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Ragionevolezza e dialogo. Due presupposti fondamentali dell’ideale ermeneutica dell’uomo

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Academic year: 2021

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Riccardo Dottori

Ragionevolezza e dialogo. Due presupposti fondamentali dell’ideale ermeneutico dell’uomo.

Il compito dell’ermeneutica in genere era stato sempre visto, dai Sofisti fino ai contemporanei, nell’interpretazione dei testi, e l’ oggetto dell’ermeneutica in quanto interpretazione dei testi era stata dunque nel suo complesso l’interpretazione della tradizione culturale, che consisteva appunto nella letteratura, nella tradizione religiosa, nel diritto e da ultimo in quella conclusiva opera del pensiero che cerca di abbracciare il senso della nostra esperienza nel suo complesso, la filosofia. Ora quest’ultima forma dell’ermeneutica, l’ermeneutica filosofica, con Gadamer diviene non solo interpretazione dei testi filosofici, ma riflessione sul significato di questa interpretazione, e di conseguenza cambia con essa l’atteggiamento verso la tradizione culturale. In quest’ultima riflessione sul senso del nostro interpretare i testi della tradizione culturale, quando cioè l’interpretazione vuole interpretare se stessa, diviene allora filosofia ermeneutica, filosofia dell’ interpretazione e dei propri compiti. Questo è quanto è avvenuto con Verità e metodo, apparso nel 1960 con il titolo Wahrheit und Methode. Gründzüge einer philosophischen Hermeneutik, Tübingen 1960, a cui nella edizione delle opere in 10 volumi da lui stesso curata a fatto precedere il titolo: Hermeneutik I, e con la successiva elaborazione teoretica nei saggi da lui stesso raccolti nel volume successivo, al quale ha posto sempre il titolo Hermeneutik II. Wahrheit und Methode, Ergänzungen. Register, Tübingen 1986. Il compito nuovo che essa con questo si pone è quello della filosofia vera e propria, e cioè comprendere l’esperienza del passato della nostra tradizione culturale, e con ciò dei compiti in cui essa ci pone nel nostro presente quali abitanti e cittadini dell’Occidente, compiti che provengono dalla salvaguardia dei valori che sono maturati con essa e che attendono di essere sviluppati in vista del nostro futuro. Alla illustrazione e alla valorizzazione di questo compito fondamentale è dedicato il nostro saggio, che non vuole perciò fare opera di inutile filologia, o di esegesi, o di semplice parafrasi, o di critica, come purtroppo avviene nella maggior parte dei casi della letteratura secondaria.

Uno dei valori fondamentali che sono alla base della tradizione dell’Occidente è quella della razionalità, indicatoci nella maniera più concisa dalla famosa frase della Politica di Aristotele, l’uomo è zoon logon echon, espressione tradotta con l’animale dotato di ragione. La traduzione giusta sarebbe stata quella di l’essere vivente dotato di linguaggio, perché ci viene detto subito dopo che la differenza con gli altri animali consiste nel fatto che questi riescono con i loro segni ad esprimere solo ciò che è piacevole e ciò che spiacevole, ciò che è utile e ciò che è dannoso a loro stessi, mentre solo l’uomo riesce a esprimere con il suo logos, quindi con il suo linguaggio ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, e questa sua capacità è il motivo la base del suo vivere sociale. Questa capacità di esprimere il giusto e l’ingiusto presuppone evidentemente una percezione del giusto e dell’ingiusto, una percezione che forse anche gli altri animali hanno, ma che non riescono a manifestare; nella manifestazione di questa percezione esercitata attraverso la lingua, glotta, e il suono che riesce a emettere, la phoné consiste il linguaggio. Si è chiamato pertanto lingua l’insieme dei segni fonici emessi attraverso la glotta, la lingua, segni che sono per Aristotele superiori a quelli degli altri animali perché sono convenzionali, e appunto per questo hanno la capacità di manifestare non la semplice percezione sensibile

