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Autoritratto. Studio per un film fra fotografia, memoria e identità.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTA’ E FORME DEL SAPERE

ANNO ACCADEMICO 2015/2016

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE

IN STORIA E FORME DELLE ARTI VISIVE,

DELLO SPETTACOLO E DEI NUOVI MEDIA

Classe LM-65: Scienze dello spettacolo e

produzione multimediale

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

AUTORITRATTO

Studio per un film fra fotografia, memoria e

identità.

IL RELATORE IL CANDIDATO

Maurizio Ambrosini

Federico Poidomani

a.a 2015/2016

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INDICE Ringraziamenti………...………...3 Introduzione………....………...4 Soggetto………...6 Sceneggiatura………...………...8 Dentro la storia...19 1. Straniamento...22

2. L’evoluzione del cinema...28

2.1. La centralità dello spettatore ...28

2.2. Le grandi innovazioni...32 2.2.1. I film sonori...33 2.2.2. La rivoluzione neorealista...37 3. Il discorso fotografico...45 3.1. Cos’è la fotografia?...47 3.2. Studium e punctum...53 3.3. Parole e immagini...61 4. Facciamo un film...72 4.1. Influenze e modelli...75 4.2. Scrittura e riscrittura...87 Riferimenti bibliografici...94

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Ringraziamenti

Se dovessi riportare per intero in questa pagina tutti coloro che desidero ringraziare, ho il timore che questa sezione andrebbe a occupare più spazio della trattazione in sé. Fra realizzazione del cortometraggio e realizzazione dell’elaborato scritto, le persone che mi hanno aiutato e sostenuto sono veramente troppe per essere trascritte. Mi limito, pertanto, a citare in questo momento le figure principali, senza le quali tutto questo non sarebbe stato possibile.

Desidero ringraziare:

• La mia famiglia per il sostegno costante.

• Maurizio Ambrosini per la disponibilità incondizionata. • Daniele Cannata per averci creduto più di me.

• Noemi Seminara per aver ampliato la mia conoscenza fotografica. • Jessica Petriliggieri per avermi sopportato e per continuare a farlo.

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Introduzione

Non sono mai stato bravo con le parole. Spiegare le sensazioni che provo, i pensieri che mi passano per la testa, mi è venuto sempre molto complicato. Ci sono persone che con le parole sono in grado di fare quel che vogliono. Non io. Eppure mi sarebbe piaciuto. Mi piacerebbe riuscire a parlare, e vedere le persone pendere dalle mie labbra. Non che non abbia niente da dire; semplicemente non trovo il modo adatto di dirlo. A parole.

Forse è per questo motivo che mi piace il cinema. Un mezzo di comunicazione dove la parola non basta. Il dialogo è solo una parte del tutto. Forse è per questo motivo che ho scelto di studiarlo. Inconsciamente, potrebbe essere un modo per approfondire la conoscenza di un mezzo in grado di venire incontro alle mie necessità comunicative. Forse è per questo motivo che a coronamento del mio percorso universitario ho deciso di presentare un prodotto multimediale. Un lavoro che potesse esprimere al meglio la mia passione e il mio impegno per questa forma d’arte.

Ricordo che da bambino, quando si parlava del lavoro che si intendesse fare da grandi, non mi capacitavo di come i miei amici non desiderassero anche loro lavorare nel cinema. Non ho la presunzione di dire che questo è stato da sempre il mio unico, grande sogno, ma devo ammettere che quando, terminato il liceo, mi sono iscritto a Discipline dello Spettacolo e della Comunicazione presso l’Università di Pisa, stavo intraprendendo una strada che mi piaceva realmente. La scelta non è stata sbagliata e la conferma l’ho avuta, oltre che da un discreto percorso universitario, anche dalla passione che dedico tutt’oggi. In questi anni,

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infatti, ho affiancato allo studio teorico, anche diversi corsi formativi e la realizzazione di piccoli cortometraggi. Grazie a uno di questi, nel gennaio 2016 sono riuscito ad accedere al corso di base di regia del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.

Il Centro Sperimentale è una delle scuole più rinomate in Italia; l’iter di selezione è lungo e complesso, e permette solo a sei alunni l’accesso alla scuola. L’ultima fase di selezione è rappresentata dal corso di base appunto, un periodo di quattro mesi, dove dodici candidati devono dare prova delle loro abilità per rimanere all’interno della scuola. Sebbene alla fine non sia riuscito a rientrare nei sei ammessi, il periodo trascorso all’interno della scuola mi ha permesso di crescere professionalmente e di lavorare in un modo molto simile a quello delle grandi produzioni cinematografiche.

La scelta di presentare un cortometraggio come tesi magistrale per la laurea in Storia e Forme delle Arti Visive dello Spettacolo e dei Nuovi Media, quindi, si colloca a coronamento di un percorso iniziato diversi anni fa, che continua tutt’oggi a interessarmi e affascinarmi. Il cortometraggio rappresenta un tentativo di mettere in pratica le nozioni che ho acquisito durante il percorso universitario, e allo stesso tempo un tentativo di esprimere le mie emozioni e i miei pensieri.

La storia che ho creduto meritasse di essere sottoposta alla vostra attenzione, ha come tema principale il rapporto padre-figlio; un rapporto che accomuna tutti gli esseri umani e che ne condiziona la formazione. Un ruolo, quello di padre, fra i più complessi e delicati. Una condizione, quella di figlio, fra le più incomprese e sfuggenti. Un legame inscindibile fra due poli opposti che mi

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avvince enormemente per la sua molteplicità di forme nella sua parità di relazione. In particolare, il dato che ho cercato di affrontare è stato incentrato su domande che raramente si pongono i protagonisti di questo rapporto. Domande che vanno oltre il dato puramente convenzionale, e che cercano di interessarsi alla persona, al di là del ruolo che interpreta.

Queste domande, nel mio lavoro, sono state favorite attraverso il mezzo fotografico: un mezzo che ha il potere di mostrare in modo diverso tutto ciò su cui si sofferma; un’arte che da sempre mi ha incuriosito e di cui, però, mai mi sono fatto interprete. Quello che più mi attrae della fotografia è la sua capacità di rimarcare l’attenzione sugli elementi che ci circondano e che spesso passano inosservati. L’attenzione del fotografo viene attratta da una suggestione che viene riproposta attraverso lo scatto. Lo scatto diventa un invito a riflettere; un invito a leggere quella suggestione. Il rilievo conferito dalla fotografia all’elemento quotidiano è forse il dato che mi affascina di più.

Sono un insieme di domande e suggestioni, quindi, quelle che mi hanno guidato nella realizzazione del lavoro. Metto di seguito il soggetto e la sceneggiatura del cortometraggio, al fine di renderne più chiara la comprensione.

Soggetto

Massimo, un uomo affermato di trentacinque anni, è il secondogenito di tre figli. Da diversi giorni prova inutilmente a mettersi in contatto con il padre, l’anziano signor Umberto. Preoccupato per le sue condizioni di salute, decide di recarsi a casa del genitore, dove questi, in seguito alla morte della moglie, vive nella più completa solitudine. Una volta arrivato nella piccola abitazione, Massimo non può far altro che arrendersi all’assenza del padre. Così, inizia a chiedere informazioni ai negozianti del quartiere, si reca all’ospedale temendo

