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DISFUNZIONE TIROIDEA IN CORSO DI IMMUNOTERAPIA ONCOLOGICA: ESPERIENZA DI UN SINGOLO CENTRO E PROSPETTIVE DI RICERCA

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UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Scuola di Specializzazione in Medicina Interna

Tesi di Specializzazione:

DISFUNZIONE TIROIDEA IN CORSO DI IMMUNOTERAPIA

ONCOLOGICA: ESPERIENZA DI UN SINGOLO CENTRO E PROSPETTIVE

DI RICERCA

Relatore

Chiar.mo Prof. Alessandro Antonelli

Candidato Dott. Armando Patrizio

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Indice Abstract

1.Introduzione 5

1.1 Cytotoxic T-lymphocyte-associated antigen 4 (CTLA-4) 6

1.2 Programmed cell death protein 1 (PD-1) e Programmed death-ligand 1 (PD-L1) 7 1.3 Effetti avversi immunomediati in corso di immunoterapia 8

1.4 Incidenza e prevalenza degli irAE 10

1.5 IrAE in corso di terapia con anti-CTLA-4 10

1.6 IrAE in corso di terapia con anti PD-1/PD-L1 11

1.7 Terapia di combinazione 13

1.8 Effetti collaterali endocrinologici 14

1.9 Le disfunzioni tiroidee 16

1.10 Management delle disfunzioni endocrine e tiroidee in corso di immunoterapia oncologica 17

2. Scopo della tesi 19

3. Pazienti e metodi 19 4. Risultati 21 5. Discussione 25 6. Conclusioni 29 7. Prospettive future 29 Bibliografia

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Abstract

Gli inibitori del checkpoint immunitario (immune checkpoint inhibitors, ICI) sono in grado di convogliare i linfociti T nel combattere il cancro, ma possono anche innescare manifestazioni autoimmuni in diversi organi, generalmente indicati come eventi avversi immuno-correlati (immune-related adverse events, irAE). Tra questi, alcuni dei più comuni, interessano il sistema endocrino, e in particolare il tessuto tiroideo, dando luogo a disfunzioni della ghiandola che si possono manifestare sia in termini di ipertiroidismo che di ipotiroidismo.

Sulla base delle precedenti osservazioni, l’obiettivo di questo studio è stato quello di valutare l’impatto dell‘immunoterapia oncologica sullo sviluppo di disfunzioni tiroidee in una coorte di pazienti trattati con ICI e valutati ambulatorialmente presso il nostro centro.

Sono stati pertanto raccolti i dati relativi a 10 casi di irAE tiroidee emersi tra 24 pazienti oncologici trattati a Pisa con immunoterapia, facenti parte di una coorte di 120 pazienti inviati presso il nostro centro dal servizio di oncologia, da dicembre 2016 a marzo 2020.

Dall'analisi dei dati in nostro possesso, le irAE tiroidee rilevate hanno interessato, dopo un tempo mediano di 9 settimane, prevalentemente donne. Indipendentemente dalla forma di presentazione inziale (tiroidite con tireotossicosi, ipotiroidismo o peggioramento dell’ipotiroidismo subclinico precedente) si è instaurato uno stato di ipotiroidismo persistente che ha richiesto l’avvio o il potenziamento, se già in atto, della terapia ormonale sostitutiva con levotiroxina in tutti i pazienti. Tale reperto è stato confermato da un aumento, statisticamente significativo, dei valori mediani di TSH (ormone tireostimolante) tra la fase di pre-trattamento e quelle successive e anche da una riduzione del valore mediano del volume tiroideo stimato all’ecografia, segno del fenomeno regressivo/distruttivo della ghiandola tiroidea conseguente alla reazione autoimmunitaria.

I dati del presente studio confermano quindi che i pazienti sottoposti a terapia con ICI devono essere inquadrati e monitorati in modo preciso per disfunzioni della tiroide e la comparsa di altre patologie autoimmuni organo specifiche o sistemiche durante il corso del trattamento. In questo elaborato, inoltre, sono illustrate alcune potenziali linee di ricerca, da sviluppare in futuro per approfondire la conoscenza sui meccanismi immunomediati con cui gli inibitori del checkpoint immunitario agiscono. In particolare, vengono qui proposte pipeline che potrebbero aiutare a comprendere più a fondo la patogenesi delle forme di tiroidite autoimmune sporadiche più comuni (linfocitaria cronica e Malattia di Graves) e suggerire nuovi indirizzi terapeutici nei confronti dei tumori della tiroide.

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1. Introduzione

Le alterazioni genetiche ed epigenetiche che sono caratteristiche di tutti i tumori rappresentano una fonte diversificata di antigeni che il sistema immunitario può utilizzare per distinguere le cellule tumorali dalle loro controparti normali. Nel caso delle cellule T, l’entità e la qualità finali della risposta, che viene avviata attraverso il riconoscimento dell'antigene da parte del recettore delle cellule T (TCR), è regolato da un equilibrio tra segnali co-stimolatori e inibitori (figura 1). In condizioni fisiologiche normali, i checkpoint immunitari sono cruciali per il mantenimento della tolleranza immunologica (ovvero per la prevenzione dell'autoimmunità) e anche per proteggere i tessuti da danni collaterali quando il sistema immunitario risponde ai patogeni esogeni, come gli agenti infettivi.

Le cellule tumorali possono alterare l'espressione delle proteine del checkpoint immunitario come importante meccanismo di resistenza immunitaria. Le cellule T sono state l'obiettivo principale degli sforzi per manipolare terapeuticamente l'immunità anti-tumorale dell’ospite per 1) la loro capacità di riconoscimento selettivo dei peptidi derivati dalle proteine in tutti gli scomparti cellulari; 2) la loro capacità di riconoscere e uccidere direttamente le cellule che esprimono l'antigene (da parte delle cellule T effettrici CD8 +, noti anche come linfociti T citotossici (CTL)); e 3) la loro abilità di orchestrare diverse risposte immunitarie (da parte dei linfociti T helper CD4 +), integrando anche la risposta immunitaria adattativa e quella innata. Pertanto gli agonisti dei recettori co-stimolatori e gli antagonisti di segnali inibitori, che provocano entrambi l'amplificazione della risposta delle cellule T antigene-specifiche e che determinano il blocco dei checkpoint immunitari, sembrano incrementare la risposta immunitaria antitumorale, con un impatto clinico che sta trasformando e ha trasformato le terapie contro il cancro umano. L'immunità mediata dalle cellule T include più passaggi sequenziali che coinvolgono la selezione clonale di cellule antigene-specifiche, la loro attivazione e proliferazione nei tessuti linfoidi secondari, il loro traffico verso siti di antigene e infiammazione, l'esecuzione di effetti diretti e la fornitura di aiuto (attraverso citochine e ligandi di membrana) per la moltitudine di cellule immunitarie effettrici. Ciascuno di questi passaggi è regolato da un bilanciamento di segnali stimolatori e inibitori che ottimizzano la risposta finale. Come regola generale, i recettori co-stimolatori e i ligandi che regolano l'attivazione delle cellule T non sono necessariamente sovraespressi nei tumori rispetto ai tessuti normali, mentre i ligandi inibitori e i loro recettori che riducono le funzioni delle cellule T sono maggiormente espresse sulle cellule tumorali e su quelle non trasformate che però fanno parte del

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microambiente tumorale. Pertanto, a differenza della maggior parte degli anticorpi attualmente approvati per la terapia del cancro, gli anticorpi che bloccano i checkpoint immunitari non prendono di mira direttamente le cellule tumorali, ma sono diretti contro i recettori linfocitari inibitori o i loro ligandi, al fine di potenziare l'attività antitumorale endogena (figura 1).

Figura. 1 Sinapsi immunologica e modulatori dei checkpoint immunitari. Anti-CTLA4 (come l’ipilimumab)

aumentano l’attivazione delle cellule T legando e bloccando il recettore CTLA-4. Gli anti-PD1 (come il nivolumab) e gli anti-PD-L1 (come il atezolimumab) impediscono ai ligandi inibitori espressi sulle cellule tumorali di interagire con i rispettivi recettori linfocitari [1].

Comprendere i meccanismi d'azione degli inibitori di singoli checkpoint immunitari, è fondamentale per apprezzare la diversità delle funzioni immunitarie che essi regolano. Ad esempio, i due recettori del checkpoint immunitario che sono stati studiati più attivamente per l’immunoterapia clinica contro il cancro, il Cytotoxic T-lymphocyte-associated antigen 4 (CTLA4; anche noto come CD152) e la Programmed cell death protein 1 (PD1; nota anche come CD279) che sono entrambi recettori con funzione inibitoria - regolano le risposte immunitarie a diversi livelli e con meccanismi diversi. L'attività degli anticorpi, che bloccano uno di questi recettori, potenzia l'immunità antitumorale a più livelli e persino strategie di combinazione possono essere progettate in modo intelligente, guidate da considerazioni meccanicistiche e precliniche [2].