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del piacevole o dello spiacevole, di ciò che è immediatamente utile o dannoso, come fanno i segni naturali degli animali, ma ciò che non si percepisce immediatamente, ma soltanto attraverso la mediazione del rapporto con l’altro, e cioè attraverso la costatazione che ciò che è piacevole e utile per l’altro è spiacevole o dannoso per me, e ciò che utile per me può essere spiacevole o utile per l’altro. Questa percezione mediata dal rapporto attraverso l’altro non è più una percezione sensibile di un oggetto o di uno stato interno, ma la percezione di una relazione, ed è stata perciò chiamata dianoia, pensiero. I segni fonici emessi e articolati attraverso la lingua sono la manifestazione di questa percezione relazionale, o del pensiero, che connette la mia alla altrui percezione quando siamo in un rapporto discorsivo, e da ultimo dialogico con l’altro; ora connettere viene detto in greco legein, ma il logos sta significare sia questa percezione della relazione basilare Io - Tu, che è la dianoia, il pensiero, sia anche la manifestazione di questa percezione relazionale perché appunto ci si rende conto del fatto che la percezione relazionale diviene reale solo nel momento in cui la si manifesta, solo cioè attraverso la lingua e il sistema di segni fonici che la possono manifestare in tutte le sue valenze. In che cosa consiste il giusto e l’ingiusto lo sappiamo solo nel momento in cui lo manifestiamo reciprocamente tramite segni, e questa capacità assolutamente relazionale della reciproca manifestazione delle nostre percezioni relazionali è detta appunto logos, linguaggio. Ma questa capacità linguistica che per Aristotele come per Chomsky appartiene solo alla specie umana, è inoltre ciò che ci lega reciprocamente, ovvero la base del vivere in comune o della società.

Nel vivere sociale siamo quindi legati dalla nostra capacità di manifestare non solo tutto ciò che ci sembra giusto e ingiusto, ma anche i motivi per cui lo riteniamo tale; il linguaggio in quanto logos è perciò oltre la semplice manifestazione, la capacità di dare le ragioni delle nostre opinioni: per questo il logos è stato tradotto nella lingua latina con ragione, una metonimia fondamentale per la quale la parte, la manifestazione attraverso la lingua o il linguaggio del giusto e dell’ ingiusto diviene il tutto della comunicazione e del pensiero, il dar ragione delle nostre opinioni sulla base delle cognizioni di causa. Sulla base del poter dare la ragione, ton logon didonai, il logos diviene la ragione, ciò che lega in modo indissolubile l’essere e il pensiero. Perciò non è del tutto ingiusta la traduzione latina della espressione aristotelica zoon logon echon come l’essere vivente dotato di ragione.

A questa ragione come causa, aitia, fondamento, archè, si aggiunge il concetto di ragione come fine, telos, che è poi la vera ragione di tutto il processo. Ora questo pensare non solo secondo il principio di causa effetto, ma anche di azione diretta ad un fine, diviene il vero principio della civiltà occidentale. Ma nell’era della tecnica la ragione come il principio dell’essere e del pensare e la conseguente visione della vita comune da impostare secondo il principio di ragione come principio dell’agire razionale, come agire diretto ad un fine, che dal punto di vista sociale e politico vuol dire agire secondo la norma del giusto e dell’ingiusto, e dal punto di vista singolo agire in vista del bene, diviene nell’era della tecnica il principio della razionalità dell’agire e del pianificare, sia al livello individuale, che al livello sociale, agire avendo come fine e come misura semplicemente l’utile. Al livello macroeconomico la razionalità vuol dire in questo caso la razionalizzazione della produzione e delle risorse del nostro pianeta; e questo sembra essere l’arma più propria per quanto riguarda la sussistenza e sopravvivenza di una umanità che tende continuamente a crescere entro quelli che sono i limiti delle risorse del nostro pianeta. Il problema è che la nutrizione di ormai quasi 7.000.000.000 di abitanti della terra e la miseria in cui versa la grande maggioranza delle popolazioni africane e in parte asiatiche, nonché la situazione di endemica arretratezza degli stati dell’America latina e degli stati europei post-comunisti pongono dei seri interrogativi per la pianificazione delle risorse per il futuro dell’umanità. È chiaro infatti che nella misura

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in cui ci sforziamo di rispondere a questi interrogativi e a questi problemi andiamo a cozzare con i limiti che il nostro pianeta pone alle condizioni della nostra sussistenza. Questa è la prima sfida.

Ma non è l’unica. Con questa sfida della razionalizzazione e della pianificazione del futuro viene ad incrociarsi l’altra sfida che proviene da un principio fondamentale della civiltà occidentale in quanto cristiana, ed è quella legata alla solidarietà. È impossibile pensare di poter pianificare il nostro futuro, inteso come il futuro del pianeta, senza il valore fondamentale della solidarietà. La razionalizzazione della produzione e delle risorse non è da sola sufficiente a far fronte ai problemi di cui si parla; infatti il regime della libera iniziativa e della concorrenza nell’età industriale nella quale viviamo tende sempre all’accaparramento delle risorse per l’ assicurazione della propria sopravvivenza o per la propria egemonia.

Perciò questa è la seconda sfida, direttamente incrociata con la prima e forse contrapposta alla prima: la sfida della solidarietà tra gli abitanti del pianeta.

