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Analisi della Produzione

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Academic year: 2021

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LA CONTABILITÀ DELLA CRESCITA:

UN’INTRODUZIONE ALL’ANALISI DELLA PRODUZIONE

Nel nostro corso saremo interessati a sviluppare e valutare diversi concetti di performance produttiva (produttività, efficienza, progresso tecnico), nonché ad applicarli all’analisi di vari tipi di agenti economici (paesi, regioni, imprese private, banche, imprese pubbliche). Iniziamo questo tipo di analisi considerando il fenomeno della crescita economica per un paese (lo stesso tipo di analisi sarà essenzialmente valido per aggregati territoriali più ridotti, come le regioni italiane, o più vasti, come l’Unione Europea). Perché questa scelta? Fondamentalmente, l’analisi di questo fenomeno si basa su definizioni di input e output che, riallacciandosi a nozioni di contabilità nazionale, sono di comune conoscenza. Essa costituisce quindi una valida introduzione allo studio della performance produttiva.

In questo capitolo, ci interesseremo dapprima alla definizione stessa di (tasso di) crescita, ne comprenderemo l’enorme importanza pratica e daremo una prima semplice spiegazione all’esistenza di forti differenze nei tassi di crescita da un paese all’altro. Ciò ci porterà naturalmente a definire alcuni fondamentali concetti: la funzione di produzione, i rendimenti di scala, e soprattutto la produttività. In effetti, approfondiremo pure la differenza tra questa variabile e altre importanti grandezze che vengono spesso confuse con essa: l’efficienza (tecnica e di scala) e il progresso tecnico.

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1.1) La crescita economica di un paese: definizione e importanza

Per gli economisti, quando si parla di crescita senza ulteriori precisazioni si intende in genere il tasso di crescita del PIL reale (di un paese, una regione, ecc), oppure il tasso di crescita del PIL reale pro capite (ovvero del PIL reale diviso per il numero di abitanti). Come già per il tasso di inflazione, la definizione del tasso di crescita del PIL reale corrisponde alla variazione percentuale del PIL reale (o di un suo numero indice). In termini algebrici:

dove Q è una qualsiasi misura (o numero indice) del PIL reale preso nei periodi t e t-1. Ma perché questa nozione di tasso di crescita è così importante? Probabilmente, la risposta più semplice e convincente deriva dalla disamina di una tabella come la seguente:

TABELLA 1.1

Paese Periodo

PIL pro capite di inizio periodo (in dollari 1985)

PIL pro capite di fine periodo (in dollari 1985) Tasso di crescita annuo Giappone 1890-1990 842 16 144 3,00 Brasile 1900-1987 436 3 417 2,39 Italia 1900-1990 2339 15318 2,11 Stati Uniti 1870-1990 2 244 18 258 1,76 Cina 1900-1987 401 1 748 1,71 Messico 1900-1987 649 2 667 1,64 Gran Bretagna 1870-1990 2 693 13 589 1,36 Argentina 1900-1987 1 284 3 302 1,09 Indonesia 1900-1987 499 1 200 1,01 India 1900-1987 378 662 0,65 Bangladesh 1900-1987 349 375 0,08

Dalla Tab. 1.1 si evidenziano alcuni dati impressionanti. Attualmente, il PIL (reale, aggettivo che, di qui in poi, per brevità verrà omesso) pro capite degli Stati Uniti

1 -t 1 -t t Q Q Q

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è circa dieci volte quello della Cina e trenta volte quello dell’India. Ancora, il Bangladesh ha un PIL pro capite attuale che è solo risibilmente superiore a quello di circa un secolo fa. Ancora, il PIL pro capite del Messico nel 1987 era più o meno uguale a quello degli Stati Uniti di un secolo prima, mentre il PIL pro capite dell’India nel 1987 era più o meno uguale a un terzo di quello degli Stati Uniti di un secolo prima. Rispetto a queste abissali diversità, i tassi di crescita registrano differenze che paiono a prima vista piuttosto blande, variando dallo 0,08 al 3 %.

COME SI OTTIENE IL TASSO DI CRESCITA ANNUO? (PIL di fine periodo / PIL di inizio periodo) (1/(N anno finale – N anno iniziale))

-

1

Tuttavia, il punto cruciale è proprio che differenze apparentemente infime nei tassi di crescita portano a esiti macroscopicamente diversi per quanto riguarda i livelli delle grandezze interessate. Questo tipo di fenomeno è a volte chiamato “miracolo della composizione” o “ miracolo della crescita a tasso composto”, e dipende semplicemente dal fatto che, di periodo in periodo, un tasso di crescita si applica non già al livello iniziale di una data grandezza, ma a questo livello accresciuto dei tassi di crescita sperimentati in precedenza. In effetti, si tratta proprio del meccanismo di crescita che viene definito esponenziale.

Facciamo un esempio: il PIL pro capite dell’Italia nel 1990, era, secondo la Tab. 1.1. di $ 15 318. Se prendiamo il tasso di crescita sperimentato in media dal nostro paese negli anni ’90 (circa l’1,25 %), avremmo la seguente situazione, descritta nella prima colonna dell’es. 1.1:

ESEMPIO 1.1

ANNO Tasso di crescita

dell’1,25 % Tasso di crescita del 2,11 %

Tasso di crescita del 6 % 1990 15318 15318 15318 1991 15318´1,0125=15510 15318´1,0211=15641 15318´1,0600=16237 1992 15510´1,0125= (15318´1,0125)´1,0125= 15510´1,0211= (15318´1,0211)´1,0211= 15510´1,0600= (15318´1,0600)´1,0600=

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15318´(1,0125)2=15703 15318´(1,0211)2=15971 15318´(1,0600)2=17211

