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Il Mezzogiorno salvato dall’Europa?

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Academic year: 2021

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osservatorio italiano

Paola De Vivo

Il Mezzogiorno

salvato dall’Europa?

osservatorio

La strategia di sviluppo europea per il 2007-2013 lascia ben sperare: la riduzione delle disparità economiche e sociali nelle regioni meridionali può dunque tornare al centro del dibattito pubblico. La strada è difficile, e le passate esperienze fanno nutrire molti dubbi sulle effettive possibilità di riuscita. Ma ancora una volta è all’Europa che il Mezzogiorno si deve affidare per vedere davanti a sé un domani di sviluppo.

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opo una lunga e intensa fase preparatoria siamo giunti alle porte della con-creta attuazione della programmazione dei fondi strutturali europei per il 2007-2013; si tratta di una fase propizia per rimettere al centro del dibattito pubbli-co la questione del Mezzogiorno e per dimostrare l’effettiva capacità delle nostre amministrazioni nazionali e regionali di recepire nel migliore dei modi quello che si prospetta essere l’ultimo contributo sopranazionale per il suo sviluppo. Riuscirà la politica di sviluppo e coesione dell’Unione europea a dare un forte contributo alla ripresa della competitività e della produttività dell’intero Paese? Sapremo cogliere quest’ennesima occasione per affrontare la persistente sottoutilizzazione di risorse del Mezzogiorno, agendo soprattut-to sul potenziamensoprattut-to dell’offerta di servizi di pubblica utilità e sul più genera-le miglioramento delgenera-le condizioni di vita della cittadinanza meridionagenera-le?

Per raggiungere questi risultati nei prossimi anni, la politica regionale, co-munitaria e nazionale, potrà trarre puntuali lezioni dall’esperienza innovativa realizzata nel 2000-2006, marcare continuità e discontinuità, e perseguire le priorità strategiche emerse secondo le indicazioni dei Documenti Strategici preliminari elaborati nel 2005 e nel 2006 dai diversi livelli istituzionali e con-fluiti successivamente nel cosiddetto Quadro strategico nazionale (Qsn). Il Qsn, previsto formalmente dall’articolo 27 del Regolamento generale sui fon-di strutturali europei, a seguito fon-di un esteso e intenso percorso partenariale, ha il compito di tradurre queste indicazioni in indirizzi strategici e operativi vali-di per tutto il Paese.

L’approvazione del Qsn in sede comunitaria rappresenta un’occasione da cogliere anche per ricominciare a discutere di una strategia d’intervento per il Sud. Dalla fine dell’intervento straordinario sono trascorsi ormai più di quin-dici anni, ma rileggendo i contenuti della proposta di politica economica dei governi nazionali che si sono avvicendati nel tempo, ben poche sono le

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tive che si rintracciano in merito alla definizione di un piano, coordinato e continuativo, di sostegno allo sviluppo dell’intera area meridionale.

La diagnosi, nessuno qui lo nega, sia dei mali che affliggono il Meridione sia delle risorse disponibili nei suoi territori, è ormai talmente nota che si ri-schia di apparire – e magari si è effettivamente – ripetitivi nel volerla a ogni

costo riprendere. Ma è un rischio che vale la pena correre, quello di continua-re a interrogarsi sulle contraddizioni del suo sviluppo, e, soprattutto, sulle cause e sui modi per rimuoverle; anzi, di più, è quanto mai necessario insistere sulla ricerca di un nuovo protagonismo del Mezzogiorno, che smuova uno scenario politico e culturale tendenzialmente refrattario a occuparsi del suo rilancio economico e sociale.

Le coordinate per inquadrare sotto il profilo scientifico la «questione» meri-dionale sono cambiate, arricchendo d’altri contenuti le teorie e i modelli di spie-gazione di natura macroeconomica su cui si sono fondate tradizionalmente le interpretazioni circa l’arretratezza del Sud dell’Italia. Nel tempo gli assetti poli-tici, la struttura economica e la stessa società meridionale si sono trasformati, richiedendo l’uso di più puntuali e innovative categorie analitiche.