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improvvisi malori, si assicura che non si trovi al cimitero in visita dalla moglie. Proprio al cimitero, si accorge che nel vaso accanto alla lapide della madre, sono presenti dei fiori freschi. Il padre è passato da là. A questo punto a Massimo non resta altra scelta se non quella di denunciarne la scomparsa. Durante la stesura della denuncia, Massimo è in grado di rispondere solo superficialmente alle domande del commissario; quando questi gli chiede chi si occupi delle faccende domestiche, o quali siano le persone che frequenta il signor Umberto, Massimo non riesce a dare una risposta soddisfacente. È solo nel momento in cui gli viene richiesta una foto recente del padre, che improvvisamente si ricorda della grande passione di quest’ultimo per la fotografia. Tornato a casa con un enorme scatolo pieno di fotografie, Massimo scopre che il genitore usava mettere un titolo dietro ogni scatto. Questa scoperta, insieme alla qualità delle immagini immortalate, inizia ad affascinarlo profondamente. In particolare, sarà una fotografia che lo ritrae insieme al fratello e la sorella da piccoli, e che il padre aveva intitolato Autoritratto, a colpirlo nell’animo. Segue a questo punto un confronto con i fratelli sulla situazione che il padre è venuto a creare: la sorella è disperata temendo un rapimento, il fratello è convinto di un invaghimento del vecchio per una badante; solo Massimo è persuaso che dietro la scelta del signor Umberto di allontanarsi da casa si celi una motivazione diversa. Ritiene che la scelta drastica del genitore sia da ricercare in quelle foto. È così che, in seguito alla sfida lanciatagli dal fratello maggiore, Massimo decide di ripercorrere i luoghi e di mettersi in contatto con le persone che il padre ha fotografato durante tutta la vita, mosso dal desiderio autentico di ritrovarlo. Proprio durante una discussione con uno dei vecchi amici che il padre aveva fotografato, Massimo arriverà fortuitamente a intuire dove si trovi il padre. Recatosi nella casa di campagna dove aveva trascorso gli anni spensierati dell’infanzia, troverà il signor Umberto intento a lavorare la terra, felice di poter essere nuovamente utile a qualcosa. È così che Massimo avrà la possibilità di recuperare un rapporto che temeva di aver irrimediabilmente perso: il rapporto vero, autentico, fra un padre e un figlio.

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Dentro la storia

Cerchiamo ora di entrare più a fondo nel merito della storia. Quale può essere la ragione che porta un uomo di settant’anni ad andare via da casa senza lasciare nessuna informazione? Una malattia mentale? Un’insoddisfazione generale? Un capriccio? Quello che porta il signor Umberto, vecchio vedovo pensionato, a compiere un’azione tanto radicale e allo stesso tempo immatura, non è dato saperlo. Tutto ciò che sappiamo è che una sera di inverno l’anziano signor Umberto, dopo aver messo in valigia lo stretto indispensabile, esce di casa chiudendosi la porta alle spalle.

Ciò di cui Massimo è a conoscenza non si distacca largamente da questo; ce ne rendiamo conto quando, dopo un iniziale tentativo di ricerca quanto mai vano, lo troviamo seduto al commissariato intento a sporgere la denuncia di scomparsa. Risponde in modo approssimativo, non riesce ad andare oltre il dato puramente

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superficiale; è da questo momento che iniziano a palesarsi in lui i primi campanelli d’allarme di un senso di colpa sopito. L’imbarazzo per non aver saputo rispondere a domande di cui sarebbe dovuto essere a conoscenza è simile a quello provato poco prima, davanti alla tomba della madre, quando una sconosciuta gli si era avvicinata per confortarlo da una frustrazione che non aveva provato. Inizia ad avanzare in lui il dubbio di non aver fatto abbastanza per i suoi genitori e il rimorso per essersene accorto solo nel momento in cui la madre non c’è più e il padre ha deciso di non esserci.

Al senso di colpa subentra però velocemente la voglia pura, autentica di trovare il padre. Questa voglia si manifesta nella sequenza della visione delle fotografie prima, e nella discussione con i fratelli poi. A farla scattare è in particolare la scoperta dell’abitudine del padre di porre un titolo dietro ogni scatto; parole che, sebbene siano spesso scollegate da ciò che mostra l’immagine, sono in grado, ai suoi occhi, di far emergere una vena artistica del genitore di cui non era a conoscenza. Iniziano a sorgere in lui domande che non riescono a trovare risposte; cosa significano quei titoli? Perché non sapevo nulla di questa strana abitudine? E soprattutto, chi è realmente quella persona che per anni ho chiamato papà? La consapevolezza delle mancanze avute nei confronti del padre diventa il motore per intraprendere una ricerca autonoma del genitore. Una ricerca che, oltre a rappresentare un tentativo di ritrovarlo, si propone di capirne la sua persona: avvicinarsi, come forse non aveva mai fatto prima, a conoscerlo.

La curiosità e soprattutto il grado di fascinazione che inizia a provare, lo portano a modificare il suo approccio al problema; la ricerca che prima viveva come un compito spiacevole, come un dovere imposto dalla realtà sociale, adesso, dopo la

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rivelazione avuta dalle fotografie, inizia a trasformarsi in un piacere, in un desiderio sincero di ritrovare una persona cara, non solo da un punto di vista materiale, ma anche e soprattutto spirituale. Un viaggio illogico che non sembra avere alcun obiettivo pratico, considerando che le intenzioni del secondogenito potrebbero riassumersi come un tentativo di ricostruire il presente investigando su un elemento che può parlarci esclusivamente al passato. La peculiarità della fotografia risiede proprio in questo: raccontare una realtà che può essere valida solo in un tempo che guarda all’indietro; un attimo dopo essere stata immortalata, quella realtà è già cambiata. Da qui deriva lo scetticismo dei fratelli. Da qui deriva lo scetticismo di noi spettatori. La fotografia come elemento rivelatore e insieme illusorio, quindi.

Tuttavia, capita spesso che l’intransigenza di un singolo che si ostina a perseguire una strada priva di qualsiasi logica o ragione, arrivi a raggiungere l’obiettivo che logica e ragione avevano mancato. Quasi allo stesso modo di quei titoli scritti a penna sul retro delle foto che, trascendendo dall’immagine, arrivano meglio a toccare le corde profonde dell’anima del protagonista.

Questa è la sinossi del corto nelle sue linee generali. Il resto della trattazione vuole approfondire il percorso che mi ha portato a elaborare queste considerazioni, individuando più a fondo le riflessioni che si celano dietro ogni singola scelta. Facendo dove necessario piccoli riferimenti alla trama, mi preme rendere merito alle suggestioni – frutto delle letture e degli studi di questi ultimi anni – che mi hanno permesso di lavorare a questa storia con passione e dedizione.

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1. Straniamento

“Per la prima volta e solo per un attimo, perché scomparse subito, scorsi sul divano, sotto la lampada, rossa, pesante e volgare, malata, persa nelle sue fantasticherie, scorrendo un libro, con due occhi un po’ folli, una vecchia sfinita che non conoscevo.”

(M. Proust, Le cotè de Guermantes)

Si tratta di un attimo. Un momento brevissimo. La presa di coscienza di qualcosa che non ci si aspetta di vedere. Lo straniamento può essere definito come una rivelazione inaspettata.

Potremmo paragonare questo istante rivelatore, allo scatto di un fotografo che, sapientemente nascosto, coglie la realtà per quella che gli appare davanti agli occhi. Non c’è affezione. Non c’è sentimento. Tutto ciò che si presenta è solo la pura realtà dei fatti. Lo stesso Proust, nel suo Le coté de Guermantes, paragona l’impersonalità del fotografo a quell’impressione di distacco provata dal personaggio del suo romanzo quando, dopo essere tornato a casa della nonna senza essere scorto immediatamente da quest’ultima, ha provato per un attimo quell’impressione straniata che potrebbe appartenere a un semplice estraneo, a un osservatore esterno, a un fotografo, appunto, e che gli consente di percepire

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l’amata nonna per quello che, effettivamente, è: una donna anziana, malata e persa nelle sue fantasticherie di lettura; una vecchia che non conosceva.

Lo straniamento si serve di due condizioni senza le quali è impossibile ottenere questo processo di consapevolezza: da un lato la totale estraneità dell’oggetto osservato; dall’altro una sorta di astrazione del soggetto che osserva. La prima condizione è facile da ottenere; basta alzare lo sguardo e sorprendere la persona che ci sta accanto mentre è intenta a leggere un libro, ad ascoltare la musica, a lavare i piatti. Fino al momento in cui essa non si accorgerà di essere osservata, è possibile vedere la realtà di quella persona senza nessun velo, senza nessuna maschera.