2000 15318´(1,0125)10=17344 15318´(1,0211)10=18875 15318´(1,0600)10=27432

Come si vede, moltiplicando 15318 per 1,0125 (ossia 1 più 1,25 %) si ottiene il PIL del 1991, 15510. Il PIL del 1992 è ottenuto moltiplicando quest’ultimo valore per 1,0125, e così via sino al 2000. Se invece di un tasso del 1,25 %, avessimo il 2,11 % sperimentato in media nell’ultimo secolo dall’Italia (seconda colonna dell’es. 1.1), a un risultato solo leggermente diverso nel 1991, si affianca un risultato ben diverso nel 2000. E se il nostro paese avesse avuto un tasso di crescita del 6 %? Basta guardare la terza colonna dell’es. 1.1. Il PIL del 2000 è quasi il doppio di quello del 1990! Si noti che tassi di crescita del 6 % non sono fantascientifici. L’Italia li ha sperimentati negli anni tra il 1955 e il 1963. Paesi come Taiwan o l’Irlanda li stanno sperimentando in periodi recenti.

In effetti, esiste una regola approssimata, detta regola del 70, che ben aiuta a ritenere l’importanza della crescita a tasso composto. Secondo questa regola, se una variabile cresce dell’x % all’anno, in un periodo di approssimativamente 70/x anni essa raddoppierà. All’attuale tasso di crescita ci vorrebbero quindi 70/1,25 (=56) anni al PIL pro capite italiano per raddoppiare. A tassi di crescita “irlandesi” del 6 %, ci vorrebbero invece circa 12 anni (»70/6).

Si capisce dunque perché il premio Nobel per l’economia Robert Lucas afferma che: “… una volta che si comincia a pensarci [alle differenze tra i tassi di crescita sperimentati da vari paesi], non si riesce più a smettere”. Effettivamente, la spiegazione delle differenze nei tassi di crescita ha sempre interessato gli economisti, e a questo fenomeno sono state date svariate spiegazioni (dal lato dell’offerta, dal lato della domanda, istituzionali, …). Nelle due prossime sezioni verrà illustrato lo schema analitico (essenzialmente la funzione di produzione e i concetti a essa legati di rendimenti di scala e di produttività) entro al quale è possibile dare conto, seppure a grandissime linee, delle più importanti tra queste spiegazioni.

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1.2) Crescita e produttività

Lo schema analitico entro al quale si muovono le più importanti spiegazioni del fenomeno della crescita economica è essenzialmente il seguente. Vi è un processo che lega il raggiungimento di un risultato (di un output) all’utilizzazione di date risorse (i fattori di produzione o input). Per un paese, una regione, ecc., la nozione di output rilevante è quella del PIL (naturalmente, a prezzi costanti), o il suo tasso di crescita. Questa è la variabile la cui evoluzione gli economisti ritengono di essere in grado di spiegare. Quand’anche la variabile di interesse fosse il PIL reale pro capite (o il suo tasso di crescita), la spiegazione del suo andamento deriverebbe di solito dalla spiegazione dell’evoluzione delle sue componenti, il PIL reale e il numero di abitanti.

Per quanto riguarda le nozioni di fattori di produzione, o input, tradizionalmente prese in considerazione, esse sono quelle di lavoro (numero di addetti, o monte di ore lavorate) e stock di capitale fisico (anche questo, come il PIL, valutato a prezzi costanti). Agli inizi della storia del pensiero economico, economisti come Ricardo e Malthus si erano interessati al ruolo della terra (più generalmente riconducibile al concetto di stock di risorse naturali). Recentemente, la teoria della crescita ha messo in luce la rilevanza dello stock di capitale umano.

Vediamo un poco più in dettaglio questi input.

Il ruolo del fattore lavoro non richiede probabilmente molte spiegazioni. Senza attività lavorativa, non può sussistere alcuna attività produttiva. Addirittura, il PIL per addetto, o il PIL per ora lavorata, è diventato per molti sinonimo della produttività, cioè del rapporto tra risultati del processo produttivo e risorse in esso impegnate. Come si vedrà nelle prossime sezioni, questa equiparazione è, salvo casi particolari, fallace. Tuttavia, essa riflette il ruolo fondamentale dato al lavoro nell’analisi economica della produzione.

Naturalmente, i risultati produttivi del lavoro dipendono solitamente dal tipo di strumenti coi quali essi possono lavorare. La dotazione di macchinari, attrezzature, mezzi di trasporto e fabbricati, di cui si dispone per produrre beni e servizi è detta lo

stock di capitale fisico, o, per antonomasia, il capitale.

Come si è già accennato, agli albori dello sviluppo delle economie capitalistiche, risultava evidente agli economisti come anche lo stock di risorse naturali (rinnovabili e non rinnovabili) fosse decisivo nel determinare i risultati produttivi del lavoro.

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Peraltro, in misura concomitante col progresso delle economie capitalistiche si è sempre di più evidenziato come i risultati produttivi del lavoro dipendano dalle conoscenze e abilità professionali acquisite dai lavoratori attraverso l’istruzione, l’addestramento professionale e l’esperienza. Lo stock di capitale umano misura la dotazione di queste conoscenze e abilità professionali.

In effetti, il progresso delle economie capitalistiche ha pure sempre di più evidenziato il fondamentale ruolo dello stato delle conoscenze tecniche, il bagaglio di conoscenze di cui la società dispone sulle modalità di produzione dei beni e dei servizi, nel determinare gli esiti del processo produttivo. E’ evidente che, più che un fattore di produzione, lo stato delle conoscenze tecniche è la capacità di trarre il miglior frutto dagli altri fattori di produzione. Sono pure evidenti gli stretti legami tra lo stato delle conoscenze tecniche e lo stock di capitale umano. Tuttavia, vi è un’importante differenza tra queste due variabili: lo stato delle conoscenze tecniche rappresenta l’insieme delle conoscenze diffuse nella società; lo stock di capitale umano misura le risorse impegnate per trasmettere effettivamente queste conoscenze alle forze di lavoro.

