La cultura occidentale, denuncia Cavarero, nutre la centralità della morte, facendone significato primo e ultimo dell’esistenza umana, con essa l’uomo si misura e valorizza se stesso. Il confronto con il morire costituisce la dimensione tragica della vita umana e la metafisica si propone come espediente per affrontare l’angoscia che essa procura all’uomo, tuttavia egli “quanto più decide di fondare il suo senso sulla potenza della morte, tanto più angosciosamente si impaura per questa potenza”400
. Attraverso la centralità della morte viene tolta ai vivi la potenza della vita, quest’ultima, infatti, finisce coll’esaurirsi in uno spazio piatto, racchiuso in un periodo di tempo, segnato da un inizio e da una fine. Tale vita, per l’uomo, assume senso solo nelle occasioni che in essa gli si offrono di confrontarsi con la morte e di procurarsi l’immortalità.
Misurare il proprio senso sull’esser mortali, anziché sull’esser nati, e desiderare di essere immortali fanno tutt’uno. Ma non basta. La meta-fisica coerentemente progredisce per il suo prescelto cammino, una via nella quale la degenerazione della nascita e l’infinito durare insieme ossessivamente si congiungano: perché l’insopportabilità del caduco, che nella morte si figura, va a cadere su una nascita colpevole di generare corpi mortali, mentre un separato pensiero che mai non muore non per questo si appaga di essere immortale ma appunto pretende di accedere a ciò che è eterno, senza nascita alcuna401
La nascita, direbbe Platone, è caduta, e con essa il corpo, nuova dimora e prigione dell’anima, trascina quest’ultima, per natura eterna e imperitura, con sé, nel divenire del caduco, la cui esistenza fuggevole si compie con il trapasso nell’oscurità della morte. Meglio, forse anche secondo lui, sarebbe stato non nascere, ovvero, in questo caso, non cadere e non morire, bensì vivere eternamente. L’eternità, infondo è già costitutiva dimora dell’anima noetica, gravida di idee vere,
398 M. Zambrano, La tomba di Antigone. Diotima di Mantinea, trad. it. p. 148. 399 Ivi, p. 150-1.
400 A. Cavarero, Nonostante Platone, op. cit. p. 111. 401
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che contiene già dentro di sé, ma che deve solamente far uscire. Il corpo rappresenta un suo passaggio accidentale che, eterogeneo alla sua sostanza, è per essa alterità. Dare alla luce la parola, significa mettere al mondo qualcosa che in quanto eterno esisteva già, significa “generare l’ingenerato”402
e farlo vivere nei discorsi sapienti del filosofo.
Il logos, manifestato nei discorsi dal filosofo, diventa dunque quanto di umano avvicina al divino, l’elemento che costitutivamente appartiene all’uomo e alla sua anima, mentre il corpo, altro polo di attrazione, avvicina all’animale, rappresenta l’animalità, dentro la quale, l’umano vive accidentalmente. Se all’opposizione che divide anima e corpo, morte e vita viene accostato analogicamente il dualismo di maschile e femminile, allora, come vuole questa tradizione di pensiero, l’uomo è più vicino al divino come la donna è più prossima all’animale. La sua corporeità, come testimonia Antigone, è pericolosa proprio perché alogica, terribile, indomata, dunque espulsa dalla città, dalla politica e dalla filosofia, che la attraversa soltanto per negarla. Tuttavia, ricorda Cavarero, esiste un legame tra il lato animale che la donna rappresenta e il divino, ed esso è rappresentato dalla figura della madre, la quale nell’animalità corporea rivela qualcosa di divino. Secondo Cavarero questo divino animale è il luogo dell’origine, ma soprattutto esso si tramanda, sostiene la filosofa, solamente per via femminile, attraverso il continuum materno. Infinite madri e figlie si susseguono e generano trasmettendo di generazione in generazione la vita sin dalle origini, forse veicolando anche quel passaggio che ha visto seguire ai primati gli umani, poco importa e difficile a dirsi, scrive la filosofa, se condividiamo l’origine con le scimmie, quel che conta è che ogni trasformazione della vita, il suo infinito fluire, è avvenuto attraverso una sequenza di nascite da corpi femminili.
