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Indagine sul benessere organizzativo nel reparto ospedaliero di oncoematologia pediatrica di Pisa - confronto con un'indagine precedente -

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Scuola di Medicina

Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

____________________________________________________________

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN SCIENZE RIABILITATIVE DELLE

PROFESSIONI SANITARIE

Indagine sul benessere organizzativo nel reparto ospedaliero

di oncoematologia pediatrica di Pisa - confronto con un'indagine

precedente

RELATORE

CHIAR.MO PROF. ALFONSO

CRISTAUDO

_______________

CANDIDATO

DOTT.SSA FABIANA SCANNIFFIO

_______________

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2

INDICE

Introduzione

……… 4

Capitolo I – IL BENESSERE ORGANIZZATIVO

……… 6

1.1 Evoluzione storica ……… 6

1.2 Nuovo concetto e definizione ………... 8

Capitolo II - INDICATORI DI BENESSERE E MALESSERE

ORGANIZZATIVO

……….. 11

2.1 Premessa ………. 11

2.2 Quali aspetti e come valutare ……….. 12

2.3 Indicatori ………. 14

2.4 Indicatori come fine o come opportunità? ……….. 15

Capitolo III - RIFERIMENTI LEGISLATIVI

……….... 18

Capitolo IV

-

IL CLIMA ORGANIZZATIVO

………. 22

4.1 Definizione e evoluzione storica ……… 22

4.2 Prospettive teoriche di riferimento ………. 23

4.3 Le variabili oggetto di misurazione ……… 25

4.4 Finalità della misurazione ………... 27

Capitolo V -

LA LEADERSHIP

………... 29

5.1 La nascita della leadership ………... 29

5.2 La nuova figura del leader ………... 29

5.3 Capacità manageriali di un leader ……… 30

Capitolo VI - INDAGINE SUL BENESSERE ORGANIZZATIVO NELLA

REALTÀ DEL REPARTO OSPEDALIERO DI

ONCOEMATOLOGIA PEDIATRICA

………... 33

6.1 Materiali e metodi ……… 33

6.2 Il questionario di rilevazione ……… 35

Capitolo VII – RISULTATI DELL’INDAGINE SUL BENESSERE

ORGANIZZATIVO

……….. 38

7.1 Analisi del campione ……… 38

7.2 Risultati dell’indagine ……….. 43

(3)

3

Capitolo VIII – INTERPRETAZIONE E DISCUSSIONE DEI

RISULTATI

……… 54

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4

Introduzione

Il concetto di salute organizzativa nasce contemporaneamente alla necessità di approfondire la relazione esistente tra individuo e organizzazione, considerando il fatto che le scelte organizzative influiscono inevitabilmente sulle condizioni di salute e benessere dei propri membri.

Per benessere organizzativo si intende il “rapporto che lega le persone al proprio contesto di lavoro, prendendone in considerazione le molteplici variabili, fra le quali: le relazioni interpersonali, il rapporto con i capi, il senso e il significato che le persone attribuiscono al proprio lavoro, il senso di appartenenza alla propria organizzazione, l’equità nel trattamento retributivo e nell’offerta di opportunità di crescita e miglioramento lavorativo, l’ambiente di lavoro accogliente e piacevole” (Pelizzoni, 2005).

In particolare, le organizzazioni sanitarie sono caratterizzate da un alto profilo di complessità, in cui il contributo professionale e il livello di responsabilità del personale è in grado di influenzare il risultato dei vari processi di produzione ed erogazione dei servizi.

È ormai opinione condivisa, infatti, che le performance dei lavoratori e, di conseguenza, quella dei servizi erogati da un’organizzazione, sono determinate anche dal livello di qualità della vita negli ambienti di lavoro; in questa ottica è necessario e utile perseguire uno stato di benessere nel contesto lavorativo, inteso come positiva interfaccia tra la persona e l’organizzazione di cui fa parte.

L’obiettivo del presente studio è quello di valutare il costrutto di “salute organizzativa” del personale del Dipartimento Materno Infantile dell’Unità Operativa di Oncoematologia Pediatrica dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, utilizzando il questionario multidimensionale (MOHQ), sperimentato nel 2002 nel settore pubblico e inserito nel “Programma Cantieri” del Dipartimento della Funzione Pubblica. Tale strumento di rilevazione della percezione della stato di benessere organizzativo è stato, quindi, confrontato con i risultati di una precedente analisi di benessere organizzativo condotta dall’AOUP nel 2014 per la stessa Unità Operativa.

In questo lavoro di Tesi, l’analisi dei dati, ottenuti dalla somministrazione dei questionari, è stata elaborata con l’ausilio del programma Microsft Excel. Si è studiata la statistica descrittiva, dove sono state calcolate e rappresentate graficamente le frequenze (in percentuale) e le medie per ciascuna delle dimensioni costituenti il questionario. Infine, il punteggio medio di tutti gli items ha permesso la costruzione dell’istogramma rappresentativo del Profilo Generale (Salute Organizzativa) dell’U.O. in esame.

Esistono importanti ragioni per occuparsi di salute organizzativa, tra le più manifeste, una si riferisce alle evidenze ben presenti in letteratura circa il rapporto tra benessere organizzativo e

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produttività/performance e sicurezza di una organizzazione, e una seconda si fonda sui criteri e principi delle regolamentazioni e/o delle norme (internazionali e nazionali) che condizionano e orientano le attività di un’organizzazione.

In tale prospettiva si delinea e si chiarisce il senso del benessere organizzativo che persegue l’obiettivo di creare un “luogo di lavoro psicologicamente sano” (J. Weaver, naz. Wellness Conference, 2009). In questo costrutto di si ritrovano alcuni principi fondamentali che dovrebbero informare e orientare l’attività di management.

Per questo molti studiosi hanno concentrato la loro attenzione sulla leadership sugli stili e sui modi di comunicazione attraverso cui si dà vita a interazioni sociali per formare un determinato clima organizzativo. L’interazione sociale è riconducibile, infatti, sia alle relazioni gerarchiche sia alle relazioni fra pari, poiché la creazione dei significati condivisi è un’esigenza essenziale per il buon funzionamento delle organizzazioni.

In particolare, si sottolinea il ruolo del manager che ha una forte influenza nella prevenzione, gestione e riduzione del rischio di esposizione ad agenti stressogeni al fine di migliorare il clima relazionale del gruppo.

In questo lavoro, tramite l’analisi del benessere organizzativo è stato possibile, infatti, individuare le aree di criticità che rappresentano la premessa conoscitiva necessaria per avviare un percorso di miglioramento dei processi organizzativi e assistenziali che sia capace di innalzare i livelli di sicurezza degli operatori sanitari e quindi i livelli di qualità dell’assistenza erogata.

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Capitolo I - IL BENESSERE ORGANIZZATIVO

1.1 Evoluzione storica

E’ abituale chiedere ad un collega o ad un amico come sta, come si trova, se è soddisfatto o meno del suo lavoro, come trascorre la sua giornata, quali sono le sue prospettive professionali. Le diverse risposte che sono fornite a queste domande alludono alla soddisfazione, alla speranza di miglioramento, al sentimento di contribuire a raggiungere scopi comuni o, al contrario, passando all’interno di una gamma articolata di posizioni intermedie al nervosismo, allo stress, ad uno stato di malessere e di delusione. Negli ultimi tempi il benessere organizzativo è stato definito come lo stato soggettivo di coloro che lavorano in uno specifico contesto organizzativo e l’insieme dei fattori che determinano o contribuiscono a determinare il benessere di chi lavora. In una prima approssimazione potremmo dire che il benessere organizzativo si riferisce alla capacità di un’organizzazione di promuovere e di mantenere il più alto grado di benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori in ogni tipo di occupazione. All’inizio del nostro secolo la stampa e la letteratura sociale hanno descritto in toni molto crudi, ma aderenti alla realtà, le sofferenze provocate da certi datori di lavoro e da certe industrie, che ignoravano la responsabilità sociale di dare alla forza lavoro un ambiente sicuro e salubre. L’organizzazione lavorativa era concepita in funzione del conseguimento del miglior risultato per l’impresa, non tenendo in considerazione né l’ambiente di lavoro, né lo stato di salute del lavoratore. L’individuo al lavoro era considerato come un essere passivo che rispondeva a stimoli economici e al quale era richiesto un mero adattamento al sistema tecnologico e organizzativo. Da allora molto tempo è trascorso e può essere utile ricostruire lo sviluppo dell’interesse alla salute del lavoro, prima ristretto al concetto di sicurezza e, poi, gradualmente ampliato fino ad abbracciare una molteplicità di altri aspetti.