Analizziamo la seconda condizione necessaria. L’astrazione del soggetto che osserva comporta una sorta di predisposizione. Ogni individuo nasce e cresce assimilando determinati comportamenti come usuali, comuni, razionali. A seconda della propria formazione culturale, la persona viene abituata a etichettare il mondo circostante secondo canoni logici o illogici. Il tutto cambia nel momento in cui un individuo viene estrapolato dal suo ambiente, e viene immerso in una realtà culturale diversa, dove i canoni logici sono irrimediabilmente differenti. Il processo dello straniamento consiste nel ricreare autonomamente i presupposti di questa estrapolazione. Si tratta di dover scomporre gli atteggiamenti consolidati dalla tradizione, svuotandoli di significato.

La cultura occidentale ha largamente consolidato l’immagine della figura femminile. Giornali, riviste, cartelloni pubblicitari, televisione; tutti questi mezzi di comunicazione ripropongono la bellezza femminile, stereotipata secondo determinati canoni. L’elemento fondamentale di questo stereotipo non è la

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componente naturale delle fattezze personali, bensì la componente artificiale del trucco. La donna raffigurata può essere bionda, mora; con gli occhi castani, verdi, azzurri; può essere vestita, in intimo, nuda; la sola costante che deve rimanere invariata è il trucco: la donna deve essere truccata. La società ha imposto questa norma, e tutti coloro i quali si trovino a farne parte sono portati ad accettare implicitamente questo costume. Ora, capita spesso di osservare una donna impegnata nelle consuete operazioni di make-up. L’atteggiamento dell’osservatore al quale capita di assistere a simili operazioni quotidiane, va dall’indifferenza al disinteresse, in quanto ha largamente assimilato questa usanza. Eppure, quello stesso osservatore che da sempre è stato abituato ad abbassare lo sguardo distrattamente durante le fasi di trucco della donna di casa, prima o poi si soffermerà a guardare attraverso la porta lasciata socchiusa, e vedrà con stupore un essere umano che si colora la faccia facendo smorfie alla sua immagine riproposta dallo specchio.

Ecco un esempio di straniamento. Come dicevamo, una scomposizione nelle sue componenti essenziali. Una desacralizzazione degli atteggiamenti consolidati.

Da un punto di vista letterario, ci hanno dato prova di questo procedimento diversi intellettuali. Oltre che nelle opere veriste di Giovanni Verga, il quale ha fatto di questa tecnica narrativa una delle basi del suo lavoro, è possibile trovare esempi di questo processo in diversi filosofi. Voltaire, ad esempio, riporta delle interpretazioni fenomenali dei riti religiosi, reinterpretati come se a osservarli fosse un uomo vissuto nella giungla; il personaggio di una sua opera dice: “non crediamo che il cristianesimo consista nel gettare acqua fredda sulla testa, insieme

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a un po’ di sale.”1 Un efficace esempio di straniamento sottoposto al rito del battesimo. Lo stesso Voltaire, a sua volta, aveva tratto i principi basilari di questo modello dalla letteratura inglese. Agli inizi del settecento era stato Swift che con i Viaggi di Gulliver aveva adottato lo stesso procedimento, con la sola inversione dei termini: aveva preso un elemento quotidiano (Gulliver) e lo aveva posto in un ambiente straordinario (Lilliput). “Swift trasforma un oggetto quotidiano in qualcosa di sacro; Voltaire trasforma un evento sacro in qualcosa di quotidiano.”2

La forza del processo di scomposizione si configura nel fatto che, attraverso questa descrizione semplificata degli eventi, anche chi legge è portato a una reinterpretazione nei termini dell’autore. L’attimo di sospensione che ha portato il singolo a vedere sotto una luce diversa la realtà circostante, influenza e fa riflettere anche tutti coloro i quali si troveranno a considerare questa condizione. Non solo. Secondo quanto suggerisce Kracauer, grande teorico del cinema e insieme storico tedesco, il processo di straniamento non si limita esclusivamente a un attimo di sospensione destinato a svanire. In questo senso Kracauer supera addirittura l’insegnamento di Proust: Marcel (il protagonista di Le coté de Guermantes), dopo quell’attimo di sospensione che lo aveva portato a vedere la nonna per quello che realmente era, ritorna nel suo stato di nipote in cui l’affetto che prova gli conferisce nuovamente una visione condizionata di quella vecchia donna malata. Kracauer, diversamente, sostiene che l’individuo dopo essere tornato in sé dallo stato di straniamento, non tornerà a essere quello di

1 Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano, Feltrinelli, 2006, p.

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prima, ma acquisirà una coscienza nuova e duratura in grado di modificare le sue future considerazioni sull’argomento.3

Da un punto di vista creativo, questo procedimento è anche quello che permette di individuare, all’interno di una storia, elementi nascosti che rendono la trama degna di essere raccontata. Ridurre l’avvenimento alle sue componenti essenziali, permette di approfondire sfumature e peculiarità che altrimenti rimarrebbero inespresse. Al momento dell’attività creativa, sono proprio queste sfumature che affascinano l’autore e che, successivamente, permetteranno al pubblico di ritrovare nella storia un coinvolgimento emotivo.

Provando a sintetizzare l’argomento del corto presentato, si potrebbe riassumere la trama come la storia di un uomo che si mette alla ricerca del padre scomparso. Storia banale. Lungamente trattata. Nulla che possa creare i presupposti per interessare il grande pubblico. Comunemente, però, le considerazioni che portano a trattare una storia, non partono da queste linee generali. Alla base delle riflessioni che mi hanno portato a intraprendere il lavoro, si riconosce una suggestione diversa. Quanto realmente conosciamo le persone che ci stanno accanto? Quanto, l’idea che abbiamo di questi, è influenzata dal ruolo che hanno nella nostra vita? È stata questa la domanda che ha stimolato il mio interesse a tal punto da pensare di costruirci una storia attorno. Volendo, si potrebbe dire che è stato lo straniamento stesso a interessarmi: il procedimento che porta il figlio a pensare al suo vecchio non in termini di padre, quanto in termini di persona. Se all’inizio della storia Massimo è mosso da un senso di

3 Siegfried Kracauer, Prima delle cose ultime, Casale Monferrato, Marietti,

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dovere (e in un certo senso da una responsabilità che sente di avere nei confronti di una figura più debole), la ricerca che compie nella seconda parte del corto è dettata da un interesse diverso, da una fascinazione. Massimo non agisce con l’obiettivo di trovare suo padre, ma con l’obiettivo di conoscere una persona che lo intriga, che lo incuriosisce. Durante il tragitto che ha compiuto, è venuta a cadere la maschera pirandelliana che lui stesso gli aveva applicato, lasciando emergere i lineamenti di una persona che non conosceva. Quello a cui assistiamo nei sedici minuti di video è la conquista, da parte del signor Umberto, dello stato di persona, e la sua liberazione dal ruolo di padre. È questo il tema principale del corto. O meglio, è questo il messaggio.

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2. L’evoluzione del cinema

L’avvento del cinema ha profondamente modificato il nostro rapporto con la realtà. Più nello specifico, ha cambiato il nostro modo di leggere la realtà. L’evoluzione delle tecniche cinematografiche ha comportato un adeguamento da parte nostra a esse, ma allo stesso tempo questa evoluzione è stata imperniata su una più immediata ricezione del messaggio per lo spettatore.

