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Circa il 75% di questa produzione viene realizzata nei Paesi dell’Unione Europea

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1 INTRODUZIONE

1.1 Generalità

La produzione mondiale di olio d’oliva nel 2006 ha superato i 2,5 milioni di tonnellate (Deidda et al., 2006). Circa il 75% di questa produzione viene realizzata nei Paesi dell’Unione Europea. Al primo posto troviamo la Spagna, che in media produce annualmente 1.050.000 t di olio d’oliva, ovvero circa il 42% della produzione totale, ed ha sul proprio territorio più di 2,4 milioni di ettari coltivati ad olivo (Rallo, 2006). In Italia la superficie occupata dalla coltivazione dell’olivo è circa la metà di quella spagnola, ovvero di 1,1 milioni di ettari, con una produzione nel 2004 di 685.000 t di olio d’oliva, corrispondente a circa il 22% della produzione mondiale dell’annata (Cladini et al., 2005). Segue la Grecia, con una produzione di 400.000 t annue, ed infine Paesi al di fuori dell’Unione Europea, quali Tunisia, Turchia e Siria (Fiorino, 2003).

Anche per quanto riguarda i consumi, i Paesi dell’Unione Europea sono al primo posto, con l’Italia che consuma il 28,3% del totale, la Spagna il 22,2% e la Grecia il 10,2% (Cladini et al., 2005). A seguire troviamo gli Stati Uniti, con il 7,2%. Negli ultimi dieci anni i consumi hanno manifestato un progressivo aumento, soprattutto nelle aree non produttrici o a bassa produzione. Ad esempio, nei già citati Stati Uniti il consumo di olio d’oliva è aumentato in dieci anni dell’84%, mentre in Giappone e Gran Bretagna l’aumento è stato addirittura del 290%. Sebbene il consumo iniziale in questi Paesi fosse basso, tali incrementi percentuali indicano uno scenario sui mercati mondiali decisamente positivo, nel quale l’Italia può giocare un ruolo di primo piano, soprattutto per quanto riguarda le fasce di prodotto di alta qualità (Scalise, 2006).

La coltivazione dell’olivo in Italia è essenzialmente volta alla produzione di olio d’oliva, dato che soltanto 70.000 t di olive su un totale di 2.600.000 t sono destinate al consumo diretto. La produzione è principalmente concentrata in quattro regioni del sud Italia, ovvero nell’ordine Puglia, Calabria, Sicilia e Campania (Godini, 2006).

Queste regioni insieme coprono l’ 86,8% della produzione nazionale di olio d’oliva.

Nell’Italia centrale, le regioni più importanti dal punto di vista produttivo sono Lazio e Toscana, che nell’annata 2004-05 hanno prodotto rispettivamente 34.575 t e 26.192 t di olio d’oliva (Ismea, 2005).

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In tutte le zone di produzione il territorio italiano risulta estremamente frammentato, visto che ad una superficie coltivata di 1.081.000 ha corrispondono 1.212.000 aziende sparse sul territorio nazionale. Questo significa che un’azienda olivicola italiana mediamente non supera l’ettaro di superficie coltivata mentre, ad esempio, in Spagna la superficie media aziendale è di 5 ha (Deidda et al., 2006). Questa situazione rappresenta un primo ostacolo per la modernizzazione dell’olivicoltura italiana, dato che soltanto un 50% delle aziende italiane produce olio per il mercato, ed è quindi disposta a sostenere significativi investimenti per il rinnovo e la conversione di impianti spesso obsoleti.

Una ulteriore difficoltà è data in certi casi dalla distribuzione degli oliveti su terrazzamenti, situazione che interessa il 15% degli oliveti nazionali, ma è particolarmente rilevante nel Centro-Nord, zona in cui questa percentuale sale al 30%. Relativamente alla distribuzione altimetrica, il 29,9% della superficie investita ad olivo si trova in pianura, il 66,3% in collina ed il 3,3% in montagna (Ismea, 2005).