Negli anni ’30-’40 si inizia a porre attenzione ai fattori connessi con gli infortuni e le malattie in ambito lavorativo. Questo periodo è caratterizzato dalla messa a punto di strumenti di assistenza per i lavoratori infortunati durante l’attività e dall’istituzione di enti e di comitati, governativi e non, preposti alla sorveglianza e al miglioramento della sicurezza delle condizioni di lavoro. Prevale una concezione meccanicistica e una causalità di tipo lineare, dall’ambiente di lavoro al lavoratore, per cui l’attenzione degli studi e degli interventi si limitava a valutare le condizioni di lavoro che potevano costituire un rischio di infortunio cercando di correggerle. Con la nascita del movimento delle relazioni umane (Majo 1933, 1945) fu posto in evidenza l’importanza del fattore umano. Si incomincia a parlare dei possibili danni al benessere dei lavoratori apportati dalla routinizzazione e dalla dequalificazione. Elementi quali motivazione, alienazione, fenomeni di gruppo che si

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instaurano nell’ambiente di lavoro sono presi in considerazione nella spiegazione delle condizioni di malessere dei lavoratori.

Il ventennio successivo (’50-’60) è caratterizzato da una visione più attiva del soggetto lavoratore: egli è visto interagire con il proprio ambiente di lavoro, pur permanendo un concetto di causalità di tipo lineare. L’interesse verso gli aspetti non solo fisici ma anche mentali della salute è molto forte negli Stati Uniti negli anni ’50 fino a sfociare negli anni ’70 nello studio dei cosiddetti aspetti psicosociali del lavoro.

Gli inizi del ventennio successivo (’70-’80) sono caratterizzati dal passaggio da un approccio di intervento incentrato sulla cura a una focalizzazione sulla prevenzione. L’importanza della sicurezza sui luoghi di lavoro è ormai un principio riconosciuto e sentito, tanto che inizia la partecipazione attiva di tutti gli attori all’interno del mondo del lavoro. La novità principale è lo spostamento dell’interesse dalla prevenzione degli infortuni e delle malattie alla conservazione attiva della salute. Prima di allora, infatti, la salute era definita semplicemente come l’assenza di invalidità o di malattia, mentre da allora in poi è concepita in chiave decisamente più positiva, come l’altro estremo di un continuum al centro del quale si trova l’assenza di invalidità o di malattia. Si apre così un campo d’intervento per migliorare e conservare uno stato di autentico benessere fisico e psicologico. In secondo luogo si guarda alle persone come precursori primari della salute. L’attività, nei piani d’intervento ispirati alla wellness , si concentra sul comportamento delle persone (per esempio nel bere, nel mangiare, nell’esercizio fisico, nel fumo): si cerca di cambiarne i comportamenti dannosi alla salute e di sostituirli con comportamenti salutari, oppure di instaurare ex novo comportamenti salutari. Negli anni ’90 la situazione migliora con la nascita dell’ Occupational Health Psicology (OHP), una materia interdisciplinare nata dal convergere della psicologia della salute e la salute pubblica con lo scopo di ottimizzare la qualità della vita lavorativa e della sicurezza. In questa prospettiva gli ambienti di lavoro sani erano caratterizzati da alta produttività, alta soddisfazione del lavoratore, buona sicurezza, basso assenteismo, basso turnover e assenza di violenza. L’OHP interveniva su tre dimensioni fondamentali: ambiente di lavoro, individuo e rapporto lavoro/famiglia, mettendo particolare enfasi sulla prevenzione primaria, non trascurando gli altri livelli di prevenzione.

L’OHP, pur con alcuni limiti, restava l’iniziativa più compiuta di superare il concetto di sicurezza inglobandolo in quello più ampio di salute nell’organizzazione.

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8 1.2 Nuovo concetto e definizione

La definizione di benessere organizzativo, comparso negli ultimi tempi, appare ancora incerta o generica non consentendo di individuare le condizioni in presenza delle quali un’organizzazione è capace di esprimere salute e di mantenere condizioni di benessere. Devono essere esplorati anche aspetti diversi dal benessere che però vi sono collegati. Per esempio gli argomenti principali del paradigma sullo stress – l’impegno, il controllo e il supporto sociale – si ritrovano come caratteristiche fondamentali anche in quello della riprogettazione del lavoro. Il paradigma sullo stress sottolinea quali fattori sono necessari per la salute e il benessere dell’individuo; la prospettiva che si fonda sulla riprogettazione del lavoro suggerisce come sviluppare nuovi ambienti lavorativi con meno burocrazia e maggior controllo condiviso. Anche il concetto di motivazione dove le persone avrebbero dei bisogni semplici e complessi che vanno soddisfatti e auspicherebbero di lavorare in un ambiente che abbia un significato. L’introduzione delle norme comunitarie recepite in Italia con il decreto legislativo 626/94 ha rappresentato una svolta importante per il modo di fare sicurezza e prevenzione. Il modello culturale introdotto, ponendo l’organizzazione al centro della gestione della sicurezza, mette in risalto aspetti ritenuti fino ad allora secondari. Si propone, infatti, un passaggio da un concetto di sicurezza, che ha nell’ambiente fisico di lavoro e nel singolo individuo il campo di intervento, a un concetto che porta il lavoro organizzato al centro dell’interesse per la prevenzione. E’ in base a come il lavoro è organizzato, alle scelte e alle decisioni organizzative adottate che possono realizzarsi le condizioni di pericolo o di rischio per il benessere fisico, ma anche psichico, dei lavoratori. La nuova normativa contribuisce alla ridefinizione dei modelli organizzativi e di gestione del rischio nell’impresa a sostegno dell’ipotesi che uno dei fattori determinanti nel verificarsi degli infortuni sia da ricondurre all’organizzazione del lavoro e alla cultura della sicurezza e non esclusivamente a carenze strutturali di macchine e impianti. Di conseguenza, coloro che si occupano di prevenzione e tutela della sicurezza in ambienti lavorativi si trovano nella necessità di ampliare l’ambito di intervento ponendo attenzione a un più generale benessere psichico e sociale oltre che fisico dei lavoratori, e analizzando processi organizzativi oltre che tecnici. Il mondo del lavoro è profondamente mutato; cresce il benessere economico ma aumentano le condizioni di disagio, di sofferenza e di malessere in coloro che lavorano in alcune organizzazioni; esiste una forte domanda di salute e di benessere nella società che non può non riguardare anche le organizzazioni nelle quali i singoli trascorrono buona parte del proprio tempo e nelle quali investono energie, emozioni alla ricerca di un equilibrio esistenziale di vita e di sviluppo. In questo quadro nuovi rischi si profilano in modo ormai chiaro. I principali sono:

a) ridotta stabilità del lavoro e crescente carico lavorativo;

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c) prolungamento dell’orario reale di lavoro;

d) nuove tecnologie e nuove forme di lavoro a distanza; e) integrazione tra qualità del lavoro e qualità della vita.

