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Academic year: 2021

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(1)DIRITTO DI STAMPA. .

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(3) DIRITTO DI STAMPA. Il diritto di stampa era quello che, nell’università di un tempo, veniva a meritare l’elaborato scritto di uno studente, anzitutto la tesi di laurea, di cui fosse stata dichiarata la dignità di stampa. Le spese di edizione erano, budget permettendo, a carico dell’istituzione accademica coinvolta. Conseguenze immediate: a parte la soddisfazione personale dello studente, del relatore e del correlatore, un vantaggio per il curricolo professionale dell’autore, eventuali opportunità di carriera accademica e possibili ricadute positive d’immagine per tutti gli interessati. Università compresa. La dignità di stampa e, se possibile, il diritto di stampa erano quindi determinati dalla cura formale della trattazione, dalla relativa novità del tema di studio, dall’originalità del punto di vista e magari dai risultati “scientifici” della tesi: e cioè quel “vuoto” che, in via di ipotesi, si veniva a riempire in un determinato “stato dell’arte”, e dunque dal valore metodologico, anche in termini applicativi, della materia di studio e dei suoi risultati tra didattica e ricerca. Caratteristica del diritto di stampa, in tale logica, la discrezionalità e l’eccezionalità. La prospettiva di contribuire, così facendo, alla formazione di élites intellettuali. Sulla scia di questa tradizione, e sul presupposto che anche l’università di oggi, per quanto variamente riformata e aperta ad un’utenza di massa, sia pur sempre un luogo di ricerca, nasce questa collana Diritto di stampa. Sul presupposto, cioè, che la pubblicità dei risultati migliori della didattica universitaria sia essa stessa parte organica e momento procedurale dello studio, dell’indagine: e che pertanto, ferme restando la responsabilità della scelta e la garanzia della qualità del prodotto editoriale, il diritto di stampa debba essere esteso piuttosto che ridotto. Esteso, nel segno di un elevamento del potenziale euristico e della capacità critica del maggior numero possibile di studenti. Un diritto di stampa, che però comporta precisi doveri per la stampa: il dovere di una selezione “mirata” del materiale didattico e scientifico a disposizione; il dovere di una cura redazionale e di un aggiornamento bibliografico ulteriori; il dovere della collegialità ed insieme dell’individuazione dei limiti e delle possibilità dell’indagine: limiti e possibilità di contenuto, di ipotesi, di strumenti, di obiettivi scientifici e didattici, di interdisciplinarità. Un diritto di stampa, che cioè collabori francamente, in qualche modo, ad una riflessione sulle peculiarità istituzionali odierne del lavoro accademico e dei suoi esiti. Questa Collana, dunque, prova a restituire l’immagine in movimento di un laboratorio universitario di studenti e docenti. E l’idea che alcuni dei risultati più apprezzabili, come le tesi di laurea prescelte, possano mettersi nuovamente in discussione mediante i giudizi e gli stimoli di studiosi competenti..

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(5) Alessio Calabrese La vita che resta Uno studio sullo stato vegetativo permanente Presentazione di Felice Ciro Papparo.

(6) Copyright © MMXIV ARACNE editrice int.le S.r.l. www.aracneeditrice.it info@aracneeditrice.it via Quarto Negroni,   Ariccia (RM) () .  ----. I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: luglio .

(7) Sbiancare tutto l’incarnato. S. B, Catastrofe.

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(9) Indice. . Presentazione di Felice Ciro Papparo. . Introduzione. . Capitolo I Pluralizzare la morte .. Un evento inatteso,  – .. La morte dopo Bichat,  – .. La definizione di whole brain death,  – .. Morti cerebrali molecolari,  – .. Lo stato vegetativo: quadro clinico, numeri, classi,  – .. Dispute intorno al criterio di morte corticale e al concetto di irreversibilità, .. . Capitolo II Stato vegetativo e organismo .. Ancora sulla distinzione tra morte cerebrale e stato vegetativo ,  – .. Il concetto di integrazione somatica,  – .. L’unità psichica dell’organismo e il ruolo della corteccia,  – .. L’organismo come proprietà dell’animale,  – .. Organismo, comportamento, ambiente,  – .. Nuovi spazi bianchi, .. . Capitolo III Lo spazio istituzionale della cura .. Il discorso biopolitico,  – .. Vita e salute,  – .. Il dibattito sull’idratazione e la nutrizione artificiale (),  – .. Aspetti etico–giuridici delle Dichiarazioni anticipate di trattamento,  – .. Del diritto di morire, .. . Conclusioni. . Bibliografia. .