La riflessione sull’arretratezza meridionale va oggi compiuta alla luce di quel dibattito, da tempo in corso, che si arrovella sulle strategie di intervento da adot-tare per far fronte ai deludenti risultati economici conseguiti dall’Europa, e, ancor più, dall’Italia. Se, però, è vero che il rilancio della crescita economica deve stare ai primi posti dell’agenda politica nazionale e comunitaria, allo stesso modo il complesso tema del mantenimento della coesione sociale va posto come una priorità in eludibile nel novero delle iniziative da intraprendere. In un’Eu-ropa che viaggia a due distinte velocità, come testimoniato dalla persistenza di ampi divari regionali al suo interno, si ripropone la problematica del dualismo, dell’incompiuto sviluppo capitalistico italiano, della mancata convergenza tra le due aree del Paese. La storica peculiarità del caso italiano trova una nuova con-ferma nella persistenza di una forbice, di una frattura tra il Nord e il Sud dell’Ita-lia, dovuta all’inarrestabile crescita delle disuguaglianze, al sistematico acuirsi dei processi di esclusione e di marginalità sociale.

Basti osservare, a tale proposito, l’andamento di alcuni indicatori. Si può cominciare dal Pil per abitante, nel Mezzogiorno di 16.272 euro a fronte dei 26.985 di quello del Nord, specchio della crisi che interessa, più in generale, l’economia meridionale. Analogamente, sul fronte del mercato del lavoro, i segnali sono poco promettenti. La disoccupazione è di circa tre volte superio-re (14,3%) a quella del Centro Nord (4,8%). La dinamica dell’occupazione registra sistematici rallentamenti e si accentua la tendenza alla riduzione del numero di persone in cerca di lavoro. Di conseguenza, riemerge un «effetto scoraggiamento», che inibisce soprattutto le donne a partecipare attivamente al mercato del lavoro e costringe giovani e disoccupati a trovare rifugio in occupazioni irregolari (del tutto o parzialmente). Riprende quota un fenome-no, che sembrava del tutto in declifenome-no, quello dell’emigrazione, principalmente di giovani, spesso laureati, verso le regioni del Centro e del Nord dell’Italia. Ancora, vi è l’emergenza povertà, concentrata prevalentemente nel Sud, dove una famiglia su quattro vive in condizione d’indigenza1.

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Soltanto dall’analisi di questi sintetici dati, ben s’intuisce come le molte-plici opportunità di sviluppo di questa parte del Paese rimangono, almeno per ora, solamente allo stato potenziale, ed anzi esse coesistono, purtroppo, con fenomeni diffusi e capillari di esclusione e di marginalità sociale, di disoccupa-zione e di sommerso, di bassa vivibilità dei territori, che si traduce in una scadente qualità della vita. Con la criminalità che continua ad agire indisturbata e ad espandersi attraverso la gestione di attività economiche illecite, da cui recupera risorse finanziarie che, riciclate e immesse nel circuito economico di realtà territoriali con tratti tipici dell’arretratezza, non solo alimentano merca-ti surretmerca-tizi, ma finiscono per legitmerca-timare anche culturalmente pramerca-tiche comportamentali prevaricatrici. Una patologia sociale, quella della criminali-tà, che per alcuni rappresenta l’ultima chance di riscatto sociale, tanto da esse-re accettata come una «normale» modalità di esse-regolazione e riproduzione della vita collettiva.

