corpo e, per tanti rispetti, l’anima di una regione distinta come la Toscana.
Col mio lavoro sulla Mezzadria Classica, frutto di otto anni di indagine e scelta archivistica, volli offrire al serio studioso di un istituto giuridico-eco-nomico di millenaria efficienza, una base sicura di interpretazione critica, pubblicando contratti agrari inediti dal giugno 821 all’8 aprile 1348.
Naturalmente ne detti una mia interpretazione preliminare, discutibile, in qualche aspetto particolare superata, ma non priva di consistenza critica, se l’Accademia dei Lincei, nel 1953, ritenne giusto premiarla e se cultori stra-nieri e italiani l’hanno ritenuta lavoro buono o “ottimo” (v. Leicht, Luzzatto, Serpieri, Sestan, Fanfani, Violante…).
Poi, del secolo XV mi sono occupato in due lungamente elaborati artico-li di Rivista, di cui l’uno, quello sulla proprietà mezzadrile di Nicolò Ma-chiavelli, fu giudicato dal Sapori “un vero e proprio saggio” e dal Morghen, “dotato di vero senso storico”; e l’altro, quello sulla proprietà fondiaria di Francesco Datini, fu giudicato preciso, calcolato, “acuto” dal Melis.
Del ’400 ho anche pubblicato e interpretato, da un punto di vista giuri-dico-economico, il Primo Statuto della Dogana dei Paschi in Maremma, la consistenza economica dei quali costituì la base di costruzione per il Monte dei Paschi di Siena; e ho anche pubblicato gli Statuti del Comune di Monte-pescàli, del 1427, considerati fonte non comune di dati economici e sociali di quella “seconda toscana” che è la Maremma.
All’economia agraria del ’5-600 ho già dedicato uno studio sul nascere di certa piccola proprietà olivata-vitata e su certi altri caratteri spirituali e sani-tari di una popolazione rurale (v. Spedale scuola e chiesa…). All’economia del medesimo tempo e, specialmente, alla continuità e alla condizione della vita mezzadrile è già riservato, come detto, un volume intero.
Infine, nei due volumi riguardanti la campagna e l’economia della Tosca-na dal 1737 al 1861, l’esposizione critica si è estesa a tutti gli aspetti della tec-nica e del pensiero economico, agronomico e politico.
* * *
Ho detto volutamente: “esposizione” perché, sebbene essa abbia sempre desiderato di essere: “esposizione critica”, pure, le è stata rimproverata non la mancanza ma la insufficienza del calcolo quantitativo e grafico.
Riconosco giusta l’osservazione, ma pregherai di ascoltare qualche spiega-zione e un contro-rilievo.
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gli agricoltori toscani, modernamente intesa, avesse particolare bisogno di conoscere: fatti e pensieri pertinenti. Allora, mi parve ragionevole che fosse possibile accendere interesse nel moderno lettore intelligente ponendogli sotto gli occhi fatti e pensieri inediti, non conosciuti, perché egli stesso se ne potesse servire come elemento nuovo di suo giudizio diretto e non in-diretto.
Di mio, misi spesso interpretazione di carattere tecnico o umanamente vario e sempre misi la scelta critica del documento e rilevai la probabile sinto-maticità del fatto e del pensiero. E fu quello il momento in cui un tecnico della levatura di Arrigo Serpieri mi scrisse “Finalmente, gli storici si sono ac-corti che esiste anche l’agricultura”.
D’altra parte, mi sembra anche giusto osservare che in certe parti dei miei studi anche il calcolo statistico ed economico è stato esplicito, come riconob-be il Dal Pane in una sua recensione; comunque, il calcolo sempre è stato im-plicito in tutta l’opera.
Non perché facesse volume e peso volli che nei volumi sul ’700 e sull’800 la cosidetta “appendice” si chiamasse Antologia documentaria, e fosse una scel-ta ampia e composscel-ta con pertinente intenzione.
Chi volesse fare confronto ordinato tra il discorso testuale e il documento an-tologico (oltre quello della documentazione a fine capitolo) troverebbe che i do-cumenti dell’antologia sostengono, col calcolo, le affermazioni del testo.
Che, poi, non siano stati resi graficamente visibili ed espliciti certi tipi di calcolo è vero, e ne riconosco il difetto. Mi valga, per attenuante, il pensiero che il mio metodo culturale non ha perfetta questa sensibilità e, soprattutto, che nel campo sterminato e nuovo della ricerca ho sempre lavorato da solo, come un cane da caccia, nell’angustia del tempo che, molto spesso, mi pone-va nell’“angoscia” della scelta alternatipone-va.
