Sant’Agostino e la scoperta della
libertà
Il moto difettivo della volontà
• Se il male è dovuto ad un moto difettivo della
volontà, domanda Agostino, da dove viene
tale moto?
• Se è naturale non è colpevole, cioè se per
natura la volontà tende o può tendere al male
nessuno potrà essere accusato del male che
compie, poiché tale male sarà necessario.
Il movimento naturale verso il male
• Se il movimento dell’anima fosse naturale
accadrebbe che essa si muove al male come
una pietra lanciata verso l’alto si muove verso
il basso. Tuttavia, riprende Agostino, non si dà
questo giudizio assolutorio, perché l’anima
comunque viene giudicata colpevole se
commette il male.
La volontà è mossa da se stessa
• Tale giudizio di colpevolezza è del tutto giustificato
da quanto precedentemente appurato, cioè dal
fatto che nessuna realtà, né superiore, né
inferiore, muove la volontà, ma solo la volontà
stessa. La volontà in sostanza determi9na se
stessa e determina un suo movimento non
naturale. Per tale motivo la pietra che cade verso il
basso non pecca, la volontà, che si volge ai beni
Conclusione e nuovo problema
• Dunque il movimento difettivo della volontà
viene dalla volontà stessa.
• Ma qui sorge un altro problema. Se noi
pecchiamo per volontà nostra e la nostra volontà
non è mossa da altri che da se stessa, come è
possibile conciliare tale mancanza di necessità al
male, con il fatto che Dio, con la sua precienza,
pre-conosce appunto, cioè sa già prima, tra il
Se Dio sa…
• Se Dio sa, è infatti necessario che ciò che egli sa ACCADA, dunque la scelta della volontà appare necessaria.
• Si potrebbe negare la provvidenza divina come fanno gli epicurei (i quali si danno peraltro a passioni sfrenate), oppure negarne l’onnipotenza o la bontà, ma se invece di cadere in questi gravi e miserandi orrori, ci si rivolgesse a lei, ella ci renderebbe più
L’atto del volere
• Ebbene rivolgendosi alla Provvidenza stessa, Agostino cerca di mantenere assieme i ude lati della contraddizione, affermando che non si tratta di contraddizione.
• L’argomento parte dall’atto soggettivo del volere. Noi infatti possiamo dire che qualcosa ci attrae, e forse ci attrae anche irresistibilmente, tanto che, per esmepio, a proposito del vizio di fumare, non riusciamo a smettere, pur volendolo.
La volontà che vogliamo
• Ma qui si tratta di qualcosa che non riusciamo
ad ottenere, cioè di un oggetto che la volontà
non riesce a conseguire (lo smettere di
fumare). Tuttavia, direbbe Agostino, qui non ci
siamo ancora soffermati sull’atto stesso. L’atto
del volere presuppone la sua presenza solo
che esso sia voluto. Infatti, non per ottenere,
La volontà mia
• Nulla è infatti più mio della mia
volontà, che per volere non fa altro
che evocare se stessa, essendo
essa causa di se stessa.
La volontà in nostro potere
• Agostino quindi deduce che la volontà è
qualcosa che per definizione è in nostro potere.
• Ora è possibile prevedere con esattezza
qualcosa che tuttavia è in potere di altri?
Dipende da quanto si conoscono gli altri. Io di
mia
moglie
posso
prevedere
un
Dio e il potere degli altri
• Di conseguenza non vi è nessuna
contraddizione al fatto che Dio conosca
qualcosa che tuttavia rimane in nostro potere.
Ergo conosce la nostra volontà, pur rimanendo
la nostra volontà assolutamente nostra.
(questo Dio assomiglia tantissimo al Dio di
Leibniz, che conosce esattamente gli uomini in
modo da poter conoscere la ragion sufficiente
Il potere non è tolto da Dio per il
fatto di essere conosciuto
• Se Dio conosce il nostro potere di volere e non
volere, e se è tale nostro potere a determinare
la nostra volontà, Dio conoscendolo non ce lo
toglie, come io conoscendo il potere di mia
moglie di fare o non fare la spesa domani, e
sapendo come ella userà di tale potere, non
glielo tolgo.