Eppure, il peso dei problemi delle popolazioni del Sud è sempre meno sostenibile per la finanza pubblica, in un contesto di arretramento continuo dell’economia italiana e in una cornice di stentata capacità di regolazione della politica economica, fortemente indebolita dai processi di ridefinizione che in-vestono la sfera statuale. Il Mezzogiorno sembra progressivamente destinato a soccombere; a veder persa, in altre parole, la battaglia, in parte compiuta, ver-so il progresver-so e la modernizzazione della sua vita politica, economica, ver-sociale. Quest’area arretra nuovamente e sembra aver smarrita quell’energia, anche morale, che ha caratterizzato e rappresentato la spinta al cambiamento dei primi anni Novanta. Al punto in cui siamo, non è esagerato affermare che la storia più recente del meridione è addirittura riassumibile in un’idea di falli-mento totale dell’azione pubblica, sedimentata nell’opinione pubblica e persi-no nella stessa classe politica. La rappresentazione che prevale è che qualsiasi siano le modalità di intervento adottate – dall’alto o dal basso – nel Sud nulla cambia. Né dall’alto né dal basso, in definitiva, si è capaci di smuovere, di rivitalizzare, forse addirittura, di rifondare una società che sembra inamovibile nei suoi caratteri di arretratezza sociale ed economica.

Ma è veramente così? Non c’è davvero più niente da fare? In tanti si pon-gono inevitabilmente interrogativi di tal genere, che rimandano a una chiave di analisi più operativa, al che cosa cioè è necessario fare – al come occorra agire – affinché il Sud possa riprendere la strada dello sviluppo. Perché, pur tralasciando qui di insistere sulle cause per cui è accaduto, è un fatto assodato che è fallita anche la principale scommessa su cui puntava il disegno delle politiche territoriali, vale a dire la responsabilizzazione e lo sviluppo di auto-nome capacità di governo da parte degli attori e delle istituzioni locali. Di cambiare, cioè, il Mezzogiorno dal suo stesso interno, rimuovendo tramite le politiche per il territorio le condizioni vincolanti che ne hanno storicamente ostacolato il decollo.

Quale può essere, allora, in una situazione che diviene, di giorno in gior-no, per i cittadini del Mezzogiorno sempre più difficile da sostenere, il reale contributo che il Qsn può apportare alla risoluzione delle problematiche con-tingenti e ai nodi di carattere strutturale che frenano lo sviluppo del

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ne? La nuova programmazione per il 2007-2013 riuscirà ad evitare gli errori e, al contempo, a valorizzare gli aspetti positivi del precedente ciclo? Quale sarà, in definitiva, l’impatto dei fondi comunitari sulle condizioni di vita delle po-polazioni meridionali? Le ulteriori risorse finanziarie stanziate serviranno sta-volta a rilanciare le regioni – e le ragioni – del Sud? Oppure, ancora una sta-volta, il bilancio che ne faremo a posteriori sarà negativo?

Quadro strategico nazionale e Mezzogiorno

Non è ancora maturo il tempo per cercare di rispondere puntualmente agli interrogativi appena posti; è presto per conoscere come sarà giocata e, soprat-tutto, quali esiti produrranno la partita della programmazione regionale. Il lancio del Qsn offre, ciononostante, qualche spunto di riflessione che va subi-to colsubi-to. Per esempio, un’analisi dei suoi contenuti può divenire una chiave di lettura utile a ricercare quali sono i riferimenti teorici e operativi del modello di sviluppo e della strategia d’azione perseguite dal governo centrale e comu-nitario a favore delle regioni del Sud.

A questo scopo, si osserva come la matrice teorica su cui è fondata l’impostazione del Qsn sia intrinsecamente «ibrida», dato che se si prova a ricomporre i vari segmenti dell’offerta di policy, ciò che emerge è un modello di regolazione ispirato a una combinazione tra un approccio micro e uno macro. Nella sua articolazione complessiva viene, infatti, recuperata la dimensione territoriale come fattore di competitività per lo sviluppo delle regioni meridio-nali, sebbene vengano, al contempo, individuati dei macro-obiettivi, con le relative priorità da conseguire, quasi a voler sottolineare la volontà di ripren-dere un discorso unitario sui problemi dell’arretratezza del Sud. È il trionfo di quella che si può definire una «terza via», una via che permette di coniugare le diverse e contrapposte posizioni dell’aspro dibattito suscitato, in Italia, dal-l’adozione di politiche territoriali. Una scelta, quella di mantenere entrambi gli approcci, che ha reso possibile il delicato compromesso con i seguaci delle correnti di pensiero in contrapposizione.