Ancora una volta, Cavarero smentisce quell’idea, per lei metafisica, per cui a precederci sarebbe il nulla della morte e a seguire lo stesso niente. Non c’è alcun inizio, nulla viene dal nulla, perché, scrive: “ogni inizio è da sempre iniziante”403 e la soglia, lungi dall’ essere il nulla dell’essere, è la madre a cui precede un’altra madre.
Prima di questa soglia, dice, facendole eco, la Diotima di Zambrano, c’è una sorta di oscurità assoluta, la quale tuttavia non coincide con il nulla, poiché in essa la sacerdotessa può cantare e ascoltare. Il suo canto però non le appartiene, proviene da lei e allo stesso tempo da altro, anzi non proviene da nessuno poiché al contrario tutti gli altri provengono da esso e gli appartengono. La sua canzone è quella dell’acqua che deve ancora fluire, che si confonde con il gemito della nascita e al
402 Ibidem. 403
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contempo con quello della madre che sta per dare alla luce un figlio. Come immaginare la soglia se non come la vita stessa che partorisce?404
Cavarero, per sottolineare la tradizionale vicinanza tra il femminile e la vita nel suo senso più mondano e carnale, evoca Dioniso, figura divina maschile, nato secondo la leggenda, due volte, la prima uscendo prematuro dal corpo morto della madre e la seconda dal corpo del padre e tuttavia sempre circondato da figure femminili con cui sembra intrattenere un rapporto privilegiato. Le donne custodiscono il suo culto, ma soprattutto lo fanno, invocando un contatto con lui attraverso la perdita di senno, la follia divina, il delirio. Un esempio emblematico di questo legame che unisce le donne e il dio attraverso l’estasi e l’invasamento, è offerto dalla figura delle baccanti. Costoro, spinte alla sfrenatezza dal dio, trasgrediscono il loro ruolo muliebre, sconvolgendo gli schemi dell’ordine sociale e violando le norme che regolano la sessualità. L’elemento istintivo sembra emergere improvvisamente, risvegliando dal passato antiche reminiscenze e cancellando inaspettatamente il codice morale vigente.
Presto tutta la terra di Tebe andrà sul monte a danzare -è come il dio chi guida Il corteo dei fedeli-, là sul monte, dove attende la folla delle donne, strappate ai lavori del telaio dalla follia di Dioniso405
La trasgressione del ruolo materno e del dovere di custodire della casa, è volta, spiega Cavarero, al raggiungimento di quella dimensione animale, a cui però si arriva attraverso un movimento divino, che si riassume nella figura della madre. Questa, in alcuni miti legati alle Menadi, dice la filosofa, uccide i figli o li abbandona, come nelle Baccanti di Euripide, e li sostituisce con degli animali per allattarli: “tengono in braccio un daino o cuccioli di lupo e li allattano: avevano partorito da poco e avevano le mammelle gonfie di latte, dato che avevano abbandonato i loro figli”406
oppure, diventa infanticida perché confonde il figlio con un animale: “ma la sua povera testa… l’ha presa sua madre: l’ha conficcata sulla punta del tirso e se la porta in giro per il Citerone, come se fosse quella di un leone”.407
Il messaggio delle Menadi sfrenate, sarebbe nell’interpretazione di Cavarero, la riappropriazione della scena da parte di madre, che, attraverso la loro follia, confondendo umano, animale e divino,
