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Dal corpo all’anima: vivere eternamente nella morte

Il discorso riportato da Socrate nel Simposio dunque, procede attraverso la separazione della dimensione corporea da quella dell’anima, a ciascuna delle quali viene attribuita una capacità diversa di amare, di congiungersi e di procreare. Tale distinzione riporta il discorso al tema della procreazione come causa dell’amore e alla gerarchizzazione che impone ad esso una posizione subalterna di mezzo per un fine più alto, alla quale aggiunge la subordinazione della riproduzione carnale a quella spirituale. Ci sono delle persone, dice Diotima, secondo quanto ripetuto da Socrate, che sono fertili nel corpo e altre che sono fertili nell’anima386

. La riproduzione corporea, infatti

383 Ivi, p. 140. 384 Ibidem. 385 Ibidem. 386

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dona all’uomo l’immortalità della specie, in quanto mette al mondo un essere umano nuovo che lascerà il posto al vecchio, il quale, quello, a sua volta dovrà essere sostituito. Ciascun uomo, infatti, nella sua esistenza mondana, partecipa della caducità della vita diveniente, in cui tutto cambia e nulla rimane identico a se stesso. Questa condizione appartiene strutturalmente alla vita terrena, dunque, l’immortalità della specie è inscritta nella ciclicità del divenire, in cui nell’attimo fuggevole tutto muta. La sola cosa che permane è il perpetuo succedersi di nascite e morti che scandiscono il flusso vitale delle cose del mondo. Il ripetersi del nascere rappresenta una forma di immortalità della vita di cui l’uomo partecipa riproducendosi, senza tuttavia partecipare dell’eterno delle cose divine. Quest’ultimo si distingue dall’altro, perché se l’immortalità consiste in una sorta di permanenza infinita nel tempo, l’eterno è la condizione dell’essere immobile che è sempre e che sta nella sua immutabile condizione di essere identico a se stesso, fuori dal tempo.

Cavarero denuncia di questo discorso e di quanto segue il fatto che esso ponga la condizione per fare della morte cifra della condizione umana e luogo in cui risiede la prospettiva dominante. La natalità, infatti, è vista solo come rimedio alla morte, non come condizione di vita, poiché metter al mondo un altro essere umano diventa un espediente dell’uomo per partecipare in qualche modo dell’immortalità. La centralità del dualismo immortale/mortale, pone al centro del discorso la morte: tragica condizione dell’esistenza umana è il suo essere mortale, pertanto la procreazione consiste in una risposta alla paura di morire. Mettere al mondo non ha come significato quello di dare la vita, ma di rispondere alla propria morte lasciando una traccia e contribuendo alla continuità della specie.

Ciò non risolve, evidentemente, l’angoscia della morte individuale, però fa sì che essa sia spiegata e sussunta nell’immortalità della specie. La nascita, il generare, sono così interni al meccanismo e da esso comandati. In questa prospettiva del solo corpo scotomizzato dall’anima, nascere è venire al mondo per riprodursi e morire, obbedendo alla legge di autoconservazione e partecipando perciò all’immortalità materiale di questo: una sorta di ciclo cieco misurato sull’angoscia della morte che tutto abbraccia e regge.387

La sacerdotessa, dopo aver utilizzato la metafora della generazione corporea, dopo avere ricondotto quest’ultima al desiderio di immortalità e quindi alla paura della morte e dopo aver menzionato quante imprese gli umani compiono per ottenere quella forma di immortalità che consiste nell’essere ricordati per le azioni eroiche, parla della riproduzione dell’anima. Questa forma di procreazione ha luogo quando ad amarsi sono due uomini, i quali desiderano il bel corpo e la bella anima dell’amato. Si tratta di uomini che sono fecondi nell’anima di verità e saggezza, ma che devono partorirle e per farlo devono accoppiare la propria anima con quella dell’amato che risiede generalmente in un corpo altrettanto bello. Nell’amore e nella bellezza, maestro e allievo

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generano ciò di cui erano fecondi, e se ne prendono cura come una madre. Il loro partorire ha un vantaggio rispetto al generare figli, poiché se questi ultimi sono mortali proprio come i genitori, le idee, la virtù, il bene, sono eterni e divini. Ne consegue che l’amore che unisce due uomini di tale natura, due filosofi amanti non solo l’uno dell’altro, ma anche del sapere che la loro relazione genererà, è superiore a tutti gli altri.