Quanto alle scelte strategiche, esse si fondano essenzialmente su due diret-trici: la prima è in linea di continuità con alcuni degli interventi già previsti nella precedente programmazione per il 2000-2006; la seconda se ne discosta, perché imprime un significativo cambiamento nell’azione pubblica a sostegno dello sviluppo regionale, ridefinendo contenuti, norme e procedure d’attua-zione – gestione, controllo e valutad’attua-zione – dell’impianto programmatico con-cepito per l’allocazione delle risorse comunitarie.

L’intento è, in ogni caso, quello di porre un freno a tutti quei fenomeni, comportamenti e tendenze negative che si vanno progressivamente accentuando nella società e nell’economia meridionale. Rilancio delle attività economiche e produttive e parallelo sostegno all’azione di contrasto alla criminalità, alla di-soccupazione, alla povertà sono i cardini dell’intervento comunitario, che mira sostanzialmente a rimuovere i vincoli di contesto alle attività imprenditoriali. La consapevolezza cui si è giunti, anche alla luce degli insegnamenti emersi dal precedente ciclo di programmazione, è che il requisito principale intorno a cui impostare una politica pubblica capace di innescare nuovamente una

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crescita nell’economia regionale – per «tornare a crescere» e a convergere – si identifica innanzitutto nel ripristino, nei territori meridionali, di condizioni di legalità e di fiducia. Ancora una volta, si prende atto che è questa la vera sfida che occorre vincere per arginare quella perversa spirale, fatta di corruzione, malaffare e mancanza di senso civico, che sta avviluppando, quando non bloc-cando del tutto, il normale svolgimento della vita economica e sociale delle popolazioni che risiedono nelle regioni del Sud dell’Italia.

La struttura concettuale che sorregge i contenuti del Qsn si fonda sulla convinzione che per realizzare il progetto politico di costruire una società che abbia tra i suoi principali valori l’equità, la solidarietà e la dignità sociale oc-corra stimolare intensivamente quei fattori – capitale, lavoro, produzione – che permettano di allargare la base di mercato e di aumentare lo stock di risor-se disponibili. Si lavora per rimuovere una cultura dell’assistenzialismo che si è generata e radicata nel tempo, attraverso generose forme di distribuzione delle risorse pubbliche, nella convinzione che l’inclusione sociale si accresce quando la crescita economica produce dei buoni esiti, poiché di questi posso-no beneficiare più soggetti sociali.

Il nucleo dell’azione gravita pariteticamente sui fattori materiali dello svi-luppo e su quelli immateriali, ed anzi favorisce moltissimo l’avanzamento del-la conoscenza, di base e avanzata, in tutti i campi di attività e trasversalmente ai vari assi di intervento, attribuendole il compito fondamentale di motore propulsivo della crescita economica e del progresso sociale. L’obiettivo è di rafforzare l’inclusione sociale creando un sistema di «opportunità», nel cam-po dell’istruzione e della formazione, che faciliti l’avanzamento e la mobilità sociale, soprattutto dei soggetti svantaggiati. Ampliando e potenziando la strut-tura di mercato, si dovrebbe limitare il ricorso a meccanismi di redistribuzione «a pioggia», tipici nel sistema di Welfare italiano, divenuti troppo onerosi da mantenere per la finanza regionale e nazionale.

Mentre è vero che l’Italia ha superato il traguardo dell’approvazione del Qsn, altra storia sarà l’adozione di una simile strategia nelle regioni meridio-nali. Basti osservare la micidiale combinazione di problematiche sociali e le peculiari modalità di funzionamento della Pubblica amministrazione per ren-dersi conto delle insidie che si incontreranno nel percorso di attuazione.