Noi lottiamo non solo per la nostra sussistenza o sopravvivenza, ma per la nostra egemonia, in quanto la vediamo come condizione della sopravvivenza. La Cina, il Giappone e i paesi Arabi lo stanno facendo da tempo; essi stanno acquistando vaste aree agricole in Africa, e nei paesi dell’Est europeo per garantirsi la loro autosufficienza alimentare. L’Occidente, se con tale termine intendiamo l’Europa, non lo sta facendo, ma è anche vero che in questo Occidente dobbiamo anche includere l’America del Nord e parte dell’America latina; questi paesi, legati a noi dalla cultura soprattutto, oltre che da interessi economici, sembrano garantire all’Occidente l’autosufficienza alimentare, almeno finché l’Europa grazie ai trattati commerciali, alla sue tecnologia ed industria, potrà pagarsela. Ma non è del tutto chiaro quanto tutto questo possa continuare. La nostra razionalità, che è in concreto la nostra tecnologia e l’industria ad essa strettamente legata, ci concede ancora un margine di superiorità sul resto del mondo, ma cominciano già ad avvertirsi i primi segnali che l’Oriente possa strapparci questa superiorità, perlomeno per quanto riguarda lo sviluppo industriale. E poiché il progresso tecnologico è strettamente legato al primato della produzione industriale, in senso qualitativo e qualitativo, se perdiamo la sfida della solidarietà, abbiamo perso anche la sfida della pianificazione razionale e pacifica del nostro futuro.

Qui possiamo richiamarci ad un altro dei valori fondamentali della nostra tradizione occidentale: v’è una condizione basilare perché questa pianificazione razionale all’insegna della solidarietà possa essere perseguita e sviluppata, e questa è la democrazia, che fondamentalmente significa potere del popolo, un potere che deve però essere garantito dal ‘dialogo’ tra perone libere, ma che può anche essere inteso come il dialogo tra i vari segmenti produttivi della società. E in ultimo al dialogo tra stati; senza democrazia al livello internazionale e senza dialogo, che è il momento portante della solidarietà, è difficile che la razionalizzazione della produzione e delle risorse al livello mondiale possa funzionare.

Ma v’è ancora un’ ultima sfida, quella del dialogo tra le diverse religioni e le diverse civiltà, e questa è forse la sfida più difficile: infatti le società e civiltà non occidentali sembrano non tenere in alcun conto la democrazia. E vi sono religioni che sono alla base di queste società perché ne determinano gli scopi e di conseguenza lo stile di vita, che sono insensibili se non contrarie alla democrazia e al dialogo, sia per ragioni di semplice potere a cui non si vuole rinunciare, sia perché democrazia e dialogo pretendono come condizione di base l’ ammettere che l’altro (in questo caso le altre religioni) possano essere nel vero, mentre esse stesse credono di essere detentrici dell’unica verità.

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Questa negazione delle democrazie, che si traduce poi nella negazione dei diritti della persona e nella negazione della libera critica e del dialogo, è lo spettacolo a cui quotidianamente assistiamo e che non ci fa ben sperare per il nostro prossimo futuro. Bisogna anche dire che questo è un problema posto già da chi è stato il primo e più ardente propugnatore del dialogo, Platone. All’inizio del grande dialogo sullo stato, la Repubblica, Socrate pretende di poter dialogare con coloro che lo vogliono distogliere dal suo programma quotidiano per invitarlo ad un banchetto, e minacciano di portarlo via con la forza se non accetta. Socrate oppone la possibilità che egli dialogando possa persuaderli a lasciarlo andare; ma i suoi interlocutori obiettano semplicemente: puoi tu dialogare con chi non ascolta? La risposta è molto chiara: No in nessun modo.1

Questo è il problema, e questa è anche la sfida fondamentale per l’Occidente prossimo venturo: trovare un modo per rendere possibile ed accettabile il dialogo tra le diverse religioni. Forse l’unico modo è quello che è stato proposto da Papa Woityla: qualsiasi cosa possiamo pensare di Dio e quindi qualsiasi cosa possa dividerci su questo, vale comunque il fatto che se crediamo in un Dio, questo è lo stesso per i cristiani ed ebrei, musulmani e induisti, confuciani e taoisti; quindi: preghiamolo insieme. Tutto questo si trova già nella tradizione occidentale anticipato da un dramma di J. E. Lessing, Nathan il saggio, scritto nella seconda metà del Settecento, allorché uscì l’Editto per la Tolleranza dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria. Il protagonista di questo dramma, l’ebreo Nathan da tutti detto il saggio, incontra il Saladino, in cui si può vedere la figura del despota illuminato, che gli chiede di rispondere alla domanda che lo assilla: quale delle tre fedi monoteistiche sia la vera fede

