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Quattro volti di donna. Di conflitti femminili e matricidi filosofici attraverso Cavarero e altre voci

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Academic year: 2021

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Corso di Laurea magistrale in Filosofia della

società, dell’arte e della comunicazione

Tesi di Laurea

Quattro volti di donna

Di conflitti femminili e matricidi filosofici

attraverso Cavarero e altre voci

Relatore

Ch. Prof. Giorgio Brianese

Laureando

Jessica Borotto

Matricola 816104

Anno Accademico

2012 / 2013

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La storia della civiltà si può ridurre alla storia dell’asservimento della bellezza femminile Erri De Luca, Le sante dello scandalo

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Indice

Introduzione p. 5

I. Attraversare le antinomie: i volti femminili del conflitto p.

14.

1. Il corpo di Antigone p. 14.

 Principi di genere p. 14.

 Excursus: della divisione di corpo e logos

. P. 17.

 Tremendo corpo p. 28.

 Antigone e l’antico ordine cosmico p. 31.

 Tra fatalità divina e responsabilità p. 42.

 Azione ai margini della polis p. 46.

2. Penelope e la tessitura p. 55.

 Un’altra Penelope p. 55.

 Il sapore femminile dell’astuzia p. 61.

 Di pensieri vivi e di corpi intelligenti p. 65.

 L’imprevisto ripetuto in un incompiuto operare p. 70.

 L’ineffabile e l’aperto: dalla morte all’incompiutezza di una tela p. 78.

 Liminalità: di donne che non stanno al loro posto p. 82.

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II. Cercare la madre, ritrovare la vita p. 96.

1. Demetra, la madre dall’aspetto mutevole p. 96.

 Il mito di Demetra: del generare rubato e delle sue manifestazioni perdute p.

96.

 Nascere sotto lo sguardo materno p. 99.

 I molteplici volti della madre p. 101.

 Scissione di anima e corpo nel disprezzo per l’opera materna p. 104.

 Madre invisibile p. 108.

 Guardare alla nascita. Per una politica della finitezza e della relazionalità p.

117.

 Del conflitto tra continuità e differenza p. 121.

 Ritrovare la madre p. 125.

2. Diotima e la saggezza femminile p. 130.

 Il parto ideale della filosofia p. 130.

 Amore, bellezza e fecondità p. 134.

 Dal corpo all’anima: vivere eternamente nella morte p. 141.

 Aderire alla vita incarnata…p. 147.

 …e ritrovarsi nel corpo p. 153.

Per concludere p. 163.

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Introduzione

Quattro volti di donna è il titolo che ho voluto dare a questo lavoro, poiché quattro sono le sue

protagoniste e a ciascuna di esse ho dedicato un capitolo. Perché ho sentito il desiderio ed il bisogno di scrivere su queste figure femminili? Inoltre per quale ragione le ho cercate nella mitologia greca, nella tragedia e nel pensiero antico? Quale posto occupano oggi nella nostra società queste figure? Cosa dicono Antigone, Penelope, Demetra e Diotima delle donne odierne? In quest’ultima domanda si rivela uno dei presupposti che stanno alla base della mia ricerca: queste donne dicono qualcosa di noi o almeno ci mostrano qualcosa che si potrebbe dire di noi. In questo senso, ciò che il titolo vuole comunicare è che esse rappresentano un volto speciale dell’esperienza femminile.

Ad avvicinarmi a queste figure e ad indurmi a credere che esse esprimano un significato particolare dell’esperienza femminile e umana, non è stata, tuttavia, una personale intuizione, quanto piuttosto le opere di Adriana Cavarero, la quale se ne è appropriata per riraccontarle. I suoi lavori stanno alla base delle motivazioni che mi hanno spinta ad intraprendere questo percorso e il suo pensiero è il punto di riferimento principale che lo orienta. Per questo motivo sono innanzitutto le sue parole ad offrirmi la possibilità di rispondere ad alcune delle domande che aprono questa introduzione.

In Nonostante Platone1, Cavarero parla di come il simbolico si presenti nelle molteplici figure di

cui è ricca la tradizione occidentale. Tali figure e le loro storie, che popolano il nostro immaginario, sono, in altre parole, delle forme in cui esso si manifesta. Ma che cos’è il simbolico? Potremmo dire che la dimensione del simbolico è quella in cui si costituisce un certo ordine volto a strutturare una visione del mondo, a connettere e a significare le molteplici esperienze che costituiscono l’esistenza umana, ovvero è ciò che risponde alle questioni di senso. La forza comunicativa delle figure dell’immaginario e la loro capacità di evocare un effetto di autoriconoscimento è più potente di quella di altri linguaggi, quali trattati scientifici, filosofici o giuridici, in cui l’ordine simbolico si esprime. Questo ha spinto Cavarero a rubarle dalla tradizione, come lei stessa dice, per attingere a quella sfera simbolica in cui il senso dell’esistenza umana si costituisce. In questo modo, la filosofa ha cercato di far emergere degli aspetti dell’umano che il pensiero occidentale non ha saputo o voluto mostrare.2

Che tale tradizione affondi le sue radici nel pensiero della Grecia antica, che pur differisce molto da quello moderno e da quello contemporaneo, è opinione diffusa. Bruno Snell in La cultura greca

1A. Cavarero, Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica. Ombre corte, Verona, 2009 2

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e le origini del pensiero europeo3 sostiene che i greci abbiano scoperto il pensiero e che si siano

così per primi appropriati dell’essere dell’uomo, dandogli forma in “esperienze vive”4, la cui manifestazione esprime la concezione storica che lo spirito ha di sé. Il pensiero che appare in molteplici e differenti forme storiche, trova il suo senso non nei singoli suoi modi di apparire, ma in quelli che vengono comunicati e che orientano il suo percorso, creando un quadro simbolico comune. Ciò che dello spirito si scopre, attraverso dolore e travaglio umano, assume esistenza solamente nel suo mostrarsi e nel suo poter essere comunicabile, ovvero nella consapevolezza che si ha di lui.5

Se l’essere dell’uomo di cui si sono appropriati i greci dunque, appare nelle forme in cui si dà lo spirito, allora come quest’ultimo, la sua esistenza prende consistenza nella misura in cui si mostra e in cui si dice e in quanto è consapevole di sé. Il percorso di questo processo dello spirito può intraprendere direzioni diverse da quelle fino ad ora imboccate? È possibile dare forma a quell’essere umano che non ancora si è dato per arricchirne il senso e metterne in luce altre esperienze fino ad ora incomunicabili?

Il quadro simbolico della tradizione occidentale, che secondo Cavarero può essere identificato in elementi persistenti che permeano tutto il suo pensiero, ha offerto una pluralità di figure, come sostiene la filosofa, che nell’immaginario hanno impresso molti tratti dell’umano, ma che in ultima analisi dicono principalmente una sola cosa: la centralità di un soggetto maschile, universale e neutro. Tutto il mondo e il suo senso vengono così costruiti a sua misura, e appaiono sotto forme, tutte create in funzione di questo soggetto. In tale contesto, si dispiega anche il femminile e alle sue figure vengono attribuiti ruoli e posizioni in riferimento alla supremazia del maschile, il cui orientamento prospettico decide su tutto il resto.

Il femminile qui, denuncia Cavarero, viene fatto oggetto del pensiero altrui e rinuncia alla propria soggettività, nella misura in cui le donne sono costrette a riconoscersi e a dare forma alla propria esperienza attraverso un immaginario altrui. Da questo punto di vista, riscrivere il profilo di alcune figure femminili, significa ricostruire l’immaginario in cui riconoscersi, ritrovare nuove forme capaci di rendere visibile ciò che dell’esperienza viene altrimenti occultato e abbandonato alla dimensione immediata dell’empirico, che l’ordine simbolico lascia irriflessa oscurandone il senso.6

3

B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad. it. V. Degli Alberti e A. Solmi Marietti, Einaudi, Torino, 1963 p.10

4 Ivi, p. 16. 5 Ivi, p. 11-12. 6

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Criticare la centralità del soggetto neutro e universale permette di mettere in questione anche alcuni aspetti fondamentali della visione del mondo inaugurata assieme alla sua costituzione. Due di questi elementi chiave sono la degradazione del corporeo e la figura della morte come cifra dell’esistenza umana. La prima segue il dualismo che separa l’anima dal corpo, collocando questo in una posizione subordinata e dividendo l’uomo in due sostanze eterogenee. La seconda si radica nell’angoscia provocata dalla paura del nulla, che spinge a cercare rimedi e metodi per garantire all’uomo l’immortalità.