“Non si deve imputare al creatore tutto ciò che è necessario accada nella sua creatura” (III, V, 12)
• Siccome Dio non toglie il potere all’anima,
conoscendo ciò che essa farà, lungi
dall’accusare Dio per averla creata, non
bisogna mai far mancare la lode a Dio per la
sua opera. L’anima infatti, anche quando
pecca, rimane una cosa grande, e superiore a
tutti i corpi, per i quali pure spesso non
Dio ha fatto tutto per il meglio
• Infatti Dio, nel creare l’universo ha fatto tutto
per il meglio, e non bisogna mai affermare che
sarebbe stato meglio per un qualsiasi ente non
essere mai stato creato. Infatti tutto, anche le
cose inferiori, nel supremo ordine dell’essere,
concorre al meglio.
Se tu ragioni bene cogli l’essere delle
cose
• Se uno ragiona bene, coglie esattamente l’ordine e la bontà della creazione, pur potendo non vedere TUTTO il creato. Il ragionamento infatti, se vero, consente uno sguardo qualitativamente profondo che ci fa conoscere l’essenziale verità delle cose.
• Questo avviene perché il ragionamento vero vede le cose nelle sue ragioni divine, cioè nei paradigmi con i quali Dio stesso ha pensato l’universo. Tale ragionamento ci dà conferma dell’esistenza delle cose anche in assenza di una loro attestazione sensibile (se non vedi il cielo, ma con un ragionamento vero concludi che ci deve essere, allora, esso ci
Noi possiamo peccare … ehmbè?
• Se il nostro sguardo si volge all’ordine dell’universo così come Dio lo ha pensato e voluto, non ci possiamo lamentare della posizione che abbiamo in esso, e del fatto che noi possiamo peccare.
• Innanzitutto noi possiamo peccare ma non siamo costretti a farlo. • Poi Dio, nella sua sapienza ha creato gli angeli, che permangono
nella volontà di non peccare e, ad un livello più basso, ha creato gli uomini, che possono peccare, ma possono recuperare pentendosi e riparando. Gli uomini, però, sono superiori ai demoni che permangono nella volontà di peccare, e tuttavia “Dio, neppure da quella creatura che egli sapeva che non solo avrebbe peccato, ma che sarebbe rimasta nella volontà di peccare, tenne lontano l’effusione della sua bontà al punto di non crearla” (III,V,15).
Nell’ordine divino ogni grado ha la sua
eccellenza
• Bene, allora guardiamo all’eccellenza degna di
lode della nostra condizione, sembra dirci
Agostino, evitando di concentrarci su
argomenti che ci sviano. Ognuno, nel suo
livello ha un grado di bontà per il quale è in
dovere di lodare Dio. L’uomo che può peccare
per libera volontà, è comunque superiore alle
cose, che pur non potendo peccare, non
dispongono di libera volontà.
Ogni anima è migliore di ogni corpo
• Ogni anima è migliore di ogni corpo, che pure
ha un grado di perfezione. Il migliore dei corpi,
la luce di plotiniana memoria, è peggiore
della peggiore delle anime.
• Insomma nell’ordine voluto da Dio la bellezza
e bontà è gradualmente organizzata, perché
nello stesso ordine risplenda la somma
bellezza e sapienza divina.
Usare la ragione
• Con la ragione dobbiamo evitare di anteporre cose che vanno posposte e viceversa, così come tende a fare l’”uso”, cioè l’opinione comune, che spiega le cose “per lo più secondo la consuetudine del vantaggio” la quale porta a dar maggiore importanza a cose di minor valore. Al contrario la ragione deve riflettere e rispecchiare l’ordine del creato, abituandosi a lodare Dio per l’effettiva grandezza e bontà delle sue creature, concepite nei giusti rapporti gerarchici con tutte le altre.