1.1 Cytotoxic T-lymphocyte-associated antigen 4 (CTLA-4)

CTLA-4 è espresso principalmente sui linfociti T, con alcuni gradi minore di espressione su altre cellule immunitarie inclusi i linfociti B e i fibroblasti. Nella fase di priming della presentazione dell'antigene e dopo l'impegno del complesso TCR-peptide, il CTLA-4 presente in superficie agisce come un recettore regolatore negativo delle cellule T. Nei linfociti T naïve, CTLA-4 è espresso ad un livello molto basso ed è rapidamente sovraregolato con l'attivazione del TCR. L’espressione di CTLA-4 è variabile tra i vari sottotipi di cellule T ed è regolato dal

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fattore di trascrizione indotto da calcio/calcineurina NFATc1 (fattore nucleare delle cellule T attivate). Sia le cellule T-helper CD4+ che effettrici CD8+ esprimono il CTLA-4 quando attivate; tuttavia, il livello di espressione è notevolmente più alto nelle cellule T CD4. Il trasporto sulla superficie cellulare (mediante meccanismo di esocitosi ed endocitosi) del CTLA-4 è strettamente regolato da meccanismi complessi non completamente chiari, alcuni di loro indipendenti dall’attivazione degli stessi linfociti T. CTLA-4 è omologo a CD28, il recettore chiave per la co-stimolazione delle cellule T, e quindi compete per gli stessi ligandi, CD80 e CD86. Tuttavia, CTLA-4 ha un'affinità maggiore per entrambi i ligandi rispetto al CD28, con conseguente interferenza con la sinapsi immunitaria e inattivazione delle cellule T. Gli anticorpi monoclonali terapeutici anti-CTLA-4 hanno mostrato una notevole attività clinica nel melanoma avanzato. Oltre al previsto meccanismo di interruzione dell'attivazione del CD28 sulle cellule T, gli anticorpi anti-CTLA-4 sembrano inoltre promuovere l'esaurimento delle Tregs nel microambiente tumorale. Questo effetto sembra essere mediato da cellule innate nel tumore che esprimono alti livelli di FcgRIV [3].

1.2 Programmed cell death protein 1 (PD-1) e Programmed death-ligand 1 (PD-L1)

PD-1 è un recettore co-inibitorio espresso su diverse cellule immunitarie. PD-1 è altamente espresso sulle cellule T attivate, i linfociti B, e le cellule natural killer (NK). Nella fase effettrice della risposta immunitaria, l'espressione di PD-1 è indotta dall'impegno dell'antigene TCR e da comuni citochine come l'interleuchina (IL) -2, IL-7, IL15 e IL-21. PD-1 ha due ligandi noti, PD-L1 e PD-L2, entrambi espressi a livelli relativamente bassi sulle cellule dei tessuti sani. L'espressione periferica di PD-L1 e PD-L2 sembra contribuire alla tolleranza immunitaria naturale che impedisce risposte autoimmuni e danni ai tessuti dopo una prolungata risposta infiammatoria. PD-L2 ha una maggiore affinità per il Recettore PD-1 rispetto a PD-L1, pertanto, agli stessi livelli di espressione, supera PD-L1 per il legame con PD-1. PD-L2 è comunque espresso a livelli più bassi rispetto a PD-L1; tuttavia, in presenza di segnali Th2, l'espressione di PD-L2 è aumentata. Il ruolo preciso di PD-L2 nell'immunità del cancro, nella tolleranza e nel blocco del recettore PD-1 non è ancora chiaro. PD-1, attivato dai suoi ligandi, porta all'esaurimento delle cellule T effettrici e alla loro apoptosi. Inoltre, il legame del PD-1 con PD-L1 sui tumori può rendere le cellule tumorali resistenti alla lisi indotta dai linfociti T citotossici (CTL) e all’apoptosi indotta da sistema Fas. L'espressione sovraregolata di PD-L1 è stata documentata in vari tumori, compreso il melanoma, il carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC), carcinoma mammario e carcinoma della testa e del collo a cellule squamose.

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In particolare, diversi studi dimostrano che l'espressione tumorale di PD-L1 è associata a un maggiore successo nell’utilizzo dei bloccanti dell'asse PD-1, in particolare nel melanoma e nel NSCLC non squamoso. L'attivazione di vie oncogeniche chiave, tra cui la fosfoinositide 3-chinasi (PI3K) e la protein-3-chinasi attivata da mitogeno (MAPK), può aumentare l'espressione di PD-L1 in vitro. Mutazioni attivanti delle tirosin-chinasi come EGFR e BRAF e la perdita dell'omologo della fosfatasi e della tensina sono anch’esse associate all'espressione di PD-L1 attraverso l’attivazione del via del segnale di MAPK. Inoltre, PD-L1 è potentemente indotto da segnali Th1 e la maggior parte dei tumori aumenta l’espressione di PD-L1 in risposta ad un ambiente pro-infiammatorio o alla presenza di una pressione immunitaria antitumorale, tramite l’azione di citochine pro-infiammatorie, tra cui l'interferone gamma (IFN-gamma) e l'IL-4 attraverso STAT1 e il fattore regolatore-1 IFN [3].

Figura 2. Anticorpi bloccanti i check-point immunitari approvati dalla Food And Drug Administration (FDA)

[4].

1.3 Effetti avversi immunomediati in corso di immunoterapia

La farmacodinamica e la farmacocinetica degli “immune checkpoint inhibitors” (ICI) differiscono notevolmente da quelle della chemioterapia tradizionale. Allo stesso modo, le immunoterapie dirette contro il CTLA-4 e il PD-1/PD-L1 si associano a forme di tossicità distinte da quelle tipiche delle terapie antitumorali convenzionali, sebbene la loro presentazione

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a volte possa essere simile. Mentre le tradizionali chemioterapie citotossiche spesso esordiscono in modo acuto con effetti emetici e mielosoppressivi, gli “immune-related adverse

events” (irAE) tendono ad avere un inizio relativamente subdolo ed essere di natura

infiammatoria o autoimmune. Sebbene la fisiopatologia delle irAE correlate all'ICI non sia ancora del tutto chiarita, la conoscenza dei meccanismi alla base del funzionamento dei checkpoint immunitari in alcune malattie autoimmuni ci può fornire alcuni indizi. Molte malattie autoimmuni sono infatti il risultato del fallimento della tolleranza dei linfociti T e di un’incontrollata attivazione delle cellule effettrici del sistema immunitario. Alterazioni nei geni che codificano per le proteine del checkpoint immunitario sono state individuate in alcune malattie autoimmuni. I polimorfismi di CTLA-4 e PD-1 sono stati infatti descritti in alcune delle più comuni malattie autoimmune che colpiscono l’organismo umano tra cui celiachia, diabete mellito, lupus, artrite reumatoide e le malattie autoimmuni della tiroide.

Lo spettro degli irAE associati al blocco dei checkpoint immunitari corrisponde ai fenotipi osservati a seguito di mutazioni nei geni che codificano per CTLA-4 e PD-1 e presenta una considerevole sovrapposizione tra i vari ICI.

La precisa fisiopatologia degli irAE mediate da ICI non è ancora conosciuta. La ricerca traslazionale fornisce alcune prove che gli irAE possono derivare da una combinazione di cellule T autoreattive, autoanticorpi e/o citochine pro-infiammatorie (p. es., interleuchina [IL] -17). Un potenziale meccanismo potrebbe essere quello dell'attività delle cellule T diretta contro antigeni presenti sia nelle cellule tumorali che in quelle dei tessuti sani. La risposta infiammatoria che si sviluppa nei tessuti sani deriverebbe da livelli elevati di citochine infiammatorie rilasciate per effetto a valle dell'attivazione dei linfociti T.

Inoltre, il legame diretto degli anticorpi contro i bersagli del checkpoint immunitario espressi nei tessuti normali (es. l'espressione di CTLA nell'ipofisi) potrebbe causare una risposta infiammatoria mediata dal complemento. Infine, l'immunoterapia potrebbe contribuire ad aumentare i livelli preesistenti di anticorpi autoreattivi.

La modalità d’esordio degli irAE, precoce o tardiva, è verosimilmente dovuta a distinti meccanismi che devono essere ancora compresi. Ad esempio, sembra che le forme ad esordio precoce siano caratterizzate da un'infiammazione epiteliale generalizzata e si manifestano con eruzione cutanea, colite e polmonite. Questa tipologia di irAE tipicamente vede il reclutamento di neutrofili nei tessuti sani. Gli irAE ad insorgenza tardiva, che sono meno comuni, possono includere eventi neurologici ed endocrinologici, come l’ipofisite, e tendono ad essere più localizzati, con reazioni organo-specifiche. C’è tuttavia ancora molto da capire circa i meccanismi che sono alla base delle irAE associate a ICI specifici [5].

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1.4 Incidenza e prevalenza degli irAE

L'incidenza e la prevalenza della tossicità correlata all'uso di ICI non sono ancora completamente ben definite; molti dei dati esistenti si basano sugli studi basati sull’impiego di ipilimumab, pembrolizumab e nivolumab. Dati sugli irAE scatenati dagli agenti di più recente introduzione sono ancora in fase di raccolta e analisi. A causa della natura degli irAE e della eterogeneità delle segnalazioni, è probabile inoltre che i tassi riportati sottostimino l'effettiva incidenza di questi eventi. L'incidenza riportata di irAE di qualsiasi grado associati al trattamento con ICI in monoterapia varia ampiamente tra gli agenti e gli studi considerati, andando da circa il 15% al 90%. Gli irAE gravi che richiedono immunosoppressione, la sospensione o l'interruzione del trattamento si verificano tra lo 0,5% e il 13% dei pazienti trattati in monoterapia. Una recente revisione sistematica dei dati raccolti da diversi studi, ha riscontrato che il 43% dei pazienti ha dovuto interrompere il trattamento con la terapia di combinazione (nivolumab/ipilimumab) a causa di eventi avversi, soprattutto di tipo gastrointestinale (GI) [6].