Si noti che il fatto di considerare il PIL come concetto di output ha portato gli economisti a trascurare il ruolo nel processo produttivo dei cosiddetti prodotti intermedi: le materie prime, i semilavorati, ecc. Nonostante le apparenze, questa negligenza non è facilmente scusabile dal punto di vista analitico. Tranne in alcuni particolari casi, la dotazione di prodotti intermedi ha sicuramente un impatto sul risultato del processo produttivo, anche qualora l’output sia una nozione di valore aggiunto, quale è il PIL. Dato tuttavia il carattere introduttivo del presente corso, non ci discosteremo dalla tradizionale (e più semplice) scelta di escludere i prodotti intermedi dal novero dei fattori produttivi.

E’ chiaro che i fattori di produzione sono tra di loro estremamente eterogenei. Alcuni (lo stock di capitale fisico, lo stock di risorse naturali) presentano grandi eterogeneità anche al loro interno. Come è dunque possibile commisurare il ruolo di questi diversi fattori nello spiegare la determinazione del PIL e del suo tasso di crescita? Fondamentalmente, gli economisti hanno risolto questo problema di misurazione attraverso il concetto di produttività, che verrà illustrato nel prossimo paragrafo.

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1.3) Produttività, funzione di produzione, rendimenti di scala

Una volta appurato che il PIL scaturisce dall’applicazione di vari fattori di produzione, possiamo definire come insieme di produzione, o insieme delle possibilità produttive, l’insieme dei livelli di PIL che sono tecnicamente fattibili per dati livelli dei fattori di produzione Tradizionalmente, gli economisti hanno scelto di descrivere questo insieme di produzione mediante la sua frontiera, o funzione di produzione, che, per un dato livello dei fattori di produzione individua il massimo livello di PIL tecnicamente fattibile. La funzione di produzione è, in linea di principio, un concetto di tipo fisico. Per esempio, utilizzando dati numeri di ore di lavoro, e dati stock di risorse naturali e di capitale fisico e umano, nel paese di Agrolandia è possibile arrivare a produrre date quantità massime di latte e grano. Quello che però è ancora più importante, è che la funzione di produzione può essere descritta mediante concetti (la produttività media e la produttività marginale) tali da permettere di misurare l’impatto relativo dei vari input sull’output. Esamineremo la derivazione di questi concetti prima nel caso di un solo input variabile (il lavoro) e poi nel caso di più input variabili.

Si consideri il processo produttivo relativo al PIL (reale) di Agrolandia. Si ipotizzi che all’inizio dell’anno le imprese agricole hanno affittato un dato stock di bestiame, terra, macchinari, ecc. per un valore di 100 E. Ipotizziamo pure che sia dato lo stato delle conoscenze tecniche. Quindi, l’ammontare di latte e grano effettivamente prodotto durante l’anno dipenderà dal numero di operai assunti (per semplicità, ipotizziamo pure che il numero di ore per operaio è fisso). In questo caso la funzione di produzione, per ogni dato numero di operai, individua la massima quantità di latte e grano che è possibile ottenere.

L’andamento della funzione di produzione può essere descritto1 mediante i

fondamentali concetti di produttività media del lavoro, uguale in questo caso al seguente rapporto:

1 Le funzioni di produzione vengono solitamente rappresentate mediante relazioni matematiche tra output e input, ed effettivamente anche la funzione di produzione dell’esempio numerico qui fornito potrebbe essere rappresentata da una funzione matematica. Per il momento tuttavia, a scopo didattico, tralasciamo questa rappresentazione e ci concentriamo sulla descrizione di questa relazione tramite misure di produttività.

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e di produttività marginale del lavoro, uguale in questo caso a:

e cioè al rapporto incrementale2 del PIL reale sul numero di operai (in questo esempio,

il lavoro è l’unico fattore di produzione variabile), o, parimenti, al prodotto addizionale ottenuto assumendo un’unità in più di lavoro (un operaio in più).

E’ chiaro che il concetto di produttività media confronta output e input per dati livelli di queste grandezze. D’altra parte il concetto di produttività marginale confronta output e input per date variazioni di queste grandezze. In quest’ultimo caso, stiamo comunque confrontando variazioni assolute. Se invece volessimo confrontare i tassi di crescita che sono variazioni percentuali (o relative), dovremmo utilizzare il concetto di elasticità dell’output all’input (in questo caso dell PIL reale al lavoro):

coerentemente con l’impiego del concetto di rapporto incrementale, si è applicata per l’elasticità la cosiddetta formula del punto medio, ponendo (qt + qt-1)/2 e (nt + nt-1)/2 al

posto di, rispettivamente, qt e nt. Viene spontaneo chiedersi quale sia il legame tra il

concetto di elasticità e le produttività viste in precedenza. Procediamo quindi qui sotto alla seguente rielaborazione:

2 E’ risaputo che il limite a zero del rapporto incrementale è la derivata. Nel testo utilizziamo tuttavia il primo, e più intuitivo, concetto.

operai di numero reale PIL operai di numero reale PIL operai) di (numero operai) di (numero reale) (PIL reale) (PIL 1 -t t 1 -t t D D = )/2 n (n n )/2 q (q q 1 -t t 1 -t t + D + D

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L’elasticità è uguale al rapporto tra produttività marginale e produttività media, dove però quest’ultima è presa nel punto medio tra i due valori interessati dal rapporto incrementale.