2.1. La centralità dello spettatore

Lo spettatore. Questa è forse l’unica regola che esiste nell’ambiente cinematografico: ricordare sempre che il lavoro è finalizzato a un pubblico. Non dimentichiamoci che è stata questa la grande intuizione che ha permesso al genio dei fratelli Lumière di imporsi nel mercato mondiale. Già nel 1891 (quindi quattro anni prima della nascita del cinematografo) Edison aveva brevettato il kinetoscopio, un apparecchio in grado di ottenere delle immagini in movimento al pari del Cinematografo Lumière. La differenza sostanziale stava nella possibilità di proiezione; mentre il kinetoscopio permetteva solamente a un singolo individuo la visione delle immagini in movimento – il quale era costretto a godersi lo spettacolo osservando all’interno del macchinario – l’invenzione dei due fratelli francesi permetteva l’accessibilità della visione a una collettività, proiettando le immagini su uno sfondo uniforme. Il vero punto di forza del modello Lumière è stato, quindi, la visione pubblica.4

4 Sandro Bernardi, L’avventura del cinematografo. Storia di un’arte e di un

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Naturalmente, il cinema delle origini, era nettamente diverso da quello che intendiamo oggi. Diverso a tal punto che gli studiosi, nel momento i cui si trovano a parlare dei primi anni di vita della settima arte, preferisco parlare di cinematografo più che di cinema. Si trattava di cinema delle attrazioni. L’obiettivo era quello di stupire, di ammaliare il pubblico pagante. Intrattenere la collettività sfruttando la “magia” del nuovo mezzo. Non per niente uno dei principali interpreti di questo primo cinema fu Méliès, un illustre prestigiatore e illusionista del tempo. Méliès si serviva del montaggio utilizzandolo come un trucco, come un gioco di prestigio. In questo cinema delle attrazioni non si può ancora parlare di film; “il suo era un film-varietà, era più spettacolo che narrazione.”5 È solo con Griffith che il cinema inizia ad acquisire le connotazioni che siamo abituati a conferirgli. È grazie a Griffith che nasce il cinema narrativo. Già nel 1906, dopo i primi anni di boom in cui era stato sfruttato l’effetto novità del mezzo, il mercato era saturo e il pubblico andava sempre più abituandosi alle “magie” del cinematografo le quali, dopo poco, faticarono a rinnovarsi. L’invenzione dei fratelli Lumière rischiava di diventare solamente una trovata passeggera, una moda degli inizi del novecento, destinata a essere fagocitata dall’insaziabilità sociale. Se tutto ciò non successe, fu grazie all’utilizzo che ne fece Griffith. Egli fu considerato l’inventore delle numerose tecniche di ripresa e di narrazione che vedono nel primo piano, nelle dissolvenze, nei raccordi (sull’asse, di sguardo e di movimento), le basi della moderna grammatica filmica. Tuttavia, questa considerazione non è del tutto corretta. Queste modalità di ripresa sono il frutto delle intuizioni di diversi interpreti del tempo. Il vero merito che va

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attribuito a Griffith è quello di aver sottoposto queste tipologie di linguaggio alle dipendenze del sistema retorico narrativo. Nello specifico, egli cerca di conferire alla storia una certa continuità lineare: l’inquadratura lunga viene sezionata in piani e campi differenti, che favoriscono la leggibilità e lo scorrimento della trama. La continuità dell’azione è favorita dalle possibilità generate dai raccordi. I piani ravvicinati sono utilizzati per sottoporre determinati elementi all’attenzione dello spettatore. Il montaggio analitico viene ad assumere una funzione centrale durante la lavorazione. In definitiva, Griffith pone tutti gli elementi del linguaggio cinematografico al servizio di una sola componente: la narrazione.

È proprio sul metodo di Griffith che si costituisce il modello narrativo comune. Il cinema come lo vediamo oggi è il frutto delle sue normative e del suo lavoro. È sulla base dei principi di continuità narrativa, di trasparenza del linguaggio e di continuità di spazio e di tempo, che si costituisce il modello hollywoodiano. Modello che poi si è imposto come paradigma della costruzione filmica generale. Inoltre, torno a sottolinearlo, questo modello ha condizionato non solo la composizione filmica, ma anche la nostra modalità di lettura della realtà. È così che non solo il cinema, ma anche tutte le altre forme di narrazione, hanno dovuto adattarsi alle normative del linguaggio filmico. L’impostazione cinematografica viene costantemente riproposta nella letteratura, nella fumettistica, perfino nella narrazione storiografica; l’avvento della microstoria6

6

La microstoria (più correttamente definita storiografia – historia

rerum gestarum – branca della storia che si differenzia dallo

storicismo – res gestae) mira ad approfondire gli avvenimenti locali,

svincolandoli dalla stretta relazione con il flusso storico. Essa indaga

la storia dei fatti accaduti, vale a dire l’insieme dei fatti che si sono

verificati all’interno di una realtà specifica; il momento storico in cui

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nella seconda metà del novecento, ad esempio, sfrutta la struttura cinematografica per esporre le sue analisi. La circoscritta realtà locale è studiata e approfondita nella sua particolarità e, allo stesso tempo, viene collocata all’interno di un periodo storico ben preciso. Si assiste a un continuo rimando fra macro e microstoria.

Esattamente come fa il cinema. Nei film assistiamo agli avvenimenti di un personaggio (o più personaggi) che si muove all’interno di una realtà circoscritta; questo microcosmo, a sua volta, si colloca all’interno di un contesto spazio-temporale più ampio e ben riconoscibile.

Nel suo libro Theory of film, Kracauer riporta sapientemente l’insegnamento di Griffith che, “da un lato, mira a stabilire nel modo più efficace una continuità drammatica; dall’altro, inserisce invariabilmente immagini che non servono soltanto a portare avanti l’azione o a comunicare stati d’animo importanti ma, conservando una certa indipendenza dall’intreccio, riescono a evocare l’esistenza fisica. È questo precisamente il significato del suo primo piano. Allo stesso modo, i suoi campi lunghissimi, le sue folle tumultuanti, i suoi episodi di strada e le sue molte scene frammentarie ci invitano ad assorbirle con intensità. Osservando queste immagini o configurazioni visive, possiamo anche dimenticare il dramma che esse puntualizzano nei loro diffusi significati.”7 Kracauer aveva intuito la portata dell’influenza del modello cinematografico tanto da applicarlo successivamente, a quello storiografico. Guardare simultaneamente da vicino e da lontano; il piccolo e il grande. Grazie a questo metodo di impostazione, il

essi accadono non condiziona, o comunque condiziona limitatamente,

gli avvenimenti microstorici.

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pubblico è in grado di avere una comprensione globale del discorso. Lo spettatore è in grado di seguire facilmente l’argomento principale, collocandolo in una realtà storica riconoscibile. È attraverso questo continuo rimando fra diversi punti di vista, che acquista valore il discorso storico. È attraverso questo continuo rimando fra diversi punti di vista, che si è imposto il cinema.

2.2. Le grandi innovazioni

Il cinema è anche business. In quanto tale, come tutto ciò che fa riferimento a un mercato economico, anche il cinema ha conosciuto grandi momenti di fortuna e grandi momenti di crisi. Tuttavia, nel corso di oltre cento anni di vita, il cinema è sempre riuscito a rispondere alla crisi del mercato, introducendo innovazioni più o meno significative, in grado di risollevare le sue sorti. Abbiamo già affrontato il primo vero momento di crisi del cinematografo nel precedente paragrafo. La risposta è stata quella che abbiamo analizzato ad opera di Griffith. Tuttavia, questa innovazione si configura come una nuova nascita del mezzo; “se nel cinema delle attrazioni l’intenzione dominante era mostrare le scene in movimento, a partire da Griffith, invece, l’intenzione principale sarà la narrazione.”8 Cambia proprio il modo di utilizzarlo e il tipo di fruizione che se ne ha. Con Griffith abbiamo la nascita del cinema moderno. Cerchiamo ora di vedere in che modo si è modificato nel corso degli anni.

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2.2.1. I film sonori

La prima grande introduzione che ha segnato permanentemente il cinema moderno, riguarda l’avvento del sonoro. È con Il cantante di jazz del 1927 che si apre una nova fase della storia cinematografica. L’avvento del suono dentro le immagini, comporta un cambiamento radicale sia per quanto riguarda la costruzione della trama, sia per quanto riguarda la recitazione dell’attore.