Sulla base di queste considerazioni si è provveduto a definire il benessere organizzativo in termini di variabili che concorrono a determinarlo. Avallone (2005) definisce il benessere organizzativo come “l’insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative

che animano la dinamica della convivenza nei contesti di lavoro promuovendo, mantenendo e migliorando la qualità della vita e il grado di benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative”.

L’espressione “insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative” definisce l’organizzazione stessa, la quale può essere intesa come insieme di umano (persone, dinamiche relazionali, percezioni e rappresentazioni) e tecnologia.

L’espressione “benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative” fa riferimento proprio alla salute fisica e mentale, alla soddisfazione lavorativa e al senso di autorealizzazione. Quello della soddisfazione lavorativa è un tema ampiamente trattato e dibattuto nella letteratura scientifica degli ultimi anni. In passato, è stata affrontata soprattutto dalla prospettiva dell’adempimento del bisogno, ovvero in termini di quanto il lavoro potesse soddisfare le esigenze fisiche e psicologiche dei lavoratori. A questo approccio però se ne è aggiunto un altro che via via, nel tempo, ha assunto un ruolo predominante sulla scena dei modelli di studio e intervento: quello basato sui processi cognitivi coinvolti in questa dimensione, piuttosto che sulla soddisfazione dei bisogni. Diverse e numerose sono le definizioni di soddisfazione lavorativa presenti in letteratura, la più diffusa delle quali è quella di Locke (1976): la soddisfazione è un “sentimento di piacevolezza derivato dalla percezione che l’attività professionale svolta consente di soddisfare importanti valori personali connessi al lavoro”. Tale sentimento sembra essere influenzato dal confronto tra ciò che il lavoratore si aspetta, da una parte, e ciò che invece percepisce rispetto alla realtà. Se le prospettive superano le percezioni c’è insoddisfazione. Se le percezioni negative superano le aspettative si prova senso di colpa e/o sconforto. La soddisfazione lavorativa dipende quindi da una certa corrispondenza e da un certo equilibrio tra le componenti citate.

L’impatto dell’ambiente lavorativo sul benessere individuale e sulla produttività è parte centrale del concetto di salute organizzativa.

Nella modellizzazione del costrutto di benessere lavorativo si individuano una serie di variabili che possono essere così sintetizzate:

- Caratteristiche dell’ambiente di lavoro (igiene, comfort, cura e attenzione agli spazi, ecc.);

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- Chiarezza degli obiettivi organizzativi e coerenza tra enunciati e pratiche

organizzative (il management utilizza modalità di comunicazione e influenzamento

non ambigue o contradditorie rispetto alle decisioni già prese e condivise);

- Riconoscimento e valorizzazione delle competenze (le richieste formulate al lavoratore, cioè, saranno congrue rispetto al suo profilo professionale e alle sue caratteristiche individuali; vi sarà corrispondenza tra ciò che il lavoratore fa e ciò che riceve in termini retributivi ma anche relazionali, di riconoscimento ecc.);

- Comunicazione intra-organizzativa circolare e trasparenza ( fondata sulla partecipazione alla vita decisionale dell’organizzazione, attraverso l’accesso alle informazioni per tutti i dipendenti affinché queste possano diventare effettivamente patrimonio dell’organizzazione e dei suoi membri);

- Prevenzione degli infortuni e dei rischi (con particolare riferimento alla promozione di una cultura organizzativa orientata alla sicurezza, che non premi ”machismo” e “overcompetition”, quanto invece l’applicazione delle norme di sicurezza);

- Clima relazionale franco e collaborativo (in grado cioè di gestire e monitorare un conflitto fisiologico, al fine di evitare la sua degenerazione in patologico);

- Giustizia organizzativa (assicura equità di trattamento a livello retributivo e di assegnazione di responsabilità e promozioni, attraverso l’esplicitazione di percorsi chiari e con la possibilità per tutti di accedervi);

- Apertura all’innovazione (l’organizzazione cioè cerca di assecondare il cambiamento esterno senza opporre rigidità o logiche di conservazione dello “status quo”).

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Capitolo II - INDICATORI DI BENESSERE E MALESSERE

ORGANIZZATIVO

2.1 Premessa

Prima di sviluppare la tematica relativa agli indicatori di benessere e malessere organizzativo, può risultare utile fare alcune considerazioni di base sul significato di funzionamento

organizzativo. Infatti questo rappresenta un punto di riferimento iniziale non solo sul piano

semantico, ma anche su quello del modello di riferimento mentale cui ci si richiama. Il cattivo funzionamento di una organizzazione, indipendentemente dai parametri secondo i quali lo si consideri (produzione, produttività, qualità, incidenti tecnici, infortuni, assenteismo, conflittualità, lentezza nei flussi procedurali, nelle decisioni, assenza di decisioni, per citarne solo alcuni) richiede comunque l’attivazione di processi diagnostici e di relativi interventi gestionali per riequilibrarne gli assetti e obiettivi.

Queste situazioni richiedono quindi, da parte dei ruoli gestionali, la disponibilità di dati di realtà, di analisi, di informazioni, soprattutto sui punti deboli che l’organizzazione presenta nei suoi ambiti di riferimento che sono alla base della realtà produttiva di beni o di servizi. In realtà, quando si parla di organizzazione spesso si usano riferimenti diversi a seconda dell’ottica professionale privilegiata dall’osservatore. A questo proposito si potrebbero individuare molte chiavi di lettura che, nel tempo, si sono succedute nell’epistemologia delle varie scuole di pensiero.

Per citarne solo alcune, ci si potrebbe riferire all’ottica organicistica riconducibile a funzioni, strutture, ruoli, rapporti, tecnicamente adeguati nelle dimensioni, oppure, a quella sistemica riguardante i vari sottosistemi che compongono il proprio sistema di appartenenza (primario, secondario, terziario). E cioè quello produttivo/ tecnologico, di mantenimento, politico/ strategico, formativo, sociale sotto il profilo dei loro sviluppi equilibrati tra loro.

L’ottica psicosociale poi, pone il proprio focus, per esempio, sulle relazioni tra persone e organizzazione, tra persone stesse, tra gruppi, tra persone e ruoli di comando, tra ruoli e competenze professionali sottese, tra ruoli e ambiti decisionali, in questo caso sotto il profilo di una felice convivenza e fluidità operativa e di processi.

Le concezioni mentali organizzative di riferimento, qualunque esse siano, entrano infatti in gioco da parte degli osservatori, allorquando ci si ritrova di fronte a fenomeni di disfunzionamento, nei confronti dei quali si devono individuare possibili soluzioni adeguate. Tali soluzioni possono essere evidenziate, se si dispone di indicatori, indici, sintomi che rappresentano alcune tra le cause del cattivo funzionamento, rispetto i vari ambiti che caratterizzano la complessità del contesto di lavoro e secondo la quale non vi è mai una sola relazione lineare causa-effetto.

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Ora, per pensare al funzionamento organizzativo, nella prospettiva di indagare le possibili cause di disfunzionamento, potrebbe essere utilizzato un modello secondo il quale, molto semplicemente, una organizzazione può essere concepita e vista come un organismo di interazione con il proprio ambiente (Ginger, 1987). Si tratta di considerare l’organizzazione proprio come un individuo nel quale si possono cogliere analoghe cinque dimensioni di riferimento: fisica, razionale, affettiva, sociale, ideologica/ sociale:

- Fisica (il corpo) cioè i mezzi, le risorse materiali (luoghi, strumenti tecnici, finanze, impianti e attrezzature ecc.);

- Razionale (la testa) cioè le tecniche (tecnologie, metodi di produzione, gestione, commercializzazione, ecc.);

- Affettiva- relazionale (il cuore) cioè rapporti e relazioni sul lavoro (clima, motivazioni, aspettative, attese, ecc.);

- Sociale (gli altri) cioè le strutture sociali (gerarchie, ruoli, poteri, processi, sindacalizzazione ecc.);

- Ideologica/ valoriale (la rappresentazione del mondo) cioè il sistema dei valori dell’impresa (la mission, la strategia sottesa agli obiettivi, la rappresentazione del ruolo sociale dell’organizzazione ecc.).