Puglia e Sardegna sono le uniche regioni in cui le superfici pianeggianti coltivate ad olivo superano le collinari.

1.2 La gestione dell’oliveto

L’areale di origine dell’olivo è situato nella zona che va dal sud del Caucaso alla Mesopotamia e Palestina (Fiorino, 2003). Da queste zone si è poi diffuso in tutto il bacino Mediterraneo, ed oggi si sta espandendo anche in altri continenti, in una fascia compresa tra i 30 ed i 45° di latitudine Nord e Sud.

Sebbene l’olivo sia una specie che richiede terreni fertili e buone condizioni meteorologiche ed ambientali per produrre abbondantemente e regolarmente, è in grado di sopravvivere e produrre anche in terreni di scarsa fertilità ed in climi aridi.

In Toscana l’olivo viene da secoli coltivato in condizioni ambientali spesso piuttosto limitanti per il suo sviluppo e quindi per la sua produttività, a causa delle basse temperature invernali, che espongono l’albero a rischi di danni da gelate, e di una certa aridità estiva. D’altra parte il clima fresco e le temperature non elevate in fase di maturazione del frutto contribuiscono a determinare il profilo organolettico dell’olio Toscano, conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo. L’olivo in Toscana occupa circa

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90.000 ha, con un patrimonio di 14 milioni di piante distribuite su 70.000 aziende. Il 90% di queste occupa aree collinari, l’8,6% è in pianura ed il restante 1,4% in montagna (Ismea, 2005). Le aziende toscane sono spesso di piccole dimensioni (1,4 ha di media), e circa il 50% di esse coltiva ad olivo meno del 7% della SAU, mentre soltanto il 10% vi destina più del 38%.

Questa notevole frammentazione ha inevitabilmente posto un freno all’innovazione tecnica, portando al mantenimento di impianti “tradizionali”, basati su criteri per molti versi obsoleti, in diverse zone del panorama regionale (e nazionale).

Gli oliveti “tradizionali”, diffusi peraltro in tutte le regioni olivicole italiane, presentano le seguenti caratteristiche costitutive e gestionali:

- età delle piante piuttosto elevata (30 anni o più)

- sesto ampio (a partire da 6 x 6) e molto spesso irregolare - terreno poco fertile, spesso marginale

- pendenza del suolo, a volte anche accentuata, ed eventuale presenza di terrazzamenti

- piante allevate a vaso, a vaso cespugliato o a globo

- dimensioni della chioma notevoli, con esemplari che superano i 6 m di altezza - assenza di impianto di irrigazione

- scarsa produttività

- operazioni colturali (potatura, raccolta, ecc.) eseguite manualmente, talvolta con l’utilizzo di scale o arrampicandosi sulle piante, con basso livello di meccanizzazione e tecnologia

Impianti di questo tipo sono tipici di aziende a conduzione familiare o di zone collinari in cui le condizioni orografiche costituiscono un notevole vincolo per la modernizzazione della gestione. In questo caso l’olivicoltura rappresenta, oltre che un’attività economica dai rilevanti risvolti paesaggistici, un importante strumento di salvaguardia dell’ambiente, grazie all’azione di protezione del suolo da fenomeni di erosione, dilavamento e riduzione della stabilità dei versanti (Barbera & Dettori, 2006).

A questo tipo di gestione si contrappone un’olivicoltura più moderna, portata avanti da aziende specializzate che coltivano l’olivo per trarne profitto, in Toscana situate generalmente nelle pianure litoranee e su colline non eccessivamente declivi. Queste

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aziende si basano su oliveti intensivi con 200-400 piante/ha, sesti d’impianto regolari ed adatti alla meccanizzazione, piante allevate con forme libere a tronco unico e dimensioni della chioma piuttosto contenute. Spesso questi oliveti sono forniti di impianto di irrigazione a goccia, e le operazioni di potatura e raccolta sono meccanizzate.