1.5 IrAE in corso di terapia con anti-CTLA-4

Una metanalisi del 2015 di Bertrand et al [6] ha esaminato i dati raccolti su 1.265 pazienti trattati con anticorpi anti-CTLA-4 (ipilimumab [n=1,132] e tremelimumab [n=133]) distribuiti in 22 studi clinici, riportando un'incidenza complessiva del 72% per gli irAE di qualsiasi grado e del 24% per gli irAE di alto grado. Gli eventi avversi più comunemente osservati erano di tipo dermatologico e gastrointestinale, seguiti dagli eventi endocrini ed epatici. Uno studio randomizzato di fase III in doppio cieco su pazienti affetti da melanoma non resecabile metastatico, ha messo in evidenza un effetto dose-dipendente degli eventi avversi correlati al trattamento con ipilimumab mettendo a confronto i pazienti che ricevevano il dosaggio di 3 mg/kg (n=362) con quelli trattati con la dose di 10 mg/kg (n=364). Gli irAE di grado elevato hanno avuto un’incidenza del 18% e di 30% rispettivamente nei gruppi di trattamento da 3 mg/kg e 10 mg/kg, con 2 decessi dovuti alla terapia nel primo gruppo e 4 nel secondo. Gli eventi avversi di grado elevato più comuni, tra cui diarrea, colite, aumento degli enzimi epatici e ipofisite, sono stati tutti più frequentemente riscontrati nei pazienti trattati con il dosaggio più alto di ipilimumab [6]. L’utilizzo come terapia adiuvante di ipilimumab (10 mg/kg) nei pazienti affetti da melanoma resecato di stadio III sembra essere associato ad una maggiore incidenza di eventi avversi. I dati di fase III raccolti sui pazienti che ricevono ipilimumab in terapia

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adiuvante (n=475), mostrano un'incidenza di irAE di alto grado del 41,6% con 5 decessi (1,1%) [7].

1.6 IrAE in corso di terapia con anti PD-1/PD-L1

Per gli inibitori PD-1/PD-L1, l'incidenza complessiva riportata di irAE di qualsiasi grado era fino al 30% nei pazienti degli studi di fase III. Ad oggi, l'incidenza di eventi avversi di alto grado associati all’utilizzo degli inibitori del PD-1/PD-L1 sembra essere lievemente meno dose-dipendente rispetto a ipilimumab e variare in base alla sede della malattia. In una recente meta-analisi sugli agenti anti-PD-1/PD-L1, gli irAE di qualsiasi grado e quelli di grado grave si sono verificati in circa il 26,8% e 6,1% dei pazienti, rispettivamente. I tassi di incidenza degli irAE di alto grado erano simili tra pembrolizumab, nivolumab e atezolizumab, compreso tra 5% e 8%. De Velasco et al. [8] hanno recentemente descritto l'incidenza dei più comuni irAE associate a ICI in una metanalisi eseguita su 21 studi randomizzati di fase II/III condotti dal 1996 al 2016. Gli studi includevano un totale di 6528 pazienti che hanno ricevuto monoterapia (atezolizumab, n=751; ipilimumab, n=721; nivolumab, n=1534; pembrolizumab, n=1522) e 4.926 pazienti come controllo trattati con placebo o terapia standard (chemioterapia o farmaci biologico). A causa di un’eterogeneità nel riconoscimento e nel report degli irAE meno comuni, questa metanalisi si è limitata ad analizzare i 5 tipi di irAE più comuni e ben documentati: colite, tossicità epatica (aumento dell'aspartato transaminasi [AST]), eruzione cutanea, ipotiroidismo e polmonite. Se confrontati con i pazienti dei gruppi di controllo, quelli che ricevevano ICI risultavano avere un maggior rischio di sviluppare, a qualsiasi grado di severità, una colite immuno-correlata, un aumento dell'AST, un’eruzione cutanea, un ipotiroidismo o una polmonite.

Tra i pazienti trattati con gli ICI, l'incidenza di un irAE di grado 3/4 era del 1,5% per la colite, 1,5% per tossicità epatica, 1,1% per eruzione cutanea, 0,3% per ipotiroidismo e 1,1% per polmonite. Colite ed eruzione cutanea di grado severo erano significativamente più comuni tra i pazienti trattati con ipilimumab rispetto a quelli che avevano ricevuto l'inibitore PD-1/PD-L1. In una revisione separata dei dati, Kumar et al. [9] hanno anche confrontato il rischio di sviluppare alcune irAE con le diverse classi di ICI. Sebbene l’ipilimumab fosse associato a tassi più elevati di colite, prurito, eruzione cutanea e ipofisite, gli anti PD-1/PD-L1 hanno determinato un rischio più elevato di sviluppare vitiligine (tipicamente osservato nei pazienti con melanoma), disfunzione tiroidea, epatotossicità e polmonite. De Velasco et al. hanno inoltre confrontato il rischio di sviluppare irAE specifici in base al tipo di tumore per cui veniva impostato il trattamento (melanoma, polmone e altro), senza riportare differenze significative

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per tutti i gradi di irAE. Anche Khoja et al. [10] hanno condotto una revisione sistematica degli irAE sulla base della classe ICI somministrata e del tipo di tumore per cui veniva iniziata la terapia, analizzando i dati raccolti su 6869 pazienti di 48 studi eseguiti tra il 2003 e il 2015, con probabile notevole sovrapposizione delle popolazioni di pazienti analizzati già da De Velasco et al. Sebbene la maggior parte dei risultati fossero simili, quelli di Khoja et al. si sono leggermente discostati quando si andava ad analizzare l'incidenza di irAE sulla base dell'istologia del tumore nei pazienti trattati con inibitori del PD-1. È emerso infatti che i pazienti con melanoma hanno sperimentato una maggiore incidenza di IrAE gastrointestinali e cutanei ma una minore incidenza di polmonite rispetto ai pazienti con carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC). I pazienti con melanoma hanno sviluppato più comunemente anche artriti e mialgie rispetto a quelli affetti da carcinoma a cellule renali (RCC), che invece hanno avuto una maggiore frequenza di dispnea e polmonite. Tuttavia, tali comparazioni sulla base dei diversi tipi di malattia sono state eseguite senza considerare le differenze tra i pazienti in termini di fattori di rischio, come tabagismo ed età. Non è stato possibile raccogliere dati di confronto simili per gli anti-CTLA-4 in quanto la maggior parte degli studi disponibili riguardavano pazienti con melanoma. I dati di sicurezza per gli inibitori del PD-L1 sono ancora in fase di raccolta e analisi. Il confronto dell'incidenza di irAE per PD-1 rispetto agli inibitori del PD-L1 è stato valutato principalmente negli studi pubblicati sui pazienti con NSCLC. Una metanalisi del 2018 ha confrontato i dati su profili di tossicità degli inibitori di PD-1 e PD-L1, su pazienti provenienti da 23 studi svoltisi tra il 2013 e il 2016 (PD-1: n=3,284; PD-L1: n=2,460) . Con una certa significatività, gli irAE sono più stati comuni con anti-PD-1 rispetto agli anti-PDL1 (16% vs 11%; P=.07). Tuttavia, l'incidenza delle irAE gravi non differiva significativamente tra gli inibitori di PD-L1 e PD-1 (5% vs 3%; P=.4). La polmonite ha avuto un’incidenza due volte superiore nei pazienti trattati con gli inibitori del PD-1 (4% vs 2%; P=.01) così come è stato più frequente con questo farmaco l'ipotiroidismo (6,7% vs 4,2%; P=.07) [10]. Risultati simili sono stati riportati in una metanalisi del 2017 che ha analizzato la differenza di incidenza di polmonite tra i pazienti trattati con inibitori del PD-1 (12 studi, n=3232) e quelli tratti con inibitori del PD-L1 (7 studi, n=1806) [12]. Tra il gruppo di trattamento con anti-PD-1 e quello con anti-PD-L1, l'incidenza, rispettivamente, di polmonite di qualsiasi grado è stata del 3,6% contro l'1,3% (P=.001) mentre quella per di polmonite di alto grado del 1,1% contro 0,4% (P=.02) [5].

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1.7 Terapia di combinazione

Numerosi studi in corso stanno esaminando i regimi che includono ICI somministrati in combinazione con un altro ICI, con la chemioterapia o con un altro agente preciso. Sebbene i regimi in combinazione offrono potenzialmente una maggiore efficacia, la tossicità generale osservata con la combinazione degli ICI è maggiore di quella registrata con le monoterapie. Il blocco combinato PD-1 e CTLA-4, sostanzialmente, innesca più irAE rispetto agli agenti anti-PD-1 da soli, con eventi di alto grado riportati dal 55% al 60% degli individui trattati rispetto al 10% al 20% dei soggetti che ricevono una monoterapia con anti-PD-1 [13-15] Alcuni studi quindi hanno iniziato a valutare fino a che punto le terapie in combinazione sono sicure e tollerabili dal punto di vista clinico, e se pertanto ci siano limiti per il loro utilizzo come terapia antitumorale.