Il film muto richiedeva una serie di accorgimenti e una tipologia di inquadrature che potessero ovviare alla carenza del dialogo (limitato a poche frasi riportate attraverso didascalie in quelli conosciuti come cartelli). Si cercava di adoperare una scelta di accostamenti visivi che potessero evocare nello spettatore la ricezione del messaggio. L’avvento del sonoro stravolge le regole della costruzione filmica e del montaggio analitico; tuttavia, in certi casi, questo comporta una regressione del prodotto finale.9

Affrontando un discorso così delicato si deve stare attenti a non fare confusione. I meriti e le possibilità generate dalla componente sonora sono state innumerevoli e fondamentali. La possibilità di sostituire le invadenti didascalie con un suono sincronizzato con l’immagine che, non solo rendeva la comprensione più immediata, ma anche infondeva una percezione di realtà più pregnante per ciò che riguarda l’immedesimazione che si richiedeva allo spettatore, è stata un’innovazione dalla portata straordinaria. A questo si aggiunge la possibilità di lavorare su sceneggiature più complesse, che senza l’ausilio fornito dal sonoro (in particolare per le scene dialogate) sarebbero risultate molto

9 G. Millair e K. Reisz, La tecnica del montaggio cinematografico, Milano,

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difficili da realizzare.10 La critica principale che è stata mossa alla nuova categoria (per quei tempi) di registi sonori, si incentra sul loro utilizzo spasmodico del sonoro. Questa innovazione ha generato la tipologia di film che Millar e Reisz definiscono parlati al cento per cento. Riprendendo le considerazioni portate avanti da Lindgren, i due autori si scagliano contro l’uso del parlato, quando esso non apporta nessun ulteriore dato rilevante, rispetto a quello che è in grado di apportare l’immagine. Il solo vantaggio che si aggiunge alla sequenza, è un livello di realismo più attinente alla quotidianità: “In un film muto si può vedere un cane che abbaia; aggiungere il suono del cane che abbaia aumenta senza dubbio il realismo della scena, ma non ci dice nulla che già non sappiamo, non aggiunge nulla alle qualità espressive dell’immagine; si tratta ancora e semplicemente di un cane che abbaia.”11

Tuttavia, se sfruttato bene, il sonoro è in grado di produrre degli effetti unici e di creare nuove soluzioni da porre al servizio della storia. Un dialogo, ad esempio, può nascondere un sotto-testo che lo valorizza e lo rende indispensabile. Altre volte l’autore può servirsi del dialogo semplicemente per mostrare lo stato d’animo o la psicologia del personaggio; in questi casi l’interesse non viene posto su cosa dicono i personaggi, ma su come lo dicono. Spesso l’ambiguità del dialogo aggiunge un grado di interesse da non sottovalutare.

10 Ivi, pp. 39-40. 11 Ivi, p. 38

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In ogni caso, ciò che conta è non dire quello che puoi mostrare. Ogni suono, ogni parola deve contribuire a fornire informazioni aggiuntive, ad arricchire il racconto.12

In definitiva, la nascita del sonoro ha generato sicuramente più benefici che svantaggi; tutto ciò che si deve rifuggire è un utilizzo smodato delle sue possibilità, ricordandosi che il cinema nasce prima di tutto come racconto per immagini. Va raggiunto un equilibrio fra la componente visiva e quella sonora, quindi. In questo compito ci vengono incontro gli insegnamenti dei grandi maestri del passato: autori come Ford, De Sica, Carné “mostrano tutti un’economia ammirevole nell’impiego dei dialoghi, il che ha portato a opere che si staccano nettamente dalla media.”13

Se il suono aggiunge diverse possibilità agli autori, consentendogli di sfruttare tutta una serie di nuovi elementi (dialoghi, rumori, musiche, suoni extradiegetici) per coinvolgere emotivamente il pubblico, discorso diverso si deve fare per come cambia la condizione degli attori. Con l’avvento del sonoro, infatti, non basta più la presenza fisica e la capacità mimica dell’attore: adesso egli deve saper recitare. Questo aprirà una vera e propria crisi all’interno della categoria, generando un ricambio repentino degli interpreti.

Uno dei generi che aveva riscosso più successo ai tempi del muto è stato senza dubbio il genere comico. Il cinema comico, figlio dell’influenza delle rappresentazioni carnevalesche e circensi, si serve, per ottenere situazioni esilaranti, di una delle caratteristiche principali del mezzo cinematografico: il

12 Age, Scriviamo un film. Manuale di sceneggiatura, Milano, il Saggiatore,

2009, pp. 93-99.

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movimento. I primi film comici sono completamente giocati sul movimento. Una costante di questi film è la velocità. Le slapstick comedy (letteralmente schiaffo-e-bastone, gag elementari che suscitano la risata attraverso le continue disgrazie che capitano ai personaggi), i Keystone Cops (poliziotti incompetenti che non sono in grado di svolgere il loro lavoro), le Bathing Beauties (bellezze al bagno, ragazze superficiali e trasgressive), sono tutte varianti comiche dei primi vent’anni del novecento, che sfruttano in primo luogo il ritmo del montaggio per suscitare il riso.14 Ai tempi del muto era proprio in fase di montaggio che si creava il film; il regista, insieme al montatore, aveva a disposizione una vasta quantità di materiale che utilizzava a suo piacimento in base alle necessità della sequenza. Questo vale non soltanto per il genere comico, dove come abbiamo detto la cadenza ritmica era in grado di accrescere la goffaggine della situazione, ma anche per le scene drammatiche in cui la scelta di un andamento più o meno veloce contribuiva a creare uno stato di tensione nello spettatore.

Con l’avvento del sonoro questa libertà di scelta viene a ridimensionarsi considerevolmente; in primo luogo per lo stretto legame che si viene a creare fra immagine e suono (che adesso viene ad acquisire un valore imprescindibile per la narrazione), e in secondo luogo per l’alto costo della “pellicola sonora”, che non consente di girare una gran quantità di materiale in eccesso.15

Se da un lato queste nuove norme mutano e allo stesso tempo favoriscono la gestione del film da parte del regista, dall’altro lato richiedono all’interprete competenze indispensabili per continuare a esercitare la professione. Attori come Charlie Chaplin o Buster Keaton, che avevano fatto del loro corpo l’elemento

14 Sandro Bernardi, L’avventura del cinematografo, cit., pp. 64-66.

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principale della loro fortuna cinematografica, troveranno non pochi ostacoli con l’avvento del sonoro. In particolare Keaton risentirà fortemente di questa innovazione, “poiché il suo cinema è tutto di giochi visivi e la parola non ha importanza.”16 La portata di questa innovazione e le conseguenze disastrose che ne derivarono per gli attori del tempo, furono a tal punto significative da creare i presupposti per costruire delle trame intorno a questo argomento: Viale del tramonto (1950) di Billy Wilder è stato uno dei film più rappresentativi per ciò che concerne lo shock psicologico che affliggeva i divi del tempo, o ancora, in tempi più recenti, The Artist (2011) di Michel Hazanavicius è stato in grado di esprimere molto bene il grado di trasformazione scaturito dall’avvento del sonoro, riuscendo a riscuotere un largo consenso di pubblico e di critica.

2.2.2. La rivoluzione neorealista

Se la prima grande innovazione del mezzo cinematografico si basa, come abbiamo visto, su una componente tecnica (l’introduzione del suono all’interno dell’immagine), la seconda grande innovazione del cinema moderno è stata tematica, e si riconosce nella nascita e nell’affermazione del Neorealismo.

Riuscire a definire in maniera esaustiva cosa si intende per Neorealismo non è compito facile. Sebbene si possano individuare senza troppa difficoltà le principali caratteristiche della corrente, riuscire a definire sinteticamente l’elemento fondante che ha permesso al Neorealismo di imporsi, risulta abbastanza complicato.

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Proviamo a definire alcune considerazioni di base.

• Il cinema neorealista nasce in Italia a partire dal 1945.

• Le figure più importanti si riconoscono in Rossellini, Visconti e nel duo Zavattini-De Sica.

• Al centro dell’interesse neorealista c’è la realtà quotidiana.

La Seconda Guerra Mondiale ha lasciato nel territorio italiano conseguenze disastrose. Proprio le condizioni della popolazione giocano un ruolo fondamentale nella nascita di questa nuova scuola di pensiero. Tuttavia, le premesse al neorealismo si erano presentate già prima della guerra. Nella seconda metà degli anni trenta, in seno alla rivista Cinema, si iniziava di già a parlare di realismo. Iniziava a emergere un interesse per persone lontane dallo stereotipo di eroe delle pellicole americane.17 La guerra contribuisce a consolidare questa esigenza che era venuta formandosi. Permette di attingere a storie forti e largamente condivise. Si schiera dalla parte dei deboli. Contribuisce a creare un senso di identità condivisa.