Non scandalizzarsi per il peccato
• Dato ciò, non ci si può scandalizzare per il
peccato degli uomini e smettere di lodare Dio
perché le anime possono peccare, poiché la
peggiore delle anime peccatrici, ha comunque
una sua ontologica dignità che nessuno può
toglierle. Ciò sebbene tale anima si disonori
nel peccato a motivo della sua stessa volontà,
che viene utilizzata male e contro gli scopi per
Chi si scandalizza della sua miseria
• Vi è chi nondimeno si scandalizza per la propria miseria di persona limitata e peccatrice. Costui dice: “Preferirei non esistere che essere misero”.
Egli in realtà, dice Agostino, mente. Il fatto è che chi dice così è già misero. Affermazione, questa, che appare un po’ apodittica a meno che non si pensi che chi non è già misero, mai direbbe: “preferirei non esistere”.
Chi è misero tuttavia vuole esistere
• Ma - prosegue Agostino, spiegando in parte le sue affermazioni di prima - in realtà chi è misero, purtuttavia vuole esistere, e se è misero lo è CONTRO IL SUO VOLERE. Se una persona però non riconosce questo suo voler esistere come elemento primario, sarà costretto ad essere ciò che egli non vuole, come una sorta di pena del contrappasso poiché l’ingratitudine per l’esistenza – data dal non voler riconoscere di voler esistere – genera di per sé un’esistenza misera (una sorta di pusillanimità che è castigo a se stessa). Quindi malgrado la sua ingratitudine, questa persona avrà lo stesso l’esistenza, un bene dato dalla misericordia di Dio, ma in conseguenza della sua ingratitudine, egli ne avrà una misera.
Che cosa accade se ciò che mi interessa è non
morire per non essere maggiormente misero dopo
la morte?
• A questo punto Agostino introduce un’altra
possibilità, che genera un ragionamento assai
complesso. Si tratta della possibilità di dire
• “non voglio morire”
Non perché preferisco essere misero piuttosto
che morire
Ma perché non voglio essere maggiormente
misero dopo la morte
Risposta di Agostino: se è giusto che tu
sia misero lo sarai se no, no
• Agostino risponde a tale affermazione: Se è ingiusto essere misero dopo la morte non lo sarai, se sarà giusto, lo sarai con giustizia.
Ma qui si pone una domanda ancor più profonda:
Da che cosa si desume che se è ingiusto non sarò misero e se è giusto lo sarò con giustizia? Chi dà una garanzia ontologica a questa affermazione morale? Chi garantisce la corrispondenza tra la giustizia e il mio stato effettivo di miseria o di felicità?
La formalizzazione del problema
• Il problema sembra qui essere riducibile a
questa formula
Se x (se è giusto che tu sia misero dopo la
morte)
Allora Y (allora lo sarai)
Se non X (se è ingiusto che tu sia misero dopo la
morte)
La risposta evasiva di Agostino
• La domanda è chi mi garantisce il rapporto di consequenzialità tra X e Y
e non X e non Y
La risposta di Agostino però non si pone sul piano della corrispondenza, ma la dà per scontata, infatti Agostino dice:
se sarai in tuo potere, volendolo sarai felice comportandoti giustamente o infelice comportandoti ingiustamente. Cioè, se sei in tuo potere, potrai decidere, comportandoti male, che è giusto che tu sia misero dopo la morte o potrai decidere, comportandoti bene che è ingiusto che tu sia misero dopo la morte … e quindi sarai misero o non lo sarai a seconda della tua decisione.
Qui la corrispondenza è data, il problema è decidere come comportarsi per ottenere una condizione di miseria o di felicità (non miseria).
Se non si è in proprio potere (continua
la risposta di Agostino)
• Viceversa si può dare anche la possibilità che
tu non sia in tuo potere…
e che tu sia in potere
di nessuno
O
Se si è in potere di nessuno
• Nel primo caso, se sei in potere di nessuno,
questo nessuno deve vincere comunque la tua
volontà, ma siccome è nessuno, questi non
può esprimere alcuna controforza capace di
vincere la tua volontà, e quindi torni in potere
di te stesso.