Per conseguenza simili uomini stringono tra loro un legame ben più potente di quello con cui siamo uniti a nostri figli, unitamente a un’amicizia più solida, in quanto condividono figli più belli e più immortali. Aggiungo che chiunque accetterebbe che gli nascessero tali figli piuttosto che quelli nati per mezzi della generazione naturale.388

Questa generazione ha luogo alla fine di un itinerario erotico che innalza all’immateriale e all’eterno. Il percorso che l’amante intraprende, è un esercizio di ascesi e contemplazione che può avvenire soltanto nel momento in cui il filosofo, circondato dal bello, si riempie di desiderio e viene spinto così da una tensione erotica a dirigersi verso i livelli più alti della bellezza sino a raggiungere per gradi il suo modello ideale. Questo si lascia contemplare nella sua eterna immutabile perfezione.

Si parte cioè da un solo corpo bello, si passa poi a due, poi a tutti i corpi belli; dai corpi belli ci si innalza alle belle opere e dalle belle opere alle belle conoscenze, finché innalzandosi ancora sulle belle conoscenze, si giunge infine a quella conoscenza che non di altro è tale se non del bello in se stesso. Così, all’ultimo gradino, si coglierà il bello puro, come tale.389

A partire dalla bellezza singolare del corpo dell’amato, l’amante imbocca il sentiero dell’astrazione, attraverso il quale apprende a vedere la medesima bellezza riposare in tutti i bei corpi e poi ad amare nella bellezza delle anime, sempre la medesima in cui nascono la saggezza e le virtù di cui le anime sono gravide e infine riconoscerà ciò che è più nobile di tutto: la bellezza in sé, l’idea del bello, in cui solo l’anima può partorire: “una bellezza, innanzi tutto, che sempre è, che non nasce né muore, che non cresce né viene meno”390, una bellezza che “gli si mostrerà invece

come se stessa, in se stessa e per se stessa, nell’eterna unicità della sua forma”.391

Proprio qui, in questo bello, avviene l’accoppiamento degli amanti che dà alla luce il sapere immortale dei loro discorsi, attraverso i quali è possibile slacciarsi dal corporeo e salvaguardare il sapere partorito dal divenire delle cose materiali. Qui il filosofo si rende partecipe non solo dell’immortalità, ma anche dell’eternità dell’ideale di bellezza che appartiene alle cose divine, poiché l’ha contemplata e in questa contemplazione ha partorito discorsi sapienti e immortali.

388 Platone, Simposio, in Apologia, Simposio, Fedone, trad. it., p. 147. 389 Ivi, p. 150.

390 Ivi, p. 149. 391

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Il corpo non viene completamente escluso dall’esperienza amorosa, ma esso è attore soltanto del primo momento dell’innamoramento che deve essere inevitabilmente superato. Il piacere carnale e la bellezza corporea, seppur costituiscano elementi fondamentali, sono solamente di passaggio, ovvero vengono valorizzati solo nella misura in cui possono essere oltrepassati, trascesi. Il corpo viene qui valorizzato in quanto costituisce il mezzo che veicola all’incorporeo, più desiderabile quest’ultimo del primo, vero polo attrattivo dell’amante, poiché eterno.392

Irigaray, rileva in questo discorso la perdita del moto diveniente di cui dovrebbe fare esperienza l’amante in quanto tale e che dovrebbe caratterizzare l’amore stesso, poiché esso si traduce in una tensione di natura teleologica, che spinge a desiderare una realtà immobile, ritenuta superiore e spesso eterogenea, appartenente ad una trascendenza inaccessibile ai mortali e caratterizzata dalla fissità dell’ideale. Amore e bellezza vengono gerarchizzati, in modo tale che solo un certo volto dell’eros e del bello viene legittimato e innalzato all’eccellenza. L’immortalità viene proposta come rimedio alla morte, non come possibile esperienza di ciò che vive, mentre vive, né come possibilità che viene offerta al corpo stesso in quanto luogo del fiorire spontaneo e incondizionato del divino, della vita.393

Se a spingere ad amare è il desiderio di immortalità che appartiene all’uomo in quanto mortale e se di conseguenza la causa dell’amore è sempre la riproduzione, che sola rende il mortale partecipe dell’immortale, l’immortalità di un figlio eterno vale sicuramente di più dell’immortalità del rigenerarsi ciclico della vita a cui l’uomo partecipa attraverso un figlio a sua volta mortale. Generare il primo, tuttavia richiede la capacità di rivolgere la propria anima alla contemplazione dell’idea del bello, più mirabile di ogni bellezza corporea, avvicinandosi già in un certo senso all’eterno.