L'unico regime con ICI in combinazione attualmente approvato dalla FDA è quello basato sull’utilizzo di nivolumab più ipilimumab per il trattamento del melanoma avanzato, RCC o tumori instabili da microsatelliti. Tale combinazione ha dato luogo a tassi di sopravvivenza migliori rispetto all’ipilimumab in monoterapia nel melanoma avanzato. Nello studio di fase III CheckMate 067, dove si confrontava la terapia con nivolumab più ipilimumab rispetto alla monoterapia con ipilimumab o nivolumab (n=945, randomizzato in un rapporto 1: 1: 1), gli eventi avversi correlati al trattamento si sono verificati nel 96% dei pazienti che ricevevano la terapia di associazione e nell'86% di quelli trattati con monoterapia. Sebbene non si siano riscontrate forme di tossicità esclusiva nei pazienti che ricevevano ICI in combinazione, l'incidenza di irAE di alto grado (59%) è stata più del doppio rispetto a quella rilevata per nivolumab (21%) e ipilimumab (28%) in monoterapia. Le percentuali di pazienti che hanno interrotto il trattamento a causa di eventi avversi di qualsiasi grado sono state del 39%, 12% e 16% per i pazienti che ricevono la terapia di associazione, nivolumab e ipilimumab, rispettivamente. Risultati preliminari suggeriscono che l'interruzione precoce a causa di irAE (dopo una mediana di 3 dosi) potrebbe non compromettere il beneficio in termini di sopravvivenza, come evidenziato da un tasso di sopravvivenza a 3 anni del 67% [15].

Il trial KEYNOTE-029 ha iniziato a valutare se pembrolizumab, a dose standard, somministrato in combinazione con ipilimumab, a dose ridotta, risulti più tollerabile della combinazione dei due farmaci a dose piena [16]. Regimi a base di nivolumab a dosi modificate in associazione a ipilimumab, sono attualmente in fase di studio per NSCLC e carcinoma polmonare a piccole cellule, 54,55. Nivolumab in associazione a ipilimumab è già raccomandato nelle Linee guida del NCCN per il carcinoma polmonare a piccole cellule.

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Dati di sicurezza sulla terapia di combinazione con ICI e altri agenti mirati aggiuntivi o chemioterapici, sono già stati pubblicati nelle fasi iniziali di alcuni studi che stanno valutando tale tipologia di associazione. Anche il blocco del checkpoint immunitario in combinazione con la radioterapia è attualmente oggetto di studio [5].

1.8 Effetti collaterali endocrinologici

Le disfunzioni endocrine sono tra le più importanti irAE segnalate negli studi clinici con ICI e includono ipotiroidismo, ipertiroidismo, ipofisite, insufficienza surrenalica primaria (primary adrenal insufficiency, PAI) e diabete insulino-dipendente (insulin-deficient diabetes, IDD) [17]. Data l’aspecificità dei sintomi legati alla tossicità endocrina, simili a quelli causati da altre malattie acute intercorrenti o dalla stessa patologia neoplastica sottostante, la diagnosi delle irAE endocrinologiche può essere difficoltosa. Inoltre, i clinici devono essere in grado di distinguere se il disturbo endocrino è di origine centrale (cioè ipofisaria) o primario (es. surrenale o tiroide) in modo da impostare una corretta gestione. A causa di questa potenziale complessità, gli specialisti di endocrinologia svolgono un ruolo importante nella gestione di queste irAE, in particolare per i casi più gravi e complessi. In confronto ad altre irAE, le endocrinopatie tendono ad essere irreversibili. Ad esempio, il recupero dell'asse ipofisi-tiroideo avviene solo fino al 50% dei pazienti [18] e quello dell’asse ipofisi-gonadico nel 50-60% [17-19], mentre pochi casi di recupero sono stati descritti per l’asse corticotropo [19]. Le ghiandole endocrine rilasciano ormoni che influenzano la funzione di cellule distribuite nei diversi tessuti dell’organismo. Poiché l'attività del sistema endocrino si espleta tramite circuiti di feedback, l'infiammazione di una singola ghiandola provoca la propria disfunzione e quella degli organi bersaglio del suo prodotto ormonale [1,21].

L'ipofisite è particolarmente frequente in corso di terapia con ipilimumab, mentre la disfunzione tiroidea si osserva più comunemente con gli inibitori PD-1/PD-L1.

Altri tipi di irAE endocrini, come l’insufficienza surrenalica primitiva e il diabete di tipo I sono notevolmente più rari. Come per le altre tipologie di irAE, la terapia di combinazione con ICI presenta una più alta incidenza di endocrinopatie. L’esordio degli irAE avviene di solito dopo 7 settimane dall’inizio della terapia con ipilimumab e dopo 10 settimane nel caso del nivolumab [22]. La mediana del tempo d'insorgenza di un'endocrinopatia di grado da moderato a grave varia tra 1,75 e 5 mesi per ipilimumab, da 1,4 a 4,9 mesi per un antagonista del PD-1.

Una metanalisi del 2018 eseguita su 38 studi randomizzati comprendenti un totale di 7551 pazienti trattati in monoterapia con un inibitore di PD-1, un inibitore di PD-L1, un inibitore del

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CTLA-4, o con la combinazione anti-PD-1/CTLA-4, ha esaminato l'incidenza degli irAE endocrinologici [17]. L'incidenza stimata di ipotiroidismo è stata del 3,8% con ipilimumab e fino al 13,2% per la terapia di combinazione. Rispetto a ipilimumab, gli inibitori del PD-1 erano associati a un rischio significativamente maggiore di ipotiroidismo (OR, 1,89; 95% CI, 1,17-3,05; P=.03). È interessante notare che il rischio dell'ipertiroidismo è stato maggiore con gli anti-PD-1 rispetto agli anti-PD-L1 (OR, 5,36; IC 95%, 2,04-14,08; P=.002). Complessivamente, l'incidenza osservata di ipofisite è stata del 6,4% per la terapia di combinazione, 3,2% per gli inibitori CTLA-4, 0,4% per inibitori del PD-1 e inferiore allo 0,1% per gli inibitori di PD-L1. Rispetto alla monoterapia con anti-PD-1, l'ipofisite è risultata molto più frequente in corso di monoterapia con ipilimumab (OR, 0,29; IC 95%, 0,18-0,49; P=.001) o della terapia di combinazione (OR, 2,2; IC 95%, 1,39-3,60; P=.001). La natura più rara dell'insufficienza surrenalica primaria e del diabete ha precluso il confronto statistico dell'incidenza di questi irAE endocrini tra le diverse tipologie di ICI. Tuttavia, un’analisi retrospettiva eseguita su di una popolazione di 2960 pazienti che hanno ricevuto terapia con ICI per 6 anni presso 2 centri medici accademici, ha identificato 27 casi di diabete insulino-dipendente di nuova insorgenza (prevalenza dello 0,9%). Tutti i pazienti che hanno sviluppato il diabete o che sono andati incontro al peggioramento di un diabete preesistente (diventando cioè insulino-dipendente), avevano ricevuto una terapia con anti-PD-1 o anti-PD-L1. Il tempo mediano d'insorgenza è stato di 20 settimane dopo il primo ciclo ICI; il 59% si è manifestato con chetoacidosi, il 42% con una pancreatite e il 40% ha avuto la positivizzazione di uno o più autoanticorpi. Nel 70% dei casi erano presenti inoltre ulteriori irAE simultanei, molti dei quali sempre di tipo endocrini. Il 76% degli individui che hanno sviluppato il diabete correlato all'ICI avevano il genotipo HLA-DR4, con una frequenza significativamente più alta rispetto a quello riportato per la popolazione generale, suggerendo una potenziale associazione tra l’allele e lo sviluppo dell’irAE.

La tossicità endocrina indotta dalla terapia con ICI spesso si traduce in un danno permanente degli organi coinvolti tale da richiedere una terapia ormonale sostitutiva per tutta la vita. Ad oggi, i dati suggeriscono che la terapia con corticosteroidi ad alte dosi non sia in grado, nella maggior parte dei casi, di ridurre il danno a carico dei tessuti endocrini colpiti dalla reazione immuno-mediata; tuttavia, la terapia steroidea può aiutare a mitigare i sintomi dovuti all’infiammazione acuta che si sviluppano nel contesto di un’ipofisite, un’adrenalite o, in alcuni casi, di una tireotossicosi. Gli esperti generalmente sconsigliano la terapia con corticosteroidi per la gestione dell'ipotiroidismo o del diabete di tipo I [5].

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1.9 Le disfunzioni tiroidee

In una metanalisi del 2018 che ha compreso 38 studi clinici, con un totale di 7551 pazienti arruolati eseguiti per valutare l’efficacia degli ICI nel trattamento di alcuni tumori solidi, sono stati osservati 472 casi di ipotiroidismo di qualsiasi grado di severità. Di questi solo uno studio non ha riportato il grado degli eventi, mentre, complessivamente, sono stati registrati solo 9 casi di ipotiroidismo di grado 3 o superiore (0,12% di pazienti). L'incidenza complessiva di ipotiroidismo è stata stimata essere del 6,6% (IC 95%, 5,5% -7,8%). Inoltre è stata osservata una differenza statisticamente significativa tra le diverse classi e i regimi di ICI (P <.001). L'incidenza prevista di ipotiroidismo variava dal 3,8% (95% CI, 1,9% -7,8%) con ipilimumab al 13,2% (95% CI, 6,9% -23,8%) con la terapia di combinazione [17].