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(11) Presentazione di F C P. I.. Che fare di questa vitalità? È intorno a questa domanda, che si legge quasi ad apertura del testo di Alessio Calabrese, che viene condotta per gran parte l’analisi della condizione detta stato vegetativo. Una domanda che, risuonando nel titolo stesso del saggio, La vita che resta, perché è di un resto di vita che si tratta, sembra richiedere che l’accurata indagine intorno a una particolare modalità di esser–ci del vivente umano — diciamolo pure senza troppi giri di parole: una modalità regressiva che riporta una vita umana alla prima forma–base della vita organica, quella vegetativa, appunto — si svolga pour cause nella prospettiva di un “affondamento” filosofico della questione in generale della vita e/o vitalità. Un affondamento però che si tiene rigorosamente alla larga dalla pretesa “fondazionalista” de la filosofia e piuttosto si posiziona, per utilizzare un’espressione di Kracauer, nel regno delle penultime cose: ovvero, qui, in questo nostro storico e attuale mondo, dove si compone, si svolge e si decompone la nostra vita di mortali. È dunque, in primis, di una vita mortale e non de la vita in abstracto che si ragiona nel testo di Calabrese. E tuttavia, la vita mortale, o meglio la vita di un/una mortale non può, nello stato di vita essenzialmente vegetativa, che rinviare, necessariamente, alla questione de la vita in generale, se è da quella prima “scansione” vitale, di un organismo dotato delle funzioni vegetative, che diventa “pensabile” e “conoscibile” ciò che s’intende per vita. È allora intorno al circolo — né vizioso, né virtuoso — di questa vita mortale e della vita in generale in un organismo determinato, o, in maniera ancora più precisa, è intorno al circolare di un resto di vita o .

(12) . Presentazione. alla vita ridotta a resto in un organismo che di organico ha oramai solo il suo “pulsare smorfioso”, che s’intesse il ragionamento di Calabrese. II.. E che sia proprio la vitalità — una vitalità sans phrases, in quanto, e soprattutto quando, questa vitalità si è scissa dalla forma del vivente — a ergersi come tema della sua indagine, lo mette in evidenza lo stesso Calabrese alla fine del capitolo dedicato a Stato vegetativo e organismo: «. . . nello stato vegetativo ben prima dei concetti di organismo e persona, ad essere in gioco sembra essere la vitalità che costituisce il vivente prima della sua cristallizzazione in una determinata forma» (p. ). È qui, in questo intervallo tra la vita e le sue forme, dove “la vita” si mostra allo stato limbico–pulsionale di «pura materia vivente», limitandosi a vegetare «in una zona indistinta dove non si può né più vivere né più morire» (p. ), che la domanda da cui siamo partiti “che fare di questa vitalità?”, si mostra come una domanda assolutamente irriverente se rivolta a un corpo, né vivente né morente, e tuttavia lì, insistente in una “forma” assolutamente irrispettosa e perciò turbativa, sospeso a una potenzialità interminabile che suscita attese angoscianti e quasi sempre deludenti — un corpo per nulla assumibile nella sua forma carnale se non da quel pensiero (o disciplina?) che dell’incarnazione della Vita ha fatto la sua bandiera e la sua “fortuna”: il pensiero e la disciplina religiosi (e più specificamente per noi, quello cristiano–cattolico). Ma Calabrese, pur individuando nell’assunzione «della vitalità del vivente» da parte del «pensiero religioso» una posizione che supera «in avanti [. . . ] ogni pretesa laica basata sul principio di autodeterminazione dell’individuo [. . . ] poiché [quel pensiero] ha capito che è sul terreno [della vitalità del vivente] e non sulle sue forme che avviene la battaglia decisiva del nostro tempo» (p. ), ritiene che, «lungi dall’essere un concetto religioso», la vitalità del vivente avant la forme et la relation, «è invece un’invenzione epistemologica della contemporaneità» (p. , corsivo nostro) che il pensiero cattolico nella sua arguzia ha tuttavia «“ingurgitato” nel suo sistema di valori, determinando, forse, la rotta dell’attuale involuzione della secolarizzazione moderna» (p. ). Si può dire allora, se è giusta la sottolineatura di Calabrese, che la vitalità sans phrases è un’«invenzione epistemologica della contempo-.