In Spagna questo processo di specializzazione ed intensificazione degli oliveti è stato spinto ancora oltre, arrivando ai cosiddetti impianti “superintensivi”, caratterizzati da densità d’impianto che superano le 1500 piante/ha. In questi oliveti, costituiti generalmente da alberi della varietà Arbequina, particolarmente adatta per il suo portamento compatto, la precoce entrata in produzione e l’ottima produttività, le operazioni di potatura e raccolta sono completamente meccanizzate. La superficie mondiale investita con impianti di questo tipo è di circa 50.000 ha. In Italia nonostante le buone aspettative (Loreti, 2007), le superfici investite con tali sistemi sono limitate a poche centinaia di ettari. Il punto debole del sistema superintensivo per il nostro Paese è rappresentato dal fatto che ad oggi nessuna delle varietà nostrane finora sperimentate sembra avere le caratteristiche necessarie per potersi adattare a produrre a densità così elevate. La cultivar Arbequina, d’altro canto, non presenta elevati contenuti in polifenoli totali ed ortodifenoli, oltre a non avere spiccate caratteristiche organolettiche. Data la necessità per il nostro Paese di puntare su tipicità ed elevata qualità dell’olio (Gucci & Servili, 2005; Scalise, 2006) per mantenere la competitività a livello internazionale, l’introduzione di una varietà estera come l’Arbequina non sembra offrire prospettive particolarmente favorevoli, salvo casi particolari.

Così il panorama italiano, e quello toscano in particolare, risultano sostanzialmente divisi tra un’olivicoltura “tradizionale” ed un’olivicoltura specializzata con densità d’impianto più elevate e un maggior livello di meccanizzazione. Esistono poi tutta una serie di realtà intermedie, con criteri di gestione adattati all’ambiente produttivo.

In ogni caso la coltivazione dell’olivo risulta estremamente importante sia per il nostro paesaggio ed il nostro ambiente che per la nostra economia. Occorre quindi individuare strategie di gestione applicabili ad ogni situazione, che permettano di abbattere i costi di produzione in modo da mantenere competitiva la nostra olivicoltura.

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1.3 Innovazioni per la potatura e la raccolta

Da un punto di vista economico, le operazioni più onerose tra quelle di gestione dell’oliveto sono la raccolta e, a seguire, la potatura, che da sole possono arrivare facilmente al 70-75 % dei costi di produzione (Biocca et al., 2005). Queste due fasi sono da tempo individuate come uno dei punti critici fondamentali nella coltivazione dell’olivo (Breviglieri, 1961).

In Italia prevale ancora la raccolta manuale, effettuata nel 45,8% delle aziende. Con questa modalità le operazioni di raccolta assorbono l’80% della manodopera necessaria per la coltivazione, pari a circa 300-400 h/ha, ed incidono per il 50-80%

del valore del prodotto (Tombesi, 2001). Più convenienti risultano la raccolta meccanica con scuotitori del tronco o delle branche, effettuata soltanto nel 21,8%

delle aziende (prevalentemente al Sud), e la raccolta meccanizzata con attrezzi agevolatori, che interessa il 32,4% delle aziende (Pampanini & Pignataro, 2006).

La potatura incide mediamente per il 20-30% sul totale dei costi di coltivazione.

Secondo quella che si può definire “potatura tradizionale” ogni anno, di solito tra fine inverno ed inizio primavera, l’olivo deve essere potato asportando la vegetazione esaurita, eliminando tutti i polloni ed i succhioni, effettuando tagli di ritorno sui rami eccessivamente sviluppati e cercando, più in generale, di favorire la penetrazione della luce nella parte centrale della chioma, mantenere la forma di allevamento prestabilita e rinnovare la vegetazione fruttificante, avvicinandola contemporaneamente al centro dell’albero. Inoltre, la tecnica tradizionale prevede spesso un ulteriore intervento immediatamente prima della raccolta, per eliminare polloni e succhioni sviluppatisi durante l’estate. Gli strumenti utilizzati nella potatura tradizionale sono forbici a mano, troncarami e segaccio. Una operazione di questo genere richiede una certa specializzazione del personale, che deve conoscere le modalità di fruttificazione e di risposta ai tagli dell’olivo, e soprattutto risulta estremamente laboriosa, e quindi costosa (Gucci & Cantini, 2001). La potatura tradizionale richiede tempi eccessivamente lunghi, tanto che “oggi non è pensabile potare una pianta utilizzando le cesoie ed i seghetti, impiegando 30- 40 minuti (compresi lo smaltimento del materiale di resulta) ad olivo, perché il valore di questo lavoro, tradotto in olio, corrisponde a circa 500 grammi che spesso coincidono con il