I pazienti che hanno ricevuto sia gli inibitori del PD-1 (odds ratio [OR], 1,89; IC al 95%, 1,17-3,05; aggiustato P=.03), che il regime di combinazione (OR, 3,81; IC 95%, 2,10-6,91;

P <.001 non aggiustato) hanno avuto una probabilità significativamente maggiore di sviluppare l’ipotiroidismo di qualsiasi grado rispetto a quelli trattati ipilimumab in monoterapia. La differenza nel rischio di ipotiroidismo tra l’utilizzo di anti-PD-1 e anti-PD-L1 non ha raggiunto la significatività statistica (OR, 0,53; IC al 95%, 0,29-0,96; P aggiustato =.11) e la probabilità di sviluppare l'ipotiroidismo non era significativamente diversa tra i pazienti trattati con l'inibitore PD-L1 e quelli trattati con ipilimumab. Inoltre, non è stata osservata alcuna differenza sostanziale nei tassi di ipotiroidismo tra i diversi inibitori del PD-1 (nivolumab, 6,5% vs pembrolizumab, 7,9%) o tra i diversi dosaggi di pembrolizumab (7,6% con <10 mg / kg vs 8,2% con 10 mg / kg). Anche il tipo di tumore, per cui veniva impostata la terapia con ICI, non sembra aver influenzato in modo statisticamente significativo l'incidenza di ipotiroidismo in corso della terapia con inibitori PD-1 [17].

Nella stessa metanalisi [17] sono stati anche analizzati i casi di ipertitoridismo, con un solo studio che non ha riportato eventi. Tra i 7531 pazienti dei 37 studi considerati, sono stati riportati 194 casi di ipertiroidismo di qualsiasi grado, con solo 7 casi segnalati di grado 3 o superiore (0,10%).

L'incidenza complessiva di l'ipertiroidismo pertanto è stata stimata essere del 2,9% (IC 95%, 2,4% -3,7%), con una differenza statisticamente significativa tra le diverse classi di immunoterapici (P <.001) L'incidenza d'ipertiroidismo infatti è andata dallo 0,6% (95% CI, 0,2% -1,8%) con gli inibitori di PD-L1 all'8,0% (95% CI,4,1% -15,3%) registrato con la terapia di associazione. I pazienti trattati con un regime di combinazione hanno avuto una probabilità significativamente maggiore di sviluppare ipertiroidismo di qualsiasi grado rispetto a quelli

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ipertiroidismo è risultato maggiore in modo statisticamente significativo per gli inibitori del PD-1 rispetto a quelli del PD-L1 (OR, 5,36; IC 95%, 2,04-14,08; P aggiustato =.002), mentre tale differenza non è stata osservata tra i pazienti trattati con gli anti- PD-L1 e quelli con ipilimumab.

Per quanto riguarda gli inibitori del PD-1, è stata inoltre osservata una differenza significativa nei tassi di ipertiroidismo tra nivolumab e pembrolizumab (rispettivamente, 2,5% [95% CI, 1,3% - 4,6%] vs 3,8% [95% CI, 2,1% -6,9%], P =.04), ma non tra pembrolizumab a basso e alto dosaggio che potrebbe spiegare la differenza tra i 2 agenti. Come per l’ipotiroidismo, anche in questo caso la tipologia di tumore non è risultata significativamente associata all'incidenza di ipertiroidismo in corso di terapia con anti-PD-1.

1.10 Management delle disfunzioni endocrine e tiroidee in corso di immunoterapia oncologica

La 'American Society of Clinical Oncology (ASCO) e National Comprehensive Cancer Network (NCCN) hanno pubblicato le linee guida sulla gestione clinica delle tossicità da ICI. I segni e i sintomi clinici variano a seconda dell'organo colpito. I disturbi della tiroide sono generalmente asintomatici e vengono individuati tramite gli esami di laboratorio eseguiti di routine in questi pazienti. Dolore in regione cervicale e altri sintomi di ipertiroidismo, quali tachicardia e palpitazioni, possono essere presenti in caso di tiroidite [24, 25]. Le endocrinopatie possono spesso essere gestite dall’oncologo di riferimento. Nei casi più gravi (cioè in presenza di diabete insulino-dipendente, insufficienza surrenalica o disturbi ipofisite) dovrebbe essere richiesta una consulenza endocrinologica [34]. In caso di anomalie del TSH asintomatiche, se il TSH è <0,5 x limite inferiore della norma (LLN) o > 2 x superiore limite di normalità (ULN), dovrebbero essere dosati i livelli di FT4. Secondo la presentazione clinica, potrebbe essere necessario valutare il livello di cortisolo oltre a FT4 e T3. La terapia sostitutiva con ormoni tiroidei viene avviata quando i livelli di FT4 scendono al di sotto del range di normalità e può essere modificato secondo necessità, partendo in genere con 50 mcg di levotiroxina, previa esclusione di un’insufficienza surrenalica concomitante mediante dosaggio a livello di cortisolo [25]. Durante il trattamento con ICI, la funzione tiroidea deve essere valutata all’inizio del trattamento e successivamente ogni 2 mesi [26,27]. La terapia con ICI può essere proseguita per casi di ipertiroidismo di grado 1-2. Se l'ipertiroidismo è sintomatico (grado 3), l'ICI dovrebbe essere interrotto e iniziata terapia con corticosteroidi (prednisolone orale 1–2 mg/kg/die) [28]. In alcuni casi, possono essere presi in considerazione anche i farmaci antitiroidei (propiltiouracile, metimazolo o carbimazolo). In caso di ipertiroidismo grave (grado

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4), la terapia con ICI dovrebbe essere sospesa e iniziato metilprednisolone per via endovenosa (1-2 mg/kg/die per 3 giorni), per poi passare a formulazioni orali (1-2 mg/kg/die). Il metilprednisolone viene quindi scalato fino a sospensione nell’arco di 4-6 settimane [28]. I beta-bloccanti possono essere usati per trattare sintomi di ipertiroidismo, come tachicardia e tremore. Per la diagnosi differenziale sulla patogenesi dell'ipertiroidismo, va eseguita l'ecografia della tiroide con valutazione della vascolarizzazione: infatti, l'ipervascolarizzazione è associata ad un quadro suggestivo di malattia di Graves, mentre ipovascolarizzazione a quello di una tiroidite distruttiva [26]. Durante il trattamento dell’ipertiroidismo, la funzionalità tiroidea deve essere monitorata regolarmente per consentire la diagnosi precoce dell'eventuale ipotiroidismo che si sviluppa nelle fasi successive di una tiroidite distruttiva indotta dal ICI [1,5,24].

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2. Scopo dello studio

Sulla base delle precedenti osservazioni, l’obiettivo di questo studio è quello di valutare l’impatto dell‘immunoterapia oncologica sullo sviluppo di disfunzioni tiroidee in una coorte di pazienti in immunoterapia oncologica valutati ambulatorialmente presso il nostro centro, in termini di prevalenza degli irAE tiroidei e delle caratteristiche biochimiche e cliniche, ovvero funzionalità tiroidea, imaging e necessità terapeutiche.

3. Pazienti e Metodi

Questo è uno studio osservazionale, non-interventistico, monocentrico, retrospettivo, esplorativo volto a valutare la prevalenza e le caratteristiche di disfunzioni tiroidee insorte in pazienti sottoposti a immunoterapia oncologica.

Sono stati raccolti i dati relativi a 120 pazienti consecutivi che sono stati inviati, da Dicembre 2016 a Marzo 2020, dal servizio di Oncologia della Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana sottoposti a terapie oncologiche sistemiche e che hanno sviluppato alterazioni della funzione tiroidea o presentato lesioni nodulari tiroidee alle indagini radiologiche, scelti esclusivamente in base alla cronologia dell’intervento. Tutti i pazienti sono stati seguiti da un solo Endocrinologo della SD Medicina Interna ad Indirizzo Immuno-endocrino. I soggetti arruolati hanno firmato il consenso per il trattamento dei dati personali ed è stato mantenuto l'anonimato.

Ecografia tiroidea

L’ecografia tiroidea è stata valutata nei soggetti esaminati in posizione supina con il collo iperesteso da un solo operatore, usando uno strumento Esaote, mediante una sonda lineare di 7,5 MHz. L’ecogenicità tiroidea è stata valutata attraverso il confronto con le strutture anatomiche isoecogene (ghiandole sottomandibolari) o ipoecogene (muscoli del collo) rispetto al normale tessuto tiroideo. Il volume della ghiandola è stato stimato mediante la formula dell’ellissoide di rotazione (diametro antero‐posteriore × diametro trasverso × diametro longitudinale × 0,52 x 2) ed espresso in millimetri (mL).

Test di funzionalità tiroidea

I test di funzionalità tiroidea sono stati eseguiti c/o il laboratorio analisi di Chimica ed Endocrinologia del Presidio Ospedaliero S. Chiara di Pisa.

Gli intervalli di normalità sono i seguenti: - TSH 0,4-3,4 μU/mL.