Il mutamento prospettico dovrebbe scardinare questi perni fondamentali del pensiero metafisico, producendo figure che non si appellano ad alcuna generalizzazione, né neutralizzazione delle differenze, che non si costituiscono attraverso un processo di identificazione omologante e al contempo escludente, ma che si radicano nelle singolarità incarnate. Questo permetterebbe di dare forma e senso all’interezza di anima e corpo espressa nell’unicità di ciascuno, e di affrancare il corporeo dalla posizione subalterna che gli è stata attribuita. La categoria arendtiana della nascita diventa, per Cavarero, fondamentale, poiché attraverso la venuta al mondo di ciascuno appare la sua irripetibile unicità e si manifesta la corporeità quale indispensabile dimora in cui l’esistenza si radica e si espone come singolare. La nascita dovrebbe essere resa nuovamente visibile in quanto luogo d’origine e condizione di vita.7

Guardare nuovamente alla nascita, significa anche ritrovare una adeguata collocazione alla madre e alla figlia, nell’immaginario e nei discorsi, e riscoprire il luogo in cui esse guardandosi si rispecchiano e scorgono le proprie somiglianze e differenze all’interno di un continuum generazionale, lungo il quale la vita si rigenera nel ripetersi delle nascite.8

Cavarero ritiene che il pensiero di Platone costituisca un momento di passaggio fondamentale nel costituirsi della “metafisica della morte”. Pur non rappresentandone gli esisti conclusivi e pur non articolandosi in una sistematicità conchiusa e omogenea, l’opera di Platone espone l’insieme di “passaggi logici cruciali del suo farsi”9

, in cui è più facile scorgere le tracce della precedente esistenza di un immaginario capace di contenere un ventaglio più ampio di possibilità dell’umano. Per questa ragione alcune sue opere verranno prese in esame, seguendo la lettura proposta da Cavarero, nel tentativo di individuare il significato che le teorie espostevi assumono nei confronti di ciò che le quattro figure rappresentano e nella misura in cui la reinterpretazione di queste offre la possibilità di scardinare i principi fondamentali di quelle.

7 Ivi, p. 17. 8 Ivi, p. 18. 9

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Andare a cercare nell’orizzonte di un antico passato delle forme possibili in cui può apparire l’esistenza umana, non significa restaurarle nel modo in cui si davano, sempre ammesso che sia possibile farlo, né recuperare l’autenticità di un ordine simbolico originario10

. Ciò che propone Cavarero è di aprire l’orizzonte simbolico presente, in vista di bisogni attuali, di mantenerne una certa apertura in modo tale che esso sia nuovamente accessibile agli uomini e alle donne, affinché costoro possano ricostituire il senso della loro esistenza. Il valore di quest’ultimo dovrebbe poter riflettersi in una pratica politica attuale, nella quale l’inattuale può assumere valenza critica e risignificare il proprio presente, solo a partire da esigenze da esso scaturite.

Ogni capitolo verrà dedicato ad un personaggio femminile, proponendone una rilettura, che trova il suo riferimento teorico di partenza e fondamentale nelle opere di Cavarero. La filosofa ha proposto una rielaborazione del significato di queste maschere, delle loro azioni e dei loro discorsi in Corpo in figure11, nel caso di Antigone e in Nonostante Platone, nel caso di Penelope, Demetra e Diotima. Le prime due figure rappresentano due forme di conflitto contro un potere costituito, poiché esse vivono all’interno di un codice e di un sistema politico che non rende ragione alla loro esperienza e alla loro esistenza. Le due donne rispondono adottando due diverse strategie, offrendo ciascuna un diverso contributo alla possibilità di dare alla condizione umana nuovi nomi e nuovi volti. Le altre due maschere invece, vengono riprese da Cavarero, per cercare, innanzitutto, nel mito, le tracce di quello che lei definisce matricidio originario, ovvero l’atto con cui si compie il distoglimento dello sguardo dalla madre e dalla nascita per trasferirlo alla morte e, in secondo luogo, la riappropriazione mimetica della procreazione da parte del pensiero filosofico, in particolare di Platone, che si serve delle metafore del parto e del concepimento per parlare della conoscenza.

Attraversando queste figure verranno esposti e sviluppati alcuni punti fondamentali della critica alla metafisica e del pensiero politico di Hannah Arendt, al fine di permettere una più approfondita comprensione delle basi teoriche su cui si erigono le riflessioni di Cavarero, la quale si è appropriata di questi elementi, facendone importanti pilastri del proprio pensiero. Verranno inoltre esposte altre reinterpretazioni e riscritture del significato delle figure trattate, per essere confrontate con quella di Cavarero, talvolta per rafforzarne l’orientamento, talvolta in modo da poter ragionare sui limiti che le sue proposte presentano. Questo permette di rendere disponibile l’orizzonte simbolico ad altre possibilità ancora e di lasciare aperte le frontiere delle questioni di senso ad ulteriori rielaborazioni, nel ripresentarsi di rinnovate esigenze storiche.

10 Ivi, p. 20. 11

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Il primo capitolo è dedicato ad Antigone, attraverso la quale Cavarero si interroga sul rapporto che il corpo intrattiene con la politica a partire dalla sua esclusione da essa. Cavarero cerca in Platone i passaggi logici che conducono alla scissione dell’umano in logos e corporeo, i quali pur essendo ancora intrinsecamente legati l’uno con l’altro, come si evince chiaramente dalla divisione dell’anima e dal suo legame con le funzioni corporee e i bisogni carnali, descritti nella Repubblica12

e nel Timeo13, iniziano, nella sua opera, ad essere associati a due nature tra loro eterogenee. Il corpo non disponendo di un principio proprio, trova il suo principio di vita nell’anima e il suo principio d’ordine nel logos. Attraverso la sovranità di quest’ultimo, viene decretata la sottomissione delle pulsioni ad una rigida disciplina, che contiene e reprime gli impulsi della carne. Il corpo può essere integrato nella sfera politica solo qualora si sottometta al suo ordine.

Antigone, secondo Cavarero, è il radicalmente altro della politica poiché, rappresenta il corporeo indomato e animale che risveglia nell’uomo antiche pulsioni, facendo in lui riaffiorare la remota reminiscenza di implacabili impulsi e la paura della perdita della coscienza di sé. Il femminile, infatti, di cui Antigone è simbolo fin dall’interpretazione che Hegel ne fornisce nella

Fenomenologia dello spirito14, abita l’esperienza empirica immediata, che, abbandonata

all’indeterminatezza dell’essere inconsapevole di sé, viene esclusa dal senso dell’essere umano e rimane bloccata ad un grado inferiore di esistenza e di realtà.

La figura di Antigone oscilla tra l’esistenza di individuo, di cui lei fa esperienza nella sua eroica solitudine e la dissoluzione dell’io nell’indeterminatezza dell’essere che aderisce alla vita immediata ed è esclusa da ogni discorso di senso. In altre parole secondo Cavarero, lei rappresenta il conflitto tra il formarsi dell’io e il suo regredire nel grembo materno, mettendo in questione il presupposto per cui la determinazione dell’individuo necessiti dell’allontanamento definitivo dalla carne.

Antigone dimora una soglia, sia essa quella del simbolico, quella della vita, quella del linguaggio. La sua posizione, ai margini della polis e dell’esistenza umana, permette di vedere in lei una potenza sovversiva nei confronti dell’ordine vigente, non solo in quanto portatrice di qualcosa di radicalmente diverso, inscritto nella carne, che rifiuta la sottomissione e che si insinua nel mondo politico come potenza distruttiva, come sostiene Cavarero, ma anche per la potenziale legalità inconscia, sulla quale insiste Judith Butler, che l’eroina vorrebbe far affiorare dall’oscurità dell’inintelligibile e rendere pubblica attraverso la parola. Antigone, che si sacrifica per ripristinare

12 Platone, La Repubblica, trad. it. F. Sartori, Laterza, Roma-Bari, 2006.

13 Platone, Timeo, trad. it. di S. Brizzo, in Dialoghi politici, lettere, vol. I, a cura di F. Adorno, Unione topografico-editrice torinese, Torino, 1970.