(13) Presentazione. . raneità» e per nulla affatto «un concetto religioso», che il «che fare?» sia la domanda eminentemente scientifica–laica, “cupamente” tecnica, di un biopotere che riduce a niente, a “pura materia”, il miracolo–Vita?. III.. Se insisto a mettere in evidenza come architraccia del saggio di Calabrese la sua domanda iniziale: «che fare di questa vitalità?», non è tanto perché del resto di vita e intorno al resto di vita che permane–sussiste, come un insistente pulsare a vuoto, nel “corpo” out of action degli “organismi” in stato vegetativo, si sono interessate e si sono raccolte tutte le istanze (stato, religione, scienza) di disciplinamento dei corpi mortali per giocare la loro battaglia in vista dell’acquisizione di una posizione dominante gli stessi corpi mortali. Piuttosto perché l’interrogativo: «che fare della vitalità?», sembra risuscitare il pauroso enigma che risuona nella domanda filosofica per eccellenza: «perché l’essere e non il niente?», un interrogativo che, al di là delle risposte che ha avuto, continua imperterrito a rievocarsi–in e presentarsi–a ogni “forma di vita”, anche in quella estrema e al limite della deformazione qual è appunto la vita avant la relation di un corpo in stato vegetativo permanente. Se dico questo, sembrando così smentire quanto affermato all’inizio, ovvero che l’indagine qui condotta dal testo di Calabrese sullo stato vegetativo permanente rinvia pour cause a un modo filosofico, anche se rigorosamente “non–fondazionalistico”, di trattare la questione, non è per invitare il lettore a leggere nella direzione “eternizzante” di quella domanda filosofica la materia trattata nel testo — egregiamente, peraltro, scandagliata dall’autore nel suo saggio in tutte le pieghe e i livelli di comprensione messe in atto dalle varie “discipline” e istanze disciplinanti che se ne sono interessati. Dire, come dico qui, che il che fare della vitalità? rinvia alla domanda enigmatica enunciata dalla filosofia (e non dalla religione, e nemmeno dalla scienza — perché la prima ha da sempre la risposta, e la seconda si attiene al puro fatto che c’è della vita o dell’essere e tanto basta), non significa voler espungere o considerare irrilevanti gli interrogativi mortali che a partire dalla condizione clinica qui presa in esame devono esser.