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- FT4 0,70-1,70 ng/dl - FT3 2,70-5,70 pg/ml

I dosaggi degli anticorpi antitiroide sono stati eseguiti c/o il laboratorio analisi di Chimica ed Endocrinologia del Presidio Ospedaliero S. Chiara di Pisa.

I range di normalità sono i seguenti: - TgAb <30 UI/ml

- TPOAb <10 UI/ml

Raccolta e conservazione dei dati

I dati relativi alle caratteristiche demografiche e cliniche, nonché alle osservazioni oggetto dello studio, sono stati raccolti e opportunamente riassunti in un database dedicato, sottoposto ad anonimizzazione e con accesso codificato riservato al solo personale designato dallo studio. Le informazioni relative ai trattamenti concomitanti sono state codificate mediante la WHO Drug Reference List, che usa il sistema di classificazione Anatomic Therapeutic Chemical (ATC). Le patologie concomitanti e gli eventi avversi sono stati codificati usando la terminologia della classificazione ICD9.

Analisi statistica

Le analisi esploratorie sono state effettuate utilizzando statistiche descrittive.

Le variabili categoriche sono espresse come numero (%) e le variabili continue come mediana (range interquartile, IQR). Per confrontare le variabili categoriche è stato utilizzato il test Chi-quadro o il test esatto di Fisher, mentre per le variabili quantitative sono stati utilizzati il test di Mann- Whitney per dati non appaiati o il test di Wilcoxon per dati appaiati. La significatività statistica è stata stabilita a un valore p a due code <0.05. La gestione e l'analisi dei dati sono state eseguite con il software statistico SPSS 26.0 (®SPSS Inc., Chicago, IL, USA).

Norme di buona pratica clinica

Questo studio è stato condotto in accordo ai principi della Good Clinical Practice [ICH Harmonized Tripartite Guidelines for Good Clinical Practice 1996 Directive 91/507/EEC; D.M. 15.7.1997], alla dichiarazione di Helsinki ed alle normative nazionali in materia di conduzione delle sperimentazioni cliniche. Per partecipare allo studio, prima di essere sottoposto ad alcuna procedura studio-specifica, ogni paziente ha fornito il consenso informato.

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4. Risultati

Lo studio consiste in una analisi di 120 pazienti consecutivi che sono stati inviati, da Dicembre 2016 a marzo 2020, dal servizio di Oncologia all’interno della Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, sottoposti a terapie oncologiche sistemiche e che hanno sviluppato alterazioni della funzione tiroidea o patologia nodulare della tiroide. Tutti i pazienti sono stati seguiti da un solo Endocrinologo della SD Medicina Interna ad Indirizzo Immuno-endocrino. I soggetti arruolati hanno firmato il consenso per il trattamento dei dati personali ed è stato mantenuto l'anonimato. Di tutti i pazienti sono stati raccolti i dati anamnestici, demografici, clinici (iniziali, sesso, età al momento della prima visita, malattia oncologica di base, tipologia dell’immunoterapico, tipologia di evento avverso tiroideo, durata del follow-up ambulatoriale), ematochimici (esami di funzionalità tiroidea, autoimmunità tiroidea prima e dopo, quando presenti), ed ecografici (aspetto ultrasonografico e volume stimato tiroideo).

Dei 120 pazienti studiati solo 24 (20%) hanno ricevuto l’immunoterapia oncologica. Di questi 10 pazienti (8,3% del totale, 41% dei pazienti trattati con ICI) ha sviluppato una disfunzione tiroidea correlata all’immunoterapia: 1/10 (10%) è stato trattato con pembrolizumab, 6 (60%) con nivolumab, 2 (20%) con atelizumab e 1 (10%) con la terapia di combinazione nivolumab + ipilimumab (Figura 4).

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I dati clinici relativi ai pazienti studiati sono riassunti nella Tabella 1.

L’età mediana dei 10 pazienti in studio, al momento della prima visita, era di 61,5 anni [IQR 48,8-68,5], 6/10 erano femmine (60%). Tre pazienti (30%) erano affetti da tumore del rene, 2 (20%) da melanoma, 2 (20%) da tumore del polmone, 1 (10%) da tumore della vescica e 1 (10%) da tumore del retto.

Le irAE tiroidee che sono state rilevate in questo gruppo di pazienti sono state: 4 (40%) tiroidite distruttiva con fase tireotossica, 4 (40%) ipotiroidismi non preceduti da fase tireotossica, 1 (10%) ipotiroidismo subclinico, 1 (10%) peggioramento di pre-esistente ipotiroidismo subclinico (1/10%). I pazienti sono stati seguiti per un tempo di follow-up mediano di 6 mesi [IQR 0.5-11.0]. In nessun caso era stato necessario sospendere la terapia con ICI per la comparsa dell’irAE tiroideo.

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Tabella 1. Caratteristiche basali dei pazienti in studio. N=10 Età alla prima visita

(anni), mediana [IQR]

61,5 [48,8-68,5]

Femmine, no (%) 6 (60)

Etnia (%)

Caucasica 10 (100%)

Sede primitiva della neoplasia maligna, no (%) Polmone 2 (20) Melanoma 2 (20) Rene 3 (30) Vescica 1 (10) Retto 1 (10) Immunoterapia, no (%) Pembrolizumab 1 (10) Nivolumab 6 (60) Atelizumab 2 (20) Nivolumab+Ipilimumab 1 (10) IrAE tiroideo, no (%) Tiroidite (tireotossicosi) 4 (40) Ipotiroidismo 4 (40) Ipotiroidismo Subclinico 1 (10) Peggioramento Ipotiriodismo subclinico 1 (10) Tempo di follow-up, mesi, mediana [IQR] 6 [0,5-11,0] Terapia con L-T4 all’ultimo follow-up (%) 10 (100) Dose LT-4 (mcg/Kg/die), mediana [IQR] 1,01 [0,875-1,22]

Nell’analisi riportata, la prevalenza di pazienti che hanno sviluppato irAE tiroidee, tra quelli trattati con immunoterapia oncologica, risulta più elevata rispetto ai dati riportati in letteratura. Tale dato, tuttavia, è decisamente influenzato dal fatto che i pazienti inviati dal servizio di

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oncologia all’ambulatorio endocrinologico sono prevalentemente quelli che hanno presentato un’alterazione della funzionalità tiroidea, rappresentando pertanto un possibile bias di selezione.

Dei 10 eventi riportati, 9 si sono verificati in corso di terapia con anti-PD1/PD-L1 e 1 in corso di terapia di combinazione anti-CTLA4/anti-PD1, coerentemente con quanto riportato in letteratura che riferisce una più alta incidenza di disfunzione tiroidee con la prima classe di ICI. Le forme più comuni di irAE sono state le tiroiditi distruttive, con la tipica fase tireotossica seguite da una fase ipotiroidea persistente (40%), e l’ipotiroidismo (40%). Anche questo dato risulta in linea con quanto riportato negli studi internazionali.

Data la natura retrospettiva dello studio, è stato possibile risalire allo status della funzionalità tiroidea pre-trattamento con ICI solo in 5 pazienti. Di questi, 2 avevano una funzionalità tiroidea normale e hanno poi sviluppato una tiroidite con tireotossicosi; 1 paziente con tireopatia autoimmune eutiroidea sierologicamente attiva, ha sviluppato ipotiroidismo; infine, 2 pazienti con ipotiroidismo subclinico hanno sviluppato, rispettivamente, la tiroidite con tireotossicosi e un peggioramento dell’ipotiroidismo subclinico.

Di 4 pazienti era noto anche lo status anticorpale pretrattamento: 3 con anticorpi AbTPO e AbTg negativi, hanno sviluppato, successivamente, in due casi una tiroidite e in un terzo un peggioramento del preesistente stato di ipotiroidismo subclinico. Il paziente che era affetto già da tiroidite autoimmune eutiroidea prima dell’inizio della terapia con ICI, aveva entrambi gli anticorpi antitiroidei positivi e questi sono rimasti tali anche dopo la comparsa dell’irAE, che in questo caso è stato l’ipotiroidismo. Uno dei pazienti con anticorpi negativi prima dell’inizio dell’immunoterapia e che ha sviluppato come irAE una tiroidite distruttiva, ha presentato, ai controlli successivi, una positivizzazione di entrambi gli AbTPO e AbTg. Tali osservazioni coincidono con quanto riportato a riguardo in letteratura, per cui non è stato ancora dimostrata una correlazione chiara tra presenza di AbTPO e AbTg e sviluppo di irAE tiroidee.

Tutti e 10 i pazienti al termine del follow-up assumevano terapia ormonale sostitutiva con levotiroxina (LT-4) ad una dose mediana di 1,01 mcg [IQR 0.875-1.1], a causa della condizione di ipotiroidismo persistente che si è venuta ad instaurare come esito terminale dell’irAE tiroideo, dopo un tempo mediano di 9 settimane [IQR 4.0 – 18.0].

Per quanto riguarda il profilo tiroideo, è stato eseguito un confronto intra-gruppo tra i valori mediani di TSH, fT3 e fT4 rilevati prima dell’inizio della terapia con ICI con quelli misurati al momento della comparsa della fase ipotiroidea della disfunzione tiroidea iatrogena (Tabella 2). In particolare, al test non parametrico di confronto è emersa una differenza statisticamente

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significativa tra i valori mediani di TSH (4,41 vs 15,5 mUI/L, P=.047), a conferma della tendenza allo sviluppo di ipotiroidismo, clinico e subclinico, in questo setting di pazienti. Tabella 2. Profilo biochimico dei pazienti esaminati, prima dell’inizio della terapia con ICI e al momento dello

sviluppo della fase ipotiroidea.