Vediamo qui sotto un esempio numerico relativo a tutte queste variabili:

TABELLA 1.2 PIL reale (Q) N. di operai Produtt. media del lavoro Produtt. marginale del lavoro Elasticità di Q a N. 617 1002 1331 1628 1904 2163 2409 2645 2873 3092 500 1000 1500 2000 2500 3000 3500 4000 4500 5000 1,23 1,00 0,89 0,81 0,76 0,72 0,69 0,66 0,64 0,62 -- 0,77 0,66 0,59 0,55 0,52 0,49 0,47 0,45 0,44 -- 0,71 0,70 0,70 0,70 0,70 0,70 0,70 0,70 0,70

Si noti che, come viene comunemente supposto, la produttività marginale del lavoro è decrescente (legge dei rendimenti decrescenti). In ragione del crescente affollamento che si crea sul lavoro, il PIL reale aumenta all’aumentare del numero di operai, ma in maniera meno che proporzionale. A questo andamento decrescente della produttività marginale del lavoro corrisponde un andamento decrescente, ma in modo più attenuato, della produttività media. L’elasticità della quantità prodotta al lavoro è invece praticamente costante. In effetti, il presente esempio ha pure lo scopo di evidenziare che a produttività media e marginale decrescente può (non deve) corrispondere un’elasticità costante.

media Produtt. marginale Produtt. )/2 n (n )/2 q (q n q )/2 n (n n )/2 q (q q 1 -t t 1 -t t 1 -t t 1 -t t » + +D D = + D + D

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La funzione di produzione dell’esempio numerico, e il suo andamento meno che proporzionale, sono illustrati graficamente qui sopra. Se utilizziamo invece una scala logaritmica, e cioè confrontiamo date variazioni percentuali di quantità prodotta e lavoro, vedremo che in questo caso, coerentemente con la costanza dell’elasticità, esiste tra le due grandezze una relazione proporzionale.

Esaminiamo ora il caso di più input variabili. Si consideri sempre il PIL in Agrolandia. Ora però ipotizziamo che, non solo il lavoro, ma anche gli altri fattori di produzione siano variabili a piacimento delle imprese (tuttavia, manteniamo come dato lo stato delle conoscenze tecniche). Per comodità espositiva, tutti questi fattori, stock di

Funzione di produzione

0 1000 2000 3000 0 1000 2000 3000 4000 5000 N. di operai Q

F. di p. (scala logaritmica)

6 7 8 6 7 8 9 ln (N) ln (Q)

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bestiame, terra, macchinari, ecc. saranno raccolti sotto l’etichetta di capitale. Quindi, l’ammontare di latte prodotto dipenderà sia dal numero di operai assunti (ipotizziamo sempre che il numero di ore per operaio è fisso) che dallo stock di capitale.

La relazione tra PIL (Q), numero di operai assunti (N) e stock di capitale (K) ci è sempre data dalla funzione di produzione, che, per ogni data quantità di input (in questo caso N e K), individua la massima quantità di latte e grano che è possibile ottenere, e che possiamo scrivere come:

Q = ƒ (K, N)

Tuttavia, con entrambi i fattori che possono variare liberamente, non potremo più fare appello alla legge dei rendimenti decrescenti per determinare a priori il tipo di relazione tra output e input. In questo caso, gli economisti ritengono generalmente che valgano i rendimenti di scala costanti: una variazione equiproporzionale di tutti gli input porterà a un’uguale variazione dell’output. Utilizzando input e output del nostro esempio, questa proprietà può essere rappresentata nel modo seguente. Se moltiplichiamo tutti gli input per lo stesso numero a, allora:

ƒ (a K, a N) = a ƒ (K, N) = a Q

Si noti che potremmo ipotizzare pure l’esistenza di rendimenti di scala decrescenti:

ƒ (a K, a N) < a ƒ (K, N) = a Q

o di rendimenti di scala crescenti:

ƒ (a K, a N) > a ƒ (K, N) = a Q

In ogni caso, seguendo una prassi comune, supporremo l’esistenza di rendimenti costanti. La relazione tra output e input sarà descritta da:

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TABELLA 1.3 Q N K 501 500 50 1002 1000 100 1503 1500 150 2004 2000 200 2505 2500 250 3006 3000 300 3507 3500 350 4008 4000 400 4509 4500 450 5010 5000 500

Come si può vedere, al raddoppiare degli input, raddoppia anche l’output. Si noti peraltro che, se entrambi i fattori variano nella stessa proporzione e vi sono rendimenti di scala costanti, le produttività medie sono costanti. In questo caso non è neppure possibile definire il concetto di produttività marginale (che si applica quando variano l’output e uno solo degli input alla volta). Si mostrerà peraltro qui sotto che, anche in un processo produttivo per il quale vi sia la possibilità di variare liberamente entrambi gli input, le nozioni di produttività marginale e di elasticità mantengono una grande importanza.

Supponiamo per esempio di prendere due valori di K (=100 e =150) e di calcolare per ciascuno di essi produttività marginale del lavoro (pmN) ed elasticità dell’output al lavoro (eQN). TABELLA 1.4 N Q|K=100 Q|K=150 pmN|K=100 pmN|K=150 eQN|K=100 eQN|K=150 500 617 697 -- -- -- -- 1000 1002 1132 0,77 0,87 0,71 0,71 1500 1331 1503 0,66 0,74 0,70 0,70 2000 1628 1839 0,59 0,67 0,70 0,70 2500 1904 2150 0,55 0,62 0,70 0,70 3000 2163 2443 0,52 0,59 0,70 0,70 3500 2409 2721 0,49 0,56 0,70 0,70 4000 2645 2987 0,47 0,53 0,70 0,70 4500 2873 3244 0,45 0,51 0,70 0,70 5000 3092 3492 0,44 0,50 0,70 0,70

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Possiamo poi ripetere la procedura in senso inverso. Prendiamo due valori di N (=1000 e =1500) e calcoliamo per ciascuno di essi produttività marginale del capitale (pmK)e l’elasticità dell’output al capitale (eQK).