Se si è in potere di altri
• Nel secondo caso questo “altro” può essere più debole o più forte.
• Se è più debole, non ha la forza di vincere la tua volontà e dunque tu torni in potere di te stesso
• Se è più forte e tu vuoi comportarti bene per non essere misero dopo la morte, ma non puoi farlo perché ti vince una forza superiore, la corrispondenza giustizia-felicità e ingiustizia miseria è comunque data ed è corretta, e quindi non ti resterà che accettare la giustizia del fatto che comportandoti
La conclusione di Agostino
• Agostino conclude ribadendo la tesi iniziale
“se è questo essere misero dopo la morte è
ingiusto, non sarai così; se invece è giusto
essere misero dopo la morte, sarà giusto in
relazione al tuo comportamento, quindi
Nuovo problema: dovrei desiderare di
non esistere…
• Agostino continua a rispondere ad altre obiezioni che ruotano attorno alla questione se sia preferibile esistere anche nel caso di un’esistenza misera, piuttosto che non esistere.
• Se uno dicesse: “Ora voglio esistere perché, essendo misero è già nell’esistenza, non riesco a non volerlo, ma se avessi potuto scegliere prima di esistere, avrei detto di no”,
• Agostino risponderebbe sottolineando il gran bene dell’esistenza.
Il gran bene dell’esistenza
• Agostino dimostra quale gran bene è l’esistenza, facendo notare che essa è preferita da tutti, siano essi beati – poiché è evidente che i beati, essendo tali, preferiscono esistere – siano essi miseri, come ha mostrato lo stesso estensore dell’obiezione.
• Dunque quest’ultimo è misero in quanto si trova lontano da Colui che sommamente è, e non perché esiste. Egli vorrebbe non esistere perché non vede Colui che sommamente è, nondimeno non riesce a rinunciare a voler esistere proprio grazie a lui che gli ha donato un bene così grande che risulta difficile non volerlo.
Amare il proprio voler essere
• Bisogna pertanto amare il proprio voler essere, ed anzi cercare di coltivarlo ed amplificarlo, perché così ci si
avvicinerà a Colui che sommamente è, e quindi anche alla beatitudine.
“Tutte le cose […] per il fatto stesso che sono, devono
giustamente essere degne di lode, perché sono buone proprio per il fatto stesso che sono” (III,VI, 21).
Questa affermazione è il centro di tutto il capitolo presente e costituisce la descrizione più chiara del punto di vista di
Agostino. Una prospettiva, questa, che diventerà canonica per tutta la metafisica medievale, che sempre darà per scontato
Dall’amore per il proprio voler essere
all’essere vero
• L’amore per il proprio voler essere, conduce alla felicità, perché incrementa il proprio essere nutrendolo di beni stabili ed eterni, e lo innalza quindi fino all’essere vero. Aggiunge Agostino:
• “Se uno preferisce non essere piuttosto che essere misero, non potendo non essere, rimarrà misero; se uno invece ama maggiormente l’essere di quanto odi l’essere misero, con aggiungere essere a ciò che ama, esclude la miseria” (III,VI,21). Nel primo caso la miseria sarà data dal non riconoscere il bene dell’essere e quindi dal rifiutarlo; nel secondo il suo riconoscimento genererà la sua ricerca e quindi
Preferire il nulla è assurdo
• Agostino incalza ancora e aggiunge una riflessione logica: se uno preferisce il non essere all’essere misero, in realtà preferisce il nulla a qualcosa, ma preferire il nulla è non preferire, scegliere il nulla è non scegliere, infatti il nulla non è e, come non può essere conseguito, non può essere preferito e scelto. Infatti se in nulla è preferibile vuol dire che è meglio, cioè possiede una qualità, ma il nulla in quanto nulla non può essere una sostanza alla quale si attribuisce una qualità, il nulla come tale è senza qualità, quindi non può essere preferibile.