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50% della produttività di una pianta, per lo meno nell’olivicoltura collinare” Toscana (Nizzi Grifi, 2002).

La necessità di abbattere i costi di gestione dell’oliveto, unita alla sempre più difficile reperibilità di personale qualificato ed a questioni di sicurezza sul lavoro, hanno spinto i ricercatori a sviluppare nuove tecniche per la potatura e la raccolta nell’oliveto.

Nella gestione della potatura dell’olivo le innovazioni tecniche si sono mosse essenzialmente in tre direzioni, ovvero:

- allungamento dei turni di potatura

- accorciamento dei tempi di potatura, mediante lo sviluppo di tecniche di

“potatura minima”

- meccanizzazione totale o intermedia delle operazioni di potatura

L’idea che l’olivo debba essere potato annualmente ed in maniera accurata risponde più ad una logica “estetica” o comunque di mantenimento dello scheletro della pianta che non a criteri produttivi. In effetti, già nel 1964 Morettini notava che “con la potatura annuale non si incrementa durevolmente la produttività complessiva degli olivi e non si modifica sostanzialmente l’andamento dell’alternanza” (Morettini, 1964). Prove di lungo periodo relative all’effetto dell’allungamento del turno di potatura sono state condotte in Spagna a partire dagli anni ’70, su piante di più di 80 anni di età, appartenenti alla varietà Picual ed allevate in asciutto (Pastor, 1989). I rilievi, effettuati nell’arco di 10 anni, hanno evidenziato, rispetto alle piante potate annualmente, un aumento di produzione del 14,2% nel caso di piante potate ogni 4 anni, e del 2,1% nel caso di piante potate ogni due anni. Prove condotte in Toscana nell’arco di 7 anni (Cantini & Sillari, 1998) hanno fornito risultati analoghi, confermando che l’adozione di turni di potatura biennali o anche di 3-4 anni permette di mantenere adeguati livelli produttivi senza risvolti negativi sulla qualità dei frutti.

L’allungamento dei turni di potatura comporta una riduzione dei tempi medi (e quindi dei costi medi) annui, anche se nell’anno di potatura il tempo impiegato per l’intervento può essere paragonabile a quello di una potatura tradizionale.

Un diverso approccio per la riduzione dei costi di potatura è rappresentato da quella che viene chiamata “potatura minima”. Questa tecnica consiste nel ridurre al minimo i tagli effettuati sulla pianta, cioè “fino al limite oltre il quale viene compromessa la

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produttività dell’albero” (Gucci, 2005). Per far questo è necessario modificare alcuni criteri operativi durante la potatura. Ad esempio, per risparmiare tempo può essere utile eseguire pochi tagli di ritorno su legno di oltre due anni piuttosto che molti tagli su rami più giovani, riportando così la superficie produttiva indietro lungo l’asse principale. Questi tagli non devono necessariamente essere eseguiti tutti gli anni, o su tutte le branche della chioma in uno stesso anno (Gucci, 2005). Ad eccezione dell’eliminazione dei polloni, che è consigliabile attuare annualmente, le operazioni di eliminazione del legno esaurito e gli altri tagli necessari possono essere eseguiti secondo turni biennali, purché la pianta si trovi in equilibrio vegeto-produttivo.