Se un soffio di eternità si posa sui corpi, questa è la bellezza che dall’idea del bello proviene come una traccia splendente ed effimera, perché i corpi invecchieranno e moriranno, perché i corpi, quelli che si uniscono nell’accoppiamento eterosessuale, generano altri corpi destinati a morire, singole comparse caduche di un’immortalità che la specie a sé guadagna sul ciclo necessario e monotono delle nascite e delle morti.

Altri nati invece, di ben diversa specie, l’anima maschile sa appunto partorire, senza che mai alcuna morte per essi sopravvenga, senza alcuna cieca ciclicità venga a consumare questa prole, più che immortale, eterna.394

Cavarero rileva che il discorso di Diotima riportato nel Simposio, poiché sposta la facoltà di generare dalla dimensione corporea a quella dell’anima e la contestualizza nella contemplazione filosofica, a cui solamente l’uomo si dedica, conferma l’analogia tra il bipolarismo nascita/morte e quello femminile/maschile. La donna, esclusa dai banchetti e dalle discussioni filosofiche, riproduce

392 A. Cavarero, Nonostante Platone, op. cit. p. 107-108. 393 L. Irigaray, Etica della differenza sessuale, trad. it. p. 28-29. 394

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con il corpo, anzi viene utilizzata dall’uomo eterosessuale che si rivolge a lei come veicolo di riproduzione umana. Della sua esperienza erotica non si dice nulla, se non che essa sia pericolosamente disordinata, spinta da pulsioni istintive e vincolata a necessità biologiche. Sull’amore lesbico non ci vengono lasciate da Platone grandi speculazioni, poiché infondo nemmeno le lesbiche partecipavano ai simposi e si presuppone che in quanto donne le loro anime non fossero da lui considerate feconde di figli immortali. All’uomo, invece, è data un’altra possibilità, quella di riprodurre discorsi immortali all’interno della bellezza emanata dall’eterna idea, egli dunque in un percorso di ascesi, fa esperienza del corpo solo per poterlo negare, per raggiungere, alla fine, quello stato di alienazione dal mondo che corrisponde ad una specie di morte, come egli stesso, afferma nel Fedone (vedi cap. 2). Nel Cratilo (vedi cap. 3) questa associazione della filosofia e della morte viene a riconfermarsi nel momento in cui Ade è descritto come il filosofo perfetto, colui che con i suoi discorsi avvicina le anime alla perfezione della virtù, poiché esse, per raggiungere gli Inferi, sono state allontanate dal corpo. Alla luce delle parole del Simposio, in cui l’eros stesso si compie, attraversando la bellezza del corpo, per trascenderla in nome di quella ideale, oltrepassando il corporeo come momento di passaggio, potremmo dire che Ade è anche l’amante perfetto, che non ha nemmeno bisogno di passare attraverso l’erotismo corporeo per far partorire le anime feconde di figli immortali e divini.

Secondo Arendt, la separazione della vita del mondo terreno da quella vissuta presso le essenze eterne, segna la nascita della metafisica. Nella contemplazione, spiega in Vita della mente, come viene concepita nell'antica Grecia, grazie anche alla dottrina delle idee di Platone, il filosofo ha la possibilità di dimorare presso le cose immortali e questo gli conferisce una certa forma di immortalità e gli permette di risvegliare in lui quella parte divina che caratterizza gli uomini, il

nous.395 Questa facoltà è ciò che partecipa dell’essenza dell’essere, ovvero della sua suprema verità, pertanto colui che servendosi di questa parte, si ritrae dalle cose fugaci e caduche del mondo, si avvicina al divino e diventa immortale.396

La morte, infatti, come condizione associata alla contemplazione, è anche la vera vita secondo Platone, infatti, negli Inferi l’anima continua a vivere e vive una condizione in cui nutre se stessa alimentando la propria conoscenza e la propria virtù più facilmente, libera dal peso dei bisogni corporei. Platone spiega nel Fedone (vedi cap. 2) che l’anima è principio di vita e se il corpo vive è perché da essa viene animato. La morte deve essere intesa solo come morte del corpo, in quanto

395 H. Arendt, La vita della mente, trad. it, G. Zanetti, il Mulino, Bologna, 1987, p. 217. 396

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privato dell’anima, poiché lei, che è principio vitale, è eterna, mentre la carne, se nasce e muore, è perché non ha un principio proprio, ma vive di quello dell’anima, solo quando essa risiede in lui.