TSH pre-ICI (mUI/L) fT3 pre-ICI (ng/L) fT4 pre-ICI (ng/dL) TSH nella fase ipotiroidea (mUI/L) fT3 nella fase ipotiroidea (ng/L) fT4 nella fase ipotiroidea (ng/dL) Numero pazienti 7 5 7 10 8 8 Mediana 4.41 3.73 0.860 15.5 2.87 0.720 25° percentile 2.09 3.00 0.835 7.13 2.01 0.542 75° percentile 4.77 3.83 0.925 58.8 2.97 0.852

ICI, immune checkpoint inhibitors. TSH, ormone tireostimolante. fT3 triiodotironina libera. fT4, tiroxina libera.

È stato inoltre possibile confrontare il valore del volume tiroideo stimato tramite ecografia. Il valore mediano rilevato al momento dello sviluppo della fase ipotiroidea (10,7 mL [IQR 4,25-12.7]) è risultato essere, sebbene non in modo statisticamente significativo (P=.371), inferiore a quello misurato prima dell’inizio dell’immunoterapia, a dimostrazione del fenomeno distruttivo immuno-mediato che si sviluppa a livello della ghiandola tiroidea (Tabella 3).

Tabella 3. Volume tiroideo stimato all’ecografia di alcuni dei pazienti esaminati, prima dell’inizio della terapia

con ICI e al momento dello sviluppo della fase ipotiroidea.

Volume Tiroideo stimato all’ecografia pre -ICI (mL)

Volume Tiroideo stimato all’ecografia nella fase ipotiroidea (mL)

Numero pazienti 5 8

Mediana 12.6 10.7

25° percentile 12.0 4.25

75° percentile 12.7 12.7

.ICI, immune checkpoint inhibitors. mL, millilitri.

5. Discussione

Oltre ai dati raccolti durante gli studi di approvazione, negli ultimi anni, in letteratura sono state riportate ulteriori casistiche, per lo più di tipo retrospettivo, sulle disfunzioni tiroidee che hanno

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colpito i pazienti oncologici trattati con immunoterapici. I risultati ottenuti si sono dimostrati fondamentalmente conformi con quanto registrato durante i trial clinici dei singoli regimi. A tale proposito, De Filette et al. [29] hanno analizzato l’incidenza dei casi disfunzione tiroidea in una coorte di pazienti affetti da melanoma avanzato che avevano ricevuto almeno una dose di pembrolizumab. Su 99 pazienti esaminati, 12 (12%) hanno sviluppato una tireotossicosi, e 6 (6%) un ipotiroidismo isolato ad una distanza media dall’inizio della terapia di 6 settimane. È da sottolineare che 76 di questi pazienti, erano stati pretrattati con ipilimumab. Similmente, Delivanis et al. [30] hanno analizzato retrospettivamente una coorte di 93 pazienti trattati con almeno una dose di prembolizumab, per tumori avanzati di varia origine, individuando 13 casi (14%) di irAE tiroidei, di cui 7 casi di tiroidite, 2 di ipotiroidismo isolato, 1 di ipotiroidismo subclinico e 3 di ipotiroidismo ricorrente. Il tempo medio di insorgenza del disturbo è stato di 6 settimane dalla prima somministrazione dell’ICI e gli anti-TPO sono risultati positivi solo in 4 (31%) pazienti. Anche in questo studio, la maggior parte dei casi avevano ricevuto un pretrattamento con ipilimumab. Inoltre, in 9 dei casi riportati è stato possibile confrontare le immagini 18FDG PET/CT acquisite prima e al momento della diagnosi della disfunzione tiroidea, evidenziando un incremento diffuso della captazione del tracciante in 6 di essi (67%), dovuto verosimilmente a un’infiammazione del tessuto tiroideo, come si verifica anche in corso di tiroidite di Hashimoto e, seppur in misura minore, di malattia di Graves.

Iyer et al. [31] hanno individuato, su 657 pazienti trattati con ICI dal 2014 al 2016 presso il loro centro, 43 casi di tiroidite, corrispondente all’incidenza del 6.5%. Da sottolineare che sono stati considerati solo i casi di tiroidite che sono esorditi con una fase di tireotossicosi, in individui che avevano un profilo tiroideo nella norma prima di iniziare l’immunoterapia. Il tempo medio d’insorgenza della tiroidite è stata di 5,3 settimane dall’inizio dell’ICI, con una durata media della tireotossicosi di 6 settimane, seguita da una fase di ipotiroidismo (84% casi) comparsa a 10,4 settimane e che ha richiesto terapia ormonale sostitutiva in tutti i casi tranne che in 4 pazienti che sono guariti e diventati nuovamente eutiroidei in modo spontaneo. Gli anticorpi anti-Tg e anti-TPO erano presenti, rispettivamente, nel 45% e nel 33% dei casi al momento della diagnosi di tiroidite. Il gruppo più numeroso di pazienti aveva ricevuto terapia di combinazione nivolumab+ipilimumab (40%), seguito da quello trattato con nivolumab (33%) e pembrolizumab (21%) in monoterapia, rispettivamente.

Il meccanismo patogenetico che sta alla base delle disfunzioni tiroidee, e degli irAE di tutti i tessuti, in corso di terapia con ICI è di tipo immunologico. Gli esatti passaggi con cui, però, ciò avviene non sono ancora ben chiari e soprattutto non si conoscono ancora i motivi per cui si

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A tal proposito risulta interessante il lavoro portato avanti da un gruppo di ricercatori americani della Mayo Clinic [30, 32]. Questo gruppo di ricercatori, infatti, sta cercando di descrivere le caratteristiche della risposta immunitaria che causa le disfunzioni tiroidee durante l’immunoterapia, confrontandola con quella che si verifica in corso delle forme sporadiche di malattie autoimmuni della tiroide, e con controlli sani.

In un primo lavoro del 2017 [30] è stata eseguita, tramite citofluorometria a flusso su sangue periferico, l’immunofenotipizzazione di 7 pazienti che avevano sviluppato una tiroidite da anti-PD-1 confrontando i dati ottenuti da 45 volontari sani e da 9 pazienti affetti da malattie autoimmuni della tiroide sporadiche. I linfociti T circolanti dei pazienti trattati con prembolizumab hanno presentato una perdita completa dell’espressione PD-1. I pazienti con forme classiche di tiroiditi autoimmuni avevano livelli di PD-1 simili a quelli dei controlli sani e hanno mostrato un notevole incremento di alcune sottopopolazioni di cellule NK e cellule T, comprese le cellule T helper CD4 +, le cellule T citotossiche CD8 +, le cellule T gD e le cellule NKT. Invece i pazienti con la tiroidite acuta indotta da pembrolizumab hanno presentato differenze fenotipiche distinte dai pazienti con malattie autoimmuni, che includevano una diminuzione delle Cellule NK immature (CD56brCD16-) e una diminuzione dei monociti immunosoppressori CD14+HLA-DRlo/neg. Quest’ultimi, infatti, sono elevati in una varietà di malati di cancro dove sono associati ad uno stato immunodepressivo. Pertanto, una riduzione di queste sottopopolazioni linfo-monocitarie potrebbe predisporre ad una aumentata reattività di tipo autoimmunitario [30].

Lo stesso gruppo di ricercatori ha pubblicato un lavoro [32] che va ad approfondire tali dati, incorporando all’immunofenotipizzazione periferica, quella eseguita direttamente sull’infiltrato infiammatorio ottenuto tramite agoaspirato di cellule tiroidee (Fine needle Aspiration, FNA) eseguito su 8 pazienti oncologici, per lo più affetti da melanoma, trattati con anti-PD-1 (pembrolizumab) e che hanno sviluppato una tiroidite acuta da ICI. In tali campioni è stato osservato un aumentato numero di linfociti T CD8+, PD1+ e CD4-CD8- (doppio negativi), suggerendo un loro ruolo attivo nella patogenesi di questa irAE. Inoltre, a livello del sangue periferico, sono stati riscontrati livelli aumentati di cellule T CD4+CD8+ (doppio positive), che sono stati descritti anche a livello dei tessuti bersaglio di numerose malattie autoimmuni, come la sclerosi sistemica, la dermatite atopica, l’artrite reumatoide e le stesse tiroiditi autoimmuni, suggerendo un loro contributo nello sviluppo dell’autoimmunità, compreso quindi le tiroiditi indotte da terapia con ICI.

Il ruolo degli autoanticorpi tiroidei (AbTPO e AbTg) nella patogenesi delle disfunzioni tiroidee da ICI rimane ancora dubbio. I pochi dati raccolti a riguardo, finora, mostrano che gli anti-TPO

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sono incostantemente associati a questo tipo di tiroidite, visto che la maggioranza dei pazienti che sviluppano questo irAE sono anti-TPO negativi, suggerendo un meccanismo patogenetico anticorpo-indipendente o che comunque coinvolge altri auto-anticorpi tiroidei non ancora individuati né misurati.