Nathan il saggio, che non vuole né deludere, né urtare il Saladino con cui vuole fare affari racconta allora la novella, di cui si trovava già traccia in Maimonide, di un padre che possedeva un preziosissimo anello che aveva la virtù di rendere grati a Dio e agli uomini chiunque lo portava, e che veniva tramandato di generazione in generazione al figlio che il padre riteneva più degno, e che diveniva con questo il capo e il signore del casato. Questo padre aveva tre figli e siccome li amava tutti in egual modo, non sapeva a chi di essi doveva lasciare in eredità l’anello; allora fece fare a un gioielliere due altri due anelli identici al primo e ne donò uno a ciascuno dei propri figli; sorse allora la questione tra di essi di quale fosse il vero anello posseduta dal padre: uno solo sarà il vero anello, gli altri due saranno imitazioni. Queste tre fedi nuziali simbolizzano evidentemente le tre fedi monoteistiche. E la risposta che Nathan il saggio dà al Saladino, che pone il problema, quale è il vero anello, è anzitutto: “Impossibile provare quale sia l’anello vero – (…) quasi come per noi è impossibile provare - quale sia la vera fede.”2 Ma il giudice,

al quale i figli si rivolgono per dirimere la questione, non può emettere nessuna sentenza, ma dare solo un consiglio: “Ognuno ebbe l’anello da suo padre, ognuno sia sicuro che esso è autentico”3 La risposta della questione del Saladino è dunque questa: tutte e tre le

fedi sono vere, quando sono una vera fede. La verità di questa fede si dimostra però non con il conoscere, ma con il consiglio che dà alla fine il giudice: “Vostro padre non era più disposto a tollerare in casa sua la tirannia di un solo anello. E certo vi amò ugualmente tutti e tre. Non volle infatti umiliare due di voi per favorirne uno. Orsù, sforzatevi di imitare il suo amore incorruttibile e senza pregiudizi. Ognuno faccia a gara per dimostrare alla luce del giorno la virtù della pietra e del suo anello.”4 Il che vuol dire che la verità

dell’anello non riguarda il sapere teoretico, ma il sapere pratico: la verità, o la bontà, della

1 Cfr. Platone, Repubblica, I, 327 a-c.

2 Cfr. G. E. LESSING, Nathan der Weise, tr. it. a cura di A. Casalegno, Garzanti editore, Milano,

1992, p. 157.

3 Cfr. Ivi, p. 161 4 Cfr. Ibidem, p. 163

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fede si dimostra in base agli effetti che essa produce nei secoli, e solo tra mille e mille anni verrà il giudice che potrà giudicare quale sia stato il vero anello, la vera fede. Il Bene è l’idea che va oltre l’idea dell’essere e l’idea del vero.

Ma vediamo che proprio su questo non c’é accordo. Possiamo certo dire che i motivi non sono veri motivi religiosi, ma piuttosto motivi politici ed economici. E che l’Oriente mussulmano rimprovera all’occidente di volerlo colonizzare materialmente e spiritualmente, e perciò di volerlo assoggettare dopo averlo colonizzato, o per averlo colonizzato. Su questo ci deve essere dialogo, anche se sembra che sia, come dice il vecchio proverbio, un dialogo tra sordi. E allora dobbiamo rispondere al proverbio dicendo che è dunque necessario un nuovo linguaggio, e precisamente il linguaggio dei sordi, e cioè il linguaggio per gesti; se uno dei tre valori fondamentale dell’Occidente, dopo la razionalità e la democrazia, è la solidarietà, il che vuol dire la carità, dobbiamo fare questi gesti, cioè questi segni concreti che portano alla mutua comprensione e alla conseguente mutua accettazione. Il gesto in tal senso dice molto di più della parola, perché impegna il dialogante in un’azione. Non basta infatti parlare della volontà di dialogo o delle possibilità del dialogo, o dei modi possibili di instaurare un dialogo, o anche dei limiti del dialogo; soltanto quando ci si impegna effettivamente nel dialogo, nel riconoscimento dell’altro, senza che sappiamo nulla di lui, in quel primo gesto di saluto, di cortesia non falsa, prima che cominci la lotta per il riconoscimento dei diritti reciproci, solo allora il dialogo inizia veramente prima che si proferisca ancora parola. Una volta ci si toglieva il cappello in segno di riconoscimento e di saluto; si può poi porgere la mano per offrire amicizia e rispetto, e si può porgere la mano per chiedere aiuto: che cosa l’altro chiede lo si capisce dal suo gesto, e il nostro gesto, a meno che non sia semplice simulazione, dovrà essere la risposta più eloquente per dimostrare la vera volontà di dialogo, la solidarietà di mettere la mano in tasca per offrire una moneta, prima di pensare che questo sia inutile, che questo non è il modo per risolvere i problemi dell’altro, che sono magari la disoccupazione, la fuga dal proprio paese per sottrarsi alla schiavitù, alla fame, alla morte; prima che inizi la lotta per il riconoscimento reciproco dei propri diritti e il discorso su come affrontare e risolvere i problemi della possibilità e dei limiti del nostro aiuto. Tutto il resto sarà poi possibile sulla base di questo primo gesto fondamentale di risposta.