Il cinema neorealista è un cinema povero: i teatri di posa sono stati distrutti o occupati dagli sfollati, pertanto le riprese vengono effettuate nei contesti urbani; spesso vengono scritturati attori non professionisti o provenienti dall’avanspettacolo; l’inquadratura è sporca, non curata; il montaggio diventa meno lineare; i raccordi meno precisi. Oltre che nella carenza di soldi, di mezzi e di organizzazione produttiva, le motivazioni che hanno portato a questo nuovo

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modo di fare cinema, vanno ricercate nell’urgenza comunicativa; il cinema diventa sempre più un mezzo per esprimersi, per parlare, per puntare l’attenzione su argomenti di interesse culturale: “l’unità-base del racconto cinematografico non è più l’inquadratura, e quindi nemmeno il montaggio, ma «il fatto, l’evento bruto, ancora confuso, incerto e caotico, davanti al quale la cinepresa rimane attenta a osservare, cercando di capire quello che accade.» (Bazin, 1958)”18 Non si può più attendere. Non si possono aspettare le condizioni ottimali. La necessità primaria diventa la comunicazione. Ci troviamo di fronte a un cinema povero di mezzi ma non di ideali. Ideali forti e improcrastinabili che, nonostante le ristrettezze, fremono per essere comunicati. È così che un’altra caratteristica fondamentale del cinema neorealista potrebbe essere individuata nella volontà di continuare a vivere nonostante i disagi; una volontà di fare cinema nonostante le ristrettezze. Un cinema nuovo e innovativo che porta sul grande schermo la realtà quotidiana, mescolando finzione e verità. Un cinema che attinge al particolare per arrivare all’universale.19 Nasce un vero e proprio nuovo modo di guardare. Osservare da vicino la realtà senza quel grado di illusione che contraddistingueva il cinema precedente. Il mondo circostante è un mondo doloroso ed è presentato in quanto tale dalla macchina da presa. Le persone che lo popolano sono i poveri disperati e proprio loro diventano i protagonisti delle storie raccontate. Lo sguardo dell’autore si infiltra nelle loro vite difficili e altrettanto è costretto a fare lo spettatore. Nel Neorealismo non ci si schiera, non si giudica; tutto ciò che si è in grado di fare è partecipare tacitamente all’evoluzione della storia. Il pubblico

18 Ivi, pp. 199-200.

19 Gian Piero Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano, Torino, Einaudi,

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diventa testimone degli avvenimenti. Avvenimenti che in linea di massima fanno parte della sua realtà.

Una volta chiarite le linee guida che contraddistinguono il Neorealismo, va detto che già a partire dagli inizi degli anni ’50, il fenomeno si era arrestato. Rientrano in questo filone film come Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero, Ladri di biciclette, Umberto D, Sciuscià, La terra trema e pochi altri. In ogni caso si tratta di film prodotti fra il 1945 e il 1948. Inoltre si tratta di film estremamente diversi fra loro; non si riconosce un tema comune, non si riconosce un personaggio comune e non si riconosce un’ambientazione comune. L’unico elemento che li accomuna è “il senso tragico della realtà”20.

Resta comunque il fatto che si tratta di un periodo veramente esiguo per essere in grado di condizionare tutto il cinema successivo, tanto che viene da domandarsi in che modo il Neorealismo abbia rappresentato un’innovazione tanto rilevante. Sebbene la vita del Neorealismo sia decisamente breve, va detto che la sua influenza arriva fino ai giorni nostri. Grandi registi americani contemporanei non nascondono di individuare i loro maestri nei grandi interpreti di questo periodo. Le realtà cinematografiche europee e mondiali ritrovarono nel neorealismo un modello a cui attingere per raccontare le loro realtà nazionali.21 Infine, tutto il cinema italiano degli anni successivi al 1948, segue le logiche e le sperimentazioni che si sono susseguite in questi anni. Mi viene da pensare all’utilizzo dei vari dialetti regionali al servizio di un cinema rivolto alla totalità della nazione. È in questi anni che il dialetto romano, napoletano, siciliano, veneto, entrano a far parte della consuetudine filmica e da questo momento in poi

20 Sandro Bernardi, L’avventura del cinematografo, cit., p. 212. 21 Ivi, pp. 198-199.

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non la abbandoneranno più. Tutto il cinema successivo se ne servirà ripetutamente, costruendo personaggi e storie sulla base della provenienza geografica. Una personalità del calibro di Monicelli andrà a fare uno studio meticoloso sui dialetti, individuando in quel non so che linguistico la forza della sua commedia. Grazie alle sue intuizioni e alle sue creazioni sull’apparato linguistico, Monicelli otterrà il riconoscimento di genio della lingua.22

Inoltre, è durante il Neorealismo che si assiste alla consacrazione dell’umorismo (tanto caro alla tradizione italiana) come ingrediente fondamentale della costruzione filmica. Un umorismo in grado di assottigliare sempre più i margini fra dramma e commedia. Un umorismo che inizia ad affermarsi nel cinema, a partire da Roma città aperta, quando, “un minuto prima dell’immortale sequenza in cui le SS falciano con una raffica di mitra Anna Magnani lanciata all’inseguimento della camionetta che si porta via il suo uomo, il prete Aldo Fabrizi ha trasformato a fin di bene un malato scorbutico in finto moribondo, assestandogli una sonora padellata in testa: in altre parole c’è in Roma città aperta un passaggio dal comico al tragico degno del teatro elisabettiano.”23 È questo un tratto assolutamente distintivo del Neorealismo, in grado di formare tutti gli sceneggiatori e i registi successivi. Su questo dualismo fra comico e tragico si sono create trame e personaggi che hanno segnato la storia del cinema italiano; La Grande Guerra (1959), Divorzio all’italiana (1961), Il Sorpasso (1962); ma anche Nuovo Cinema Paradiso (1988), Mediterraneo (1991), La vita è bella (1997). Questi sono tutti film che devono il loro successo a un’impostazione

22 Fabrizio Franceschini, Monicelli e il genio delle lingue, San Giuliano Terme

(PI), Felici Editori, 2014, pp. 28-37.

23 Masolino d’Amico, La commedia all’italiana, Milano, il Saggiatore, 2008, pp.

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umoristica che guarda al cinema neorealista come modello incondizionato. Un modello che ha insegnato a far ridere nel dramma e a far piangere nella commedia.

Sono stati questi i punti di forza di una scuola di pensiero dalla vita breve. È in questo modo che il Neorealismo ha stravolto il modo di fare cinema.

Da qui nascono le considerazioni che mi hanno guidato nella realizzazione del cortometraggio. Nozioni teoriche che ho cercato di riproporre nella costruzione della storia e durante la sua lavorazione. Innanzitutto, ho fatto la scelta di utilizzare il mezzo cinematografico per raccontare la storia. Ho ritenuto che il linguaggio filmico potesse permettermi meglio di comunicare la condizione del protagonista: sfruttare le immagini per esplorare la sua personalità, i suoi pensieri, la sua evoluzione. Ho pensato a una storia e ho cercato di narrarla secondo gli insegnamenti di Griffith: ho lasciato che fossero i primi piani a creare il senso drammatico della vicenda; ho lasciato che fossero i raccordi a far proseguire la narrazione.

A questo si aggiunge un uso parsimonioso del dialogo. Volevo che fossero le immagini a raccontare. Il momento della ricerca del padre o della scoperta del suo lato artistico, sono presentate visivamente. Osserviamo da lontano un uomo che domanda informazioni a persone che non sono in grado di rispondere; osserviamo da vicino un uomo che rimane affascinato da una moltitudine di fotografie e dai loro titoli. Il suono è sfruttato per accrescere l’impatto emotivo e per accompagnare l’evoluzione drammatica.