Disuguaglianze sociali e rendimenti della Pubblica amministrazione

Le condizioni d’esistenza di alcune fasce della popolazione del Mezzogiorno sono veramente drammatiche e il fatto più grave è che le loro problematiche, invece di essere risolte, sono acuite dai rendimenti delle Pubbliche ammini-strazioni, incapaci spesso di assolvere anche i compiti più elementari, come la fornitura e l’erogazione di servizi essenziali. In Italia, la Pubblica amministra-zione, malgrado gli sforzi compiuti negli anni per riformarla, continua ad esse-re accomunata da un problema di aresse-retratezza gestionale e, in alcuni casi, po-litica, ma è nel Sud, vale la pena ribadirlo, che essa è del tutto carente nell’espletamento delle sue funzioni.

Sotto questo profilo, il Paese risulta veramente diviso in due parti. Lo sta-to di inefficienza in cui versa il setsta-tore pubblico nel Sud, il suo generale

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do, fermo restando la presenza di alcune «isole» positive, è testimoniato dalla lunghezza dei tempi di risoluzione delle controversie giudiziarie, dalla scaden-te organizzazione dei servizi ospedalieri, dalla insufficienscaden-te dotazione di strut-ture scolastiche, dalla incapacità di gestire e smaltire i rifiuti. Ed è superfluo, bisogna per onestà dirlo, continuare con il ritornello che le risorse finanziarie e umane sono inadeguate. Il Sud, certo per cause storiche, dispone di più personale pubblico del Nord e l’afflusso di finanziamenti statali ed europei, sebbene con dei picchi riguardo all’ammontare degli stanziamenti, dovuti a circostanze politiche (si pensi ai primi anni Novanta, appena a ridosso della fine dell’intervento straordinario), ha consentito, in fondo, di avere una dispo-nibilità di spesa sul piano degli investimenti pubblici di tutto rispetto, con esiti però negli impieghi classificabili al di sotto di una soglia di efficacia accettabi-le. A questo punto, c’è da chiedersi se l’analisi di un tale problema di ineffi-cienza debba spostarsi su di un versante più culturale, ovvero, vanno compre-se le ragioni per cui la gestione delle risorcompre-se pubbliche nel Sud finisce, alla fine, per richiamare – sempre, comunque e indipendentemente dalle coalizioni di governo nazionali e locali che si sono avvicendate – un concetto di ap-propriazione privatistica.

Il vero segnale di un ritorno al dualismo tra Nord e Sud del Paese è nuova-mente in questa debole capacità di regolazione da parte dello Stato del bene

collettivo e l’effetto più perverso di una tale debolezza dell’azione pubblica

nella vita associata è, in fin dei conti, la negazione stessa di alcuni diritti fonda-mentali. Una negazione che colpisce ancora più duramente soggetti sociali più vulnerabili, cittadini deboli che per riaffermare le proprie domande finiscono per alimentare, a loro volta, una distorsione nell’uso delle risorse pubbliche, spesso attraverso l’attivazione di canali clientelari (o, nei casi peggiori, facen-dosi proteggere da esponenti di gruppi criminali). Sino al punto che il persi-stere di comportamenti di tal genere innesca una spirale negativa, capace di «svuotare» il concetto di cittadinanza dei presupposti civici su cui è fondato: l’equità, la neutralità e la trasparenza dell’azione pubblica.

È in questo senso che le disuguaglianze territoriali si acuiscono, in virtù di una mancata garanzia e tutela dei diritti, che si estrinseca concretamente in un’incapacità di produzione e di erogazione di servizi pubblici ancora essen-ziali, quasi elementari, ma necessari per la riproduzione individuale, familiare e collettiva di una larga componente di popolazione meridionale. Anzi, è que-sto stato di necessità che genera, in definitiva, una profonda divisione all’inter-no della società meridionale, foriera di ulteriori forme di disuguaglianza, quel-la tra coloro che dispongono di risorse – economiche, sociali, culturali – per sfuggire a una simile situazione e coloro, invece, che ne sono privi.