Adottando questa tecnica di potatura la pianta viene ad assumere una forma piuttosto libera, lontana dagli schemi tradizionali. Questo tuttavia non rappresenta un problema, dato che la forma di allevamento non sembra avere significative influenze sulla produttività della pianta (Proietti et al., 1998).

Un’ulteriore innovazione è rappresentata dalla meccanizzazione della potatura, che oltre a comprimere significativamente i tempi, permetterebbe di risolvere il problema della sempre più difficile reperibilità di manodopera specializzata e non. Da questo punto di vista la soluzione ottimale sembrerebbe essere rappresentata dalla meccanizzazione integrale della potatura. Le attrezzature utilizzate per questo tipo di operazione sono barre falcianti a lame o a dischi dentati, portate dal trattore e alimentate idraulicamente (Figura 1). Con queste barre si possono ottenere tagli inclinati (hedging) con angoli di 15-30°, per sfoltire le zone laterali della chioma, e tagli paralleli al terreno (topping), per contenere l’altezza delle piante. Le barre hanno una larghezza di lavoro superiore a 3 m e sono spostabili verticalmente fino a raggiungere un’altezza massima di oltre 6 m. La qualità del taglio e le quantità di legno asportate con questo tipo di macchine dipendono dalla velocità di avanzamento e dalla disposizione degli organi di taglio. I tempi di esecuzione degli interventi sono molto ridotti (circa 2 ore/ha) con un risparmio di tempo anche del 98% rispetto alla potatura manuale. Tuttavia i risultati ottenuti fino ad oggi con questo tipo di macchine non sono completamente soddisfacenti. In una prova condotta in provincia di Ancona nell’arco di 3 anni si sono messe a confronto la potatura manuale ed agevolata con due tipi di potatura meccanica, una più pesante (profondità di taglio di 35-40 cm) e seguita da una rifinitura manuale, ed una più leggera (profondità di taglio di 10-15

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cm) senza rifinitura (Lodolini et al., 2006). Dai risultati è emerso che, mentre la potatura meccanica pesante provoca danni alle branche e permette il raggiungimento di produzioni soddisfacenti solo dopo tre anni dall’intervento, la potatura meccanica leggera produce tagli abbastanza puliti sulla vegetazione interessata, e permette di ottenere produzioni costanti ed elevate. Anche in questo caso però dopo un massimo di tre anni si rende necessario un deciso intervento manuale di sfoltimento, a causa dell’eccessivo addensamento (effetto siepe) della chioma lungo il filare. Inoltre con una potatura di questo tipo la raccolta meccanica diviene una necessità, perchè la raccolta manuale sarebbe resa impossibile dall’elevata altezza e l’eccessiva densità delle chiome.

Molto interessante risulta la meccanizzazione intermedia, ovvero la potatura mediante attrezzi agevolatori. Oltre alle piattaforme agevolatrici elevabili (Figura 2), che permettono di avvicinare l’operatore alla parti alte della chioma evitando il pericoloso utilizzo di scale, sono stati messi a punto vari tipi di cesoie e seghetti dotati di aste telescopiche di varia lunghezza, ad alimentazione pneumatica o elettrica. Questi strumenti garantiscono la sicurezza dell’operatore e permettono di effettuare da terra qualunque tipo di taglio. In questo modo le operazioni di potatura risultano notevolmente semplificate, ed i tempi significativamente ridotti, specialmente se si utilizzano forme di allevamento “libere” (come il monocaule a chioma libera) e criteri di potatura minima (Gucci, 2001).

Per quanto riguarda la raccolta il sistema tradizionale è la brucatura compiuta a mano o con l’utilizzo di piccoli rastrelli di plastica che si fanno scorrere lungo i rami fruttiferi distaccando i frutti, che cadono su reti di plastica (di diverse tipologie) preventivamente disposte sotto la chioma dell’albero. Questo metodo è ancora oggi il più utilizzato in Toscana ed in generale in tutto il Paese. Lentamente si stanno tuttavia affermando anche metodi alternativi, in grado di adattarsi agli ambienti più disparati e di garantire notevoli risparmi oltre che vantaggi dal punto di vista della sicurezza del lavoro e della qualità del prodotto.