2.2 Quali aspetti e come valutare?

Tale ipotesi di approccio all’analisi del funzionamento offre spunti di collegamento e di vicinanza alle situazioni proprie dell’individuo, nella sua totalità di vita di relazione, comprese quelle intrecciate per la maggior parte del quotidiano in contesti di lavoro. Esse stimolano, a volte, sensazioni di felicità, di benessere, di stare bene con se stessi e con l’altro, di appagamento, di soddisfazione, di spirito di iniziativa, a volte invece, producono vissuti di rabbia, malessere, insoddisfazione, mancanza di volontà, noia, dolori fisici, patologie da diagnosticare.

Spesso ci si interroga sui nostri disagi, o si ricorre a chi può investigare e cogliere aspetti fisici, emotivi, per comprendere cause e individuare soluzioni terapeutiche. Si usano in tal caso strumenti mentali o supporti materiali tecnici, al fine di raccogliere elementi di informazione, dati concreti di realtà, adeguati a prefigurare eventuali cause e possibili interventi di aiuto correttivi di situazioni rivelatesi critiche.

Anche nelle organizzazioni, le situazioni di buono o cattivo funzionamento offrono segnali, nelle persone, sintomi, a volte visibili e documentabili a volte invisibili, a volte non detti, non estrinsecati o non dicibili, sottesi, riconducibili alla convivenza e ai processi relazionali delle persone che lavorano e che producono benessere o malessere fisico, psicologico e sociale nel contesto organizzato (Avallone, Paplomatis 2005).

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Alcune esperienze professionali e ricerche fatte nell’ambito di specifici contesti di lavoro, hanno consentito di considerare alcune premesse al buon funzionamento organizzativo, quando esso tende a privilegiare nella gestione una chiara consapevolezza di obiettivi e ruoli nelle persone, senso di appartenenza, sviluppo e valorizzazione delle competenze professionali ecc. si mantiene infatti, come conseguenza, una lettura che privilegia, come figura principale nelle organizzazioni, individui e gruppi nei loro rapporti e relazioni personali e professionali e come sfondo le altre componenti tecniche, economiche, normativo- burocratiche, strutturali ecc.

Ora le esperienze, le nuove tendenze che si affacciano nell’era postindustriale rispetto, per esempio, al significato di lavoro oggi prefigurato in termini relazionali e sociali piuttosto che

economici, richiedono chiavi di lettura delle organizzazioni prevalentemente orientate a una

concezione fisiologica di organismo umano. L’organismo umano è in salute se organi e funzioni vitali si svolgono in una buona integrazione tra loro; alcune patologie in specifiche funzioni a volte interagiscono in altre funzioni o organi provocando dolori e sofferenze. Anche nelle organizzazioni si possono presentare fatti, accadimenti anomali quali segnali di

cattivo funzionamento. Viceversa, se all’interno vi sono felici relazioni sociali di

collaborazione e integrazione sinergica, se gli individui percepiscono attenzioni nei loro ruoli, se mantengono buona autostima di sé, vivono sensazioni di valorizzazione e crescita professionale se mantengono forti e adeguate identità professionali nei processi di cambiamento, è possibile pensare che vi sia un buon funzionamento.

Nel caso in cui il funzionamento rivela sintomi di criticità, risulta utile se non indispensabile, progettare interventi di ricerca, finalizzati a cogliere quali problemi, quali disturbi si generino nell’organizzazione, attraverso l’utilizzo di strumenti idonei e adeguati a cogliere lo stato di salute. Questi strumenti sono dati da indicatori che possano aiutare ricercatori e committenza a disporre di elementi informativi quantitativi e qualitativi facilitanti, in primo luogo, l’elaborazione di diagnosi su punti forti e deboli del funzionamento organizzativo.

Gli indicatori sono costituiti da percezioni, emozioni, comportamenti, immagini, rappresentazioni mentali che le persone riconducono alla propria sfera soggettiva di significati legati allo stare bene o allo stare male.

Essi sono il risultato di specifiche investigazioni, interrogativi, attraverso stimoli sia di natura razionale sia di natura emotivo- affettiva. Spesso i risultati tra le due modalità quantitative e qualitative non solo offrono utili integrazioni, allargando lo spettro di lettura, ma anche, sorprendentemente, non sempre si confermano, anzi in alcuni casi rivelano paradossali e significativi e utilissimi spunti di riflessioni e interpretazioni ai ricercatori sulle possibili differenziazioni tra aspetti che presentano maggiore positività rispetto dissonanze emerse sul piano evocativo emotivo, attraverso associazioni e sensazioni più autentiche, solo in un secondo tempo rielaborate nei loro sensi e significati.

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14 2.3 Indicatori

Da tutto questo quindi si è potuto individuare degli indicatori di benessere e di malessere, rilevabili a livello individuale e riportati in seguito.

Gli indicatori di benessere organizzativo sono:

- soddisfazione per l’organizzazione, ossia, il gradimento per l’appartenenza a un’organizzazione ritenuta di valore ;

- voglia di impegnarsi per l’organizzazione e quindi il desiderio di lavorare per l’organizzazione, anche oltre il richiesto;

- sensazione di far parte di un team, cioè la percezione del lavoratore di puntare, unito, verso un obiettivo;

- voglia del lavoratore stesso di andare al lavoro, che esprime il quotidiano piacere nel recarsi al lavoro;

- elevato coinvolgimento, o meglio, la sensazione che, lavorando per l’organizzazione, siano soddisfatti anche bisogni personali;

- speranza di poter cambiare le condizioni negative attuali, cioè la fiducia nella possibilità che l’organizzazione abbia la capacità di superare gli aspetti negativi esistenti;

- percezione di successo dell’organizzazione, cioè la rappresentazione della propria organizzazione come vincente;

- rapporto tra vita lavorative e privata, la percezione di un giusto equilibrio tra lavoro e tempo libero;

- relazioni interpersonali: soddisfazione per le relazioni interpersonali costruite sul posto di lavoro;

- valori organizzativi: condivisione dell’operato e dei valori espressi dall’ organizzazione;

- immagine del management: fiducia nelle capacità gestionali e professionali della dirigenza (credibilità) e apprezzamento delle qualità umane e morali della dirigenza (stima);

Gli indicatori di malessere organizzativo sono:

- insofferenza nell’andare al lavoro: esistenza di una difficoltà quotidiana a recarsi al lavoro;

- assenteismo: assenze dal luogo di lavoro per periodi più o meno prolungati e comunque sistematici;

- disinteresse per il lavoro: scarsa motivazione che può o meno si esprimersi anche attraverso comportamento di scarso rispetto di regole e procedure, e nella qualità del lavoro;

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- desiderio di cambiare lavoro: desiderio chiaramente collegato all’insoddisfazione per il contesto lavorativo e/o professionale in cui si è inseriti;

- alto livello di pettegolezzo;

- covare risentimento verso l’organizzazione: provare rancore-rabbia nei confronti della propria organizzazione fino ad esprimere un desiderio di rivalsa;

- aggressività e nervosismo: espressione di aggressività, anche solo verbale, eccedente rispetto all’abituale comportamento della persona, che può manifestarsi anche al di fuori dell’ ambito lavorativo, irritabilità;

- disturbi psicosomatici: classici disturbi dell’area psicosomatica (sonno, apparato digerente, ecc.);

- sentimento di inutilità: la persona percepisce la propria attività come vana, inutile, non valorizzabile;

- sentimento di irrilevanza: la persona percepisce se stessa come poco rilevante, quindi sostituibile, non determinante per lo svolgimento della vita lavorativa dell’organizzazione;

- sentimento di disconoscimento: la persona non sente adeguatamente riconosciuti né le proprie capacità né il proprio lavoro;

- lentezza nella performance: i tempi per portare a termine i compiti lavorativi si dilatano con o senza autopercezione del fenomeno;

- confusione organizzativa in termini di ruoli, compiti, ecc.: il dipendente e/o cliente non ha chiaro «chi fa cosa», senza che, a volte, ciò determini disagio e desiderio di porvi rimedio;

- venir meno della pro positività a livello cognitivo: è assente sia la disponibilità ad assumere iniziative che il desiderio di sviluppo delle proprie conoscenze professionali; - aderenza formale alle regole e anaffettività lavorativa: pur svolgendo i propri compiti

e attenendosi alle regole e procedure dell’organizzazione, il dipendente non partecipa emotivamente ad esse.