Il Mezzogiorno è da sempre caratterizzato da una struttura sociale molto diversificata nei suoi caratteri costitutivi, ma la sua tipicità è tutta nella forbice che divide in termini di ricchezza e povertà la popolazione. Una forbice da misurare con cautela, superando i limiti di un approccio strettamente econo-mico; in altre parole, dando rilievo al modo in cui le differenze di natura eco-nomica si rapportano ad altre dimensioni extra-economiche, quelle che inve-stono la sfera sociale, culturale e istituzionale.

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Entrare nel merito di questioni così complicate, come un’analisi sull’inter-pretazione dei caratteri della struttura sociale del Sud, esula da un contributo che è, in verità, molto più circoscritto. Senza pretese di completezza, è però opportuno accennare alla complessità degli strati medi e alti che continuano a vivere dell’arretratezza del Mezzogiorno: ricavandone occasioni di reddito, di lavoro, di incarichi professionali e politici. Si tratta di quella fascia di borghe-sia media e alta che è la base sociale della nuova struttura di potere al Sud, anche se in tutta una serie di ambiti decisionali può essere scavalcata e, a sua volta, dominata dalle frazioni predominanti del grande capitale nazionale e in-ternazionale. Essa controlla realmente il potere a livello locale e regionale – in conto proprio o per altri – e il ruolo di questa borghesia di fatto si accresce, grazie agli scambi di diversa natura che essa riesce a intessere con la sfera pubblica. Il sistema d’interessi che si genera associa, per scelta o per necessità, una larga parte del tessuto economico meridionale e della stessa società civile. Ai nostri fini, è quasi banale limitarsi all’osservazione che si è in presenza di una ramificazione del potere politico in numerosi campi della vita sociale e alla costituzione di un élite sociale che abbraccia, a più vasto raggio, compo-nenti della classe dirigente imprenditoriale, amministrativa, sindacale, univer-sitaria. In una società complessa, è fisiologica l’aggregazione di gruppi sociali affini intorno a nuclei di interessi comuni (siano essi interessi reali, culturali, ideologici). È un modo per riconoscersi e, in fondo, per costruire e trovare un’identità collettiva. Il punto è, invece, che il confine che chiude i nuclei di appartenenza può divenire talmente invalicabile da generare una limitazione all’ingresso di altri soggetti, ed è qui che nasce una «questione sociale», nei meccanismi di esclusione, nella scarsa mobilità, nell’incapacità di riconoscere il merito e di premiarlo, tutto ciò in funzione della conservazione di privilegi e di posizioni di rendita.

Così aumenta la forbice cui si è accennato, con una fascia di popolazione che diventa sempre più «questuante», una fascia che sperimenta condizioni di vita al di sotto di quelli comunemente stabiliti come standard minimi e accet-tabili; una folla di soggetti accomunati da fenomeni di svantaggio lavorativo, economico, di status e, in una prospettiva più ampia, da una perenne difficoltà di partecipazione alla vita sociale. E si giunge, in ultima istanza, all’affermazio-ne di un modello di società dove il godimento di alcuni diritti è all’affermazio-negato a una parte dei suoi cittadini dalla loro stessa incapacità ad accedervi e/o di ricono-scerli.

La riproduzione sistematica dei caratteri di disagio genera, in sintesi, una struttura sociale che tende ad acquisire una forma estremamente statica nei suoi meccanismi di progressione, anzi, talvolta essa finisce per determinare delle dinamiche di cristallizzazione dell’esclusione in specifici segmenti di po-polazione, per la concentrazione in essi di più fenomeni negativi (disoccupa-zione, bassi livelli d’istru(disoccupa-zione, povertà, tossicodipendenza…). Queste forme estreme di disagio sono una delle cause dei problemi di convivenza collettiva che viviamo nel nostro Paese, abbassando peraltro irrimediabilmente la soglia minima della sicurezza dei cittadini. Ma di chi è la responsabilità?