Sentimento e opinione nei suicidi
• Chi sceglie il nulla uccidendosi, o lo ha fatto credendo di andare in un posto migliore (che è e che non è quindi nulla) oppure ha compiuto un grossolano errore logico.
• In realtà chi si uccide non CREDE nel totale annichilimento, infatti egli più o meno possiede sempre il SENTIMENTO che dopo la morte sussisterà, anche se, interrogato, esprimerà un’ opinione
Verità ed errore; abitudine e natura
• L’opinione o è vera o è falsa
• Il sentimento o è per abitudine o per natura
Generalmente la tradizione filosofica tardo antica svaluta le passioni e le emozioni, ma qui Agostino procede ad una sua netta rivalutazione: se il sentimento è naturale, cioè procede dall’essere del soggetto che lo prova, e l’opinione è nell’errore, come si è visto dall’assurdità di preferire il nulla, coloro che sono tentati al suicidio dovrebbero dare retta al sentimento. Nei suicidi abbiamo un sentimento retto, la ricerca della quiete in una vita sottoposta a tormenti insopportabili, ma questa ricerca di quiete è ricerca dell’essere vero, che essendo pieno, immutabile ed eterno è in quiete. Accanto a tale sentimento abbiamo un’opinione erronea, quella che per
Il sentimento buono corregge la cattiva
opinione
Qui il sentimento buono dovrebbe correggere la cattiva opinione, chiarificando se stesso e manifestandosi per quello che è:
voglia di essere in grado più alto e non di non essere. Per raggiungere tale scopo è quindi assurdo voler rinunciare all’essere che già si possiede, ma, volgendosi ai beni eterni, appare del tutto ragionevole voler incrementare il proprio essere.
Esseri inferiori e superiori
• L’obiettore fittizio con cui Agostino qui dialoga, prosegue nel tentativo di opporsi al filosofo. Implicitamente infatti si accorge che se noi siamo nelle condizioni di dovere incrementare il nostro essere, significa che il nostro essere non è pieno e perfetto, così come del resto l’essere delle innumerevoli creature a noi inferiori. Allora egli domanda, come mai vi è questa sperequazione per cui vi sono esseri inferiori e superiori? Perché Dio non ha fatto il mondo “tale che nessuna creatura
L’ordine delle cose
• Agostino risponde dicendo che nel cosmo vi è un ordine graduale e una giusta gerarchia, secondo la quale tutti concorrono alla perfezione cosmica a partire dal loro grado di essere. Voler equiparare tutto in omaggio ad un’astratta idea di “ottima omogeneità2 significherebbe essere mossi
• da un sentimento di invidia verso le realtà superiori, cui si vuole uguagliare il resto, ritenendole implicitamente mancanti (se uno volesse equiparare la luna al sole, vorrebbe due soli e pertanto considererebbe un solo sole insufficiente);
• da un atteggiamento cattivo nei confronti delle realtà inferiori, non attribuendo loro alcuna dignità propria, visto che esse, nella sua opinione, varrebbero solo nella misura in cui fossero superiori. Ma questo è un assurdo, è infatti come pensare che siccome vi è la luna, di notte una lanterna non valga niente. La luna è certamente più luminosa di una lanterna, ma anche quest’ultima ha la sua benefica funzione di notte.
Diversità e gerarchia
• L’ordine voluto da Dio è il migliore possibile perché contempla una grande diversità al proprio interno e al tempo stesso una mirabile armonia,in cui ogni mancanza è equilibrata da un’eccellenza. Anche la presenza del peccato, mirabilmente non lo turba, poiché Dio ne riequilibra gli effetti con la giustizia della pena. Questo non vuol dire che i peccati siano necessari all’ordine, ma che esso si dispiega nonostante il peccato. L’essere così voluto e concepito da Dio appare dunque come una sinfonia di elementi disparati, tra loro perfettamente incastrati, in modo che tutto ciò che è concorra dalla sua posizione al bene del tutto. Un essere tipicamente platonico-plotiniano, in implicita alternativa alla concezione omogeneista della tradizione parmenidea.