TABELLA 1.5 K Q|N=1000 Q|N=1500 pmK|N=1000 pmK|N=1500 eQK|N=1000 eQK|N=1500 50 814 1081 -- -- -- -- 100 1002 1331 3,76 5,00 0,31 0,31 150 1132 1503 2,59 3,44 0,30 0,30 200 1234 1639 2,04 2,71 0,30 0,30 250 1320 1753 1,71 2,27 0,30 0,30 300 1394 1851 1,48 1,97 0,30 0,30 350 1460 1939 1,32 1,75 0,30 0,30 400 1519 2018 1,19 1,58 0,30 0,30 450 1574 2091 1,09 1,45 0,30 0,30 500 1625 2158 1,01 1,34 0,30 0,30

Ciò che emerge dalle due ultime tabelle è che la produttività marginale di ognuno dei due fattori dipende anche dalla dotazione dell’altro fattore; più, per esempio, è alta la dotazione di capitale e maggiore è la produttività marginale del lavoro. Stesso discorso potrebbe essere fatto per le produttività medie (i rapporti tra output e lavoro, o tra output e capitale, la cui derivazione è lasciata come esercizio per il lettore).

Ora, da ognuna delle ultime tre tabelle possiamo desumere che per N=1500 e K=150, Q è uguale a 1503. Ma possiamo ricavare questo valore, almeno approssimativamente, utilizzando i valori delle produttività marginali, anche se questi dipendono anche dalla dotazione dell’altro fattore. In effetti, differenziando l’espressione della funzione di produzione, avremo:

D Q = pmN D N + pmK D K

Dobbiamo tenere qui conto del fatto che ai due valori di K (Kt e Kt-1) e N (Nt e Nt-1), le

produttività marginali, rispettivamente di N e K, avranno due valori diversi (cfr. le due ultime tabelle). La nostra formula diventa quindi:

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e cioè, in termini numerici:

D Q = (0,66 + 0,74)/2 D N + (2,59 + 3,44)/2 D K D Q = 501

ma 1002 + 501 = 1503, che è proprio il valore desiderato. Su intervalli più ampi, questo tipo di calcolo può valere solo approssimativamente. Comunque, è chiaro che possiamo, anche in presenza di più input che possono variare liberamente, utilizzare le produttività marginali di questi input per pesarne l’impatto relativo sulle variazioni dell’output. Altrettanto si può dire delle elasticità per quanto riguarda le variazioni relative. In questo caso la formula rilevante è:

(eQN t + eQN t-1)/2 ( D N / ((N t + N t-1)/2) ) + (eQK t + eQK t-1)/2 ( D K / ((K t + K t-1)/2) )

e cioè:

(0,70 + 0,70)/2 500 / 1250 + (0,30 + 0,30)/2 50 / 125 = 0,4

che è anche il valore uguale a 501/((1002+1503)/2), la variazione percentuale dell’output. Ovviamente, in questo caso, poiché l’elasticità è virtualmente costante, non ci sarebbe bisogno di calcolarne la media nei due punti interessati. Però, come già detto in precedenza, questa è semplicemente una caratteristica del presente esempio e non è vera in generale.

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1.4) Produttività e progresso tecnico

Vediamo ora come i concetti elaborati qui sopra possono essere utilizzati nella misurazione di alcune definizioni di produttività comunemente utilizzate. Approfondiremo pure le relazioni esistenti tra produttività e altre importanti grandezze che vengono spesso confuse con essa: l’efficienza (tecnica) e il progresso tecnico. La produttività è data dal rapporto tra i risultati conseguiti nel processo produttivo e i mezzi impiegati per realizzarli. Essa misura la capacità dell'entità economica analizzata di trasformare risorse economiche in beni e servizi.

Si parla poi di produttività globale quando si misura la produttività con riferimento a tutti i fattori che concorrono alla realizzazione del processo produttivo. Se l'output è rappresentato dal PIL, la produttività globale è misurata dal rapporto tra il valore aggiunto e tutti i fattori impiegati nel processo produttivo (lavoro, capitale fisico, ecc.). Si parla invece di produttività parziale quando si misura la produttività con riferimento a un solo fattore alla volta (medianti i rapporti PIL/lavoro, PIL/capitale). In linea di principio, le misure di produttività globale permettono di meglio valutare la capacità dell'entità economica considerata di trasformare risorse in beni e servizi, soprattutto perché permettono di tenere conto di eventuali fenomeni di sostituzione tra fattori produttivi. Come si è visto nel precedente paragrafo, infatti, la produttività marginale di un fattore dipende anche dalla dotazione degli altri fattori.

Comunemente, nell’analisi quantitativa del processo di crescita economica, ci si interessa alle variazioni della produttività globale. In effetti, in questo modo, si intende misurare, almeno in prima approssimazione, il progresso tecnico. Con questo termine si definisce il processo mediante cui varia nel tempo lo stato di conoscenze tecniche a disposizione dell'entità economica analizzata per trasformare risorse in beni e servizi. In altri termini, il progresso tecnico è un processo di cambiamento dello standard di ottimalità tecnica rilevante per l'entità economica analizzata, ed equivale a uno spostamento della sua funzione di produzione.