Anche se sappiamo, infatti, che non potremmo risolvere il problema di tutte le popolazioni che sono afflitte da povertà, da sottosviluppo, da guerre sanguinose per il potere, e che vi sono limiti innegabili alla solidarietà, della cui soluzione si può parlare solo a livello politico internazionale, è tuttavia questo gesto la base fondamentale per iniziare a pensare alla soluzione di questi problemi, e la soluzione non arriverà certamente domani, ma forse tra un secolo, o sarà lunga quanto la storia dell’integrazione tra le culture.

Qui tocchiamo comunque un altro problema, che è un problema basilare dell’ermeneutica, quello della comprensione tra le diverse culture, che Gadamer alla fine della sua vita ha visto come il problema del dialogo tra le grandi religioni mondiali, che sono collegate naturalmente alle loro culture.5 L’ermeneutica o l’arte dell’interpretazione,

è da sempre stata rivolta all’interpretazione di quei testi che formano il fondamento di una cultura, dai testi biblici a quelli letterari, ovvero l’oggetto dell’ermeneutica è stato sempre e anzitutto la traduzione culturale, com’essa ci parla attraverso il medio del linguaggio, e cioè i testi che ci sono pervenuti. Diversamente però dall’ermeneutica tradizionale Gadamer intende il rapporto con la tradizione che passa attraverso il linguaggio come un rapporto con il Tu, e cioè come un dialogo; in questo dialogo con la tradizione colui che

5 Cfr. H.G. GADAMER, Die Lektion des Jahrhunderts. Ein philosophischer Dialog mit Riccardo Dottori, Lit Verlag, Münster-Hamburg-London, 2001; tr. It. Lßultimo Dio, Meltemi, Roma, 2002.

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dialoga con il testo, e con la tradizione, non si pone come un Io di fronte a un Tu che è la tradizione come un soggetto al di fuori di essa che dialogherebbe con un Tu come se questo fosse un oggetto, e cioè l’oggetto del proprio comprendere, così come secondo lui è il caso di Dilthey e dello storicismo, perché piuttosto egli si trova all’interno della stessa tradizione, ed è condizionato da questa.6 Il rapporto alla tradizione come ad un TU va

perciò inteso come il rapporto Io – Tu che ritroviamo nella tradizione ponendoci all’interno della tradizione stessa, ovvero inserendoci in quel dialogo continuo tra Io e Tu che pervade e sostiene la nostra tradizione culturale. In tal senso la tradizione non è un oggetto alla quale ci rapportiamo, ma è l’elemento portante di questo dialogo in cui siamo. Questo comporta che situandoci in questo rapporto alla tradizione come nel dialogo vivente che è la tradizione stessa, il rapporto Io - Tu in cui in essa ci situiamo, ci si rivela fondamentalmente come un rapporto di carattere morale. Questo è stato detto esplicitamente da Gadamer già nella prima edizione di Verità e metodo che festeggiamo, ed è stato poi ignorato.

Il carattere morale a cui Gadamer pensa, e che forma l’altro momento fondamentale della filosofia ermeneutica oltre il comprendere e l’interpretare, è quello che gli è stato suggerito dall’Etica Nicomachea di Aristotele.7 E’ stato il libro del compianto Franco

Volpi su Heidegger del 1984 a mettere in evidenza l’importanza dell’Etica nichomachea per lo stesso Essere e tempo di Heidegger, che gli era stata segnalata dallo stesso Gadamer, il quale gli aveva suggerito, come egli stesso raccontava in uno dei suoi primi articoli, che il concetto heideggeriano del Gewissen, della coscienza morale, che troviamo in Essere e tempo non rimandava né a Kant, né a Hegel, né a Schopenhauer, ma piuttosto a concetto aristotelico di phronesis; questo ci è stato poi mostrato dalla edizione delle Lezioni di Heidegger sul Teeteto e sul Sofista di Platone,8 in cui Heidegger sostiene

addirittura che per capire Platone dobbiamo prima capire Aristotele, che è colui che ce lo ha spiegato nella maniera migliore, dato che era stato 20 anni alla scuola di Platone. E’ stato poi il V° volume dell’edizione delle opere di Gadamer a farci vedere come la stessa cosa valga per lui, che in quegli anni era stato allievo di Heidegger a Marburgo. In questo V° volume edito nel 1985, è apparso un suo lavoro, scritto nel 1930 e mai pubblicato, dal titolo Praktisches Wissen, sapere pratico, titolo che è appunto la traduzione del termine aristotelico phronesis.9