L’inferiore manca? No l’inferiore è
• Per capire questa prospettiva agostiniana bisogna evidenziare con il vescovo di Ippona nei vari gradi di essere non la loro distanza dalla pienezza, ma la loro maggiore vicinanza. Il buono che vi è nell’essere, ad ogni suo grado, è infatti infinitamente meglio del nulla. Ciò rende preferibile anche il suo grado infimo poiché è infinitamente più vicino al bene sommo e all’essere pieno di quanto non lo sia il nulla. Per ogni centimetro di distanza dalla pienezza dell’essere, vi è un’infinita vicinanza alla stessa pienezza rispetto a quanta ne possa avere il nulla. Dunque ciò che è inferiore, importa anzitutto che sia. Questo suo essere è un bene infinitamente preferibile al nulla. Rispetto a tale preferenza, non ha alcuna rilevanza la presenza di realtà superiori, tanto più che inferiore e superiore sono perfettamente
In tutti i gradi dell’universo risplende la
sapienza di Dio
• Ovunque, nell’universo, che è un tutto
sommamente ordinato, risplende la sapienza
di Dio, in modo che tutto ha un suo posto. In
primis le creature spirituali e angeliche che
non peccano, poi gli uomini, che possono
peccare, alla fine le cose puramente corporee.
I peccati volontari non destinano
necessariamente alla dannazione
• Conforme alla sapienza di Dio è anche il fatto che coloro che peccano volontariamente
• O in base ad un proprio pensiero • O sulla base della persuasione altrui
Oppure coloro che peccando, inducono e persuadono gli altri a peccare,
Sono in balia del Diavolo. Ma la sapienza divina ha dato il potere al Diavolo solo sulla carne. Dio però ha fatto la carne mortale, affinché la stessa mortalità della carne spezzasse l’orgoglio umano e inducesse gli uomini a cercare la misericordia divina. Così la stessa carne soggetta al peccato, nella sua mortalità è anche strumento di una possibile redenzione. Essa è stata
Il Verbo
• Il Verbo soggioga il Diavolo vincendolo con le
leggi della giustizia, infatti quest’ultimo
rivendica il potere su tutto il genere umano,
che ha sottoposto al peccato, ma Cristo, una
volta che l’uomo paga il debito del peccato
con la morte, riscatta colui che lo ha
conosciuto e seguito con la vita eterna.
Tutte le creature ornano l’universo
• Quindi tutte le creature, ad ogni grado
gerarchico, con il loro bene e con il loro essere
ornano l’universo, e quanto di ingiusto esse
possano commettere, ai gradi inferiori, è
riequilibrato dalla giustizia divina. Così
dovunque rivolgiamo il nostro sguardo non
manca motivo per lodare Dio.
Ogni creatura o è Dio o viene da
Dio
• «Ogni natura quindi è buona. Chiamo natura
quella che suole essere anche chiamata
sostanza; ogni sostanza pertanto o è Dio o
viene da Dio, poiché ogni bene o è Dio o viene
da Dio».
Il biasimo del vizio e la lode della
natura
• Si biasimano i vizi proprio perché corrompono
una natura BUONA. Se la natura non fosse in
sé buona non si avrebbe motivo di biasimare il
vizio. Infatti lo si biasima perché CONTRARIO
alla natura Quindi l’autore della natura, in
quanto autore di qualcosa di buono va sempre
lodato.
Il vizio non è una sostanza
• Il vizio è in quanto corrompe qualcosa, in quanto
mancanza che sottrae l’essere a qualcosa che ne
possiede una certa pienezza. Dunque il vizio non
può essere considerato una sostanza in sé, ma,
diremmo, un «parassita» della sostanza. Esso è
propriamente «ciò che manca alla perfezione
della natura» (chiarissima in questo frangente è la
polemica antimanichea).