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Naturalmente le scene dialogate non mancano, ma l’utilizzo che ho cercato di farne è finalizzato a ottenere un obiettivo diverso. Attraverso il dialogo mi interessava far emergere la varietà dei punti di vista dei diversi interpreti. Mostrare quanto può variare la considerazione di una persona, in base al punto da cui la si osserva. Le centomila maschere che Pirandello attribuisce al suo Vitangelo Moscarda, ho cercato di attribuirle all’anziano signor Umberto che, in particolare nella scena del confronto-scontro fra i fratelli, viene presentato prima come un pover’uomo indifeso, vittima delle crudeltà della società contemporanea, e poi come uno sconsiderato donnaiolo, pronto ad abbandonare tutto per seguire i piaceri della vita. Due versioni tanto divergenti quanto fasulle, che inducono lo spettatore ad attribuire al povero signor Umberto altre mille maschere che non gli appartengono. È solo alla fine della vicenda che vengono definiti i lineamenti di quella sagoma nera che si disegnava sull’uscio di casa all’inizio del cortometraggio. La persona che ci appare davanti agli occhi non corrisponde a nessuna delle maschere che gli erano state attribuite precedentemente. Tutto ciò che appare è la figura di un uomo qualunque che tenta di reagire allo stato di solitudine e di inutilità in cui improvvisamente si è venuto a trovare.

Infine, ho trattato il tutto seguendo la costruzione neorealista. La storia tratta gli avvenimenti di persone comuni. Una situazione in cui si potrebbe venire a trovare chiunque nella realtà attuale. Una quotidianità che fuoriesce prepotente e che cerca di diventare interessante, ponendo l’accento su riflessioni che andrebbero fatte da ognuno di noi.

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Un lavoro che denota delle carenze tecniche, ma che sente l’esigenza di presentarsi ad un pubblico. Di mettere lo spettatore davanti a una verità che, per quanto lampante, fatica a essere affrontata.

Una lingua sporca, contaminata dalla sicilianità, che, sebbene non sia espressamente dialettale, sfrutta una musicalità e una cadenza tipiche del contesto regionale, contribuendo ad accrescere l’illusione di realtà.

Un umorismo, infine, che emerge evidente nella sequenza del cimitero, dove una sconosciuta si avvicina al protagonista per consolarlo per la perdita della madre, quando questi è afflitto per il solo fatto di non essere riuscito a trovare il padre. Un misunderstanding che, oltre a suscitare il sorriso, si pone come obiettivo centrale quello di far riflettere lo spettatore su una questione ben più delicata: vuole disprezzare quella strana usanza di interessarsi ai propri cari solo nel momento in cui non ci sono più.

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3. Il discorso fotografico

Perché la fotografia? Per quale motivo individuare nel mezzo fotografico uno degli elementi principali dello svolgimento del cortometraggio? Non ho mai praticato la fotografia nemmeno a livello amatoriale. Al di là della fotocamera incorporata nel cellulare, non possiedo nemmeno un apparecchio su cui sperimentare. Le mie competenze tecniche in merito sono alquanto basilari. Qual era, allora, la necessità di parlare di qualcosa di cui conoscevo poco, o nulla? Il mezzo fotografico è difficile da descrivere. Fin dalla sua nascita, numerosi studiosi hanno provato (e provano tutt’ora) a individuare e teorizzare i suoi elementi peculiari, il suo campo di azione, le sue capacità comunicative. Tuttavia, il processo fotografico, è in grado di produrre un effetto di fascinazione che trascende dalla sua capacità performativa; l’attrattiva generata dalla possibilità di bloccare in un’immagine il mondo circostante, è una sensazione condivisa. Per di più, la fotografia riesce a suscitare interesse anche su chi non si esprime in prima persona nella sua attuazione. L’abitudine di avere sempre a portata di mano una fotografia che immortala un momento significativo della nostra esistenza, è una pratica che ci accomuna. Essendo un’arte empirica, non è possibile trovare uniformità nell’elemento che essa rievoca; le immagini che ciascuno di noi porta con sé, presentano una varietà di ritratti, paesaggi, oggetti e dettagli sempre diversi, che a una prima analisi non costituiscono nessun fattore di interesse. Il valore che gli appartiene è dato dalla mediazione del proprietario della foto. Caudio Marra nel suo testo Fotografia e pittura nel novecento suddivide l’elemento fotografico in due diverse identità: l’identità materiale e l’identità

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concettuale. La prima è quella che avvicina la fotografia all’estetica pittorica, la seconda è quella che se ne distacca drasticamente. L’identità materiale riguarda “i principi di costruzione e di funzionamento dello strumento che ha dominato tutta la storia delle arti visive […] si giunge insomma obbligatoriamente a concepire la fotografia come erede legale del quadro, seppur tecnologicamente aggiornata alle modalità produttive.”24

L’identità concettuale diversamente si avvicina all’utilizzo del mezzo fotografico che viene fatto oggi; “si prenda l’esempio più banale, quello della foto da album di famiglia, e ci si chieda: per cosa funziona quell’immagine? Per la sua materialità forse? Per come è fatta? Per il taglio, la luce o la composizione del soggetto? No di sicuro. Quello che conta è piuttosto la capacità di memoria che quella foto riesce ad esprimere, oppure magari il senso del tempo fermato, manipolato, dilatato, o ancora l’idea della presenza in assenza di qualcuno o qualcosa, tutti elementi di tipo concettuale appunto.”25 È proprio questa identità concettuale che mi incuriosisce e che ho cercato di approfondire nel corso della lavorazione. Il mio studio si è andato a concentrare su una ricerca ontologica della fotografia, volta a chiarire le modalità attrattive del mezzo, piuttosto che il suo dato puramente storico-tecnico.

Parte della suggestione per la realizzazione del cortometraggio, infatti, si riconosce in quella fotografia da cui esso ha, successivamente, preso il titolo. Una fotografia che raffigura tre bambini davanti all’obiettivo di un fotografo occasionale; questa immagine banale riusciva a suscitare in me un’attrazione tale

24 Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento. Una storia senza

“combattimento”, Milano, Bruno Mondadori, 1999, p. 14.

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da portarmi a soffermarmi a lungo a osservarla, ogni volta che mi ci trovavo davanti. Sorgevano in me una serie di domande a cui non ero in grado di dare risposte. Non era una foto che apparteneva al mio passato (essa ritrae mio padre e i suoi due fratelli da piccoli), per cui non riuscivo nemmeno a giustificare questo interesse come una rielaborazione nostalgica della mia mente; eppure, essa produceva in me l’effetto che mi avrebbe suscitato la visione di una foto di Gianni Berengo Gardin o di Henri Cartier-Bresson.

Il mio obiettivo era capire da dove nascesse questa curiosità e su cosa si fondava. Ho iniziato così una ricerca di testi che trattavano l’argomento da questo punto di vista, e alla fine, grazie al suggerimento del mio docente e relatore Maurizio Ambrosini, mi sono imbattuto nel libro di Roland Barthes La camera chiara che, in parte ha risposto alle mie domande, ma soprattutto mi ha guidato nella costruzione del lavoro.

Il mezzo fotografico, infatti, costituisce all’interno del corto, non solo un elemento narrativo che permette lo svolgimento della trama, ma dà anche un’impostazione strettamente registica per la sua costruzione. Il capitolo seguente pertanto, vuole ripercorrere le considerazioni sviluppate da Barthes, mostrando i nessi che mi hanno guidato nelle scelte del lavoro.

3.1. Cos’è la fotografia?

Non voglio sapere né come si attua il processo fotografico, né cosa rappresenta una fotografia specifica. Il processo chimico-fisico appare ai miei occhi troppo astratto; l’elemento raffigurato costituisce il dato soggettivo dello scatto. A me interessa la sua essenza.

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Poniamo il caso che non abbia mai visto una fotografia e doveste spiegarmi di cosa si tratta come se davanti a voi ci fosse un bambino di quattro anni. Cos’è la fotografia?