Nel complesso, questi dati suggeriscono che ci sono differenze fenotipiche tra i pazienti affetti da patologie autoimmuni della tiroide e quelli con tiroidite indotta da pembrolizumab. Queste differenze potrebbero servire come potenziali biomarcatori per la comprensione della patogenesi immuno-mediata degli irAE indotti dagli inibitori del checkpoint e nell'identificazione dei pazienti a rischio di sviluppare tiroidite indotta da pembrolizumab [31]. Un ultimo aspetto, anche se non per importanza, da considerare è quello che sta emergendo da alcuni studi recenti ovvero i pazienti che sviluppano disfunzioni tiroidee in corso di immunoterapia sembrano presentare un tasso di sopravvivenza maggiore a coloro che non hanno irAE. A tal proposito è interessante il lavoro di Kotwal et al. [33]: retrospettivamente, in una coorte di 91 pazienti oncologici trattati con anti-PD-L1 (atezolizumab e avelumab) sono stati individuati 19 (21%) casi di irAE tiroidee, esordite in media a 6 settimane dall’inizio del trattamento, in linea con quanto riportato in letteratura. Una captazione diffusa della loggia tiroidea alla 18FDG-PET, è stata individuata in 5/7 di questi casi (71%, vs 1/17 [5,6%] tra i pazienti che non hanno sviluppato irAE tiroidea) poco prima o al momento della diagnosi della disfunzione tiroidea, come epifenomeno della tiroidite distruttiva, e sempre in linea con quanto osservato anche nelle tiroiditi indotte da pembrolizumab e nei pazienti affetti da tiroidite di Hashimoto, suggerendo un potenziale metodo per prevedere la comparsa di un irAE tiroideo. Dopo un tempo medio di 10,1 mesi di follow-up, il tasso di mortalità è stato del 43,5% tra i pazienti che hanno sviluppato irAE tiroidee e del 79,4% negli altri, che è stata confermata anche dopo un’analisi aggiustata per potenziali fattori confondenti, quali età, sesso e tipologia di cancro (hazard ratio per la mortalità di 0.49 [95% CI 0,25-0.99], P=.034). Quest’ultimo dato suggerisce che le irAE tiroidee possano rappresentare un biomarker per la risposta immunitaria antitumorale, ipotizzando che un incremento della funzione delle cellule T, causata in questo caso dagli anti-PD-L1, possa influire sia sulla comparsa delle irAE che sulla attività antitumorale. Osservazioni simili, in termini di ridotta mortalità, sono state riportate anche per pazienti con melanoma trattati con ipilimumab e che hanno sviluppato ipofisite [34] e per pazienti trattati con nivolumab che hanno sviluppato altre tipologie di irAE, come quelle cutanee [35,36].

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Tali risultati contribuiscono a comprendere il meccanismo con cui si sviluppano le tiroiditi e le disfunzioni tiroidee indotte da ICI e la loro associazione con l’attività antitumorale, con importanti potenziali risvolti anche terapeutici futuri.

6. Conclusioni

Dall'analisi dei dati disponibili si conferma che i pazienti colpiti da irAE tiroidee sono prevalentemente donne e che questi eventi avversi si sviluppano più frequentemente in corso di immunoterapia con anti-PD-1 o anti-PD-L1, come riportato nelle casistiche internazionali ad oggi pubblicate.

Tutti i pazienti analizzati, indipendentemente dalla forma di presentazione inziale (tiroidite con tireotossicosi, ipotiroidismo o peggioramento dell’ipotiroidismo subclinico precedente), hanno sviluppato, dopo un tempo mediano di 9 settimane, uno stato di ipotiroidismo persistente che ha richiesto l’avvio o il potenziamento, se già in atto, della terapia ormonale sostitutiva con levotiroxina, coerentemente con quanto finora descritto in letteratura. Tale reperto è confermato da un aumento, statisticamente significativo, dei valori mediani di TSH tra la fase di pre-trattamento e quelle successive e anche da una riduzione del valore mediano del volume tiroideo stimato all’ecografia, segno del fenomeno regressivo/distruttivo che si sviluppa a livello della ghiandola tiroidea come conseguenza della reazione autoimmunitaria.

I dati raccolti per la valutazione dell’eventuale correlazione tra titolo anticorpale anti-tiroideo (AbTPO e AbTg) e comparsa di irAE tiroidei, data la natura retrospettiva dello studio, non sono statisticamente robusti, ma si conferma un’associazione incostante tra questi anticorpi e lo sviluppo di disfunzioni tiroidee in corso di immunoterapia.

I dati di cui sopra suggeriscono che i pazienti che sono sottoposti a terapia con ICI devono essere monitorati in modo preciso per disfunzioni della tiroide e la comparsa di altre patologie autoimmuni organo specifiche o sistemiche durante il corso del trattamento. Dato l’elevato rischio di irAE tiroidee, questi pazienti devono essere periodicamente monitorati con la valutazione biochimica della funzione tiroidea procedendo, quando opportuno, al trattamento specifico endocrinologico, ed eventualmente, nelle forme più gravi, alla sospensione dell’immunoterapia stessa.

7. Prospettive future

Sebbene la conoscenza di questi eventi avversi immuno-mediati che si sviluppano a carico del tessuto tiroideo in corso di immunoterapia oncologica stia progredendo, poco sappiamo ancora

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circa gli esatti meccanismi patogenetici che ne sono alla base. Questi innanzitutto sembrano differire da quelli, peraltro ancora non del tutto chiariti, che sono stati descritti per le più comuni patologie autoimmuni della tiroide, quali la tiroidite linfocitaria cronica o tiroidite di Hashimoto e la malattia di Basedow/Graves Infatti, ad esempio, nel caso delle irAE, gli anticorpi tiroidei ad oggi conosciuti non sembrano essere correlati allo sviluppo né all’identificazione di questi effetti collaterali.

Inoltre, come illustrato da alcuni recenti lavori esplorativi, sta emergendo come importante caratteristica, un’associazione tra sviluppo di irAE tiroidee e outcomes migliori, in termini di sopravvivenza, per i pazienti oncologici trattati con immunoterapia. Tale osservazione suggerisce quindi come la reazione autoimmunitaria che si manifesta a livello del tessuto tiroideo possa rappresentare un epifenomeno di una migliore ed efficace risposta anti-tumorale innescata dalla somministrazione dell’ICI.

Infine, in più di un’occasione è stato osservato che pazienti trattati con immunoterapia oncologica per uno dei tumori solidi per cui questi farmaci sono stati approvati sviluppino anche una contemporanea regressione di un tumore tiroideo concomitante. Pertanto poter comprendere i meccanismi di funzionamento degli ICI e dei suoi eventi avversi, potrebbe anche aprire nuove strade di trattamento di tipo immunomodulante per i tumori tiroidei avanzati. Al fine di comprendere meglio il comportamento clinico e patogenetico delle irAE tiroidee, stiamo avviando presso il nostro Servizio uno studio prospettico reclutando i pazienti oncologici per cui è in programma la somministrazione di un trattamento a base di immunoterapia oncologica con inibitori dei check-point immunitari. Su tali pazienti sarà raccolta un’attenta anamnesi per individuare eventuali fattori di rischio predisponenti per tireopatia (familiarità per patologie autoimmuni, tabagismo, eventuale esposizione a radiazioni ionizzanti), eseguito un profilo tiroideo basale comprendente il dosaggio degli autoanticorpi (AbTPO, AbTG e TRAb) e uno studio radiologico mediante ultrasonografia del collo. Successivamente, una volta iniziato il trattamento immunoterapico, i pazienti saranno rivalutati ambulatorialmente ad intervalli regolari, come da linee guida e in tali occasioni sottoposti ai controlli biochimici e di imaging.

Ad oggi il ruolo dell’ultrasonografia della tiroide nella diagnosi e nel monitoraggio delle disfunzioni tiroidee da ICI non è stato ancora ben definito. Si pensa, tuttavia, che possa essere molto utile in quanto, analogamente a quanto si verifica con le malattie autoimmuni tiroidee

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che anticipano la comparsa clinica, con iper-o ipotiroidismo, degli stessi irAE. In tal modo, diventerebbe possibile anche intervenire in anticipo e salvaguardare pazienti già debilitati quali sono quelli oncologici candidati ai trattamenti immunoterapici.

In ultima analisi, tale progetto di studio prevede anche la caratterizzazione immunofenotipica dei pazienti in cui si sviluppano le irAE tiroidee da ICI. A tale scopo si andrà a eseguire la citofluorometria a flusso e a dosare i livelli delle citochine e delle chemochine considerate, secondo alcuni studi, centrali in questa tipologia di eventi avversi immuno-mediati (CXCL8, IL-10, IL-4 e IL-3) [37], sia su sangue periferico che, possibilmente, a livello del tessuto tiroideo colpito mediante prelievo di cellule tiroidee con FNA. Tali dosaggi andranno eseguiti prima dell’inizio dell’immunoterapia e, periodicamente, in occasione dei controlli ambulatoriali prestabiliti. L’obiettivo è duplice: cercare di comprendere e descrivere con precisione i meccanismi della risposta immunitaria alla base dell’irAE ed individuare eventuali markers biochimici in grado di aiutarci a prevenire e ad individuare precocemente lo sviluppo di questi effetti collaterali.

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Riferimenti

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