(14) . Presentazione. dati in termini di risposte concrete dalle varie istanze che ci ragionano e lo prendono in cura. Mettendo in tensione, più che ri(con)ducendo, l’interrogativo fattuale (che fare della vitalità?) a quello speculativo (perché l’essere e non il niente?), quel che mi preme mettere in evidenza è niente altro che l’intensificazione del tratto etico che da entrambe le domande emerge. Evidente in modo quasi assoluto nella prima domanda (come “comportarsi” di fronte a questo “corpo” in bilico tra la vita e la morte?), implicito e “sornione” nella seconda (come “salvarsi” da tutto questo “c’è” vitale?), la disposizione etica, ovvero qual è l’abito che devo assumere per e di fronte–a, diventa dirimente e “impositiva”. IV.. Sebbene ricondotto allo stato vegetativo, il corpo out of action s’impone e si manifesta richiedendo a chi lo osserva o se lo trova immediatamente “di fronte”, una traduzione fattiva–astrattiva: la conversione, cioè, in un fare, in un agire (prassico e/o poietico), in un averci a che fare (tecnico o linguistico), che ponga “fine” a quel suo essere quel–corpo–là, ovvero un qualcosa di silenzioso e assordante insieme e, tuttavia, così distante dal semplice stare degli altri corpi–cose intorno a “noi”, animati sì, ma non per noi che ne disponiamo come fossero ni–ente. Un corpo–non corpo, dunque, un il y a insistente, anonimo e spiazzante, un resto di vita, per l’appunto, dove oscuramente “la vita” “mormora” e “si mormora” ancora — senza volontà e senza ragione, sfidando a–simbolicamente e con tutta la cogenza del fatto la nostra volontà e la nostra ragione di viventi–in–relazione a lasciar essere o lasciar andare verso la loro “destinazione” di living bodies, quei corpi viventi ma appena sopra la vita e non ancora dentro la morte, «corpi senza parole, dove frana ogni interpretazione clinica [. . . ] ogni indagine fenomenologica» (p. ) e dove sola si impone la possibilità di “comprenderli” nella loro “storia minore” di “ciò che furono”: esseri–nel–mondo e organismi in un ambiente, e “più non saranno” . Come porsi, ovvero che fare?, di fronte a un corpo mezzo–vivo e non ancora morto, ridotto alla pura animazione, appunto allo «stato vegetativo [che] non si presenta come qualcosa che sta al di là della morte bensì si situa [corsivo nostro] tra la vita e la morte [e si mostra come] il grado zero tra il cadavere e la materia viva»? (p. )..

(15) Presentazione. . Meglio ancora: come fare di fronte a uno stato, quale quello vegetativo, che «costituisce un “falso negativo” [perché] lascia vedere “soggetti” morti che sono ancora vivi» (p. )? Come porsi e/o imporsi rispetto a questo impossibile, a questa grandezza negativa che non è la pura e semplice negazione del possibile ma il possibile portato allo stato estremo, l’espressione di “un non più” e “non ancora”, la pura potenza della vita o del vitale così accostata alla sua “impotenza”? V.. Che l’“esperienza” dello stato vegetativo ci dia del vivente che avevamo conosciuto la sua “faccia” sfigurata, e che questo volto non sia tuttavia, per chi vi è “congiunto”, definitivamente e definitamente ridotto a faccia, ma che in esso si conservi una qualche traccia dell’“umano” che fu e che la faccia di adesso a malapena riesce a mostrare; oppure, ma è solo l’altro lato simmetrico, che lo stato vegetativo ci ponga faccia a faccia con l’“infigurabile”, cioè la morte (meglio ancora: con la terribilità stessa dell’“infigurabile”, la morte in vita) e che di fronte a questa condizione si squarcino e si sfigurino gli ordini simbolici e affettivi che ci “tengono insieme”, ebbene, questo stato nel quale il divenire vitale arriva al “grado zero”, questo stato che pone in disquarto affettivo e simbolico chi lo “vive” e lo “osserva”, è ciò che fa dell’“esperienza” di un “corpo” in stato vegetativo l’esperienza stessa dell’irriducibile, di ciò che, galleggiando tra il silenzio e la parola, tra il movimento e l’immobilità, d’un lato apre alla dimensione sospesa dell’angoscia, dall’altro richiede la “risoluzione”, attraverso una decisione o la resa, di ciò che è in gioco. Di tutto questo, Calabrese qui (ma altri altrove) hanno saputo e sanno ben tenere conto. E tuttavia, l’incandescenza della materia, non porta, Calabrese qui (e altri altrove) a crogiolarvisi in dispute (che pure ci sono state e ci saranno ancora) su i termini adatti a “descrivere” la cosa stessa con cui si ha a che fare, quanto piuttosto a declinare in un senso “eticamente” determinato il “che fare?”. Infatti, seppure i termini per “descrivere” l’irriducibile esperienza dello stato vegetativo sono “essenziali” e, in certa maniera, dirimenti a circoscrivere la Ding dello stato vegetativo, essi però rischiano di diventare “inessenziali” o francamente nominalistici, quando la partita che si gioca non è mai neutra e richiede delle “mosse” risolutive da parte di.