Per altro, assicuro che, anche per la fortunata scoperta di completi e sicu-ri documenti contabili, il mio prossimo volume sulla campagna toscana nel ’600 sarà denso di calcolo numerico e di visione grafica, comparato con quel-lo di altri studi simili per altre regioni d’Italia, dei quali mi sarà guida ordi-nata la storia economica del Cipolla e la rassegna critica del De Maddalena.
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E cercherò di farlo nel modo più chiaro e persuasivo perché, alla fine del discorso, dovrò pur ripetere un’affermazione seria: che, cioè, anche della To-scana del ’600 non si può precisare una vita e un’anima, se, prima, non si co-nosce anche la storia della vita che nasce dalla natura dei campi.
Non sarà difficile dimostrare non solo che un certo paesaggio agrario è ben diverso da quello immaginato ma anche che la rappresentazione dello Stato Toscano, per esempio, disegnata, con animo commosso e ammirato, da uno storico come il Braudel, può apparire soltanto come una cittadinesca, au-lica facciata che sta dinanzi ad una casa nera, spesso catapecchiosa, abitata da
a modo di curriculum… xlix gente faticante, inutilmente scontenta, generalmente denutrita, ignorante e povera.
* * *
E mi perito di estendere questo tono di osservazione a tutta la storiogra-fia italiana di uso comune, che, politica, diplomatica, guerresca, poetica, filo-sofica, giuridica, pecca, per questo rispetto economico-sociale di “parzialità” e di “falsità”.
Allora, ancora campagna contro città? Non direi: contro. Come si può es-sere nemici di chi ti dà il pane e alto guadagno? Ma la vita della campagna si diversifica da quella della città sia perché non è conosciuta sia perché potreb-be, in certa storiografia, paragonarsi alla vita di un magro, ossuto bove da la-voro rispetto a quella di un abbiadato cavallo da sella. Ne ho avuto una ri-prova quando, addentrandomi nel tempo del nostro Risorgimento, a partire dalla seconda metà del ’700, ho sentito l’esigenza che a questa parola “Risor-gimento” si dovesse dare un significato più ampio e un contenuto più so-stanzioso: quello che soltanto la conoscenza e l’accettazione della storia eco-nomica può offrire.
Man mano che studiavo la storia dell’agricoltura e degli agricoltori sco-privo che la Toscana rivelava nel lavoro e nel pensiero economico un’e-spressione profonda, direi, intelligentemente ardita, come nell’arte stessa, più che nella politica ( v. Campagna toscana… Economia toscana… Accade-mia dei Georgofili del Risorgimento…); scoprivo che certi paesi, e nessuno lo sapeva, appena raddoppiando, in due secoli, la popolazione, avevano de-cuplicato la produzione agricola; che sin dalla fine del ’700 la popolazione del contado fiorentino, in 40 anni di accanito, spregiudicato lavoro aveva raggiunto già quel grado di criterio economico, intellettuale e politico sul-le cui basi avrebbe, poi, costruito tutta la sua vita avvenire (v. nell’antolo-gia documentaria la relazione inedita del dott. Fiorilli); studiando la storia della Maremma avevo seguito la strada per la quale essa era evasa dall’a-bisso sanitario (i suoi bambini morivano per il 50% come i suoi vitellini, per il 70% la vita media era di 22 anni) e dai 100.000 quintali di cereale era giunta al suo milione e cinquecentomila quintali di oggi; e viaggiando per l’Italia di collina e di pianura e seguendone le vicende storiche econo-miche in opere di studiosi come Dal Pane, Romani, Vanzetti, Berengo, Beltrami, Villani, Villari, Giarrizzo, Romeo… e cercandone anche paesana conferma in studi analitici sardi di miei studenti, mi ero ben confermato che tutta la nazione, durante il tempo risorgimentale, aveva lavorato e co-struito, nel silenzio dell’opera, per il proprio sostanziale Risorgimento: con mirabile dedizione al sacrificio e con risultati economici imponenti in bo-nifica e piantagione.
Se a questa popolazione campestre, proletaria e borghese e aristocratica, si aggiunge quella cittadina che impostò e dette avvio alle nuove industrie e
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commerci, allora veramente ci si accorge di quanto sia illogico e ingiusto ignorare o escludere dalla costruzione dell’opera risorgimentale la maggior parte del popolo sol perché essa non ebbe l’idea della nuova discussione po-litica né ebbe possibilità o voglia di correre sotto le armi “garibaldine” e ri-mase a casa: per mantenere la famiglia sempre crescente e per tentare l’acqui-sto di un patrimonio, sufficiente a salvare la famiglia dai laici della non libertà economica, mortificatrice di ogni valore spirituale e fisico.