Tra questi, la tecnica che senz’altro offre i maggiori vantaggi dal punto di vista della produttività del lavoro è senz’altro la raccolta meccanica mediante scuotitori del tronco o delle branche.

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Figura 1. Barre falcianti lunghe 3 m costituite da dischi rotanti in grado di raggiungere un’altezza massima di 6 m. Compiono tagli paralleli, perpendicolari e inclinati di 15-30° rispetto al terreno. I tagli sono più o meno intensi a seconda della velocità di avanzamento e non sono selettivi. Fonte: “Olea”, 2003.

Figura 2. Piattaforma aerea semovente, che velocizza le operazioni di potatura evitando l’impiego di scale con aumento di sicurezza delle lavorazioni. Fonte: Olea, 2003.

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Figura 3. Bacchiatore del tipo “a pettine”, che permette di meccanizzare la raccolta in oliveti costituiti da piante di qualunque forma e dimensione. Fonte: L’Informatore Agrario, 37/ 2007.

Figura 4. Macchina scavallatrice per la raccolta meccanica in continuo. Macchine di questo tipo sono utilizzate per la raccolta all’interno di oliveti superintensivi. Fonte:

Frutticoltura, 7-8/ 2007.

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Queste macchine si basano sul principio di indurre vibrazioni sulla pianta al fine di provocare il distacco dei frutti. In sostanza sono bracci articolati, telecomandabili, dotati di una testata vibrante che può essere applicata al fusto o alle branche principali.

Con queste macchine è possibile raccogliere dal 70 al 95% delle olive presenti sulla pianta (Gucci et al., 2004); le olive che rimangono sulla pianta sono di solito quelle con una forza di ritenzione del frutto maggiore, e quindi le meno mature. La velocità di raccolta può raggiungere circa i 2 min/pianta, con una produttività 7-8 volte superiore rispetto alla raccolta manuale (Pampanini & Pignataro, 2006). Il prodotto che si ottiene mediante l’utilizzo di queste macchine è assimilabile a quello ottenuto mediante brucatura, con un grado di pulizia da foglie e rametti addirittura superiore alla raccolta manuale. L’albero non viene danneggiato, purché si applichi un opportuno rapporto tra frequenza ed oscillazione, a seconda delle caratteristiche del frutto e della pianta. In ogni caso, i possibili danni in caso di superamento dei limiti ottimali non sono preoccupanti (Tombesi, 2001), ed i casi di ferite gravi al tronco sono dovuti principalmente ad inesperienza dell’operatore che manovra la macchina.

Il limite delle macchine scuotitrici è dato dal fatto che richiedono oliveti appositamente adattati alle condizioni di raccolta, ovvero sesti regolari e sufficientemente ampi (almeno 3 m di distanza tra le piante, 4-5 m se lo scuotitore è dotato di ombrello intercettatore), piante impalcate abbastanza alte (almeno 1,2 m), con fusto di diametro superiore ai 10 cm, e pendenza del terreno non superiore al 20%. In queste condizioni, lo scuotitore garantisce un significativo aumento della produttività del lavoro, specialmente se dotato anche di ombrello intercettatore, che permette di comprimere anche i tempi di movimentazione delle reti. L’intercettazione delle drupe, normalmente effettuata a mano con l’impiego di reti, è infatti la fase più lenta e faticosa per ogni tipo di raccolta, compresa quella meccanica. La meccanizzazione anche di questa fase, mediante l’utilizzo ad esempio di scuotitori dotati di intercettatori ad ombrello rovescio, permette di ridurre i tempi operativi di raccolta ad 1 min/pianta (Giametta, 2001).