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l’ordine che segna i confini della vita e della morte, potrebbe essere colei che ci fornisce di nuovi strumenti per ripensare il significato dell’una e dell’altra.

Penelope nel secondo capitolo, offre un ulteriore contributo alla critica contro il dualismo metafisico che separa l’anima dal corpo e la vita dalla morte, infatti lei è, per Cavarero, l’abile tessitrice, che ritesse ciò che la filosofia ha disgiunto. La sua astuzia è un altro simbolo dell’alleanza di anima e corpo, nella misura in cui rappresenta un forma di intelligenza radicata nell’abilità delle sue mani, e sviluppata nel corso dell’esperienza quotidiana di moglie, fatta di cose concrete della vita domestica. In questo senso, la donna rappresenta l’esistenza dell’individuo incarnato nella sua irripetibile unicità, che non si riconosce nelle astratte categorie dell’umano in cui solo il soggetto maschile si identifica. Infatti, come propone Cavarero, lungi dall’essere l’emblema della moglie fedele e paziente, Penelope si sottrae proprio al ruolo muliebre impostole, trasformando la natura del luogo da lei occupato, ritessendo le trame della propria esistenza, riappropriandosi di sé e della propria liberà nella dimora protetta e impermeabile che costruisce nelle sue stanze. Qui, riscrivendo il significato della sua presenza nella sfera domestica, Penelope mette in questione il suo rapporto con la sfera pubblica del potere, vanificandone l’operare, soprattutto nei suoi confronti, e svuotandone il tempo.

Penelope, come Antigone abita una soglia, fa esperienza di un limite. Questa soglia non è l’affacciarsi del nulla della morte con cui si misura Ulisse nelle sue imprese eroiche per conquistare l’immortalità conferitagli dalla narrazione epica, né quella che fa accedere il filosofo all’eternità attraverso la contemplazione di cose divine. Questa soglia è quella in cui Penelope si ricostruisce e si riappropria di se stessa, è quella situazione liminale, in cui tutto può essere riscritto. Qui esiste la possibilità di tracciare un altro sistema che codifichi l’esperienza e Penelope contribuisce a costruirlo. Questo è il limite di cui Penelope fa esperienza nell’incarnata esistenza di chi è nato, radicata nel mondo concreto. Il fragile permanere di tale condizione non si affida né alle cose eterne né al racconto che tramanda il ricordo, ma al gesto ripetitivo delle sue mani che tessono di giorno e disfano di notte, alla sua abilità e alla sua astuzia.

Il terzo capitolo è dedicato a Demetra, dea del grano, detentrice del segreto della vita e della potenza di generare che rende fertile la terra. Cavarero interpreta il mito che narra del rapimento di sua figlia Kore, come la rappresentazione del distoglimento dello sguardo alla madre, da parte del figlio, il quale sottrae la figlia alla madre e all’orizzonte in cui si dispiega il continuum materno. Il rapimento, in questo senso, è anche il simbolo dell’usurpazione del potere di generare, poiché la continuità di quest’ultimo ha bisogno della reciproca visibilità delle due, affinché la madre veda nella figlia la possibilità del ripetersi di nuove nascite.

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Dalla rottura della continuità generazionale, la maternità non sarà più legata al potere che Demetra esercitava a sua discrezione, ma verrà ridotta alla funzione in cui ogni donna dovrebbe riconoscersi e in cui il femminile si esaurisce e si compie. Della madre verrà idealizzata la disponibilità all’altro e la dedizione alla cura, verrà invece occultato il lato oscuro e terribile, di cui Demetra furiosa dà prova, dopo la perdita della figlia, nascondendo il seme della vita nel ventre buio della terra. Esso si manifesta nel nulla della nascita, ovvero nell’astensione al generare che potrebbe condurre alla scomparsa della vita e dell’umanità. Solo quando questo potere non le verrà più riconosciuto il corpo materno potrà essere ridotto a ricettacolo passivo di una vita il cui principio e la cui forma vengono introdotti dall’esterno e la madre diverrà la tutrice della vita biologica. Questa dimensione di vita verrà inoltre svilita dalla filosofia che vede la massima espressione dell’umano nella contemplazione. Tale attività, infatti, è talmente simile alla morte che proprio Ade viene descritto nel Cratilo15 come il filosofo per eccellenza, capace con i suoi discorsi di far amare alle anime la loro condizione incorporea.

Nell’orizzonte aperto in cui la figlia è ancora disponibile all’apparire e allo sguardo materno e in cui la madre è ancora guardata dalla figlia, vita e morte sono diverse da come vengono concepite dopo la scomparsa di questo luogo femminile. Il nulla infatti non si dà né come ciò che precede l’individuo, né nella sua morte, ma come la possibilità del non aver luogo delle nascite. La soglia dell’origine è la madre e la fine del singolo è solo una metamorfosi della vita, poiché la physis è sconfinata ed essa si riproduce nel susseguirsi ciclico di nascita e di morte e precede e segue ogni nato, trasmettendosi di generazione in generazione.

Il luogo in cui si inscrive la memoria della continuità generazionale, lungo la quale si dispiega l’illimitatezza dell’essere, è il corpo. Per risvegliarla bisogna rivolgere lo sguardo alla nascita e distoglierlo dalla morte. La nascita non solo è l’origine di un individuo incarnato e della sua vita corporea, ma anche di conoscenza e di linguaggio, trasmessici a partire dalle prime forme di comunicazione tra l’infante e la madre. Una teoria della nascita permetterebbe da un lato di tematizzare un versante dell’esperienza del femminile a lungo oscurato e assente dall’ordine del discorso, come l’essere figlia e un lato materno a noi oscuro, dall’altro di rivalorizzare la condizione umana terrena e incarnata e dunque la sua finitezza, senza separarla dalla dimensione logica del sapere e del linguaggio. Infine riportare alla consapevolezza la costitutiva condizione di dipendenza e di esposizione all’altro dell’umano, che nella nascita e nel rapporto con la madre trova la sua massima espressione, permetterebbe di pensare ad un nuovo ethos e di costruire una nuova

15 Platone, Cratilo in Dialoghi platonici vol. II trad. it. G. Cambiano, Unione topografico-editrice torinese, Torino, 1981.

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comunità politica che mette al centro non tanto l’indipedenza dell’individuo, ma la dimensione relazionale che ne costituisce i tratti fondamentali.

L’ultimo capitolo è dedicato a Diotima, la sacerdotessa di Mantinea che nel Simposio16

di Platone, Socrate sostiene essere sua maestra. Cavarero riprende il suo discorso, ovvero quello riportato da Socrate, per denunciare l’appropriazione mimetica della facoltà di generare, attuata da Platone attraverso le metafore della gravidanza e del parto. Il filosofo in questo modo sposta la fecondità e il fenomeno della procreazione dal piano del corpo a quello dell’anima, inoltre trasferisce la vita dalla sua condizione terrena a quella ultraterrena e ultrasensibile del mondo eterno delle idee. In quest’ultimo tutto è immutabile e pienamente identico a sé stesso, nulla diviene né perisce, tale condizione che in vita si raggiunge solo attraverso la contemplazione è simile alla morte, in quanto si ottiene attraverso l’allontanamento dal corpo, e dalle sue pulsioni. In questo senso, la morte non tocca l’anima che per natura è immortale, ma consiste nella mortificazione del corpo.

Il desiderio erotico, l’amore, la conoscenza e la procreazione, sia questa corporea o spirituale, sono mosse alla base dalla fondamentale ricerca umana di immortalità. Altrimenti detto, il loro significato trova una spiegazione all’interno del quadro generale di un pensiero che si offre come rimedio all’angoscia del nulla e della morte.

Restituire la riproduzione e la vita al corpo, che ne è la dimora, costringe a riporsi il problema della conciliazione tra la vita individuale e quella immortale che ciclicamente si rigenera. L’adesione immediata alla vita e al godimento sensoriale non rappresenta una buona soluzione, poiché l’uomo vive nella consapevolezza di sé e non può cancellarla, per questo motivo non può nemmeno ignorare completamente la morte, inoltre tale conciliazione lo costringerebbe a rinunciare all’unicità che nel corpo singolare si radica, per dissolversi nell’indeterminatezza della carne.