Arendt, in Tra passato e futuro, ricorrendo al mito della caverna, spiega come Platone capovolga il senso della vita e della morte, considerando la seconda il luogo in cui le cose sono fatte di una più solida consistenza e la prima la dimensione di parvenze e illusioni. Qui, il linguaggio da lui adottato rivela un’aspra critica contro la visione omerica del mondo, in cui, probabilmente, la vita terrena godeva ancora del primato sulla morte. Le parole utilizzate da Platone per designare la consistenza delle cose percepite nella caverna, richiama la terminologia adottata da Omero per descrivere le presenze che popolano gli Inferi. In entrambi i casi, il linguaggio evoca il senso di evanescenza che caratterizza le cose e le persone, la cui esistenza tenue si riduce a quella di un’ombra o di un’immagine inconsistente. Come è noto, l’Ade che Omero descrive è il luogo a cui si giunge nella morte, mentre la caverna, per Platone, corrisponde alla vita, alla normale condizione umana. Nel mito del filosofo, la realtà esterna, corrisponde invece a quella che trascende la condizione umana, ed è immaginata come illuminata dalla vera luce del sole. In essa ci sono degli oggetti la cui natura è più piena di essere rispetto alle vacue parvenze che popolano la caverna. In altre parole, Platone sembra voler comunicare che ad essere costituito da simulacri apparenti e privi di sostanza non è il luogo che vivremo dopo la morte, ma proprio la vita che viviamo in terra è di tale fattezza, quasi che tutto ciò che il mondo diveniente offrisse alla nostra percezione non fosse che illusorio e menzognero. In tale separazione dei due mondi si inscrive quella di anima e corpo, infatti, se da un lato le parvenze evanescenti sono l’oggetto dei nostri sensi radicati nella carne, d’altro canto ciò che si mostra alle anime è vero, immutabile e dunque reale 397

Il discorso che Socrate, nel Simposio, attribuisce a Diotima, sulla fecondità delle anime, sembra coerente con questa visione, nella misura in cui sostiene che, in quanto esse vivono di vita eterna, sono anche feconde di figli immortali e quindi capaci di una forma riproduzione di cui, paradossalmente, sembrerebbe che quella del corpo sia solo una copia imperfetta. L’artificio mimetico di Platone, attraverso il quale, servendosi delle metafore della generazione e della maternità, riconduce il potere riproduttivo all’anima, mira ad ottenere l’esito inverso per cui proprio l’attività procreatrice del corpo risulterebbe il frutto di una mimesi dell’anima, unico vero principio di vita, e il suo risultato, proprio per questa ragione, rimarrebbe inferiore.

Grazie a Maria Zambrano, possiamo pensare che Diotima non condivida questa concezione della vita, pur rimanendo consapevole del fatto che essa sia largamente accettata. La vita, dice la

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sacerdotessa di Mantinea, fiorisce laddove qualcosa palpita del proprio battito e vive con un proprio cuore, in un proprio tempo. Quest’ultimo, il tempo, è il cuore della materia che su di lui si sedimenta e indurisce. La materia dunque non vive di un proprio cuore, per questo è tale.398 Tuttavia, la donna, addentratasi nella più oscura profondità della vita, nel ventre buio della terra, ha cominciato a sentire le vibrazioni del cuore di ogni cosa, poiché tutte le cose ne hanno uno, sino a distinguere il battito del cuore sacro della materia. Qui Diotima rivela: il cuore della terra è inerte solamente perché essa si presta al dominio, serve, sino ad essere ridotta a non-essere. La sua servitù ha luogo nel consumarsi del tempo e tuttavia, può essere riscattata dall’assoggettamento laddove tutto è vita, laddove la vita attraversa ogni palpito di ogni cuore. La materia qui, non solo ha un principio di vita che le è proprio, ma è il germe di ogni vita, fonte stessa di ogni sua vibrazione.399