E’ in questo saggio che Gadamer sviluppa la sua interpretazione del concetto di phronesis nell’accezione propriamente aristotelica, che lo distingue da quella platonica. Ora il Socrate platonico aveva criticato la sofistica che faceva consistere la virtù nel sapere, che per questo era insegnabile, in quanto verteva fondamentalmente sul concetto di utile, e aveva dimostrato sia nel Protagora, che nel Carmide e nell’Eutidemo (noi aggiungeremmo anche nel Teeteto), che il concetto di utile non può essere visto come la misura di cui l’uomo dispone o può disporre nel proprio agire, perché l’utile è semplicemente il concetto di misurabile, di ciò che può essere misurato sempre in vista di

6 H.G. GADAMER, Wahrheit und Methode, Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, J.

Mohr (Paul Siebek), 1960, tr. it. a cura di Gianni Vattimo, Milano 1972, 2° ed. Con testo tedesco a fronte e Intr. Di G.Reale, Bompiani, Milano, 2000. Cfr. In particolare Parte II, 2, Dilthey nelle aporie dello storicismo, pp. 455-503.

7 Cfr. in proposito R. DOTTORI, La phronesis in Aristotele e l’inizio della filosofia ermeneutica, in

„Paradigmi“, Rivista di critica filosofica, XXVI, III Quadrimestre, 2009, pp. 53-66; tr. ampliata in lingua ted. in: A. PRZYLEBSKY, Hrsg., Ethik im Lichte der Hermeneutik, pp. 35-53 F. VOLPI, La

rinascita della filosofia pratica in Germania, in: C. PACCHIANI, (a cura di), Filosofia pratica e

scienza politica, Abano Terme, Francisci, 1980.

8 Cfr. M. Heidegger, Vom Wesen der Wahrheit. Zu Platos Hölengleichnis und Theätet, Gesamtausgabe

Bd. 34, Klostermann, Frankfurt a/M, 1988.

9 Cfr. H.G. Gadamer, Gesammelte Werke, Bd. 5 : Griechische Philosophie I, J.C.B. Mohr (Paul

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un certo scopo, che è sempre altro per colui che cerca il suo proprio utile. L’utile in quanto tale invece è sempre qualcosa che resta al di fuori di lui, perciò di esso vi è Logos, cioè è esprimibile e calcolabile; ma questo tipo di sapere è appunto la techne, che è insegnabile, ma che non è una virtù etica, bensì dianoetica, in quanto non riguarda l’esercizio del sapere che l’individuo porta avanti per se stesso ed in vista del fine suo proprio, ovvero del suo proprio utile, bensì quel tipo di utile che dipende sempre da uno scopo ad essa esterno. Perciò Platone può identificare l’utile in quanto l’utile dell’uomo che ricerca il proprio fine, con il bene (Rep. I, 336 d), e questo basta a difendere Platone, che qui si identifica con Socrate, dall’accusa di intellettualismo; anzi, obietta Gadamer, Socrate poté addirittura essere accusato nel 19° Secolo di utilitarismo.

Il sapere o senso pratico che deve prendere la decisione riguardo alle varie possibilità del proprio modo di comportarsi determina il suo modo di porsi rispetto alla norma universale: quindi è esso, e non la norma, che determina l’azione. È sempre la propria riflessione che determina la sua presa di pozione e la direzione del suo agire; questa riflessione è la phronesis, il sapere pratico, da cui scaturisce la virtù della sophrosyne, della saggezza. Il sapere pratico è questo fenomeno unitario di ragione e di comportamento: la scelta dell’azione o la decisione seguono il proposito dello sguardo rivolto al bene. Questo vuol dire, di nuovo, che per Gadamer l’ermeneutica è possibile soltanto sulla base della phronesis, è la realtà della phronesis, ovvero che l’interpretazione è un compito teoretico e pratico insieme; e cioè, il vero conoscere è interpretare, e l’interpretare, poiché è rivolto alla realtà dell’altro ed ha come scopo il rimuovere, per quanto è possibile questa alterità, e ricercare un terreno comune; ma questo comprendere è allora un compito etico, ed in questo consiste il significato dell’etica di Aristotele per l’ermeneutica.

Lo stesso principio che vale per il rapporto interpretativo vale infatti anche per il rapporto sociale: vanno accettate anzitutto le regole basilari del rapporto etico perché ci possa essere comprensione. Ma quali sono queste regole basilari? Semplicemente quelle del dialogo, basate sul principio della società comunicativa, cioè del non assumere come valida nessuna norma finché non sia passata attraverso la discussione delle ragioni altrui da parte di ogni membro di questa società comunicativa, oppure nel cercare di determinare dei criteri di condotta che potremmo cercare di applicare in un caso concreto? Per quanto pensiamo che il primo principio sia valido, pensiamo però anche che difficilmente arriveremmo ad agire seguendo questo principio assolutamente universale, perché è puramente formale. Per questo per Aristotele la phronesis comporta fondamentalmente la synesis, la comune comprensione, ed anche la syggnome, la benevolenza e la non invidia, cioè il mettersi dal punto di vista dell’altro ed essere pronti a scusare l’altro; questo è quel che chiamiamo la vera comprensione, che porta alla eubolia, la buona decisione, che ha in vista il bene comune. 10