Altre macchine disponibili per la meccanizzazione integrale della raccolta sono gli organi bacchiatori del tipo “a pettine” (Figura 3). Questi mezzi si compongono di un aspo oscillante di circa 1-1,5 m, dotato di più file di bacchette (in materiale plastico

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duro) e montato su bracci estensibili che raggiungono la chioma fino ad un’altezza di 10 m. Queste attrezzature possono risultare utili laddove forma e dimensioni delle piante impediscano l’utilizzo degli scuotitori. Tuttavia la loro produttività è nettamente inferiore rispetto a quella degli scuotitori; inoltre l’utilizzo di queste macchine, oltre a provocare una notevole defogliazione della pianta e spesso anche la rottura di rametti, rende praticamente impossibile la meccanizzazione della fase di intercettazione delle olive.

E’ doveroso infine un cenno alle macchine semoventi scavallatrici, del tutto simili a quelle utilizzate in viticoltura (Figura 4). Queste macchine lavorano a cavallo del filare e dispongono di una serie di aspi battitori montati elasticamente su bracci idraulici al fine di aderire sempre perfettamente alla chioma. Il prodotto raccolto cade su nastri trasportatori che lo convogliano in cassoni di stoccaggio, non prima di essere stato investito da un getto d’aria necessario all’eliminazione delle foglie e dei piccoli rametti. Macchine di questo tipo sono però in grado di lavorare soltanto in impianti superintensivi, e risultano quindi attualmente di scarso interesse nel nostro Paese.

Laddove le condizioni ambientali o strutturali rendano impossibile la meccanizzazione integrale della raccolta, la migliore soluzione è rappresentata dall’utilizzo di attrezzi agevolatori. Questi attrezzi si differenziano secondo la tipologia del lavoro eseguito dagli organi lavoranti (bacchiatori, pettini vibranti, ganci scuotitori, brucatori) portati da aste telescopiche e azionati da compressori o da piccoli motori che fanno parte integrante dell’attrezzatura. Gli attrezzi agevolatori sono i pettini pneumatici, elettrici o a motore, collegati rispettivamente ad un compressore posto sul trattore, ad una batteria o ad un piccolo motore a scoppio.

Questi strumenti consentono l’asportazione del 95-98% del prodotto dalla pianta, e, in condizioni ottimali, consentono una produttività del lavoro di 30-40 kg/ora per operaio con un incremento nelle rese orarie rispetto alla raccolta manuale di circa 3 o 4 volte (Biocca et al., 2005).

Fra gli attrezzi agevolatori rientrano anche gli scuotitori portatili che, dotati di un gancio vibrante all’estremità di un’asta estensibile, consentono di scuotere branche di piccole dimensioni. Anche i pettini sono dotati di aste telescopiche che evitano l’uso di scale da parte degli operatori.

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L’aspetto più interessante di queste macchine è che possono operare facilmente in qualsiasi tipo di impianto e su qualunque forma di allevamento (con la sola limitazione di un’altezza massima di 3,5 m), permettendo così la parziale meccanizzazione anche degli impianti tradizionali.

1.4 Obiettivi

Nell’olivicoltura italiana la produttività piuttosto ridotta e le particolari condizioni ambientali in cui le aziende sono spesso costrette a lavorare stanno creando delle difficoltà nel fronteggiare un mercato in continua espansione ed una competitività sempre più accentuata con gli altri Paesi produttori. In queste condizioni risulta indispensabile un rinnovamento nelle tecniche di conduzione degli oliveti nazionali, teso essenzialmente ad abbattere i costi di gestione cercando contemporaneamente di mantenere alta la qualità del prodotto e, se possibile, di aumentare la produzione.

Col presente lavoro di ricerca si sono messi a confronto diversi metodi innovativi di gestione dell’oliveto, puntando l’attenzione sulle fasi più onerose dell’intero ciclo produttivo, ovvero la potatura e la raccolta. L’obiettivo è quello di individuare modelli di gestione trasferibili alle diverse realtà toscane, che permettano una riduzione dei costi, un aumento della sicurezza sul lavoro ed il mantenimento di buoni standard qualitativi.

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