Nel grafico sottostante viene mostrato l’effetto del progresso tecnico sulla funzione di produzione considerata nel precedente paragrafo (lo stock di capitale è dato e uguale a 100 E.).

(16)

Vediamo ora come i concetti di produttività media, marginale ed elasticità dell’output agli input possono essere utilizzati nella misura del progresso tecnico.

TABELLA 1.6 A) N Q|K=100 Q/N pmN|K=100 eQN|K=100 500 617 1,23 -- -- 1000 1002 1,00 0,77 0,71 1500 1331 0,89 0,66 0,70 2000 1628 0,81 0,59 0,70 2500 1904 0,76 0,55 0,70 3000 2163 0,72 0,52 0,70 3500 2409 0,69 0,49 0,70 4000 2645 0,66 0,47 0,70 4500 2873 0,64 0,45 0,70 5000 3092 0,62 0,44 0,70 B) N Q|K=100 Q/N pmN|K=100 eQN|K=100 500 926 1,85 -- -- 1000 1504 1,50 1,16 0,71 1500 1997 1,33 0,99 0,70 2000 2443 1,22 0,89 0,70 2500 2855 1,14 0,83 0,70 3000 3244 1,08 0,78 0,70 3500 3614 1,03 0,74 0,70 4000 3968 0,99 0,71 0,70 4500 4309 0,96 0,68 0,70 5000 4639 0,93 0,66 0,70

Progresso tecnico

0 1000 2000 3000 4000 5000 0 1000 2000 3000 4000 5000 N Q

(17)

La parte A) della tab. 1.6 ripete quanto già mostrato nella tab. 1.4; nella parte B) vengono ripetuti gli stessi valori dell’input (il lavoro), mentre l’output e le altre variabili riflettono l’intervento di un progresso tecnico del tipo evidenziato nel sovrastante grafico.

Dalla disamina delle produttività medie, si evince che esse sono aumentate del 150 % in conseguenza del progresso tecnico. In termini di produttività marginale, il contributo del progresso tecnico all’aumento dell’output è di:

D Q - (pmNt + pmNt-1)/2 D N

e cioè:

D Q - (0,66 + 0,99)/2 D N 995 - 413 = 5823 =

mentre in termini di elasticità dell’output all’input esso è:

( D Q / ((Q t + Q t-1)/2) ) - (eQN t + eQN t-1)/2 ( D N / ((N t + N t-1)/2) )

e cioè:

(995 / 1500) - (0,70 + 0,70)/2 500 / 1250 = 0,38 » 1/(2,5)

(18)

1.5) Solow e la contabilità della crescita

Solow nel suo classico lavoro del 19574, trae proprio spunto dal fatto che, anche

in presenza di più input che possono variare liberamente, si possano utilizzare le produttività marginali di questi input per pesarne l’impatto relativo sulle variazioni degli output, e che altrettanto si possa dire delle elasticità per quanto riguarda le variazioni relative. Scopo precipuo di questo scritto era quello di fornire una procedura elementare per misurare le variazioni percentuali nel tempo del progresso tecnico, senza che si avesse conoscenza dei valori numerici assunti dai parametri della funzione di produzione.

Tratto fondamentale dell'analisi è quello di basarsi su di una funzione di produzione a rendimenti di scala costanti del tipo:

Qt = ƒ ( Nt, Kt, t ) (1)

dove Q, N e K hanno il consueto significato, mentre t rappresenta una misura dello stato delle conoscenze tecniche, che è legato al trascorrere del tempo. Solow fa l'ipotesi che il progresso tecnico possa considerarsi neutrale, nel senso che sue variazioni potranno influenzare l'ammontare di Qt ottenibile per dati Nt e Kt, senza far variare i saggi marginali di sostituzione tra questi due fattori. In base a questa ipotesi, la (1) può essere riscritta come:

Qt = At ƒ ( Nt, Kt ) (2)

dove At è una misura dello stato delle conoscenze tecniche dotata della succitata proprietà di neutralità. Un cambiamento nella combinazione di N e K comporta uno spostamento di Y lungo la funzione di produzione (ovvero per un t costante). Per contro, il verificarsi di un progresso tecnico comporta uno spostamento della funzione di produzione. Il termine At misura quindi l'effetto cumulato nel tempo degli

spostamenti di ƒ (.).

4 Solow R. (1957), Technological Change and the Aggregate Production Function, Review of Economics and Statistics.

(19)

Riformulando (2) in termini di variazioni assolute, si avrà:

DQ = ¶Q/¶A DA + ¶Q/¶N DN + ¶Q/¶K DK (3)

dove ¶Q/¶x sta per il rapporto incrementale di Q rispetto a x. Quindi, ¶Q/¶N e ¶Q/¶K saranno evidentemente i prodotti marginali del lavoro e del capitale. Quanto a ¶Q/¶A, dalla disamina di (2) risulta evidente che esso sarà uguale a ƒ ( Nt, Kt ). Potremo quindi

riscrivere (3) come:

DQ = ƒ ( Nt, Kt ) DA + pmN DN + pmK DK (3’)

Quindi, Solow procede facendo due ulteriori ipotesi, e cioè che il processo di produzione avviene in condizioni di concorrenza perfetta e di massimizzazione dei profitti. Queste ipotesi implicano che le remunerazioni medie dei fattori lavoro e capitale (espresse in termini reali) siano uguali alle rispettive produttività marginali. Indicando questi prezzi rispettivamente con w e r, si avrà allora:

DQ = ƒ ( Nt, Kt ) DA + w DN + r DK (3’’)