La vita va mediata e pensata, per rendere presente ciò che è disponibile all’esperienza e far essere l’essere, come sostiene Luisa Muraro ne L’ordine simbolico della madre17

, ma forse come suppone

Cavarero ha bisogno di nuovi nomi che siano capaci di rendere giustizia all’unicità dell’individuo, superando la scissione di corpo e logos. La nascita deve essere il punto di partenza dal quale recuperare i nomi perduti dell’essere umano e della vita, in essa infatti ha luogo la prima apparizione di un umano che viene al mondo e per la prima volta si manifesta ciò che di lui è costitutivo: l’essere incarnato, l’unicità, la relazione, la dipendenza, l’esposizione all’altro.

16Platone, Simposio in Apologia, Simposio, Fedone, trad. it. di A. Cerinotti. e G. Giolo, Giunti editore, Milano, 2010 17

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La dimora della vita e della fecondità, dunque, per un pensiero che vede nel mondo e nella nascita le principali condizioni dell’esistenza umana, ritorna ad essere quella corporea. Tale esistenza non solo si vive, ma si dice e cerca le parole adatte per nominarsi, per riflettersi in una teoria cha sia in grado di costruirne il significato. In questo ci soccorrono le figure che vivono al margine di quanto è pensabile e comunicabile, poiché esse offrono la possibilità di spostare le frontiere che ne definiscono il dominio e di portare alla luce quei lati oscuri dell’esperienza umana, i quali emergendo ritracciano il senso del reale.

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I. Attraversare le antinomie: i volti femminili del conflitto

1. Il corpo di Antigone

I beni più alti che le è dato di raggiungere, l’umanità può conquistarseli solo mediante un crimine, e deve quindi accettarne le conseguenze Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia

Principi di genere

Antigone, temeraria protagonista dell’omonima tragedia sofoclea, è oggetto di interesse di numerose interpretazioni e rielaborazioni. L’audace figlia di Giocasta desta attenzione non solo grazie al fascino che essa esercita per il suo coraggio e per la sua passione, ma anche per le questioni di natura etico-politica sollevate dalla sua disobbedienza. L’amore per il fratello, infatti, la spinge a violare l’editto del sovrano, nonché suo zio, Creonte, eccedendo i limiti che il suo potere le impone.

Antigone, figlia anche di Edipo, è la legittima erede della sua tragica sorte. Frutto di un amore incestuoso, la sua vita prolunga e reitera l’infelicità fatale del padre e della madre, ma, a differenza dei suoi fratelli, tra i quali il padre è incluso, lei sceglie il suo destino, consapevole di ciò che esso le preserva. Antigone non rinnega la sua famiglia, non prende le distanze dagli orribili misfatti dei suoi cari, al contrario, ne porta il peso su di sé, difendendoli.

L’editto, che la caparbia donna viola, è quello emanato da Creonte in seguito alla morte dei suoi due fratelli. Eteocle e Polinice si sono uccisi a vicenda, il primo difendendo, il secondo attaccando Tebe. Creonte, nuovo sovrano della città, zio dei due, decide che colui che ha sacrificato la sua vita per fedeltà alla polis, dovrà essere sepolto con tutti gli onori, l’altro, in quanto nemico, secondo il principio politico della città, anche se di sangue reale, non avrà degna sepoltura. Il corpo di Polinice, per volere del sovrano, sarà esposto agli animali perché ne facciano banchetto alla luce del sole.

Creonte

(…) Eteocle è morto per la sua città, combattendo con valore: deve essere sepolto e ricevere tutti i riti che accompagnano gli eroi nel mondo dei morti. Ma per il suo consanguineo, intendo Polinice, niente. Era stato esiliato ed è tornato per distruggere con il fuoco la terra dei suoi padri e gli dei della città, per saziarsi del sangue dei suoi concittadini, per renderli schiavi. Ho vietato alla città di fargli il funerale”18

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Antigone non può sottomettersi a tale legge, non intende nemmeno riconoscerne lo statuto. Fedele al fratello, lei lo seppellirà due volte. In seguito, ammetterà pubblicamente di aver compiuto l’azione che, com’è noto, la condurrà a morte certa.

Antigone

È mio fratello, e anche tuo, che tu lo voglia o no. Non lo tradirò. Mai e poi mai!19

Adriana Cavarero dedica il primo capitolo di Corpo in figure alla maschera di Antigone, mettendone in risalto quell’elemento che, secondo la filosofa, essa rappresenta: il corpo impolitico. Cavarero segue criticamente le coordinate interpretative della tragedia iniziate da Hegel nella

Fenomenologia dello spirito e in Lineamenti di filosofia del diritto20, pienamente coerenti con uno schema classico del pensiero occidentale, il quale collocherebbe l’uomo nella dimensione pubblica e la donna in quella domestica. La realizzazione del maschile, infatti, secondo Hegel, ha luogo nella dimensione compiuta dell’eticità, il cui più alto momento è rappresentato dallo Stato, sfera per eccellenza della politica. La donna, vincolata all’immediatezza del sentimento etico, al suo momento particolare in quanto soggettivo, è destinata alla famiglia21. L’eticità del femminile è per Hegel la pietas, di cui figura paradigmatica sarebbe proprio Antigone. Quest’ultima diventa, in seguito all’interpretazione hegeliana, l’emblema della “legge della femmina, vale a dire: come la legge della sostanzialità sentimentale soggettiva”22. La contrapposizione che divide la politica, luogo di libertà e autocoscienza, dalla dimensione domestica, territorio della cura e della riproduzione, corrisponde all’opposizione tra logos e corporeo. Lo Stato, infatti, è il momento del compimento pieno dell’Idea, solo in esso l’individuo diventa libero e raggiunge l’autocoscienza. L’eticità della famiglia è invece la pietas vincolata agli inferi, dei della morte e al sentimento soggettivo privo di mediazione, quindi incosciente e non libero.23

Il femminile, spiega Hegel nella Fenomenologia dello spirito, rappresenta la legge della famiglia, la quale è l’essenza interna dell’essere immediato, ovvero dell’essere originario e puro della

19 Ivi p. 61.

20 G.W.F. Hegel, Lineamenti delle filosofia del diritto, Bompiani, Milano, 2006. Traduzione di V. Cicero. 21

Nei Lineamenti della filosofia del diritto, Hegel tratta dello spirito oggettivo, quindi del mondo sociale e politico delle relazioni umane. Esso attraversa, in un percorso dialettico, il diritto astratto e la moralità, per poi compiersi nella sfera dell’eticità che egli definisce come <<Idea della Libertà nel senso del Bene vivente>> (p. 291). Questa a sua volta si realizza attraversando, in movimento dialettico, i seguenti passaggi: la famiglia come spirito etico immediato e naturale si dà come primo momento, essa perde la sua unità nella società civile, secondo stadio in cui i singoli individui si confrontano ad un’universalità formale, che inconsapevolmente aiutano a realizzare attraverso il soddisfacimento di bisogni particolari e che per loro esiste come mezzo giuridico di sicurezza delle persone e delle loro proprietà e come ordinamento esterno. Nel terzo momento l’elemento formale e universale si sostanzia nella vita pubblica dello Stato, realizzazione piena dell’eticità.(p. 305). La famiglia, luogo del principio femminile è: <<la sostanzialità immediata dello Spirito, ha propria determinazione l’amore, cioè l’unità spirituale che ha sentimento di sé>> (p307). Lo Stato, luogo del principio maschile, è <<la realtà dell’Idea etica>> (p. 417).