Lo dico, perché molti dei nostri padri e molti di noi stessi sono “risorti” proprio in forza di questa volontà.
* * *
Ora, se ci si accorge di questo capitale fenomeno, ben rilevato proprio nello scoprire la vita nascosta della gente dei campi, allora si può, forse, giudicare con meno rigore un certo mio modo di scrivere e di pensare che a qualche studioso può essere apparso insolitamente “letterario” in campo economico.
In realtà, riflettendo, da insegnante, su questa ampia ed intima apertura storiografica, venivo desiderando sempre più vivamente che fosse preparato ed affrettato, anche con un linguaggio e con una sensibilità adatta alla gene-rale comprensione, il momento in cui la conoscenza economica e sociale del-la vita possa entrare nell’insegnamento deldel-la storia neldel-la scuodel-la, come midol-lo nell’osso giuridico e politico della cultura.
Bisogna giungere presto a persuadere tutti gli studiosi a fare posto ampio alla conoscenza del lavoro economico nel contesto bellico, politico, diploma-tico, filosofico della nostra storia. Bisogna che i “pochi” e i “grandi” siano messi insieme ai “molti” in un’azione e in un pensiero storico corale, dove cia-scuna voce abbia il suo tono e il suo timbro; dove ogni apporto sia conside-rato ed abbia stima proporzionata.
Né so pentirmi del “sentimento” che metto nello scrivere anche di cose economiche: non è sentimento retorico, né, tanto meno, insincero.
È che come la legalità mi si accende subito in problema di giustizia così l’economia mi diventa subito il problema capitale del vivente lavoro umano: vivente, anche se di millenni passati.
Ho bisogno di sentire molto, per vedere largo.
E, per pura verità, come insegnante posso assicurare che questo spiegare il congegno tecnico del fatto economico e porlo, poi, nella luce delle molte-plici cause e dei molti effetti dei quali il fatto economico è stato effetto e cau-sa; questo modo di sentire, di vedere e impostare il problema economico nel-la storia viva piace ai giovani che, mentre per sete di sapere e per doveroso in-teresse costruiscono la propria capacità professionale, si rivelano ancora desi-derosi di sentir scorrere nello spirito quella calda vena umanistica che già li avviò, nella scuola media superiore, ad aprire l’anima alla conoscenza di se stessi e, quindi, delle molte cose e delle molte persone.
a modo di curriculum… li * * *
In conclusione, chi mi conosce sa che io, con sincerità, desidero conosce-re e riconosceconosce-re i miei limiti e la liceità di certo mio atteggiamento come de-sidero rispettare e riconoscere l’equità di un giudizio discorde.
Quindi, quando dico: - a me pare -, lo dico con dubbio e discrezione. Così stando le cose, a me pare di aver contribuito a scrivere la storia del-l’istituto mezzadrile e della piccola proprietà, dal secolo IX a oggi, illumi-nando il come e il perché, per esempio, tutto il paesaggio dell’Italia centrale è stato creazione di questi istituti.
Scoprendo i lineamenti e seguendo la vita di questi due fondamentali isti-tuti, a me pare di aver messo in particolare luce la novità di una sostanza sto-riografica di interesse vastamente nazionale.
Per questo ho desiderato contribuire a far conoscere, raccordare e fondere tra loro, in equilibrio culturale, storia “civile”, diciamo, vigente e storia economica e sociale, ancora ai margini della storiografia di istruzione comune.
Per mio conto, ho già cominciato a farlo, redigendo, in collaborazione con Raffaello Morghen, i cinque volumi di storia per gli Istituti Tecnici.
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Da ultimo, mi permetto di aggiungere che sia in Italia sia all’estero, negli scritti personali e nei congressi, si è salutata e si segue con benevolenza la na-scita e l’adolescenza della Rivista di storia dell’agricultura, che ho l’onore di di-rigere con Mario Zucchini nella consapevolezza della responsabilità e nel pro-posito di dare sempre maggiore impulso alla ricerca sistematica, trovando in-coraggiamento e consiglio anche nella collaborazione delle persone che stimo. Qualunque sia il giudizio, questo è il mio ritratto, questa è la mia idea di-rettrice che presento con modestia sincera. Nei pochi anni tranquilli e attivi che ancora mi possano restare continuerò a studiare, sempre considerando il fatto economico come problema centrale e molteplice interessante persona e società.