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Quadro strategico nazionale e meccanismi di attuazione

Sino a che punto la strategia di sviluppo generale perseguita tramite il Qsn può contribuire al contenimento delle problematiche sociali appena evidenziate? Va detto che la scelta di rafforzare negli indirizzi programmatici gli interventi per l’inclusione sociale, per la sicurezza, la qualità della vita, per l’ambiente, va nella direzione di provare a costruire una base per l’esercizio di un più forte diritto (e dovere) di cittadinanza al Sud.

Rimane, però, il problema della «traduzione concreta» di queste opzioni strategiche sul piano dell’attuazione, attraverso la fase di realizzazione delle opere pubbliche e la riqualificazione delle strutture e dei servizi pubblici. Per questo bisogna adoperarsi sin d’ora affinché la strategia disegnata dal Qsn non divenga per il Sud un’operazione meramente di facciata, quasi di alta ingegneria istituzionale, che mette a punto nel dettaglio il «che cosa fare», mentre tralascia il «chi» e il «come» farlo. Per ridare concretezza al significato del concetto di cittadinanza nel Sud e per recuperare la sua dimensione di centralità, è ovvio che occorre fare molto di più che impegnarsi in una pro-grammazione settennale che si incardinerà sui problemi strutturali di cui si è già detto.

Il pregresso peserà, e molto, sul percorso di attuazione; eppure è un’occa-sione da non sprecare, anzi, è il motore da cui ripartire per trovare il coraggio di innovare pratiche di azione e di governo amministrativo, costruendo una combinazione adeguata tra il rafforzamento dell’azione ordinaria e quella in-dotta dall’intervento comunitario. Sono queste la ragioni per cui, al più presto possibile, vanno posti sotto stretta osservazione le modalità di gestione e i percorsi di attuazione del prossimo ciclo di programmazione. Occorre solleci-tare e preparare sul piano tecnico le amministrazioni competenti a lavorare,

con largo anticipo, in questa direzione per evitare di ripetere errori già

com-messi nel recente passato. La debolezza nelle forme di regolazione della vita associata di cui si è discusso, implica, tra le altre cose, che si agisca sui mecca-nismi di funzionamento degli enti locali, in primis sulla burocrazia regionale, tuttora contraddistinti da un approccio organizzativo tradizionale, incentrato cioè su settori di intervento rigidamente stabiliti nelle loro funzioni e compe-tenze.

Va rafforzata quella spinta al cambiamento amministrativo innescata dal progetto riformistico dei primi anni Novanta. Essa non è riuscita del tutto a consolidarsi, ma è servita in ogni caso a lasciare una traccia sotto il profilo culturale. Si è aperta una possibilità per strutturare un percorso d’azione alter-nativo nelle Pubbliche amministrazioni, oltre che a diffondere un orientamen-to e una logica manageriale nell’azione pubblica. Si è puntaorientamen-to sullo sviluppo di

una razionalità complessa nella risoluzione dei problemi collettivi da

affronta-re, la sola capace di trasformare mere politiche redistributive in politiche inte-grate. Sia qui chiaro però, anche da quanto sinora esposto, che non si è di fronte soltanto a un problema di metodo. Rimane fondamentale disporre di adeguate forme di controllo, formali e sostanziali, della spesa e della qualità degli investimenti pubblici.