22 Ivi, p. 317. 23

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coscienza che non essendosi ancora confrontata con una realtà esterna, non avendo altra esperienza che quella della propria singolarità come se essa fosse assoluta, non ha consapevolezza di sé: il suo essere è, ma non si sa.24 L’autocoscienza, per realizzarsi, ha bisogno, infatti, dell’alterità.25 Essa originariamente, è coscienza in sé, la cui certezza del proprio essere non ha alcun valore di verità, poiché è semplice determinazione negativa: la sua identità avviene per esclusione di tutto ciò che è esterno. In questo consiste l’immediatezza.26 Perché la sua certezza di sé diventi conoscenza, essa necessita il passaggio di un’esperienza estatica, in cui tale coscienza originaria si confronta con l’altro, inizialmente come sua pura negazione per poi perdersi in lui. In altre parole, in questo smarrimento nell’alterità, la coscienza divide la propria unità semplice confondendosi nell’altro e cercando, nell’altro, se stesso. In questo modo, essa espone a lui la propria vita, mentre cerca ugualmente, per sopravvivere, di sopprimere la sua. La coscienza, in questo incontro, si scopre altro, presente nell’altro e al contempo cattura e fa propria quest’alterità. A muovere il passaggio ultimo dello scoprirsi nell’altro è proprio il desiderio di vedersi riflessi in questo luogo di perdita, che è desiderio di riconoscimento, per ritrovarsi e poter fare ritorno a sé. L’autocoscienza consiste nell’essenza di questo desiderio, nel rientro dall’alienazione al sé, il quale, però ne esce alterato, più ricco e appunto cosciente di sé.27

La legge divina, scrive più tardi Hegel, è l’universale astratto, perché non mediato da oggettività alcuna. Il femminile, guardiano di questo principio, che è anche quello della famiglia, non raggiunge, nella dialettica del riconoscimento, la conoscenza di sé dentro un altro, non si spinge dunque all’autocoscienza28

, rimane inconscio29. In questo risiede l’estraneità della donna al mondo politico: lei, incapace di vedere il suo riflesso nell’Altro, non può riconoscersi nello Stato né scoprire nella necessità delle sue leggi, la propria libertà. Detto altrimenti, la donna non può pervenire alla libertà effettiva, il suo posto è quello della cura della casa e dei suoi abitanti, in particolare, aggiungerebbe Cavarero, dei loro corpi. Al contrario, l’uomo passa dalla legge divina alla legge umana. Egli, capace di riconoscersi nell’altro, diventa cittadino, perché nello Stato si identifica e rende, in questo modo, la propria libertà concreta nelle sue norme. La legge umana, quella dell’uomo in quanto maschio, è l’universale concreto. Il posto del maschile è, in altre parole, la sfera politica, luogo delle attività pubbliche. Il suo principio risiede laddove l’Idea, il logos, si realizza nell’oggettività dell’istituzione del potere sovrano.

24 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it., p. 16-18. 25 Ivi, 151. 26 Ivi, p. 156. 27 Ivi, p. 153-164. 28 Ivi, p. 16-18. 29

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Questa divisione netta tra il politico e il corporeo pone, tuttavia, un problema che Cavarero cerca di affrontare anche attraverso Antigone. Il corporeo prepolitico apparterrebbe al femminile, come il

logos si realizzerebbe nel maschile e, tuttavia il primo, denuncia Cavarero, viene inaspettatamente

reintrodotto nella città, trasformatosi da “perturbante materia”30

in metafora maschile del politico, ovvero in “corpo politico”31

. Il corpo viene riappropriato sotto forma di immagine, ad uso di un linguaggio politico, definitosi, per eccellenza incorporeo e logocentrico. La questione di Cavarero sarebbe, detto altrimenti, la seguente: qual è l’itinerario teorico per cui la politica, costituitasi come sfera della libertà e della ragione, attraverso la netta opposizione all’organico in quanto determinato da una rigida necessità e spesso oscuro alla ragione, si riappropria del corporeo come immagine e metafora di sé? Ambizione di questo capitolo, non è seguire pari passo il percorso tracciato da Cavarero, ma rileggere criticamente la sua interpretazione del significato simbolico di Antigone legato al corporeo femminile impolitico, attraversando prima le sue riflessioni sulla divisione platonica di anima e corpo.

Quale rapporto intrattiene il corpo con la sfera della politica? Può risiedere in lui un elemento eversivo? La figura di Antigone sembra suggerire che il corpo, lungi dall’essere estraneo o antitetico al politico, possa entrare a farne parte e contenere un potenziale di destabilizzazione dell’ordine politico. Come disturba il codice politicamente istituito il corpo di Antigone?

Excursus: della divisione di corpo e logos

.

Il presupposto dell’esclusione del corporeo dalla sfera politica risiede nella separazione tra il corpo e la ragione. Cavarero ricerca la fondazione di tale dualismo nelle opere di Platone, nelle quali, sebbene la presenza del corpo sia ancora importante come la sua mescolanza con l’anima, iniziano ad essere poste le basi per la supremazia del logos. Platone infatti, in “omaggio alla tradizione orfica”32

, trasforma il corpo da soma, inteso come custodia dell’anima, in sema, ovvero in tomba dell’anima, con l’intento di accentuare l’accezione negativa del corporeo e dei limiti oggettivi che esso impone, costringendo l’individuo a piegarsi ai bisogni fisici e alle passioni.33

Ciò non toglie, avanza Cavarero, che l’anima descritta nella Repubblica e nel Timeo, sia articolata in parti, le quali sono strettamente in connessione a delle funzioni corporee. Una sola di queste anime è immortale, le altre, non solo sono mortali, ma rivelano una natura corporea.

30 A. Cavarero, Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità, op. cit. p. 10. 31 Ivi, p. 11.

32 Ivi, p. 64. 33

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Nella Repubblica, la connessione tra la divisione dell’anima e le funzioni del corpo, diventa l’elemento che fa da mediazione tra la polis e l’ordine del corpo, infatti, la tripartizione dell’anima è parallela alla divisione delle classi sociali. Il perno su cui si sviluppa questo insieme di analogie è il concetto di giustizia che funge da trait d’union tra l’individuo e l’ordine politico. Che cosa significa giustizia per Platone? Essa coincide con lo stato di cose in cui ciascuno compie il proprio dovere e contribuisce al funzionamento del tutto secondo il modo e nella misura che gli spetta34. Tale equilibrio si deve cercare nello Stato come nell’individuo, e dato che la distinzione delle parti è la medesima, analizzare quella dello Stato e stabilire la funzione di ciascuna classe per il suo buon andamento, aiuterà i filosofi a dimostrare come si devono accordare tra loro le tre parti dell’anima nell’individuo giusto.35

uno stato ci è sembrato giusto quando le tre classi di nature in esso esistenti esplicavano ciascuna il compito suo; e inoltre temperante coraggioso e sapiente per certe altre condizioni e disposizioni di queste medesime classi. – È vero disse – Allora mio caro giudicheremo così anche per l’individuo: poiché l’anima sua presenta questi medesimi aspetti ed egli si trova nelle stesse condizioni di quelle classi, merita a ragione i medesimi appellativi che lo stato.

Seguendo Cavarero, vedremo come questo parallelismo conduca a connotare ambiguamente il rapporto della politica al corporeo, a causa dell’incerta separazione di quest’ultimo dall’anima. La filosofa, infatti, sostiene che, essendo l’anima divisa in parti, due delle quali sono mortali e strettamente legate a delle funzioni del corpo, l’analogia tra la tripartizione dell’anima e dello stato nella Repubblica, contribuisce a mantenere la corporalità all’interno della politica. Cavarero avanza che “si possa parlare, se non di una metafora organologica dello stato, almeno di una similitudine fra l’immagine del corpo e la struttura della polis”36

Il modello della Repubblica prevede la seguente ripartizione: la parte immortale e privilegiata dell’anima è quella razionale, origine del discorso e del pensiero, la sua sede fisica è la testa; nel petto si trova l’anima impulsiva, la quale è fonte di passioni come il coraggio e l’ira; la terza anima, quella meno nobile, è origine degli istinti sessuali e dei bisogni nutrizionali, essa è chiamata appetitiva e si trova nel ventre. Le tre classi sociali corrispondenti sono rispettivamente i governanti, la cui qualità deve essere la saggezza, i guerrieri che si distinguono per il loro coraggio e infine gli appartenenti alla classe che contribuisce alla produzione materiale della città, i quali dovrebbero

34 Platone, La Repubblica, op. cit., 2006 433 b, c, p. 146. 35 Ivi, 369 a, p. 76.

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limitarsi alla temperanza, che consiste nel contenimento delle passioni e degli appetiti, di cui però, tutti gli uomini di tutte le classi sociali devono essere capaci.37