Si definiscano ora le variabili :

w = a (4)

r = b (5)

vale a dire che a e b sono le quote di reddito spettanti, rispettivamente, al lavoro e al capitale (si noti che, data l’ipotesi di rendimenti di scala costanti, a + b = 1). Ora, dividendo ambo i termini della (3’’) per Qt, questa diventerà:

t t Q N t t Q K

(20)

= + a + b (6)

Dalla (6) è elementare ottenere:

= - a - b (7)

Come si deduce agevolmente da quanto detto in precedenza, secondo Solow mediante la (7) è possibile fornire una misura delle variazioni percentuali del progresso tecnico. Tuttavia, affinché questo sia vero, l'entità economica considerata dovrà essere efficiente, nel senso chiarito in § 1.4. Ancora, qualora non sia verificata l’ipotesi di rendimenti di scala costanti, la misura di Solow potrebbe semplicemente registrare cambiamenti intervenuti nella scala produttiva dell’entità considerata.

Può essere interessante utilizzare alcuni dei costrutti analitici elaborati qui sopra per esemplificare le condizioni in cui misure di produttività parziale (come la produttività del lavoro) possono risultare delle soddisfacenti approssimazioni a misure di produttività globale. In effetti, il calcolo di misure di produttività globale è sovente assai problematico, in primo luogo a causa delle difficoltà pratiche di ottenere buone misure dello stock di capitale fisico e umano. Per tali ragioni, risulta appropriato interessarsi pure alle proprietà delle misure di produttività parziale, tra cui la maggiormente utilizzata è la produttività del lavoro (o prodotto per unità di lavoro, p.u.l.).

Si consideri a questo proposito la seguente misura in variazioni percentuali della produttività del lavoro (o p.u.l.):

= - (8)

Nel caso in cui si avrà a + b = 1, e quindi a = 1 - b, la misura del progresso tecnico di Solow diventa:

t Q Q Δ t A A Δ t N ΔN t K ΔK t A A Δ t Q Q Δ t N N Δ t K K Δ t (p.u.l.) (p.u.l.) Δ t Q Q Δ t N N Δ

(21)

= - - b ( - ) (9)

= - b ( - )

La (9) mostra in maniera evidente che, in presenza di variazioni nella dotazione di capitale per unità di lavoro, le variazioni percentuali della produttività del lavoro non forniscono una misura veridica dei cambiamenti effettivamente avvenuti nella capacità dell'entità economica considerata di trasformare beni e servizi in risorse.

Tuttavia, mediante la (9) è pure possibile accertare chiaramente come qualora la dotazione di capitale per unità di lavoro rimanga costante, implicando l'uguaglianza tra e , vi possa essere perfetta coincidenza tra le variazioni percentuali della produttività del lavoro e del progresso tecnico.

Ancora, si noti che per la maggior parte dei paesi il valore di b è vicino a 0,3. Quindi, se la differenza tra le variazioni percentuali di K e N non si discosta di molto da zero, allora le variazioni percentuali della produttività del lavoro saranno abbastanza prossime a quelle del progresso tecnico. Ciò contribuisce a spiegare come la produttività del lavoro, universalmente utilizzata a fini pratici e analitici negli anni cinquanta e sessanta, sia stato gradualmente abbandonata (almeno per ciò che riguarda i lavori metodologicamente più solidi) dai primi anni settanta. E' infatti a partire da tale data che si sono verificate nelle economie industrializzate delle notevoli fluttuazioni nella dotazione di capitale per unità di lavoro.

t A A Δ t Q Q Δ t N N Δ t K K Δ t N N Δ t (p.u.l.) (p.u.l.) Δ t K K Δ t N N Δ t K K Δ t N N Δ

(22)

1.6) Produttività, efficienza tecnica, ed efficienza di scala

In generale, le variazioni della produttività globale permettono di individuare per ogni entità economica considerata il progresso tecnico solo se ogni entità economica si trova sulla funzione di produzione. Ma, per un dato stato delle conoscenze tecniche a disposizione di un'entità economica, è possibile supporre che, anche se in possesso di queste capacità tecniche, a causa di carenze e difficoltà organizzative l'entità economica possa non trarne pieno vantaggio. Similmente, l’entità economica considerata potrebbe non trarre vantaggio dall'esistenza di economie di scala.

Quindi, l’entità economica considerata può rivelarsi tecnicamente inefficiente, definendo per efficienza tecnica l'aderenza dell'entità economica analizzata allo standard di ottimalità individuato dalla funzione di produzione. Si suppone cioè che sia possibile definire per l'entità economica analizzata una capacità ottimale di trasformare risorse in beni e servizi, e si rapporta di conseguenza la capacità effettiva dell'entità economica analizzata di trasformare risorse a questo standard di capacità ottimale. La divergenza esistente tra capacità effettiva di trasformare risorse e standard di ottimalità misura l'inefficienza dell'entità economica.

Nel grafico sottostante, l’entità S è tecnicamente inefficiente. Con quell’input potrebbe produrre più output, oppure, a parità di output, potrebbe utilizzare meno input.

E’ possibile individuare l’inefficienza tecnica nel senso degli input, anche qualora vi sia più di un fattore di produzione variabile. In questo caso, si ricorre all’isoquanto, il

Funzione di produzione 0 1000 2000 3000 0 1000 2000 3000 4000 5000 N Q S

(23)

luogo geometrico delle combinazioni di fattori che danno uno stesso ammontare di output, e che è possibile derivare nel modo seguente:

DQ = pmN DN + pmK DK

0 = pmN DN + pmK DK

pmK DK = - pmN DN

DK = - (pmN/ pmK) DN

Nel grafico sottostante, l’entità xs non è efficiente in quanto utilizza, per un dato

output, una combinazione di input maggiore di quella che sarebbe sufficiente (si trova sopra all’isoquanto). Misuriamo quindi l’inefficienza tecnica di xs, sul raggio che la

congiunge all’origine del grafico, con il rapporto xs xt / 0 xt.