(16) . Presentazione. una “parte” che è nel gioco, e quando, soprattutto e innanzitutto, ciò che è in gioco è, quale che sia lo statuto che vogliamo assegnarli e il “carico” affettivo e/o simbolico che pur “pesa” su di esso, un corpo out of action. VI.. E, in effetti, è di una partita drammatica che si tratta, di una partita tra un corpo fuori gioco — eppure non ancora “dipartito” e per via di questo stesso stato esposto, tuttavia, a una spartizione decisionale che lo rimette in action — e un corpo e una “mente” (volontà e ragione assieme) che, essendo im–messi nel gioco, devono pour cause giocare per risolvere “la posta” in gioco. “Organismo” e “persona”: ecco i termini entro cui la “cosa” in stato vegetativo viene “afferrata” nel tentativo di farcene una “ragione”. “Organismo” e “persona”: ovvero, da un lato, un intreccio complesso, visibile–tangibile, sempre “realizzantesi” mediante le parti della potenza vitale orientata alla consistenza durativa del “progetto” che vi è inscritto; dall’altro, la semplice, ovvero invisibile e intangibile, sempre “valorizzantesi” eccedenza contestativa del “puro” vitale. Compreso — sebbene mai del tutto in questo “rinvio” terminologico, quasi “disciolto” dall’essere–organico per via della sua “statica”, e a tratti esibendo per via del “congiunto” la sua “appartenenza” al “campo personale” — il “corpo” in stato vegetativo galleggia in–sistentemente come un resto di vita sempre pronto a morire sfidando la nostra ragione e la nostra volontà a tener conto di questa situazione–limite. L’articolata disamina svolta da Calabrese nel secondo capitolo del suo saggio — dove vengono appellate insieme la scienza e la filosofia per dire cos’è l’organismo e cos’è la persona — proprio perché si muove nell’orizzonte di un che fare? declinato in senso essenzialmente etico (dove il “fare” che si prende come etico riguarda sia “l’uso” delle tecniche, sia “l’abuso” dei “saperi disciplinanti”, imponendosi perciò a questo fare che si vuole etico o la “raffinata” combinazione o la rescissione tra i due detti elementi), la disamina si trova, e non può non farlo se non in forza delle cose, vale a dire in forza della collocazione impropria del “corpo–persona” in stato vegetativo, a ripensare un concetto,.

(17) Presentazione. . “umano, troppo umano”, quello cioè di situazione, che “definisce”, in maniera essenziale, l’e–sistere, intendendo con e applicando il termine e–sistere giusto a quella “cosa” sui generis che chiamiamo “vivente umano”.. VII.. Ora, se con una certa giustezza si precisa che “la posizione” del corpo in stato vegetativo deve essere vista come «espressione di una vita che si è disarticolata al suo interno» (p. ) — dove la disarticolazione riguarda il e rinvia al nesso sola–mente umano di vita relazionale (persona) e vita biologica (organismo), a partire dal quale soltanto possiamo considerare ancora “umanamente umano” quel corpo–lì —, vorrei forzare l’accenno fatto da Calabrese — ovvero di intendere la posizione–collocazione del “corpo” in stato vegetativo, anche sulla scorta della “diagnostica” clinica, come “qualcosa” non posto al di là e già dipartito dalla vita, giacché, più propriamente, e con un’appropriatezza assai turbativa, esso–corpo «si situa», e a tutti gli effetti, tra la vita e la morte, il cadavere e la materia viva — e connettere la collocazione di questo particolare corpo (né del tutto qui, né ancora del tutto al di là) al concetto di situazione. Un concetto che, se assunto in una particolare declinazione, può non essere immediatamente “applicabile” a un corpo staticamente lì, ma che, in quanto “definisce” la “realtà umana”, può ancora e per un certo tempo renderne conto. Se ad esempio facessi “reagire” la puntuale definizione sartriana dell’«essere in situazione»: «La realtà umana è l’essere che è sempre al–di–là del suo esser–ci», su quella particolare “realtà umana”: il corpo in stato vegetativo e sulla sua collocazione propria — in stato, si potrebbe dire, di sempre possibile trascendimento nonostante il suo stazionario modo d’esser–ci — quale scenario, nella “reazione” contrastiva di collocazione e situazione (le due “realtà umane” essendo spartite, l’una, secondo “il vettore” del tempo e della temporalizzazione, proprio perché in situazione, l’altra, secondo quello dello spazio e della spazializzazione, proprio perché semplicemente collocata), quale scenario si aprirebbe per quel “soggetto” che si domanda, di fronte al corpo in stato vegetativo: «che fare di questa vitalità?»..