404 M. Zambrano, La tomba di Antigone. Diotima di Mantinea, trad. it. p. 146.
405 Euripide, Baccanti, trad. it., introduzione e commento di D. Susanetti, Carocci, Roma, 2010, p. 51. 406 Ivi, p. 89.
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ricordano che il divino non risiede alla fine di un processo gerarchico di perfezionamento e di esercizio ascetico, ma all’origine, “nell’innocenza animale che senza riflessione aderisce alla vita”.408
Se Dioniso porta il disordine, è perché confonde tutte le gerarchie e mescola le appartenenze ai diversi ordini, rivelando l’origine animale della divinità che risiede nell’uomo. Sede del divino umano non sarebbe dunque il logos, secondo il culto dionisiaco, ma l’animalità che spinge a godere della pienezza di vita, in modo sfrenato e folle. La dimensione divina che Dioniso rappresenta, corrisponde a quell’immediatezza dell’essere pieno che non sa di essere, ma che ingenuamente e incoscientemente gode della propria pienezza vitale semplicemente essendo. Il
logos, emancipazione cosciente dall’indifferenza immediata dell’essere puro, è anche
allontanamento da quest’origine divina, ma oscura, che si dirige verso il dio luminoso che sa, l’Apollo olimpico e solare.409
Susanetti, nel suo commento all’opera, mette in risalto proprio il conflitto tra il divino, che la presenza di questo dio evoca, e l’ordine politico. Dioniso, di fronte al potere dell’autorità politica, mette tutto in subbuglio, dimostrando che i limiti che le leggi pongono, non sono invalicabili, anzi sono per lui facilmente violabili. La follia, a cui egli induce le donne, è incontenibile, inarrestabile, è espressione di sfrenatezza e di esagerazione, perché il divino è inafferrabile: “è forza che libera rompendo ogni vincolo e ogni limite”.410
Di fronte a questa forza dirompente del dio, l’autorità politica si dissolve e si rivela impotente, incapace di contenere, di imporre i propri limiti. Le
Baccanti rappresentano una parodia del potere, dice Susanetti, il quale funziona a vuoto,
ripiegandosi su se stesso e crollando annichilito, non potendo più contare sulle frontiere su cui si erige.
Il giovane e inadeguato tiranno, Penteo, rappresenta il politico che disprezza le donne che troppo facilmente si abbandonano alla dissolutezza, cadendo in preda agli appetiti insaziabili dei loro corpi e che conducono, a suo dire, con la scusa dei rituali dionisiaci, una vita sregolata e sessualmente disordinata. Susanetti intravede in questo giovane l’“ossessione topica -culturale ed androcratica- del femminile come disordine, come ventre, come genitalità insaziabile.”411
Tuttavia questa ossessione non si esprime solamente nella volontà di reprimere le donne, che si rivela non troppo decisa, ma anche in fantasie che sono presenti dentro di lui e che Dioniso, con la seduzione, accende. Il dio si presenta dietro il volto di una bellezza androgina della quale Penteo è segretamente affascinato e in un corpo sensuale e seducente, che esprime una potenza erotica,
408 A. Cavarero, Nonostante Platone, op. cit. p. 118. 409 Ibidem.
410 Euripide, Baccanti, trad. it. p. 22. 411
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proprio come quello delle donne possedute dalla sua furia. Egli interpreta la forza dell’eros che anima i desideri occulti di Penteo, con la quale il dio lo soggioga e lo illude, trascinandolo nella strada della perdizione. Questa dimensione oscura del desiderio che sollecita gli appetiti carnali, si insinua, con l’arte della seduzione, nel luogo del potere politico, sottomettendo quest’ultimo al volere del dio.
Penteo, infatti, che vorrebbe vedere cosa fanno quelle folli donne, guidate da sua madre, cosa fanno con i propri corpi, in preda alla follia divina, si lascia convincere facilmente. Susanetti legge questo desiderio come abbandono al richiamo primitivo del corpo, del bambino che, attratto dai segreti della madre, la spia, per accedere alle parti segrete del suo corpo, forse spinto dall’impulsivo desiderio di ritornare nel suo accogliente ventre, dissolvendosi nel suo corpo.
DuBois rileva che il tema della mimesi del sesso femminile da parte di quello maschile, era frequente nell’antica Grecia, sia come pratica diffusa in alcuni rituali, sia in quanto spesso tematizzato in opere letterarie oltre che filosofiche. Penteo, scrive l’autrice, è affascinato dai segreti delle donne e dei loro corpi e questo lo spinge al travestimento.412
L’impulso all’abbandono nel corpo femminile della madre, si traduce qui in un comportamento mimetico di identificazione con lei e con il suo sesso, infatti Dioniso lo convince a travestirsi da baccante, per poter osservare i riti senza essere scoperto. Il camuffamento non funziona, ma, scrive Susanetti, funge da “transizione simbolica che conduce alla dissoluzione”413
. Il re si allontana da se stesso, da quell’identità costruita sulla repressione degli impulsi e sull’innalzamento del logos disciplinante, che fa di lui un capo politico, per diventare quell’altro di sé che ha represso e allontanato, che teme e vuole dominare. Egli desidera vedere la madre e questo lo spinge a diventare come lei, preformando la sua femminilità in modo ridicolo e inefficace. Questo momento rappresenta la massima espressione di confusione della gerarchia interna all’ordine politico, della mescolanza dei ruoli che porta al collasso del potere. In quell’istante la madre, furiosa e sanguinaria, posseduta e incosciente, lo squarterà e terrà la sua testa come trofeo di caccia.414
Dioniso, ricorda Cavarero, non è solo il dio della vita corporea e animale, goduta nella sua pienezza, ma anche della morte, che in Euripide si manifesta in tutto il suo orrore, nel suo aspetto più cupo e crudo di carneficina. Tuttavia l’esperienza dionisiaca offre la possibilità di costituire un significato della morte che differisce dalla morte come soglia, misura e cifra esistenziale. Essa è piuttosto un fenomeno che appartiene alla vita, il cui flusso la circonda e ne fa da condizione,