K

N

xt xa xs 0

(24)

Peraltro, come accennato qui sopra, la tematica dell’efficienza non si limita all’efficienza tecnica. Esiste anche la possibilità di definire l’efficienza di scala. Cominciamo definendo il livello ottimale della scala di produzione. Esso si trova in corrispondenza del punto di produttività media massima (o di costo medio minimo). E’ possibile dimostrare che in presenza di questo punto i rendimenti di scala saranno costanti.

Prendiamo per esempio un caso in cui vi sia un (solo) input X e un output Q; questo caso è illustrato nel sottostante grafico.

Per ogni punto che si trova sulla funzione di produzione, la produttività media è sempre misurabile dalla pendenza della retta che unisce l’origine degli assi a questo punto. Per esempio, per il punto 1, la produttività media sarà uguale a OA/OP; per il punto 3, la produttività media sarà invece uguale a OC/OP”. Ora, dove si trova la produttività media massima (per la quale il costo medio totale sarà minimo)? Essa si troverà nel punto in cui la retta che unisce l’origine degli assi a un dato punto sarà tangente alla funzione di produzione. Questa, OB/OP’, sarà la massima pendenza ottenibile, e sarà anche uguale alla pendenza del funzione di produzione. Dunque in questo punto la produttività media sarà uguale alla produttività marginale, e l’elasticità di Q a X sarà uguale all’unità.

O P A B P' Q X 1 2 3 C P”

(25)

In effetti, se D Q / DX = Q / X , allora ( D Q / Q ) / ( D X / X ) = 1 . Ma un’elasticità di Q a X uguale all’unità corrisponde all’esistenza di rendimenti scalari costanti. Dunque, nel punto in cui la funzione di produzione avrà rendimenti scalari costanti, la produttività media sarà massima e il costo medio totale sarà minimo.

Per l’unità produttiva è importante essere il più vicino possibile a questo punto, detto dimensione efficiente, o scala efficiente. L’efficienza di scala misura in effetti la distanza dell’unità produttiva dalla scala efficiente. Se la scala di attività di un’unità produttiva corrisponde alla dimensione efficiente, questa unità sarà efficiente nel senso della scala, o scale-efficient. Se la scala di attività è maggiore o minore della dimensione efficiente, l’unità produttiva sarà scale-inefficient. Vediamo ora come rendere più precise queste nozioni nel caso della tecnologia considerata nel grafico precedente.

Per misurare l’efficienza di scala dell’unità produttiva che si trova nel punto 3 utilizziamo il rapporto OC / OD. Per un dato input P”, questo rapporto misura il rapporto tra la produttività media propria del punto 3 (che si trova sulla vera funzione di produzione ed è quindi tecnicamente efficiente), e la produttività media propria del punto che, per l’input P”, troviamo sulla funzione di produzione a rendimenti scalari costanti tangente alla vera funzione di produzione (ogni punto che si trova su questa

O Q X 1 3 C P” 2 4 D E

F. di produzione a rend. scal. costanti

“vera” F. di produzione

(26)

funzione è scale-efficient). Il rapporto OC / OD misura dunque il rapporto tra la produttività media propria del punto 3 e la produttività media massima. E’ evidente che più la vera funzione di produzione dista dalla funzione di produzione a rendimenti scalari costanti, e meno sarà scale-efficient un’unità produttiva che si trovi su di essa.

Se la nostra unità produttiva non fosse neanche tecnicamente efficiente, e quindi si trovasse per esempio nel punto 4, l’efficienza di scala verrebbe misurata rapportando la distanza del punto 4 dalla funzione di produzione a rendimenti scalari costanti (OE / OD) con la distanza del punto 4 dalla vera funzione di produzione (OE / OC).

In definitiva, si può scomporre la capacità di un'entità economica di trasformare risorse in beni e servizi in due componenti. Una componente è essenzialmente legata allo stato delle conoscenze tecniche di trasformazione. Esiste però un'altra componente, legata all'utilizzazione effettiva e alla gestione ottimale di queste capacità tecniche, e quindi all'efficienza dell'entità economica. In maniera intuitiva, è dunque possibile concepire come un dato livello della produttività risulti da uno stato delle conoscenze

tecniche e da un dato livello di efficienza. Ovviamente, per un dato stato delle conoscenza tecniche, produttività ed efficienza tecnica saranno concetti equivalenti, mentre in generale le variazioni della produttività rispecchieranno sia il progresso tecnico che le variazioni dell’efficienza.

Figura

TABELLA 1.2  PIL reale  (Q)  N. di  operai  Produtt. media  del lavoro  Produtt.  marginale del lavoro  Elasticità  di Q a N
TABELLA 1.5  K  Q|N=1000  Q|N=1500  pmK| N=1000  pmK| N=1500 e QK | N=1000 e QK | N=1500 50  814  1081  --  --  --  --  100  1002  1331  3,76  5,00  0,31  0,31  150  1132  1503  2,59  3,44  0,30  0,30  200  1234  1639  2,04  2,71  0,30  0,30  250  1320  17
TABELLA 1.6  A)  N  Q|K=100  Q/N  pmN| K=100 e QN | K=100 500  617  1,23  --  --  1000  1002  1,00  0,77  0,71  1500  1331  0,89  0,66  0,70  2000  1628  0,81  0,59  0,70  2500  1904  0,76  0,55  0,70  3000  2163  0,72  0,52  0,70  3500  2409  0,69  0,49

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