Solo nel passare continuamente in rassegna tutte le possibili opinioni ed alternative, nella comune discussione tra uomini mossi dalla volontà di intendersi, come ci è già detto da Platone nella VII Lettera, siamo d’improvviso illuminati da una verità, che riluce nel luogo più bello della nostra anima, e dove va pertanto custodito. Non v’è pertanto un possesso pubblico di questa verità in una dottrina, ad essa si perviene solo con il dialogo; ovvero questa verità non può essere scritta, ogni scritto è infatti soggetto all’ interpretazione o, come ci viene detto nel Fedro, è simile a un figlio senza padre. Qui, come ha visto Gadamer, sono gettate le basi per l’ermeneutica contemporanea.

10 Questa problematica del ruolo di Aristotele nella filosofia pratica e nell’ermeneutica

contemporanea è stata delucidata nel suo complesso dall’ottimo lavoro di GIOVANNI PELLEGRINI,

Il bene e l’apparenza. Aristotele e i limiti della morale, Roma 2008 (Tesi dottorale, XIII Ciclo

dell‘ Università di Roma Tor Vergata, 2001-2, poi pubblicata in volume); cfr. anche M. NOBILE,

La parola e l’enigma. Un’interpretazione dell’etica di Aristotele, Carocci, Roma, 2002, in

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Questo vale tanto più per la conoscenza del mondo storico, e per tutto ciò che proviene dalla nostra tradizione culturale: è la coscienza stessa della nostra storicità che ci deve far comprendere come ogni giudizio su ciò che è storico non può essere la pura e semplice comprensione ‘oggettiva’ di ciò che è stato, poiché ciò che è stato ed è ancora presente attraverso le opere della nostra tradizione culturale, che comprende la religione, la legislazione, le opere dell’arte e della filosofia, hanno per una autentica coscienza storica una insuperabile alterità. E non esiste d’altronde un mondo ‘oggettivo’ che non sia un mondo storico. Questo vuol dire che la conoscenza del mondo storico si dà in questa forma di partecipazione che è al tempo stesso tanto identità, o meglio comunanza, quanto ineliminabile diversità; l’autentica coscienza storica è la coscienza di questo dover ricercare una possibile comunanza o compartecipazione nella diversità.

Questo vuol dire che ogni conoscenza è fondamentalmente interpretazione: interpretare è tradurre da un lingua ad un’altra, dalla lingua dell’altro alla lingua propria. Ciò comporta però che non vi sia una pura identità con l’altro, e quindi una teoresi pura: questo è il prezzo che dobbiamo pagare per continuare a credere nella possibilità della conoscenza, e quindi della verità; il conoscere è comprendere l’altro, ed il comprendere è interpretare. Questo vuol dire, di nuovo, che per Gadamer l’ermeneutica è possibile soltanto sulla base della phronesis, è la realtà della phronesis, ovvero che l’ interpretazione è un compito teoretico e pratico insieme; e cioè, il vero conoscere è interpretare, e l’interpretare, poiché è rivolto alla realtà dell’altro, ha come scopo il rimuovere, per quanto è possibile questa alterità, e ricercare un terreno comune; ma questo comprendere è allora un compito etico, ed in questo consiste il significato dell’etica di Aristotele per l’ermeneutica.

Questo rapporto alla nostra tradizione culturale come inserimento in un dialogo con l’alterità dell’altro che è un compito teoretico e pratico, cioè etico e necessariamente anche politico insieme, vale naturalmente quale modello o paradigma del rapporto di chi partendo dalla base della nostra tradizione culturale nella quale si trova inserito, vuole mettersi in rapporto alle altre tradizioni culturali. Questo è tanto più serio e difficile quando questo rapporto diventa il rapporto pratico con comunità o individui che oggi si trovano essi stessi ad essere inseriti nella nostra società, determinata dalla nostra tradizione culturale, e ancora più problematica quando si presenta come problema non semplicemente interpretativo al livello individuale, ma quando diviene il problema della integrazione di gruppi, di origine culturale diversa, nella nostra società e tradizione culturale, perché l’atteggiamento ermeneutico, e cioè interpretativo e pratico dettato dalla ragionevolezza, dalla phronesis, che deve essere proprio anzitutto dell’ individuo, deve informare di se da un lato l’intera società e dall’altro gli stessi gruppi sociali che all’interno di essa sono accolti. E questo presenta la difficoltà che tutti conosciamo: non tutti, né dal punto di vista individuale, né del gruppo sono disposti a questa comprensione e accettazione reciproca. Questo sembra valere oggi per il rapporto tra le religioni. Qui è chiara l’importanza della comprensione e della interpretazione, perché all’intolleranza segua il dialogo; ma è anche chiara l’importanza del momento ermeneutico della ragionevolezza, della phronesis, e della corrispondente virtù etica della sophrosyne. Possiamo qui ritornare a ciò che chiamavamo il linguaggio del gesto: non tutti sono disposti a ricambiare il gesto di saluto, che vuol dire accettazione, e non tutti sono disposti ad accettare il modo di presentarsi dell’altro, il suo modo di vestire, la determinata cura del suo corpo, se così la si può chiamare, e infine la sua fede religiosa e i condizionamenti comportamentali che essa comporta. Al gesto di saluto può corrispondere l’indifferenza o il gesto di ostilità, se non di violenza; se a questo gesto di ostilità si risponde con altrettanta ostilità, invece che con il gesto del tendere la mano non per chiedere, ma per porgere aiuto e accettazione, allora l’epilogo non può essere che violenza generalizzata e la fine della pace sociale. Solo una società di individui pronti alla accettazione dell’altro può con i propri gesti di accettazione e di pace impedire tutto