Il venir meno
• Il vizio, come venir meno della natura, è
biasimato se volontario, se invece vi è
mancanza in quanto vi è gerarchia tra inferiore
e superiore, questo non è propriamente un
vizio, ma appartiene alla varietà dell’ordine
universale e quindi va lodato.
Il peccato nell’ordine
• Ogni peccato reca un danno all’ordine voluto da Dio, ma questo danno è immediatamente riparato dal fatto che il peccato è (con locuzione non agostiniana) «pena a se stesso», in quanto immediatamente viene punito con l’abbruttimento della natura che pecca. Infatti «come chi veglia non dorme, chi pecca subisce ciò che deve subire» quasi per una consequenzialità logica, che non lascia passare tempo tra peccato e punizione in modo che l’ordine voluto da Dio mai si allontani dalla
Difesa antimanichea di Dio
• Da quanto si è detto, nell’ordine creato a Dio non va attribuita nessuna responsabilità per il peccato, come volevano i manichei con la loro opinione sull’esistenza di un Dio del male. Infatti “Dio – l’unico Dio ottimo e giusto, n.d.r. - a nessuno deve qualcosa, poiché ogni cosa egli offre gratuitamente”. Ciò che Egli offre è una natura, cioè un essere che in quanto tale è buono. Tutte le creature dunque devono qualcosa a Dio per aver ricevuto da lui qualcosa di buono. L’uomo in particolare rende a Dio ciò che deve facendo buon uso della sua natura, cioè comportandosi bene. Viceversa è punito per il suo peccato.
La causa del peccato: l’improba
voluntas
• Quindi non c’è altra causa del peccato che
l’improba voluntas, cioè la volontà sregolata
che si allontana dal bene, la quale si genera
liberamente all’interno della natura razionale,
e che in questa stessa natura può essere
bloccata
da
una
controforza
positiva,
altrettanto autonoma, che diriga la volontà al
bene.
Qual è la causa dell’improba voluntas
• Agostino ancora una volta si auto-obietta di fronte ad Evodio, che se egli volesse cercare la causa dell’improba voluntas andrebbe incontro a serie difficoltà, risalendo all’infinito di ragione in ragione. Se poi ci volessimo fermare, perché il regressus ad
infinitum non dà ragione di nulla, dovremmo
individuarla o in una volontà “prima” del peccatore, e allora torneremmo alla tesi di partenza, oppure in qualcos’altro dalla volontà, ma in tal caso, essendo il
Abitudine, vizio e peccato originale
• Agostino, ancora polemicamente contro i
manichei, specifica che, non essendovi una
natura intrinsecamente cattiva nell’uomo –
poiché in generale non esiste una natura
intrinsecamente cattiva – quei peccati che noi
attribuiamo ad un vizio inestirpabile o ad
un’abitudine insanabile rimangono peccati in
tutto e per tutto. Tali per esempio sono quei
peccati derivanti dal peccato originale.
Ignorantia et difficultas
• Il peccato originale genera l’incapacità, da parte dell’uomo “di avere in suo potere di essere buono, sia che non veda come debba essere (stato di ignoranza), sia che veda e non sia capace di essere come vede di dover essere (stato di difficoltà)”. Esso consta di un atto che violando un precetto morale divino, provoca una degenerazione ontologica dell’essere umano, la quale corrompe la sua libertà e lo rende incapace o di vedere ciò che è bene o di
Libera voluntas recte faciendi vs
ignorantia et difficultas
• La libera volontà di fare bene è caratteristica
della natura umana così come è stata creata
da Dio, l’ignorantia e la difficultas sono effetto
del peccato originale. Ma questo grave
oscuramento
è
nelle
nostre
attuali
responsabilità? In altri termini: che colpa
abbiamo noi del peccato originale?