2.4 Indicatori come fine o come opportunità?

Potrebbe apparire domanda retorica, dalla risposta certa come opportunità di miglioramento e adeguamento dell’organizzazione alle sollecitazioni di malessere o di benessere che nel contesto di lavoro sono alimentate attraverso le chiavi di lettura dei collaboratori e contenute nei risultati elaborati dalla ricerca.

In realtà, a volte, i dati e le considerazioni diagnostiche argomentate ed emerse, rappresentano per la committenza un testo, un test di realtà, una operazione gestionale portata a termine, che spesso conclude il suo faticoso percorso organizzativo nelle naturali sedi direzionali. Non

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sempre trova ulteriore destinazione nei confronti di coloro che sono stati gli interlocutori protagonisti e destinatari dell’iniziativa, come restituzione finale e complessiva di un lavoro al quale i collaboratori contribuiscono. Purtroppo, per varie cause spesso l’esperienza fatta dalla committenza non trova adeguata disponibilità, a volte anche il coraggio, di conoscersi e di ri-conoscersi in tutto o in parte nei risultati. Il testo restituito non assume veste e stimolo come pre-testo per la presa in carico consapevole e condivisa da parte di tutti i ruoli gestionali coinvolti, dei risultati ottenuti. In queste situazioni la ricerca assume veste di sola meritevole innovativa e lusinghiera esercitazione, priva di quella rielaborazione finale operativa, per la quale essa è stata confezionata e gestita.

La ricerca deve avere una sua storia, rappresentata sul campo e descritta nei suoi obiettivi, nelle sue modalità di svolgimento previste e in quelle realizzate, nelle caratteristiche dei partecipanti, nelle adesioni più o meno numerose, nelle eventuali percentuali di assenteismo, nei commenti e considerazioni, nelle situazioni operative di ricerca o fuori nel contesto abituale di lavoro, nelle valutazioni espresse dai vari attori dell’iniziativa. Essa rappresenta, per così dire, non tanto un punto di arrivo, bensì di partenza, non una finestra o porta che si chiudono, ma che si aprono su nuovi orizzonti, su processi di cambiamento, verso la definizione di nuovi processi innovativi e trasformativi.

Se la storia si ferma nei cassetti o nei raccoglitori e non viene innanzitutto restituita in termini informativi ai destinatari finali e protagonisti dell’operazione, genera, paradossalmente, ulteriore malessere, mancanza di credibilità e trasparenza nei confronti dell’organizzazione. Se si voleva cercare le cause di percepite ostilità, di conflittualità, di sintomi di assenza e sfiducia, di modeste motivazioni al lavoro, sarebbe sufficiente riflettere sulle mancate conseguenze operative, come esempio di possibili ipotesi generative di malessere e di disfunzionamento.

Ormai è chiaro che condizioni di scarso benessere organizzativo determinano in modo concreto fenomeni quali diminuzioni della produttività, assenteismo, bassi livelli di motivazione, ridotta disponibilità al lavoro, carenza di fiducia, mancanza d’ impegno, aumento di reclami e lamentele della clientela; tutti questi indicatori di malessere non sono altro che il riflesso dello stato di disagio e malessere psicologico di chi lavora. La riduzione della qualità della vita lavorativa in generale e del senso individuale di benessere rende onerosa la convivenza e lo sviluppo dell’organizzazione.

Se invece la committenza si confronta sui dati emersi e fa seguire interventi coerenti con gli impegni assunti e manifestati con l’operazione, allora si affronta l’elaborazione di un progetto di intervento di sviluppo organizzativo nei suoi obiettivi, modalità, tempi e risorse, in una prospettiva di cambiamento culturale. Diventa centrale considerare nelle scelte strategiche e nei valori di riferimento la qualità della convivenza organizzativa che deve essere pensata, curata e gestita con il contributo di tutti gli attori.

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In particolare l’azienda sanitaria, vista la sua complessità, è tra le organizzazioni che dovrebbero far propri questi obiettivi. Le aziende sanitarie, infatti, si configurano come organismi complessi che erogano diverse tipologie di servizi, caratterizzati da un elevato livello di professionalità. Le persone e il loro contributo professionale offerto all’azienda diventano in quest’ottica un elemento essenziale del “sistema produttivo” delle aziende sanitarie, capitale prezioso su cui è necessario dedicare la massima attenzione, sia a livello strategico che con riferimento alla gestione dei processi e delle attività. Il benessere organizzativo in ambito socio-sanitario costituisce un tema di particolare interesse in quanto vi sono stretti rapporti tra la qualità dei processi organizzativi e quella dell’assistenza erogata. Alcuni punti fondamentali che aiutano a compiere questo salto culturale sono:

- favorire lo sviluppo delle motivazioni attraverso la consapevolezza della rilevanza del proprio lavoro e di quella della propria organizzazione; sentirsi parte di organizzazioni che contribuiscono a migliorare la vita dei cittadini, a favorire lo sviluppo di comunità, a tutelare l’interesse collettivo è certamente elemento fondamentale ed indispensabile in questa attuale fase di forti cambiamenti sul piano dei bisogni sociali; - generare un buon clima in grado di promuovere, mantenere e migliorare la qualità

della vita delle persone ed il benessere fisico, psicologico e sociale della comunità di persone che opera in un dato contesto.

Si può concludere affermando che il benessere organizzativo è un approccio che associa lo studio dei classici rischi fisici legati al tema della sicurezza lavorativa con quello dei cosiddetti rischi psicosociali, che riguardano variabili legate alla convivenza sociale e organizzativa. Il concetto di benessere organizzativo si riferisce, quindi, al modo in cui una persona vive la relazione con l’organizzazione in cui lavora. Tanto più una persona sente di appartenere all’organizzazione perché ne condivide i valori, le pratiche, i linguaggi, tanto più trova motivazione e significato nel suo lavoro. Da questo si deduce che l’investimento delle aziende sulle nuove tecnologie, in differenziazione dei prodotti/servizi ed in immagine non basta, ma diventa indispensabile che la committenza tenga conto sia delle differenti esigenze del dipendente, dell’evoluzione dei suoi bisogni e della sua dimensione emozionale, sia che condivida l’iniziativa in tutti i suoi ruoli di riferimento e sia consapevole di svilupparne le conseguenze e finalità per le quali è stata decisa, progettata e gestita.

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Capitolo III - RIFERIMENTI LEGISLATIVI

Il legame tra organizzazione e salute è riconducibile all’introduzione delle norme comunitarie recepite in Italia con il Decreto n. 626 del 1994 che ha assicurato il cambiamento di direzione sul piano degli strumenti di misura e sulle strategie di intervento. Come sostengono Avallone e Paplomatas, in base a come il lavoro è organizzato, alle scelte e alle decisioni organizzative

adottate, possono verificarsi le condizioni di pericolo o di rischio per il benessere fisico e psichico, dei lavoratori.