412 P. DuBois, Il corpo come metafora, p. 242. 413 Euripide, Baccanti, trad. it. P.. 31.
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attraverso il perpetuo suo rinnovarsi. Questa morte è come quella che conosce la Diotima di Zambrano. Ella, infatti, sostiene che la vita in origine era il mare, la cui immagine ci richiama alla mente le maree e la ciclicità lunare, la rigenerazione perpetua delle acque inscritta in un movimento circolare. Tuttavia, quella vita è stata rubata e fatta prigioniera, denuncia la sacerdotessa dalla penombra, ma quando essa viene restituita, sgorga dall’apertura di una ferita, dall’amore. Il timore della morte, precisamente, è ciò che tiene la vita in ostaggio: “Una vita, amore imprigionato, c’è in tutto, solo che qualcuno la tiene rinchiusa: teme, se vive, di morire.”415
Se la vita assume la centralità di figura totalizzante che fa da sfondo, come fenomeno originario su cui tutto avviene e si manifesta, la morte, da questa prospettiva, non è che il dramma singolare vissuto dall’individuo che ha luogo nel dispiegarsi infinito del flusso vitale.
In questa prospettiva, non a caso, la de-enfatizzazione della morte finisce per cancellare la centralità del nulla, non essendoci alcun nulla nell’incessante ed interno lavorio metamorfico della vita, ossia non essendoci alcun nulla se l’umana creatura vivente distoglie lo sguardo dalla sua fine volgendolo alla infinita e incarnata origine da cui proviene. Infatti se il niente della morte, lo sprofondare del niente, ha un senso, lo ha per il morente che nella sua singolarità cessa di essere quella forma di vita unitariamente organizzata che è il suo “se stesso”, perché invero questa sua morte è dal punto di vista della infinita materia vivente un passaggio metamorfico previsto416
La morte e il peso che essa assume quando diventa la soglia tra l’essere e il nulla, è il frutto della riflessione logica che conduce all’autocoscienza, di cui gli umani sono capaci, allontanandosi, direbbe Cavarero, più che avvicinandosi al divino. Ecco perché l’animale non conosce la tragicità dell’umana condizione, egli ingenuo, vive nella sua tranquilla innocenza e il morire lo coglie di sorpresa come evento che appartiene al vivere, senza turbare la sua esistenza. La vicinanza della donna all’animale viene spiegata, dunque, attraverso la maternità, concepita da Cavarero come potenza di dare alla vita. Il corpo materno diventa così il simbolo dell’origine e da questo inizio iniziante si apre il percorso che estende la vita individuale al fenomeno più ampio della vita dell’essere. Qui, la nascita e non la morte si fa cifra esistenziale dell’umano e soglia della sua vita.
La madre, dice Cavarero, è soglia in quanto condizione di vita, ma anche in quanto mediazione tra noi e il mondo. La sua presenza e l’origine di ciascuno in lei, ricordano la condizionatezza e la finitezza della nostra esistenza che non solo è caduca, ma anche meravigliosamente casuale. Il nulla qui è presente come possibilità incompiuta della mia non nascita, che se da un lato ciascuno dovrebbe prendere in considerazione, per accettare l’accidentale venire al mondo di se stesso, non fa poi così paura, proprio perché è una possibilità oramai inattuabile. Il pensiero di questo nulla come nascita non avvenuta restituisce il senso della concretezza della propria vita, che è corporea e
415 M. Zambrano, La tomba di Antigone. Diotima di Mantinea, trad. it. p. 145. 416
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al contempo divina forse proprio perché accidentale germoglio della metamorfosi della vita che fluisce liberamente.417