La risposta di Agostino
• Per capire il senso del peccato originale bisogna innanzitutto porre l’attenzione sulla condizione di degenerazione ontologica che esso ha provocato. L’uomo peccando ha degradato la sua natura e lo ha fatto in modo permanente anche se non irrecuperabile. Dio infatti non condanna definitivamente l’uomo per tale errore, ma lo colloca in uno stato punitivo di ignorantia et difficultas, dal quale, grazie alla misericordia divina, l’uomo può comunque risollevarsi. Infatti Dio non fa mancare il suo aiuto a coloro che, nelle tenebre dell’ignoranza e nei lacci della difficoltà, comunque cercano il bene e si sforzano di volerlo praticare. Ignoranza e difficoltà non sono dunque condizioni inaggirabili, ma ostacoli al retto
La propagazione del peccato originale
• Come si è trasferito il peccato originale dai
protoparenti a noi? Agostino affronta la
questione facendola precedere da una lunga
“premessa logica” in cui elenca una serie di
ipotesi
sull’origine
delle
anime
(tema
sull’opportunità del quale egli stesso ha dei
dubbi, stante il fatto che ora come ora è più
importante sapere come possiamo salvarci dal
peccato piuttosto che sapere come vi siamo
Comunque il peccato si sia propagato…
• …l’anima non vi è costretta in modo inevitabile. Essa può continuare, malgrado ignorantia et difficultas, a volere il bene.
• Ma se è comunque possibile meritare, attraverso la propria volontà, e superare la condizione di peccato, come faranno i bambini che muoiono prima di volere consapevolmente? E che male hanno fatto costoro per subire, come gli altri uomini le sofferenze
I bambini
• I bambini in generale per Agostino non hanno responsabilità da sostenere in nessun modo. Noi siamo davanti allo spettacolo di un bambino sofferente e per tale orrore Agostino non ha giustificazioni da fornire. Certo, egli nota, le sofferenze di un bambino spezzano il nostro orgoglio e possono avere l’effetto positivo di fare in modo che ci rivolgiamo a Dio. Ma egli è ben lungi da pensare che Dio “faccia soffrire” un bambino per questo. La sua prospettiva si limita a dire che, al di là della possibilità di registrare questo effetto collaterale positivo, si può ben pensare così: “Chi sa quale buona compensazione Dio riserva agli stessi bimbi nel segreto dei suoi giudizi, poiché, sebbene non abbiano fatto nulla di bene, è anche senza aver commesso alcun peccato
Le sofferenze degli animali
• Le sofferenze degli animali certo non sono meritate, ma non sono nemmeno oggetto di una compensazione. Ecco un altro argomento manicheo: quale ragione hanno questi dolori? Tutto ciò che è creato e che prova dolore, secondo Agostino, testimonia una resistenza alla disgregazione e al venir meno, che si spiega con la naturale finitezza delle creature. Così anche gli animali soffrono e muoiono, ma resistendo, rimandano alla perfetta unità del Creatore cui tutte le creature guardano e tendono.
Il primo uomo e il suo peccato
• Il De libero arbitrio si conclude con l’analisi
della vicenda di Adamo e del suo peccato.
Come Adamo peccò? Se infatti è stato creato
sapiente non avrebbe dovuto peccare; se
viceversa ha peccato per stoltezza, significa
che è stato creato stolto e dunque non ha
responsabilità.
Homo capax sapientiae et stultitiae
• Adamo in realtà è stato creato in una condizione intermedia tra la sapienza e la stoltezza: è stato creato capace di sapienza e stoltezza, e gli è stata data la possibilità di ricevere il comando divino di non peccare, così come di trasgredirlo cedendo alla tentazione del serpente. La caduta è avvenuta poiché egli ha ceduto alla rappresentazione ingannevole del serpente che gli ha posto di fronte la possibilità di
Avarizia e orgoglio
L’assenso dell’uomo alla rappresentazione generata dal discorso del serpente è dovuta e all’avarizia e dell’orgoglio che, opportunamente evocati dal diavolo, sono fonte e origine dei peccati.
Ma alla superbia del diavolo, sempre si può opporre l’umiltà di Cristo che orienta l’anima non a se stessa, ma a Dio, e questo per l’uomo rimane sempre possibile anche dopo la sua caduta.