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The avant-garde movements: Futurism,Czech Cubism, Suprematism, Constructivism, Expressionism, De Stijl

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Academic year: 2021

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Le avanguardie: Futurismo, Cubismo ceco, Suprematismo, Costruttivismo, Espressionismo, De Stijl,

Il primo decennio del XX secolo si contraddistingue per la nascita di numerose correnti di avanguardia artistica, teatrale, letteraria, architettonica… Anche se in massima parte sono legate ai contesti nazionali, sono tutte accomunate da questioni simili: dal medesimo desiderio di rompere con la tradizione; dall’uso delle riviste come veicolo di propaganda; dalla invenzione di nuovi linguaggi in grado di esprimere un futuro prossimo.

Il primo Manifesto Futurista, ad opera di Filippo Tommaso Marinetti, fu pubblicato nel 1909 su Le Figaro come attacco al tradizionalismo ed encomio incondizionato della velocità, del dinamismo, della macchina e della esperienza attiva dei sensi nella creazione e nella fruizione dell’arte, della poesia, della scrittura, della musica e del suono, dei colori, della luce elettrica, dello spazio dinamico e dell’architettura. L’eredità del passato, mummificata nei musei e nelle accademie veniva attaccata a favore di nuove vitalità. La scena privilegiata del Futurismo era la metropoli moderna, palcoscenico della forza della comunità. Nel 1910 fu pubblicato il Manifesto futurista di pittura e nel 1912 quello di scultura. I temi andavano dall’energia come metafora, alla luce elettrica, alla velocità del movimento e dei mezzi di trasporto, che erano tra i soggetti privilegiati, alle grandi opere infrastrutturali, alle stazioni, alle fabbriche, alle centrali elettriche. L’architettura futurista non ebbe edifici veri e propri, ma le visioni straordinarie disegnate da Antonio Sant’Elia, che nel 1914, con la grande guerra alle porte, stampò a Milano L’architettura futurista. Manifesto. L’esito di queste visioni per “La Città Nuova” necessitava non solo di nuove forme, ma di materiali adatti a strutturare il virtuosismo di queste visioni. Materiali come “cemento, ferro, vetro, cartone, fibra tessile, e tutti quei surrogati del legno, della pietra e del mattone” in grado di enfatizzare ascensori a vista, corpi scale volanti e passerelle metalliche in quota per ottenere “il massimo di elasticità e leggerezza”.

Contemporaneamente al Futurismo in Italia, le teorie del Cubismo di Picasso e Braque attecchivano in architettura tra gli anni ’10 e ’20 a Praga dove vennero realizzati palazzi, residenze, chiese e i relativi arredi.

Il teorico del Cubismo ceco fu Pavel Janák, che iniziò con una sorta di “cubismo piramidale” che si tradusse dopo la Prima Guerra mondiale in una traduzione ceca, denominata “rondocubisno”, fondendo geometrie disassate e spigolose con semicerchi e segni delle tradizioni slave. L’opera più significativa di Pavel Janák fu la sede Banca delle Legioni straniere (1920-1932) e numerosi edifici industriali.

Tra le opere la Casa della Madonna Nera di Josef Gočár (1910-1912) che fu uno dei rappresentanti più vivaci non solo dell’architettura ceca, ma dell’avanguardia europea di quegli anni. Gočár fu autore anche del Palazzo delle ferrovie di stato, della chiesa di S. Venceslao e del Padiglione cecoslovacco all’Eposizione di Parigi del 1925.

Forse il migliore esempio di Cubismo ceco è un piccolo appartamento, la casa Hodek, di Josef Chocol (1913) appena prima della Prima Guerra Mondiale. Vincolato dalla forma acuta del lotto su un piano in pendenza, questo piccolo edificio mostra molti dettagli cubisti: alcuni angolari, i pennacchi e le cornici

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sfacettate, la composizione delle facciate sovrapposte a una chiara griglia strutturale, così come i portici incassati ad angolo che provengono proprio da un dizionario cubista. Il Cubismo ceco non fu un vero e proprio movimento e durò appena 5 anni, ma occupa comunque una posizione importante quanto altri movimenti come Wendingen, Futurismo ed Espressionismo Tedesco e forse è un passaggio necessario per introdurre il Funzionalismo che seguì la Prima Guerra Mondiale.

Le avanguardie si muovono non solo come movimenti di sperimentazione semantica e formale, ma anche politica e sociale. Le avanguardie sovietiche, che avevano anticipato la rivoluzione politica nell’Unione Sovietica, sentirono da subito la necessità di ridisegnare e riconfigurare gli obiettivi dell’arte affinché questa diventasse uno strumento efficace per la società e la politica e soprattutto fosse in grado di rendere visibile il mutamento promesso. Il rapporto tra rivoluzione politica e avanguardie consistette spesso nel dare concretezza all’arte e come tale ai suoi manufatti.

Il Manifesto del Suprematismo del 1915 è opera di Kazimir Malevič e del poeta Majakovskij e la sua matrice pittorica astratta vuole assumere una dimensione spaziale dovuta alle forme geometriche del colore. Le opere di Malevič avevano titoli architettonici per sottolineare il desiderio di lavorare sulla pura plasticità, sull’arte che porta all’arte. Per Malevič, l’arte non doveva rappresentare nulla, doveva svincolarsi dalla realtà per produrre una nuova realtà, senza precedenti. La linea retta e il quadrato erano segni con cui costruire l’arte suprematista. Malevič annullava la realtà e la portò allo zero assoluto fino a realizzare dipinti di bianco su bianco. Per Malevič l’arte doveva essere slegata dalla società perchè l’artista raggiungesse una sua indipendenza spirituale.