I riferimenti normativi riguardanti il benessere organizzativo possono essere suddivisi in tre gruppi:

1. Direttive, dichiarazioni, accordi ed altri documenti prodotti dall’unione europea; 2. Riferimenti a codici italiani;

3. Leggi, decreti legge, circolari e direttive riguardanti il benessere organizzativo o temi strettamente correlati, presentati secondo un ordine cronologico.

1. DIRETTIVE, DICHIARAZIONI, ACCORDI ED ALTRI DOCUMENTI PRODOTTI DALLA UE

- Direttiva madre n. 89/391/ce: lo scopo di tale direttiva era quello di promuovere

l’adeguamento della normativa di tutela della salute e sicurezza sul lavoro alle trasformazioni del mondo del lavoro, prevenendo l’obbligo per il datore di lavoro di “ assicurare la sicurezza e la salute dei lavoratori in tutti gli aspetti legati al lavoro e di adattare il lavoro all’uomo”;

- Direttiva 92/85/ce: riguarda l’attuazione di misure volte a promuovere il

miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere;

- Direttiva 96/34/ce: concerne l’accordo quadro sul congedo parentale concluso

dall’UNICE,CEP E CES;

- Direttiva 2000/78/ce: riguarda la parità di trattamento in materia di occupazione e

condizioni di lavoro;

- Direttiva 2002/73/ce: modifica la direttiva 76/207/ce relativa all’attuazione del

principio della parità di trattamento fra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione, alla promozione professionali e le condizioni di lavoro;

- Risoluzione A3-0043/94 del parlamento europeo: relativo alla nomina di un

consigliere di fiducia nelle imprese;

- Documento della commissione europea del 1999, include la citazione dei fattori di

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- Dichiarazione di Lussemburgo(1997) aggiornata in quella di Tokio (1998): riguardano

entrambe la promozione della salute sui luoghi di lavoro, comprendono altri fattori di stress;

- Comunicazione della commissione delle comunità europea (Bruxelles,

28/07/2001): promuove un quadro europeo per la responsabilità sociale d’impresa;

- Risoluzione del parlamento europeo A5-0283/2001: affronta il fenomeno del mobbing

sul posto di lavoro;

- Commissioni delle comunità europee ( Bruxelles 11/03/2002): tiene conto delle

trasformazioni del lavoro e della società, presenta una nuova strategia comunitaria per la salute e la sicurezza (2002-2006);

- Accordo quadro europeo 2004 sullo stress nei luoghi di lavoro: riguarda lo stress

lavoro correlato come possibile fonte di stress per i lavoratori, che deve essere adeguatamente valutato dai datori e se presente gestito per salvaguardare la salute dei lavoratori;

- Comunicazione della commissione delle comunità europea (Bruxelles,

14/10/2005): ha il compito di migliorare la salute mentale della popolazione;

- Direttiva 2006/54/ce: relativa alle pari opportunità di trattamento in materia di

occupazione fra uomini e donne;

- Commissioni delle comunità europee ( Bruxelles 21/07/2007): punta a migliorare la

produttività e la qualità sui luoghi di lavoro, presenta una nuova strategia comunitaria 2007-2012 per la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro;

2. RIFERIMENTI A CODICI LEGALI ITALIANI

- Costituzione italiana

Art.35: “la repubblica tutela il lavoro in tutte le forme e sue applicazioni”;

Art.32: “la repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse

della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti”;

Art.41: “l’iniziativa economica privata è libera, non può svolgersi in contrasto con l’utilità

sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

- Codice civile

Art 2087: tutela delle condizioni di lavoro “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio

dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

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3. LEGGI,DECRETI LEGISLATIVI,CIRCOLARI E DIRETTIVE

- Legge 300 del 1970: “norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”;

- Decreto legislativo n.626 del 1994: “attuazione delle direttive CEE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori;

- Decreto legislativo n.165/2001: “norme generali sull’ordinamento del lavoro alle

dipendenze delle amministrazioni pubbliche”;

- Decreto legislativo n.195 del 23.6.2003: “Modifiche ed integrazioni al D.L 626”, con

questo sono state individuate le capacità ed i requisiti fondamentali richiesti agli addetti e ai responsabili dei servizi di prevenzione e protezione dei lavoratori, che devono essere adeguati alla natura dei rischi presenti sul luogo di lavoro e relativi alle singole attività lavorative.

- Direttiva ministero della Funzione Pubblica: “misure finalizzate al miglioramento del

benessere organizzativo nelle P.A,2004”, prende in considerazione sia il benessere dei lavoratori che quello dell’ente, considerando il primo come un presupposto fondamentale del secondo.

- Decreto legislativo 81/08: “recante attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto del

2007 n.123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro”, ha riordinato e coordinato numerose normative relative alla tutela della sicurezza del lavoro comprese quelle riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato (ACCORDO EUROPEO dell’8 ottobre 2004) e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza (Decreto Legislativo 26 marzo 2001,n.151), nonché quelli connessi alle differenze di genere, età, provenienza da altri paesi.

- Decreto correttivo decreto legislativo 106/2009: “disposizioni integrative e correttive

del decreto legislativo 9 aprile 2008 n.81,in materia di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro”;

- Decreto legislativo 27 ottobre 2009 n.150: ”attuazione della legge 4 marzo 2009 n.15

in materia di “ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni”, il presente decreto da attuazione ai principi fondamentali della riforma con regole sulla programmazione, la trasparenza, il controllo, la premialità, la contrattazione collettiva, la dirigenza e le sanzioni disciplinari. Istituisce inoltre due soggetti fondamentali della riforma, gli organismi

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indipendenti di valutazione e la commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle pubbliche amministrazioni.

- Legge 183/2010: deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione

di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro. E’ un provvedimento collegato alla manovra di finanza pubblica per gli anni 2009-2013.

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Capitolo IV - IL CLIMA ORGANIZZATIVO

4.1 Definizione e evoluzione storica

Quando si trattano temi inerenti le organizzazioni di lavoro, in particolar modo in ambito sanitario, occorre tenere in considerazione che esse operano all’interno di un più ampio contesto, in grado di influenzarne processi e pratiche atti a garantire, pur in una situazione di continuo cambiamento, flessibilità e produttività. Per il raggiungimento di questi due risultati, un ruolo fondamentale è ricoperto dalle risorse umane, le quali possono garantire tali obiettivi nel momento in cui percepiscono l’esistenza di un rapporto di scambio reciproco con l’organizzazione, se da essa si sentano coinvolti e se ritengono che le proprie aspettative saranno da essa stessa soddisfatte, dunque se con l’organizzazione hanno potuto stabilire un “contratto psicologico”. Pertanto, in un contesto di questo genere, non prestare attenzione alle esigenze e alle problematiche delle persone sarebbe un grosso limite: chi percepisce di essere elemento di valore per la propria azienda è anche chi restituisce, in termini di maggiore produttività e motivazione, quanto ha ottenuto. Emerge così l’importanza di cogliere e studiare l’atmosfera che si “respira” nell’ambiente lavorativo, lo sfondo relazionale su cui le persone costruiscono i rapporti interpersonali, ossia il Clima Organizzativo (CO). Alla luce di tutto ciò, l’interesse rivolto allo studio di tale costrutto è progressivamente aumentato, in maniera parallela alla consapevolezza di quanto l’attenzione a questo aspetto possa tradursi in una maggiore efficacia organizzativa.

Il concetto di clima nasce nella società post-industriale, età in cui iniziavano a sorgere le prime crisi dei sistemi burocratici e centralistici che caratterizzavano le organizzazioni. Il mercato ha iniziato a rivolgere l’attenzione verso prodotti personalizzati al fine di soddisfare i bisogni soggettivi della collettività.