L’analogia tra il logos, come parte più nobile dell’anima, e la saggezza, come la qualità dei governanti di una città giusta, che, come dicono gli interlocutori del dialogo platonico, ancora non esiste, induce a concludere che ad occupare la posizione dei governanti, dovrebbero essere i filosofi. Costoro sono saggi, poiché la loro anima razionale è alla guida della totalità dell’individuo. Il filosofo è un essere virtuoso e giusto, giacché in lui l’anima appetitiva e quella impulsiva obbediscono al principio razionale. L’ordine della polis e quello dell’individuo, sono assicurati dalla posizione di governo dell’anima immortale, il cui dominio è garante di giustizia.38

Posizionare il logos al governo dell’anima, aiuta a creare una gerarchia disciplinare del corpo e delle passioni ben precisa, la quale impoverisce, imponendo un ordine unico, la molteplicità degli aspetti dell’esperienza umana. Gli appetiti più “bassi” devono essere contenuti e le passioni guidate dall’anima razionale. Non lasciandosi sopraffare dai desideri e dagli impulsi fisici, esercitando su di loro padronanza, l’uomo diventa sovrano di se stesso e soprattutto libero, in quanto affrancato dalla schiavitù della materia, la quale deve essere dominata.39

Il principio logico definisce la natura dell’essere umano, poiché quand’esso governa, l’uomo è pienamente realizzato, nella sua virtù e nella sua giustezza. Il logos ordina, nel senso del fare ordine e nel senso di comandare, esso è “coltivato dal filosofo come principio di autodisciplinamento”40

. Quando l’anima immortale è sovrana, le altre due, seguendo le sue indicazioni, adempiono il loro dovere e svolgono correttamente la loro funzione. In questo modo ad essere ordinata non è solo l’anima, ma il corpo stesso, poiché l’anima, in quanto strettamente legata alle funzioni corporee, impone al corpo il suo principio, lo disciplina. Ecco perché, quasi naturale diventa il paragone platonico tra la giustizia dell’anima e la salute del corpo. I due stati sembrano talmente prossimi da

37 Sarebbe inesatto attribuire la temperanza solamente alla classe sociale che corrisponde alla terza anima, come se alla tripartizione di anima e Stato, corrispondesse una esatta tripartizione di qualità, ciascuna appartenente ad ogni parte. Infatti, la temperanza, nell’individuo, consiste nell’accordare la parte migliore dell’anima alla peggiore, in altre parole, il contenimento degli impulsi dipende dalla capacità dell’anima noetica di dominare e di quella delle pulsioni di lasciarsi dominare. Per questo motivo, nello Stato, secondo Platone, la temperanza non appartiene ad una sola classe sociale, non si trova solamente in una parte dello Stato a differenza di sapienza e coraggio, ma deve caratterizzare governanti e governati e accordare secondo armonia le diverse classi sociali fra loro. Potremmo affermare che la temperanza nei governanti coincide con il saper dominare se stessi e di conseguenza gli altri, nei governati, invece, nel farsi governare, senza pretendere più del dovuto. E’ importante ricordare inoltre, che queste tre qualità appartengono alle diverse classi sociali di uno stato ideale e non reale, nel quale invece, accusa Platone: <<Molti appetiti, piaceri e dolori di ogni genere si troveranno specialmente in fanciulli, donne e servi, e nella massa mediocre delle cosiddette persone libere.>> (p144)

38 A. Cavarero, Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità, op. cit., 2003, p. 69.

39M. Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, trad. it. di L. Guarino, Feltrinelli, Milano, 2011, p. 35. 40

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arrivare se non a combaciare, a condizionarsi anche se, almeno apparentemente, in un unico senso che va dall’anima al corpo, infatti:

produrre sanità significa disporre gli elementi del corpo in un sistema di dominanti e di dominati conforme alla natura; produrre malattia disporli in un sistema di governati e governanti contrario alla natura- Sì, è così- D’altra parte, produrre la giustizia non significa disporre gli elementi dell’anima in un sistema di dominanti e di dominati conforme alla natura? E produrre l’ingiustizia non significa disporli in un sistema di governanti e di governati contrario alla natura?41

Giustizia e sanità sono distinte, tuttavia, se l’anima non è giusta, aumenta il rischio della sfrenatezza nella soddisfazione degli impulsi e questo potrebbe condurre ad un cattivo stato di salute. La consequenzialità tra il buon ordinamento dell’anima e il funzionamento del corpo è esplicita. Come rileva Cavarero, il parallelismo tra anima e corpo non è completo, poiché il corpo non ha un principio proprio. Al contrario l’unico principio d’ordine risiede nell’anima razionale ed esso regola anche il corpo, creando con l’anima un legame di continuità.42

L’ordine del corpo si intreccia dunque con quello dell’anima ed entra in forma figurale in quello politico, attraverso la metafora della salute volta a designare la giustizia. Secondo Cavarero, l’uso dell’immagine del corpo tradirebbe le intenzioni di Platone, il quale mosso dall’intento di creare un parallelismo tra l’ordine politico e quello dell’anima finisce col produrre un’analogia tra il sistema della polis e il funzionamento del corpo.43

Anima e corpo, da questa prospettiva, non si distinguono così nettamente. Tuttavia, non dimentichiamo che, nel caso dell’uomo e dello stato giusti, di corpo disciplinato pur sempre si tratta, dominato dal principio logico. Ciò che permette di pensare ad una separazione tra anima e corpo è infatti, la posizione dominante dell’anima immortale, la quale precede le altre e sembra esser fatta di una sostanza diversa, non diveniente, non corruttibile. In essa risiede il principio di ordine a cui il corpo, per stare bene si deve adeguare e che nell’individuo eccellente governa.

Ecco perché l’esercizio di governo del principio razionale sulle passioni e sui piaceri, viene vissuto come un rapporto agonistico, come una lotta di una parte di se stessi con un’altra. Il conflitto richiede che vi sia una separazione tra le due componenti dell’individuo. Inoltre, c’è da aggiungere, che quando l’ordine logico prevale, Platone parla di una vittoria vera e propria su se stessi, usando esplicitamente l’espressione “più forti di se stessi”44. Questa vittoria implica una gerarchia delle due componenti proprie all’umano, secondo cui vi è una parte di anima migliore

41 Platone, La Repubblica, op. cit. 444 d, e, c, p. 158-99.

42 A. Cavarero, Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità, op. cit., p.73. 43 Ivi, p. 80.

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dell’altra. Naturalmente il soggetto, che da questo antagonismo può uscire vincente o perdente, si colloca dalla parte più virtuosa dell’anima.45

L’intrinsecità di anima e corpo, scrive Cavarero, è d’altro canto ancora più esplicita nel Timeo. Qui Platone scrive della generazione del cosmo, il cui corpo viene modellato secondo un principio razionale. Esso è composto di anima, d’intelligenza e di corpo.

Unendo l’intelligenza con l’anima e l’anima con il corpo costruì l’universo, sì che l’opera da lui compiuta fosse, per natura la più bella e buona possibile. Così dunque entro i termini di un ragionamento verosimile, dobbiamo dire che questo mondo è un essere vivente, dotato di un’anima e di una intelligenza, veramente generato dalla provvidenza di Dio.46

Anche qui, essendo l’anima originaria e più antica del corpo, quest’ultimo le deve obbedienza: “Dio formò l’anima anteriormente al corpo, e la formò più antica del corpo per generazione e virtù, sì che l’anima governasse il corpo e il corpo obbedisse”47

. Il creatore primo, genera una stirpe di dei, ai quali affida il compito di plasmare gli uomini sulla base del modello cosmico, ovvero a partire dalle componenti già date e dal principio che ne ordina il legame. Sarà il corpo ad essere plasmato in modo da adattarsi all’anima che dovrà contenere, la quale è data e immodificabile.48

Le “fatali leggi”49

stabiliscono che vi sia una prima generazione, una nascita originaria della prima stirpe di uomini, prototipi del genere umano. Qui, l’anima, di cui gli dei dispongono, deve essere piantata in un corpo mortale il quale prenderà forma contemporaneamente alle anime mortali. L’insieme mortale di anima e corpo sarà caratterizzato da “impressioni violente”50

che saranno origine di turbamento e dolore, ma che potranno ugualmente essere guidate secondo il principio giusto dell’anima immortale. In questo caso, l’uomo vivrà onestamente e avrà vita felice. In caso contrario, nella generazione seconda, che avrà luogo in seguito, egli “trapasserebbe in natura di donna” o peggio in “natura ferina”51

.