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d’investimenti pubblici che diventino un volano per l’economia, sempre più provata e condizionata dalla tendenza negativa che colpisce anche il Nord del Paese. Si tratta di una priorità da inserire nell’agenda governativa, e, tuttavia, va ripreso il tema della qualità della spesa, un aspetto quest’ultimo che certa-mente non può essere percepito come secondario o marginale per il recupero della competitività del Mezzogiorno. Uno dei passi da compiere, se veramente si è intenzionati a rilanciare lo sviluppo economico delle regioni del Sud, è quello di agire sul fronte amministrativo e organizzativo, per dotare la Pubbli-ca amministrazione di risorse umane che abbiano competenze, Pubbli-capacità e com-portamenti eticamente compatibili rispetto ai ruoli e alle funzioni ricoperte. Si tratta di un passo che serve anche a recidere i legami perversi che si sono instaurati in questi anni tra politica e amministrazione. Quando cade l’argine tra esse, la commistione che si genera produce scambi impropri, clientelismo, corruzione. Soltanto recidendo tali legami si può contenere quel fenomeno molto radicato nelle Pubbliche amministrazioni, specialmente del Mezzogior-no, della ricerca di un facile consenso politico impostato su una gestione delle risorse pubbliche esercitata in maniera poco selettiva (quando non dispersiva), scongiurando il rischio di ottenere un effetto contrario al principio di riaffermazione di un diritto di cittadinanza reale, tanto stressato dallo stesso documento di programmazione.

In fin dei conti, da quanto sinora descritto, è evidente che il principale ostacolo da superare nelle problematiche dello sviluppo meridionale rimane la debole formazione di una classe dirigente politica e amministrativa adegua-ta ai compiti da svolgere, soprattutto nell’amministrazione ordinaria. Resadegua-ta perciò il problema di come adoperarsi per dare consistenza e rafforzare quel progetto di cambiamento culturale che sorregge la prossima programmazio-ne, ovvero, la scommessa che tramite i fondi comunitari si sta facendo ancora una volta sul Mezzogiorno e sulla sua classe dirigente. Una scommessa che prosegue nel tentativo di responsabilizzare soprattutto la classe politica e am-ministrativa locale, affinché si possano ricreare le condizioni, allo stato attuale del tutto mancanti, per stabilire un patto fiduciario tra quest’ultime e la citta-dinanza.

Molto tempo è trascorso da quando Putnam2 ha elaborato la tesi che

spie-gava l’importanza dei rendimenti istituzionali ai fini dello sviluppo economi-co, eppure l’accento sulla carenza di senso civico nel caso del Mezzogiorno è ancora una chiave di lettura convincente. Come si fa, però, a «produrre» capi-tale sociale è una delle questioni rimaste irrisolte, forse è anzi la sconfitta più grave subita, negli anni più recenti, sul fronte della modernizzazione del Mez-zogiorno; una questione con cui saremo ancora costretti in futuro a cimentar-ci. In definitiva, dietro ogni scelta pubblica, la domanda che mai dovrebbe mancare nell’orientare le decisioni da assumere, e, quindi, nel realizzarle, è a

che cosa essa serva, a quali bisogni della cittadinanza risponda. Smarrito il senso

di una tale domanda, resta soltanto da chiedersi a quanto ammontano le risor-se di provenienza europea o nazionale, dimenticando che il fine politico ulti-mo per cui esse vanno allocate e distribuite è quello di contribuire a generare dei processi di inclusione sociale.

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È questa la misura ultima e il concreto banco di prova dell’efficacia dei programmi pubblici. Ed è questa la responsabilità che, in fondo, il prossimo ciclo di programmazione per il 2007-2013 attribuisce al nostro agire colletti-vo, sia in qualità di amministratori sia di cittadini.

n o t e

Questo articolo rivede e sintetizza in più punti la comunicazione di apertura della seconda sessione del Convegno su «Mezzogiorno 2007-2013. Partecipazione e responsabilità alla prova del cambiamento». L’iniziativa organizzata a Napoli il 24 settembre 2007 dal ministero dello Sviluppo economico (Diparti-mento per le Politiche di coesione) in occasione dell’approvazione in sede Ue del Qsn è stata finalizzata alla presentazione ufficiale della strategia nazionale di sviluppo regionale prevista per il prossimo settennio.

1 Svimez, Rapporto 2006 sull’economia del Mezzogiorno, Bologna, Il Mulino, 2006. 2 R.D. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, trad. it. Milano, Mondadori, 1993.

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