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questo. La nostra civiltà occidentale ha scoperto essa stessa molto tardi il principio della tolleranza, ma si è ormai incamminata verso la via dell’accettazione dell’alterità dell’altro, e della integrazione, tanto che nonostante casi singoli più o meno numerosi, vediamo che non c’è più alcuna possibilità del ritorno indietro. Senza questa accettazione non è possibile alcuna democrazia,e la democrazia sarà compiuta solo quando i diversi gruppi sociali all’interno della stessa società si accetteranno sulla base del riconoscimento del principio comune della reciproca accettazione.

Ma la tolleranza e l’accettazione non sono ancora la solidarietà, che rappresenta il passaggio della carità dal livello individuale a un principio non più etico, ma politico. Come la solidarietà possa essere realizzata è un problema la cui soluzione impiegherà, come dicevamo, per l’Occidente tutto quanto il nostro prossimo futuro; se nell’Ottocento Hegel poneva il fine della storia futura nella realizzazione del concetto della libertà, ora vediamo che questa realizzazione per avere un senso possibile, deve essere intesa come il compimento della comune accettazione e la fine delle lotte per la supremazia e per il potere economico che serve, ma al tempo stesso asservisce. Questo fine è anche difficile a essere determinato, perché partendo dal livello individuale e familiare, attraversa ogni forma possibile di rapporto interpersonale, a tutti i livelli privati e pubblici, sociali e politici, fino al rapporto universale degli stati. Senza solidarietà, la forma ultima della accettazione reciproca, non è garantita né pace, né libertà, né società, associazione statale o associazione degli stati.

Così vediamo che proprio sulla base di questi valori fondamentali dell’ Occidente, e cioè la razionalità dal punto di vista teoretico, la ragionevolezza dal punto di vista pratico, la democrazia, che esige libero dialogo, o dialogo tra uomini liberi, e da ultimo la carità, cioè la vera accettazione dell’altro prima del dialogo, nel senso che è alla base del dialogo, è possibile affrontare le sfide che il nostro futuro ci pone; questo non vuol dire che l’Occidente possa rinchiudersi in se stesso, perché proprio dalle altre culture e civiltà l’Occidente può imparare quel rispetto per altri valori che l’Occidente stesso sta perdendo nella sua chiara deriva nihilistica alla quale assistiamo: la perdita del senso della famiglia, che vuol dire perdita del primo dei legami sociali; la perdita della fiducia nella vita, che è fiducia in se stessi, e che vuol dire perdita della volontà di affrontare con gioia il proprio futuro, di plasmarlo e modellarlo non solo al livello individuale, ma sociale; la perdita del senso della salute, che i giovani calpestano con sdegno, così come sempre più spesso calpestiamo la natura; la perdita infine del senso della carità, al livello individuale, che è essa stessa la base del senso sociale della solidarietà.

L’Occidente potrà continuare a credere in se stesso se non perderà i suoi valori fondamentali, e se saprà insegnarli senza guerre e senza volontà di imporre la propria supremazia, che è già sufficientemente messa a rischio dall’Oriente emergente. Che anche l’altro capisca e accetti tutto questo, è ancora una nuova e forse ultima sfida per la pace e la sussistenza dell’umanità nei limiti del nostro pianeta. Ma perché l’altro capisca sono necessari due presupposti: anzitutto che si impari ad avere torto; l’Occidente parla sempre di ragioni, o di aver ragione, ma molto di meno di avere torto; in secondo luogo, perché gli altri capiscano e accettino i nostri valori o le nostre ragioni, è assolutamente necessario che noi siamo disposti a capire a ad accettare i loro valori, che sono forse anche i nostri, quelli che abbiamo dimenticato.

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