Proprio per il modo degno in cui vive la sua vita, Platone può affermare che “dei due sessi superiore sarebbe stato quel genere che avrebbe avuto in seguito il nome d’uomo”.52 L’anima degli uomini è eccellente, essa solo riesce a dominare le passioni e a comandare gli impulsi. Per questo motivo, le riflessioni morali, riguardanti la giustizia dell’individuo, in Platone, concernono solo e soltanto la condotta maschile. Attraverso il controllo delle proprie passioni e la disciplina del corpo in conformità all’ordine razionale, l’uomo accede all’esercizio di potere e all’esperienza di libertà

45 M. Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, trad. it., p. 72. 46 Platone, Timeo, trad. it. p. 741-2.

47 ivi p. 747. 48

A. Cavarero, Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità, op. cit., p.84. 49 Platone, Timeo, trad. it, p. 761.

50 Ivi, p 762. 51 Ibidem. 52

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da cui la donna è esclusa.53 Platone, qui, pone le basi per la costituzione di una gerarchia umana, la quale prevede l’esistenza di diversi livelli di realizzazione o mancato compimento della natura dell’essere umano. Il più alto raggiungimento dell’espressione dell’umano ha luogo quando l’anima razionale governa le anime mortali e dunque il corpo.

Gli dei, secondo la narrazione di Platone, iniziano a plasmare dell’uomo la parte più importante, poiché, in seguito, in funzione di essa e del suo vivere nel mondo, modelleranno tutto il resto. Per prima cosa, essi devono dunque dotare l’intelligenza di corpo. Quest’ultimo, in quanto custodia della componente più antica e più nobile di tutto il vivente, deve essere di forma sferica, sul modello del cosmo e per avere proporzione perfetta:

Ebbene, gli dei, imitando la forma del tutto che è sferica, collegarono le rivoluzioni divine che sono due in un corpo sferico quello che ora chiamiamo capo, che è la parte più divina e che domina in noi tutto il resto. Ed al capo gli dei hanno dato quale servitore, come lo ebbero composto, il corpo tutto intero, avendo intenzione che il corpo partecipasse di tutti i movimenti della testa quanti essi fossero;54

Altro elemento corporeo che si addice perfettamente all’anima intelligente, sono gli occhi55

: la vista è il tipo di percezione sensoriale più prossimo alle ricerche filosofiche, poiché essi permettono di contemplare l’universo stellato e i moti celesti. Grazie agli occhi, il più bel dono corporeo tra quelli divini, “abbiamo ricevuto il generare della filosofia”56

. Gli occhi, rileva Platone, hanno per complice la luce dl giorno, inoltre, sono dotati essi stessi di luce propria la quale al tramonto del sole si spegne, cadendo nel sonno.

Un’altra analogia si definisce qui chiaramente: la luce sta alla ragione come il buio sta alla follia. Se il giorno è momento della veglia, in cui l’anima razionale è più forte, la notte è il momento in cui il logos si assopisce per lasciare spazio ai sogni. In essi, ha luogo il libero sfogo del caos della carne. Qui gli impulsi e le passioni si scatenano, al punto che un uomo potrebbe immaginare di compiere delle cose orribili senza sentirne il peso della vergogna. Alcuni impulsi, che durante il giorno vengono domati, afferma Platone nella Repubblica, riemergono nei sogni:

Quelli che si risvegliano durante il sonno, risposi, quando il resto dell’anima, ciò che in essa è razionale e calmo e governa l’altra parte, dorme, mentre l’elemento ferino e selvaggio, pieno di cibi o di ebrezza, si sfrena, respinge via il sonno e cerca di muoversi e sfrenare i propri istinti. Sai bene che in una simile situazione ardisce ogni cosa, come sciolto e liberato da ogni pudore e prudenza.57

Il regno della notte, è quello che, come ci ricorda Cavarero, offre spunto per costruire quanto viene narrato in miti e tragedie. In essi vediamo gli uomini farsi colpevoli di gesti empi, protagonisti

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M. Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, trad. it., p. 27. 54 Platone, Timeo, trad. it., p. 766.

55 A. Cavarero, Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità, op. cit., p. 86. 56 Platone, Timeo, trad. it., p. 769.

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di amori incestuosi o diventare vittime di impulsi sessuali e passioni violente. Edipo e Antigone appartengono dunque al regno della notte? Sono forse essi caduti nella follia, nel caotico mondo prelogico e animalesco? Di certo, possiamo dire che l’elemento corporeo, ribelle alle leggi razionali della polis è nelle due figure fortemente presente. Il sangue di Edipo, la sua carne, sono da lui misconosciute, poiché egli ne ignora le origini. A causa di questa lacuna di coscienza, Edipo libera il più osceno degli impulsi sessuali, quasi come avesse vissuto la sua vita in un sogno, fattosi poi incubo. Antigone dal canto suo, si fa sotterrare viva, in nome di un cadavere, quello del fratello. La presenza di quel corpo, sottratto ai rituali sacri e dunque al solo modo che gli umani conoscono di sottoporlo ad una norma, all’ ordine politico, si fa causa di numerose morti nella città di Tebe.

Edipo, per il dolore, si toglie gli occhi, ma a lui forse quegli occhi, utili strumenti dell’anima intelligente, non sono mai serviti, né la luce del giorno gli ha mai illuminato il cammino. Egli ha vissuto la sua vita nel buio della notte, come cieco, senza saperlo. Dunque, l’associazione platonica tra luce, occhi e ragione opposta al triangolo, buio, sonno e follia, non è completamente nuova. Tuttavia Sofocle lascia spazio alla saggezza della cecità, poiché a rivelare ad Edipo la sua storia è proprio un indovino cieco, Tiresia, il quale cercherà in seguito di salvare sua figlia Antigone dalla sua crudele sorte. Egli non si serve delle lucide leggi del logos per vedere quanto vede, infatti non ha gli occhi, fedeli strumenti carnali della ragione, eppure proprio lui sembra essere il più ragionevole e sapiente dei personaggi.

Platone al contrario, pur riconoscendo l’arte divinatoria e l’importanza del momento caratterizzato di “furore divino”, egli ritiene ugualmente che solo in un momento successivo di lucidità e distacco le visioni possano essere interpretate, con gli occhi della ragione:

Ed una sola prova basta a provare che è proprio in vista dell’umana stoltezza che Dio ci ha concesso la divinazione: nessuno che sia in senno ottiene una divinazione ispirata e verace, ma questo avviene soltanto quando la sua facoltà intellettiva è messa in ceppi dal sonno, o è stravolta da qualche malattia o divino furore. È proprio invece dell’uomo che sia in senno ricordare e riflettere su ciò che è stato detto, sia in sogno che da svegli, dalla divinatrice e ispirata natura, e ragionarvi sopra distinguendo le immagini vedute, per vedere come e a chi significhino un male oppure un bene, futuro, passato o presente; chi difatti è preso dal divino furore ed ancora si trova in questo stato, non può giustamente valutare le sue visioni e le parole che abbia pronunciato58

Platone dunque, come sopra già menzionato, affida agli occhi e alla luce che permette loro di vedere, un ruolo fondamentale, tanto da fare di essi uno dei primi prodotti corporei della modellazione dell’essere umano. Essi sono il mezzo più importante di collegamento tra l’anima e la terra e permettono al principio razionale di dominare quanto di esterno e proprio vi è del corpo umano.