Le organizzazioni moderne si propongono ormai di utilizzare non solo la mente dell’uomo ma anche il cuore. E’ il momento in cui al fabbisogno di personale esecutivo non pensante che ha caratterizzato l’età tayloristica e fordista della produzione standardizzata e di massa si sostituisce personale in grado di comunicare, di partecipare attivamente e con capacità di diagnosi, di valutazione, decisione e in grado di assumersi crescenti responsabilità. Si avverte quindi l’esigenza di monitorare i bisogni individuali e valorizzare le risorse umane, variabile strategica per l’organizzazione. L’analisi di clima che sempre più spesso viene condotta all’interno delle organizzazioni fornisce utili strumenti di lettura delle percezioni diffuse all’interno dell’organizzazione favorendo l’autoanalisi per migliorare costantemente la realtà esistente. Tra i maggiori autori che si sono occupati del tema emergono nomi quali Litwin e Stringer (1968) i quali definiscono il clima come “un insieme di aspettative, di incentivi e un costrutto morale che consente l’analisi dei comportamenti, semplifica i problemi legati alla

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misurazione delle determinanti che influenzano le situazioni legate a percezioni e convincimenti individuali e consente la definizione della situazione globale”. Il suddetto modello prende in considerazione nove dimensioni tra cui:

- la struttura, intesa come l’insieme dei regolamenti, degli strumenti operativi e delle procedure esistenti;

- la responsabilità, ovvero il grado di autonomia e discrezionalità rispetto alle decisioni, la consapevolezza delle proprie capacità e delle prestazioni richieste dal ruolo;

- il sistema di ricompense, sia esso monetario o in termini di opportunità di carriera; - accettazione dei rischi;

- calore inteso come la percezione di vivere in un ambiente amichevole e la capacità di vivere relazioni positive all’interno dei gruppi di lavoro;

- sostegno reciproco;

- standard e quindi la consapevolezza dei livelli di prestazione attesi, esplicitati o meno; - conflitto interno ovvero la capacità di affrontare opinioni espresse dai diversi gradi

della scala gerarchica piuttosto che negarle o trascurarle;

- identità come consapevolezza di appartenere ad un’organizzazione.

James e Jones (1974) sottolineano, invece, la notevole differenza che sussiste tra clima organizzativo e clima psicologico: quest’ultimo si riferisce alle percezioni ed ai significati che i singoli individui attribuiscono al loro ambiente di lavoro, quindi si tratta di un costrutto che si colloca ad un livello di analisi individuale. Il clima organizzativo, invece, riflette le credenze relative all’organizzazione che sono condivise dai membri della stessa e alle quali essi attribuiscono un significato psicologico, che consente loro di dotare di significato l’ambiente lavorativo in cui operano: si tratta quindi di un costrutto che, rispetto al primo, trova collocazione ad un livello più ampio, collettivo. Se, quindi, il clima organizzativo è dato dall’aggregazione delle percezioni individuali, risulta evidente come il grado di accordo tra i membri di un’organizzazione costituisca uno degli elementi determinanti per la forza del clima organizzativo stesso.

L’indagine di clima è strumento utile per effettuare un’autodiagnosi, attraverso cui poter comprendere le modalità con cui le persone percepiscono ed interpretano la propria realtà lavorativa, specie in un sistema complesso come il Servizio Sanitario, in cui il rapporto tra l’utente è così stretto e delicato.

4.2 Prospettive teoriche di riferimento

Negli ultimi venticinque anni il concetto di clima ha assunto un’identità più chiara e meglio definibile, a partire dagli studi condotti sul clima psicologico. Sono, infatti, numerosi gli studi che sostengono come il clima organizzativo si sia originato e abbia preso forma dal clima

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psicologico, che si può definire come un costrutto molare, comprendente l’insieme delle rappresentazioni psicologiche significative che gli individui possiedono riguardo alle strutture, ai processi e agli eventi organizzativi che li circondano (James, Hater, Gent e Bruni, 1978; Rousseau, 1988). In sostanza, dunque, le percezioni di clima psicologico consentono ai soggetti di interpretare gli eventi, di predire possibili risultati e di valutare l’appropriatezza delle loro stesse azioni (Jones e James, 1979): da questa descrizione emerge che il costrutto in esame è una proprietà del singolo, e si colloca quindi ad un livello di analisi e di misurazione individuale. A questo punto si evince, perciò, la principale differenza con il clima organizzativo che, pur essendo spesso misurato attraverso la raccolta delle percezioni che i singoli soggetti hanno in merito al loro ambiente di lavoro, dovrebbe in realtà essere utilizzato unicamente nelle ricerche il cui livello di analisi è il gruppo di lavoro o l’organizzazione nel suo complesso. Quindi, il clima organizzativo è una variabile gruppale, che dovrebbe essere analizzata attraverso l’aggregazione delle individuali percezioni di clima psicologico.

Di seguito sono illustrate le principali prospettive teoriche dalle quali il CO può essere studiato. A tale riguardo, Moran e Volkwein (1992) hanno individuato quattro diversi approcci:

1) L’approccio strutturale, che definisce il clima come una caratteristica dell’organizzazione, un suo attributo, che esiste indipendentemente dalle percezioni dei membri che ne fanno parte. Questo approccio si propone di analizzare le dimensioni, la gerarchia, le tecnologie e gli strumenti dell’azienda, in quanto sono le condizioni in cui si trova l’azienda a determinare atteggiamenti, valori e sensazioni di chi si trova al suo interno. Il principale limite di questo approccio è rappresentato dal fatto di non poter spiegare come in settori diversi della stessa struttura il clima possa essere percepito in modi differenti.

2) L’approccio percettivo/psicologico, secondo cui il clima si origina dall’individuo, dagli aspetti che per questo sono significativi. Quindi se l’approccio strutturale fa derivare il clima dalle proprietà fisiche dell’organizzazione, l’approccio percettivo lo fa nascere dalle caratteristiche soggettive dell’individuo. La persona percepisce il contesto organizzativo e se ne costruisce una rappresentazione psicologica: si analizzano, infatti, gli effetti delle personalità, delle relazioni, del posto occupato nella scala gerarchica, ed è questa la ragione per cui, secondo l’approccio percettivo si parla, più che di clima organizzativo, di clima psicologico. Pertanto, ci troviamo nella situazione complementare all’approccio strutturale: sappiamo bene come vengono percepite le situazioni a livello personale, ma poco a livello oggettivo, perché è l’individuo che impone all’organizzazione il suo significato ed il suo modo di agire. Quindi, questo approccio è utile se l’obiettivo dell’indagine è quello di cogliere il

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particolare stile di adattamento adottato da una certa persona nei confronti del suo ambiente lavorativo.

3) L’ approccio interattivo, che considera a fondamento del clima organizzativo le interazioni tra individui. I processi relazionali richiedono l’interazione tra il contesto oggettivo (approccio strutturale) e la consapevolezza soggettiva (approccio percettivo). Il clima è dunque la combinazione tra le caratteristiche della personalità e gli elementi oggettivi strutturali. L’elemento centrale è la comunicazione, poiché è questa a contribuire in maggior misura alla formazione del clima.

4) L’approccio culturale afferma che le persone interpretano e definiscono la realtà tramite la creazione di una cultura organizzativa. Possiamo definire quest’ultima come l’insieme degli assunti di base di un gruppo, utili per affrontare i problemi di adattamento sia esterno che interno. In generale, tutte le definizioni di cultura elaborate in letteratura enfatizzano la consensualità delle aspettative, assunti e vedute che governano le interazioni sociali. L’approccio culturale enfatizza dunque l’interazione tra gli individui quale fonte del clima, aspetto già anticipato dall’approccio interattivo. Rispetto a quest’ultimo introduce, però, un ulteriore elemento di progresso, in quanto tiene conto del ruolo esercitato dalla cultura nella formazione del clima stesso.