In linea generale, la fotografia non è classificabile. Ha costantemente bisogno di trovare un elemento al suo interno che possa essere in grado di diversificarla dalle altre; “qualunque cosa essa dia a vedere e quale che sia la sua maniera, una fotografia è sempre invisibile: ciò che noi vediamo non è lei. In poche parole, il referente aderisce. E questa singolare aderenza fa si che vi sia un’enorme difficoltà a mettere a fuoco la Fotografia.”26

Walter Benjamin individuava nell’hic et nunc l’elemento fondante dell’opera d’arte: “la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova. […] l’hic et nunc costituisce il concetto della sua autenticità.”27 Ovviamente

Benjamin affrontava questo discorso in relazione al prodotto artistico: peculiarità dell’arte è proprio quella di essere unica. La macchina fotografica lavora allo stesso modo sull’unicità del momento senza, però, l’urgenza di porsi dei limiti; la fotografia è uno strumento onnivoro. In questa sua voracità risiede una delle sue caratteristiche più rilevanti. La fotografia, infatti, non fa altro che immortalare un hic et nunc che di per sé può anche non essere significativo, trasformandolo, per mezzo dello scatto, in opera d’arte. Esso blocca per sempre un momento che era destinato a essere irrimediabilmente superato e dimenticato. L’azione del fotografo rende immortale l’oggetto nello spazio in quel preciso momento. L’interesse che ha portato il singolo a fissare sulla carta fotografica un attimo

26 Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi,

2003, p. 8.

27 Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica,

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fuggente, ci invita a porre anche la nostra attenzione su quel determinato particolare, elevandolo dal suo stato di apparente normalità. Quel particolare, infatti, rimarrà impresso per sempre e verrà sottoposto all’interpretazione dell’osservatore; è questo il motivo per cui “le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che vale la pena osservare.”28 Alla base dello scatto, quindi, si pone sempre e soltanto il referente immortalato. È l’individuo, l’oggetto, il dettaglio su cui si sofferma la fotografia, il dato che ci permette di distinguere una foto dall’altra.

Sebbene i referenti siano continuamente diversi, l’aspetto che li accomuna è senza dubbio l’appartenenza allo stato di realtà. Qualsiasi sia il particolare fotografato, esso rappresenta l’elemento indiscutibilmente reale che è stato colto dalla macchina fotografica. La realtà della cosa fotografata diventa, così, il primo elemento certo della fotografia. A differenza della pittura, arte che sfrutta le medesime leggi di rappresentazione bidimensionale, la fotografia non può mentire. Vedendo una foto si ha la certezza dell’esistenza del referente nel mondo reale29; non c’è nessuna simulazione, ma solo una riproposizione effettiva. Questa componente di realtà, tuttavia, è irrimediabilmente circoscritta a un momento preciso. La certezza dell’esistenza del referente, è limitata al momento in cui il fotografo ha azionato il suo strumento; un attimo dopo, il referente potrebbe non 28 Susan Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Torino, Einuaudi, 1992, p. 3. 29 Ovviamente sono ben conscio che al giorno d’oggi il digitale ci permette di trasformare la percezione che si ha del reale secondo la nostra volontà e il nostro gusto. Tuttavia, in questo caso specifico mi interessa investigare ed analizzare le possibilità della fotografia al di là del momento della post-produzione. Pertanto, il discorso affrontato, vuole limitarsi a prendere in esame solo il mondo della fotografia analogica, di cui la realisticità del referente è un tratto ineliminabile.

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esistere più, o per lo meno, potrebbe non esistere in quel luogo specifico. Il passato si individua quindi come la seconda peculiarità del mezzo.

In definitiva, quindi, la fotografia si può indicare come l’immagine che mostra continuamente un momento reale che non tornerà più. È questo il suo significato universale.30

Il processo fotografico è il risultato di tre pratiche alle quali corrispondono altrettanti interpreti. In primo luogo, viene a classificarsi come il prodotto di un’azione da parte del fotografo; il primo momento si riconosce, quindi, nel fare una foto da parte di un Operator: il fotografo. A questo si riallaccia immediatamente la seconda pratica che è rappresentata dal fatto di subire la foto; il bersaglio della fotografia viene irrimediabilmente colpito dallo scatto che lo lascia quasi tramortito.31 L’oggetto di questa seconda pratica è lo Spectrum. Come

suggerisce sapientemente Barthes, il termine, attraverso la sua radice, vuole mantenere “un rapporto con lo «spettacolo» aggiungendovi quella cosa vagamente spaventosa che c’è in ogni fotografia: il ritorno del morto.”32 A questa seconda condizione si riallaccia la sensazione di inadeguatezza che la condizione di posa porta inevitabilmente con sé; nel momento in cui ci si vede puntati dal mirino della macchina fotografica il senso di disagio è comune, e per di più appare subito manifesto. Il risultato di questa condizione è un’immagine che differisce costantemente da ciò che siamo, o per lo meno, da ciò che pensiamo di essere. Susan Sontag nota, giustamente, che “fotografare una persona equivale a violarla, 30 Roland Barthes, La camera chiara, cit., pp. 77-87. 31 in relazione a questo aspetto, trovo assolutamente rilevante l’utilizzo che si fa nella lingua inglese del verbo to shoot, indicato sia per riferirsi all’azione di fotografare che a quella di sparare un colpo di pistola. 32Roland Barthes, La camera chiara, cit., p. 11.

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vedendola come essa non potrà mai vedersi, avendone una conoscenza che lei non può mai avere; equivale a trasformarla in oggetto che può essere simbolicamente posseduto.”33 Questo oggetto posseduto può essere a sua volta mostrato a proprio piacimento; è qui che ci ricolleghiamo alla terza e ultima pratica che appartiene alla fotografia, e che si riconosce, appunto, nell’atto di mostrare e che, come interprete, trova lo Spectator. Il protagonista di questa ultima pratica si riconosce in ognuno di noi. Quotidianamente ci troviamo a osservare milioni di immagini che ci vengono sottoposte da giornali, riviste, cartelloni pubblicitari, locandine, dépliant.34 La fotografia, in questi termini, viene a configurarsi come un atto di appropriazione. Il fotografo prende prepotentemente possesso di una porzione del mondo circostante, servendosene a suo piacimento.

È l’Operator quindi il responsabile principale del processo. È bene ricordare che l’immagine immortalata rappresenta la selezione che egli compie sulla quotidianità che lo circonda. In questo senso il lavoro adoperato dal fotografo è molto vicino a quello attuato dal regista cinematografico: anche il fotografo, o meglio soprattutto il fotografo, si fa interprete di una regia dello sguardo. Alla fotografia corrispondono irrimediabilmente dei margini che separano il visibile dal non visibile; in altri termini, decretano la superiorità di tutto ciò che si trova in campo, rispetto a quello che si trova fuoricampo. La scelta di cosa includere e cosa escludere dall’immagine spetta al fotografo. Questa scelta deve essere assolutamente ponderata, in quanto sancisce la direzione comunicativa dell’azione creativa.

33 Susan Sontag, Sulla fotografia, cit., p. 14.

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A differenza del regista, il fotografo ha a disposizione una sola immagine per esprime il suo messaggio. Questo fa si che tutti gli elementi della fotografia debbano convergere nella direzione di quel messaggio. La fotografia non dice nient’altro in più, oltre a quello che fa vedere; è per questo motivo che il fotografo deve scegliere attentamente cosa mostrare. A differenza di un romanzo, in cui la sensazione percepita è una carenza di immagini in grado di coadiuvare la comunicazione dei concetti sviluppati, la fotografia deve fare i conti con l’impossibilità dell’uso della parola per arrivare a colpire l’animo dello spettatore; “alla Scarsità-d’Immagine della letteratura, corrisponde la Totalità-d’Immagine della Foto; […] L’immagine fotografica è piena, stipata: in essa non c’è posto, non si può aggiungere niente.”35

Per terminare il discorso possiamo citare Edward Weston e i criteri da lui individuati al fine di guidare la valutazione di una fotografia; questi criteri riguardano l’illuminazione, la composizione, la chiarezza del soggetto, la messa a fuoco e la qualità della stampa. Aggiunge, tuttavia, che una buona composizione è la maniera più forte di vedere le cose. In questa scelta entrano in gioco tutte le variabili che possono avere a che fare con l’angolazione, l’altezza, il piano di una fotografia, le quali sono in grado di variare la percezione che si ha dell’immagine. Il fotografo deve considerare tutte queste variabili e utilizzarle al massimo delle sue possibilità, dal momento che queste sono le sole armi a sua disposizione per comunicare il messaggio. Lo scatto è solo il momento finale del processo fotografico; lo studio dell’immagine deve essere approfondito e sapientemente calcolato al fine di raggiungere l’obiettivo prefissato.

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