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In questa prima fase della generazione dunque, esiste solo la testa, la quale infatti, viene supposta da Platone autosufficiente e futura posizione di comando su quanto verrà modellato in seguito. Nonostante la sua autonomia, in un luogo come la Terra, la testa, a causa della sua rotondità, si muove con disagio, per questo viene costruito il resto del corpo, la cui funzione, dunque, si riduce à quella di mezzo di trasporto:

E dunque, perché circolando sulla terra, che offre alture e profondità, d’ogni tipo, non avesse difficoltà. A superare le une e ad uscire dalle altre, a mo’ di carro dettero al capo il corpo, sì che più facilmente potesse muoversi: ecco perché il corpo è lungo e da lui germinarono quattro membra, lunghe e flessibili, strumenti costruiti dal Dio perché potesse, prendendo ed appoggiandosi, andare ovunque, e portare al di sopra di tutto il resto la dimora di ciò che in noi vi è di sacro e divino.59

Cavarero insiste sull’ambivalenza della presenza del corpo, infatti, ella sostiene che se è vero che la rotondità della testa è modellata su un ideale di perfezione pura e che la vista è metafora del filosofare, vi sono degli elementi della costituzione umana, che attingono valore simbolico a partire dalla collocazione fisica. La gerarchia delle quattro anime è segnata anche dalla loro disposizione spaziale, la testa, infatti, che custodisce l’anima immortale, sta nel punto più alto del corpo e le altre anime si trovano ad occupare posizioni di volta in volta più basse, rispettando la gerarchia delle loro funzioni. Anche la parte anteriore e quella posteriore sono opposte da una differenza di valore, laddove la prima è più nobile della seconda e per questo in essa si trovano gli occhi. Usando le parole di Cavarero, l’uomo: “ ha dunque inscritto una scala di valori nelle coordinate spaziali della sua corporeità”60

La seconda anima, come nella Repubblica, si trova nel petto. Essa è quella passionale, e la sua plasmazione è regolata dalle leggi fatali date dal primo demiurgo agli dei di seconda generazione, le quali imposero di dare una forma a passioni perturbanti provocate dall’accoppiamento dell’anima immortale con il corpo. Essa accoglie pulsioni violente, quali il piacere, i dolori, l’audacia e la paura e infine l’ira e la speranza. Propriamente, queste passioni sono cattive guide, tutte tendenzialmente irrazionali e se lasciate a se stesse conducono al caos. Per questo, tale anima deve essere collegata alla prima per generazione e per importanza, attraverso il collo. La sua parte migliore, infatti, suggerisce Platone, sarebbe stata collocata nel cuore, più vicino al capo, perché possa ascoltare la ragione e frenare la parte meno obbediente situata nei polmoni. Il coordinamento dei due organi mirerebbe ad una sorta di equilibrio passionale conforme a quanto ragione comanda.61

59 Ivi p. 766.

60 A. Cavarero, Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità, op. cit., p. 86. 61

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L’anima nutritiva segue a quella passionale e sembra essere ancora più vicina ai bisogni della carne, poiché la sua esistenza dipende, infondo, dal bisogno tanto carnale degli esseri viventi, di mangiare. Dunque, anche se in origine il corpo nasce a partire dalla necessità della mente di avere un mezzo di trasporto più adatto all’ambiente circostante, il suo sviluppo procede in funzione ai bisogni vitali che gli appartengono. Ecco perché, scrive Cavarero, la situazione descritta, per cui il corpo viene plasmato in base alle esigenze dell’anima, sembra capovolgersi.62

Tutto ciò che difatti partecipa della vita si può giustamente e con verità affermare essere vivente. E ciò di cui ora parliamo, partecipa di quella che è la terza specie di anima, che, come abbiamo detto, è posta tra il diaframma e l’ombelico, e non ha in sé né opinione, né ragionamento, né intelligenza, ma, insieme agli appetiti, sensazioni piacevoli e dolorose.63

Il corpo, rileva Cavarero, è ricettacolo dei moti esterni, dunque ibrida la natura dell’anima. Esso infatti, è la fonte dei bisogni elementari e il suo rapporto con il mondo genera passioni e impulsi. Essendo le anime a loro volta di natura corporea, poiché con la carne condividono la mortalità, bisogni, passioni e impulsi appartengono loro costitutivamente. Le sensazioni, inoltre, vengono definite come moti dell’anima, non del corpo, sebbene essi si generino a causa dello stare nel mondo di quest’ultimo.64

L’elemento corporeo dell’anima sarebbe, per Platone, il midollo spinale, il quale percorrendo l’interno dell’osso, metterà in comunicazione tutte le anime e le parti del corpo tra di loro. Il midollo, dunque, si estende in tutto il corpo, esso parte dalla testa e attraversa tutte le anime raggiungendo gli organi della riproduzione in forma di liquido seminale, permettendo così all’anima razionale di governare su tutto il corpo, ad essa collegato.65

A differenza della Repubblica, la funzione riproduttiva non viene collocata nella terza anima, ma ancora più in basso, essa infatti induce a provare bisogni e desideri carnali ancora più ignobili che quelli della nutrizione. L’esistenza di un’anima in questa collocazione non è chiara e, nel caso Platone intendesse parlare di una quarta anima, essa non sembra essere ugualmente presente in uomini e donne. A complicare le cose è proprio il fatto che alla prima generazione esiste solo il maschile e il femminile compare solamente in seguito ad una caduta di una parte del genere umano che porta ad una seconda generazione. Soltanto in occasione di quest’ultima vengono modellati i due apparati genitali con la loro funzione riproduttiva.

62 A. Cavarero, Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità, op. cit., p. 88. 63 Platone, Timeo, trad. it. p. 814.

64 Ivi p. 764. 65

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Tutti quei tali che sono nati uomini, ma son stati codardi ed hanno vissuto nell’ingiustizia, secondo verosimile ragione, si mutarono in donne all’atto della loro seconda nascita; fu allora per questo che gli dei crearono il desiderio dell’unione carnale, formando un animato essere vivente tanto nel maschio, quanto nella femmina.66

Da questo momento si può pensare ad una terza generazione, che concerne tutti gli uomini e le donne che verranno messi al mondo dall’accoppiamento del maschio e della femmina. Qui, il midollo si fa liquido seminale ed esso all’altezza degli organi genitali diventa, nel caso degli uomini, un animale furioso, disobbediente ad ogni ragione e smanioso di uscire. Nel caso delle donne, invece, Platone parla di una matrice o utero, che non sembra essere la continuazione del midollo, visto che questo si trasforma in sperma, e che dunque, probabilmente non ha alcun legame sostanziale con l’anima. Tuttavia anche l’utero è descritto bramoso e indisciplinato, proprio come l’organo genitale maschile, che, animato dal midollo, è ribelle e imperioso.

nelle donne il cosiddetto utero e la vagina somigliano ad un animale posseduto dal desiderio bramoso di far figli. E quando non frutta per molto tempo dopo la stagione, violentemente si irrita e, in tutti i sensi, si agita nel corpo, ostruisce i passaggi dell’aria, ed impedendo così di respirare, getta il corpo in terribili angosce e v’ingenera malattie di ogni tipo;67

Cavarero sostiene che nel maschio si trovi una quarta anima, assente nella donna. La matrice femminile sarebbe il luogo puramente carnale fatto per accogliere lo sfogo di quest’ultima anima animale. L’utero, lungi dal rappresentare una quarta anima, è piuttosto descritta come una bestia nel corpo delle donne, come contenitore che riceve passivamente. 68

La bestia animata, che è l’utero, è forse dissociata dall’anima, poiché non può avere già in essa un principio formale, il quale deve essere piuttosto trasmesso dal padre con lo sperma. Questo le attribuirebbe nella riproduzione un ruolo passivo. A legittimare tale ipotesi, sarebbe la descrizione di Platone del terzo genere, da lui associato alla madre: la materia. I primi due generi sono il modello divino, intellegibile ed eterno, principio di tutte le cose e il mondo generato, visibile e mortale. Tuttavia, avverte Platone i due non bastano, c’è bisogno di una potenza ricettiva e nutrice. Al mondo, in altre parole, non basta il padre, modello divino e principio formale, esso ha bisogno anche di una madre: la materia. Di essa, tuttavia è proibito parlare, almeno nominandola, poiché non avendo forma propria, non è in sé intellegibile, né può avere nomi. Platone sceglie le metafore del fuoco e dell’acqua, per affermare l’indicibilità e l’invisibilità del terzo genere, del quale si può proferire una qualità, scrive il filosofo, ma mai l’essenza.69 La forma, per darsi, ha bisogno di unità assoluta o determinata, la quale trova il suo compimento nell’idea intellegibile. Ciò che non è

66 Platone, Timeo, trad. it. p. 832-833. 67 Ivi p. 833.

68 A. Cavarero, Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità, op. cit., p. 91. 69

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