Dopo aver esposto quattro diverse prospettive attraverso cui è possibile analizzare la formazione del clima organizzativo, affermiamo però l’impossibilità di giudicare ex ante quale di queste sia preferibile alle altre, poiché tali approcci devono essere valutati in relazione ad un’attenta analisi della domanda dell’organizzazione oggetto di misura e, poiché possono manifestarsi con diversa enfasi gli aspetti di tipo strutturale, sociale o culturale.

4.3 Le variabili oggetto di misurazione

Come precedentemente affermato, il clima organizzativo rappresenta il modo in cui un certo numero di persone interagiscono reciprocamente, è il tono, lo sfondo relazionale di un gruppo, pertanto sono i suoi membri a costruire il clima stesso, dal quale poi risultano a loro volta influenzati e condizionati nei comportamenti. Da ciò si evince che la diagnosi di clima è essenzialmente una misurazione collettiva e, in quanto tale, si basa sull’idea di soggetto collettivo.

Da questa definizione, appare evidente come le dimensioni da analizzare in relazione a tale costrutto possano essere molteplici; tuttavia secondo Majer, Marcato e D’Amato (2002) è possibile isolare quattro principali aree d’indagine: la qualità delle relazioni, la percezione dello stress, la percezione del sentimento di potere e la creatività e il rischio.

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La qualità delle relazioni, ossia come gli individui percepiscono le relazioni all’interno della loro organizzazione, è una variabile che fortemente determina la qualità del clima. Nello specifico, occorre considerare più dimensioni relazionali, tra cui principalmente:

- Livello di socializzazione, ovvero la modalità di interiorizzare le relazioni;

- Livello di partecipazione, ovvero quanto ci si sente coinvolti, quanto ci si sente parte dell’organizzazione e del gruppo di lavoro;

- Livello di fiducia, definibile come la sicurezza emozionale nelle relazioni (Ekvall, 1997). Questa dimensione è importante perché quando il livello di fiducia è alto, le persone si assumono più rischi, si sentono più aperte e più libere di esercitare il proprio comportamento. La fiducia è, infatti, legata all’apertura e alla libertà;

- Livello di parità relazionale, ossia la sensazione di sentirsi pari agli altri;

- Livello di amicizia, variabile legata alla percezione dei legami affettivi reciproci. La seconda dimensione da considerare nell’indagine di clima è la percezione dello stress, indicatore della qualità della relazione tra individuo ed ambiente. Lo stress viene infatti sperimentato quando le richieste dell’ambiente superano le risorse che l’individuo possiede e può mettere a disposizione, pertanto è sintomo di un disequilibrio tra domande ambientali e risposte soggettive.

Un’altra dimensione fondamentale è la percezione del sentimento di potere, data dalla quantità di potere che un individuo sente di esercitare nei confronti dell’organizzazione e, viceversa, quanto potere sente che l’organizzazione esercita su di lui. È fondamentale sottolineare che il potere preso in considerazione non è quello gerarchico e oggettivo, bensì soggettivo e psichico. Per affrontare questa variabile, è necessario approfondire tre aspetti specifici:

- Il potere percepito: la percezione di poter influenzare l’organizzazione, di contare; - Il potere subito: la percezione del potere che gli altri esercitano su di noi;

- Il potere desiderato: la percezione delle aspettative nei confronti del potere, l’influenza che si vorrebbe avere.

La quarta e ultima dimensione che Majer, Marcato e D’Amato (2002) ritengono opportuno esaminare, è quella della creatività e del rischio, dove per creatività si intende l’abilità di generare idee non convenzionali, mentre l’assunzione di rischio è la volontà di sostenere tenacemente le proprie idee, anche assumendosi una certa misura di rischio.

Tuttavia è corretto puntualizzare che le dimensioni da analizzare in un’indagine di clima non possono essere definite a priori, non possono essere stabilite in maniera rigida ed essere così estese a tutte le organizzazioni. Le variabili da indagare devono essere scelte in base alle specifiche caratteristiche della singola organizzazione, anche in funzione dei valori istituzionali condivisi, delle policies e della mission aziendali. Quindi, gli specifici contenuti

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da indagare variano al variare di due principali componenti: 1) la modalità di operare e le scelte compiute dalla organizzazione incaricata, 2) caratteristiche, policies e mission della specifica organizzazione.

Nuovamente a titolo esemplificativo, altre dimensioni indagabili possono essere: i valori aziendali, il rapporto con i superiori, la comunicazione (sia orizzontale che verticale), la soddisfazione per la retribuzione, l’equilibrio lavoro/ vita privata, la fiducia nel management, il coinvolgimento e molte altre ancora.

4.4 Finalità della misurazione

Come riportato inizialmente, l’indagine di CO trova come sfondo teorico di riferimento la teoria della ricerca- azione sviluppata da Lewin negli anni quaranta, una cui caratteristica basilare è data dalla ciclicità, nel senso che una ricerca condotta a livello organizzativo rappresenta il momento iniziale per intraprendere azioni e processi di tipo migliorativo; a loro volta, i risultati delle azioni condotte forniscono informazioni che possono essere utilizzate per impostare nuove scelte. In un’ottica di tale genere, la raccolta di informazioni e la diagnosi di situazioni problematiche risultano elementi di basilare importanza (Levy, 2003). Qualunque sia la struttura dell’organizzazione presa in considerazione, è opportuno che, in questo processo ciclico di ricerca- azione, siano coinvolti sia il management sia i dipendenti dell’azienda (Cummings e Worley, 2001).

I risultati emergenti dalle analisi di clima possono essere impiegati in studi di tipo sia trasversale sia longitudinale. Nel primo caso, la finalità è quella di effettuare confronti tra gruppi diversi di lavoratori sulla base di variabili indipendenti significative (quali il settore di appartenenza, il livello scolastico, l’anzianità di servizio, il livello retributivo, l’età): può trattarsi di collaboratori operanti in ambiti diversi di una medesima azienda, oppure di persone di imprese diverse che, per esempio, lavorano in appalto oppure, ancora, ai soggetti impiegati in aziende afferenti a settori economici diversi. Nel caso di studi longitudinali, invece, l’indagine viene ripetuta più volte a distanza di tempo, con cadenza regolare (per esempio annuale) sugli stessi soggetti ed in base ai medesimi indicatori: in questo caso, il fine è quello di valutare le persone coinvolte nell’indagine in relazione alle specifiche dimensioni considerate e alla variabile tempo, quindi rispetto ad eventi organizzativi o a mutate condizioni del più generale contesto socio- economico.

A prescindere dal tipo di disegno di ricerca che si sceglie, lo studio del clima può essere considerato una sorta di “fotografia” dell’organizzazione, scattata al momento dell’indagine che però, come già indicato, deve assumere la funzione di una ricerca- intervento, nel senso che l’indagine non deve essere condotta fine a sé stessa, bensì è un mezzo per conoscere la situazione attuale, per mirare poi a successivi interventi migliorativi.

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L’intento, quindi, deve essere quello di impostare un action plan, ossia un piano d’azione concreto, basato sui punti di forza e soprattutto sulle aree critiche emerse dall’indagine, in modo tale da poter migliorare queste ultime, qualora sia possibile facendo leva sulle prime. Affinché ciò sia possibile, è fondamentale la ripetizione delle misurazioni nel tempo: solo in questo modo si possono monitorare in maniera adeguata gli effetti delle azioni intraprese a seguito dell’ultima indagine e misurare i cambiamenti avvenuti.

In questo senso l’indagine di clima può risultare particolarmente opportuna quando si intendano indagare gli effetti sulle percezioni individuali di significativi cambiamenti organizzativi, quali ad esempio progettazione di fusioni e introduzione di nuove politiche aziendali.

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