(18) . Presentazione. VIII.. Se la posizione “purgatoriale” del corpo in questione mi appare (e solo “a me” può, quale che sia “il soggetto–me” di questo “poter”), dato il suo “appartenere e insieme non appartenere” ai due “regni” della vita e della morte), congiungere in una sintesi paradossale la “fatticità” e la “dis–fatticità”, esibendo così un movimento sul posto conativamente prossimo all’articolazione o orientamento (come fanno, da un lato, l’“organismo”, dall’altro “la persona”, quando sono liberi di essere quel che sono); se, cioè, questo movimento mi sembra con–tenere, come una still life, la “collocazione cosale” e la sua “nientificazione”, la “stanca” e “statica” ripetizione dello stesso e la “vivace” e “dinamica” ripresa del differente, come posso, allora, di fronte a un corpo che non parla più e non pensa (forse), sostenere la contraddizione che esso è e volgerla nella direzione di una fattiva decisione, che è l’unica risposta al mio “che fare?” Calabrese illustra bene, nel terzo capitolo della sua ricerca dedicato a Lo spazio istituzionale della cura, l’assunzione di questo dissidio tradotto in discorso biopolitico con i suoi due versanti nei quali si riconoscono sia l’attitudine religiosa (la sacralità della vita) che quella laica (la qualità della vita). Un dissidio che, scrive giustamente l’autore, si attenua fino a diventare neutro se e quando — quali che siano “i pastori” (M. Foucault) che mostrano di averlo a cuore e a cura e che scendono in campo a difesa dell’una o dell’altra caratteristica della vita (sacralità vs qualità) — la pastorale intorno alla vita si trasforma in un unico, univoco e condiviso piano pastorale, quello circoscritto da un simile progetto: «l’inevitabilità di un dominio della vita in generale» (p. ). Secondo Calabrese, con il quale concordo pienamente, tutto ciò nasce dalla pregiudiziale (e pregiudizievole posizione, aggiungo io, quando la si trasforma in Icona) valorizzazione della vita, assunta, beninteso, nella sua “generalità” e con consequenziale scarsa attenzione al suo “dettagliarsi” singolare e alle “ragioni” che sostengono ogni singolare vita. Tutto il “disciplinamento” cui è stata sottoposta, in successione, “la vita” o la “vitalità”, tutta la “sarabanda” (filosofica, scientifica, religiosa) che ne è nei secoli scaturita, gira in tondo intorno al Totem–Vita — anche se sappiamo bene quanto e la cura e il disciplinamento di essa si siano svolte e si svolgano, in realtà, sul presupposto di una sinecura verso altri viventi, in un delirio superomistico che sembra non aver fine e che fa essere gli altri esseri viventi solo dei residui e dei resti al servizio.