La rivoluzione russa spazzò, nei suoi primi 5 anni di vita, le istituzioni dello stato borghese e abolì la proprietà privata. In questo quadro, le posizioni delle avanguardie furono prive di mediazioni e i nuovi modelli sociali necessitarono di forme nuove e sperimentali per contenerli. Da un lato si legittimava l’architettura classica come l’unica in grado di incarnare le virtù civiche, dall’altro la ricerca veniva portata alle estreme sperimentazioni.

Anche il Costruttivismo, tra le avanguardie sovietiche, lavorò sui principi del lavoro materialista. Tatlin, Gabo, Pevsner lavorarono sul principio di superamento dell’arte per calarsi nel concreto e nel mondo tecnico delle macchine. Il Monumento alla III Internazionale di Tatlin (1919) fu il simbolo: una spirale in acciaio alta 400 metri che avrebbe dovuto contenere un cubo, una piramide, un cilindro e una semisfera in vetro avrebbe dovuto ospitare assemblee, essere un centro informativo, ma soprattutto celebrare la fusione delle arti in un’unica attività “costruttiva”.

Sotto la bandiera dell’Espressionismo si addensarono invece tutti quei fenomeni artistici e creativi che tra il 1910 e il 1925 attraversarono la Germania e i Paesi Bassi. La definizione è assai controversa perché talvolta si riferisce a un concetto, talvolta a uno stile sinuoso delle forme, ingenerando talvolta semplificazioni o inclusioni ampie che vanno dalle opere di Michel de Klerk, Bruno Taut, Hans Poelzig, Pieter Kramer, Otto Bartning, Hugo Häring e in parte anche alcune esperienze dello stesso Gropius.

Un punto iniziale dell’Espressionismo in architettura può essere posto nella Glashaus di Bruno Taut all’Esposizione del Deutscher Werkbund a Colonia nel 1914. Si tratta di un padiglione in cristallo e acciaio, che smaterializza la

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forma e lascia alla luce il compito di costruire i volumi, una traduzione letteraria degli scritti di Paul Scheerbart sulla “architettura di vetro”. Taut non voleva esaltare solo le potenzialità espressive e tecniche del vetro, ma riuscire a formulare una rappresentazione di un futuro ideale.

Altra forma di espressionismo fu quello di Erich Mendelsohn, un prussiano che entrò nel 1911 in contatto con il movimento di Blaue Reiter (il Cavaliere Blu) e sposò l’idea che la forma si originasse da una tensione in grado di fondere insieme le parti e il tutto. L’architettura era sintesi in un’immagine unica e centrale di tutte le tensioni compositive, strutturali, formali. Nella Torre Einstein a Potsdam (1920-1921), Mendelsohn provò a compiere questa sintesi modellando il corpo cilindrico come una scultura fluida.

Nella poetica espressionista si cimenta anche Mies van der Rohe che esegue un progetto paradigmatico dell’Espressionismo tedesco di quegli anni: il Grattacielo per la stazione della Friedrichstrasse (1921) a Berlino. Si trattava di una visione di un prisma verticale che avrebbe dovuto realizzarsi completamente in vetro, senza perseguire un gioco di luci e ombre, bensì di quello del riflesso di luce sugli unici punti fissi della pianta che sono le scale e gli ascensori.

Negli stessi anni in Olanda esce il primo numero di De Stijl per affermare l’arte plastica in architettura come matrice astratta e quindi radicalmente nuova a cui riferire l’architettura. Anche in questo caso il passato è inteso come nostalgia e quindi negato quasi incondizionatamente. La rivista è diretta da Theo van Doesburg e pubblica per anni i contributi dell’architetto J.J.P. Oud, del pittore Mondrian, del poeta Kok e di altri. I riferimenti più diretti sono al Cubismo e alle visioni del Futurismo, mentre vengono negate forme di espressionismo che possano avere valenze soggettive o puramente emotive. Il principio unico è l’unità delle arti decorative denominato “neoplasticismo”. In realtà De Stijl non fu un vero e proprio movimento di avanguardia e rimase sempre molto legato alla rivista e al suo direttore e quasi unico redattore. I membri di De Stijl non erano in contatto e tra di loro e alcuni neppure mai si incontrarono. A parte i primi anni in cui le collaborazioni erano intense anche sul piano internazionale, collaboravano Lazlo Moholy-Nagy, Richter, El Lissitzky, etc., nel corso degli anni la rivista si impoverì di contributi fino a diventare quasi autoriale e nel 1928 con un numero dedicato all’architettura e al movimento, de Stijl chiudeva i battenti. L’idea compositiva del noeplasticismo fu molto simile metodologicamente a quanto operarono le altre avanguardie: accostare elementi bidimensionali in grado di generare tensione e nuove plasticità. Dalla pittura questa modalità si trasferì allo spazio costruito e urbano nella mente dei progettisti neoplastici. La Casa Schröder (1924) realizzata a Utrecht e progettata da Gerrit Rietveld è la traduzione architettonica delle teorie neoplastiche. Di testa a una serie di abitazioni a schiera, la casa è su due piani, di cui il piano terra ha un impianto abbastanza tradizionale con cucina e camere da letto, mentre il piano superiore è uno spazio unico con possibilità – per traslazione e rotazione di setti- di suddividersi in camere da letto, soggiorni e bagno. Le facciate seguono uno schema compositivo funzionale e cromatico che è rispettato anche negli arredi e negli interni.

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De Benedetti M, Pracchi A., Antologia dell’architettura moderna, Zanichelli, Bologna, 1988

Scheerbart P., Architettura di vetro, Adelphi, Milano, 1982

Curtis W. J.R., L’architettura moderna del Novecento, Bruno Mondadori, Milano, 1999

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