(19) Presentazione. . di quell’unico vivente “capace” di volgere–rivolgere la terra e i suoi “tesori” e i suoi abitanti alla “maggior gloria” del vivente umano. IX.. Ovviamente, sullo sfondo della “proliferazione” e “difesa” infinita, inesausta ed essenzialmente astratta della Vita–Totem, non può non apparire il Tabù della Morte. Non è forse proprio dalla morte che fa coppia con un resto di vita, che le nostre macchine e i nostri saperi, le nostre leggi e i nostri proclami vogliono strappare il corpo in stato vegetativo? Non è forse per scrivere loro l’arrêt de mort, prima che la mort arrête definitivamente un corpo vivente, che esse/essi si buttano nello spazio agonico per inscriverci le loro sentenze? Certo, anche la morte, con il suo odore puzzolente (si veda la spettacolare inquadratura con la quale Calabrese apre il suo testo!) ha subìto il “cerimoniale” pastorale che è stato dedicato alla Vita; anche della morte si è tentato un ferreo disciplinamento (Vico, si sa, faceva derivare l’“umanità”, la sua “definizione essenziale” dalla pratica dell’inumazione dei morti)! Qui, come altrove, “la realtà umana”, e sempre comunque per anticipare l’arrivo del trauma, si è adoperata a pre–ponderare, o, che è lo stesso, a pe(n)sare e de–pensare gli “effetti” del terribile. Diversamente dall’animale che sentendo l’arrivo (il cattivo odore) dell’estraneo va a nascondersi, la “realtà umana” ha giocato, con fatica, va da sé, a dis–sentirlo, nel tentativo di addomesticarlo–inumanizzarlo, non fino al punto, però, di riuscire a “profumarne–smussarne”, con l’olio del sapere, il puzzo terribile e le punte acuminate: c’è sempre, infatti, un dolore, un ultimo, definitivo, e invincibile dolore che, quali che siano i giusti rimedi che contro di essi sono stati inventati, schianta, invade e arresta in fine la potenza vitale! Ma come fare e che fare di fronte a quell’arrêt che non è ancora l’ultimo, e che si dà solo sotto la forma di una sentenza che proclama ma non conclama ancora la morte, che tiene, anzi, da una parte, sospeso, e dall’altra, ancora vitalmente avvertibile il fiato, in un’attesa che non prelude (se non raramente) ad alcun miracolo? Come averci a che fare senza, da un lato, farsi sopraffare o, dall’altro, sfidarlo fino all’inverosimile (Oh morte, dov’è la tua vittoria? — esclama convinto il credente in un’altra vita)?.

(20) . Presentazione. X.. È dunque qui che si gioca l’intera partita aperta dalla condizione dello stato vegetativo, una partita che spiazza la condizione umana, che la mette in causa eppure ancora richiede a “la realtà umana”, che si vuole e si definisce come “un essere–in–situazione”, di riuscire a posizionare in questa dimensione “situante” anche la collocazione borderline del corpo in stato vegetativo, di pensarlo, se possibile, anch’esso, al pari dell’altro corpo che si trova in altra situazione, definit(iv)amente e–sistente. Non nel senso presuntuoso di un’eccedenza cui solo si deve dignità, per la capacità che “ha” o “mostra” una tale eccedenza di “disambientarsi” (elevandosi dalla terra) rispetto a tutto il resto, ma nell’unico letterale modo d’essere dell’e–sistente: lasciarlo essere, nella posizione che occupa nel cosmo, come un singolare ce qui est là, cui è pertinente anche decidere di recidersi, nell’accettazione, definitoria, di essere, come gli altri viventi, anch’egli in toto un essere mortale. Se, dunque, non si tratta, né per me né per Calabrese, di tenere in sfida (sia tentata essa dalla scienza o dalla religione forse non cambia molto nel fondo la qualità della sfida) contro la morte un corpo che ancora debolmente vive, un corpo, come egli scrive alla fine dell’Introduzione, che «dell’“uomo” [mostra] — forse — oramai solo lo svanire del “volto” e in esso l’apparizione di uno sguardo agonico» (p. ); né tantomeno si tratta, per Calabrese e anche per me, a fronte dell’affabile coro dei “vitalisti” ad oltranza, di adire una posizione solitaria ed eroica all’insegna di un cupio dissolvi a tutti i costi come cifra espressiva di una virilità che “guarda in faccia” perché non gli fa paura la morte, ma molto più semplicemente, e di nuovo con le parole dell’autore, di «invocare un gesto che sappia strappare la morte alla trivialità del quotidiano e restituirle così il suo significato di evento» (p. ) e, aggiungo io, di restituire, innanzitutto a chi “vive la morte in vita”, il suo eventuarsi come mortale — insomma, se è questo ad essere in gioco, si deve ridare dignità di mortale all’essere che noi siamo, tentando di affermarla fino in fondo. Se tutto questo può essere ancora dicibile attraverso la “dignitosa” parola «rispetto» — così come viene evocata da Calabrese sia all’inizio che alla fine del suo studio —, è d’obbligo oggi, aggiungere, se non la si vuole sentire stonata, che essa va articolata (oltre che invocata) in modo profondamente diverso — andando oltre un rispetto che può.

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