Sant’Anselmo d’Aosta
«Ho cominciato a cercarti affamato,
Signore, fa ch’io non smetta digiuno»
Vita e opere
Anselmo nasce ad Aosta da padre di origine lombarda e
da madre aostana nel 1033. Nel 1061 entra nel
monastero di Bec in Normandia; nel 1063 ne diviene
priore e nel 1078 abate. Il suo insegnante è Lanfranco di
Pavia, noto per le polemiche sulla dialettica con
Berengario di Tours, e poi per il suo ministero di
arcivescovo di Canterbury. Anselmo lo sostituirà anche in
questo ruolo nel 1092, a tre anni dalla morte di
Lanfranco. Appena salito alla cattedra vescovile, entra in
conflitto con Guglielmo il Rosso (1087-1100) e poi con
Enrico I (1100-1135), re inglesi che intendevano
strumentalizzare la cattedra vescovile e il clero per
sottometterlo alle esigenze del potere politico.
I primi testi: l’affetto e la ragione
Il periodo più fecondo della produzione anselmiana
è quello monacale. Al suo esordio scrive delle
Orationes sive meditationes, cioè delle preghiere in
cui l’aspetto affettivo è preponderante rispetto a
quello razionale. Tale profonda affettività rimarrà
tuttavia anche successivamente come segno
distintivo delle sua produzione: si scoprirà sempre,
infatti, alla radice delle sue più chiare e logicamente
definite prese di posizione una radice «calda»,
un’ispirazione profonda nel puro e vivido
sentimento dell’amore di Dio e del Dio-amore.
La stagione più intensa
Il suo maggior impegno di scrittore e ricercatore si
manifesta negli anni che vanno dal 1076 al 1085. In
questo periodo stende sia il Monologion (1076), sia
il Proslogion (1078) e il De veritate le opere di
maggior impegno filosofico-teologico e anche di
maggior fama. Successivamente, tra il 1080 e il 1085
scriverà i seguenti libri:
•De libertate arbitrii
•De casu diaboli
Il periodo inglese
Al periodo inglese appartengono le seguenti opere:
Epistola de incarnatione Verbi (1092-94), Cur Deus homo (1095-98),
De conceptu virginali et de originali peccato (1100),
De processione Spiritus Sancti (1102, composto per difendere la
dottrina trinitaria cattolica contro le obiezioni delle teologia bizantino-ortodossa),
Orationes (1104),
Espistola de sacrificio azymi et fermentati (1106), Epistola de sacramentis Ecclesiae (1107),
De concordiae praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio (1107-8),
La coerenza sistematica dell’opera
anselmiana
L’opera di Anselmo è di straordinaria coerenza.
La necessità di una coerenza complessiva della
ricerca viene sostenuta con ragioni di carattere
filosofico nel De veritate dove viene sottolineata
l’unità della verità in Dio. In Dio sono contenute
tutte le ragioni necessarie dell’ordine universale,
cioè tutte le spiegazioni di come deve essere il
mondo secondo quel disegno di perfezione che
Dio ha pensato nel crearlo e nel mantenerlo.
La mente divina e quella umana
Nella mente divina tutte le verità sono contenute in modo sintetico, cioè ridotte al loro ultimo unitario fondamento dalla sapienza divina. Ciò che Dio pensa in modo unitario e sintetico, perché sa l’intimo collegamento di ogni verità con un’altra e ne conosce la profonda relazione ch’essa intrattiene con l’essere di Dio stesso, l’uomo conosce in modo discreto e analitico, cioè passo dopo passo, discorsivamente, per passaggi successivi. Tuttavia l’uomo deve sforzarsi, malgrado i suoi limiti di vedere le cose in modo il più possibile coerente con lo sguardo di Dio, cercando in ogni disciplina il nesso con la verità ultima così come risiede nella mente del Dio creatore. Questo sarà lo sforzo di tutta la ricerca anselmiana: ricostruire l’ordine delle cose così come Dio lo a pensato a partire dal supremo fondamento della sua volontà
Anselmo e la rectitudo di ciò che
«deve essere come deve essere»
Dio pensa la creazione secondo un ordine buono,
giusto e necessario, in cui ogni cosa ha il suo posto
e la sua funzione secondo un massimo di razionalità
e bontà. La sapienza cerca di comprendere questo
ordine. Essa cerca cioè la rectitudo di ogni cosa,
ossia la sua corrispondenza a come Dio la pensata.
Ogni cosa è vera nella misura in cui corrisponde al
modo in cui Dio l’ha pensata, cioè al modo in cui
essa deve essere. Se è come deve essere – e il
«come deve essere» lo ha deciso Dio – allora è vera,
possiede cioè la sua «rettitudine».
La verità
«È certo che dovunque vi sia verità la verità non
è altro che rettitudine […]. Le cose sono
conformemente alla verità, la quale è sempre
disponibile a tutto ciò che è come deve essere»
(De veritate XIII). La verità delle cose è la loro
adeguazione a come esse devono essere. Se
esse sono come devono essere, allora sono rette
e sono vere. Lo spirito coglie questa loro verità.
La rettitudine del pensiero e del
linguaggio
Le verità colta dallo spirito è quell’immagine mentale (significatio) che noi ci facciamo delle cose (res),
la quale deve dire le cose come stanno, cioè nella loro rettitudine di come Dio le ha pensate.
•La rectitudo del pensiero è di conformarsi al pensiero divino cui si conforma la rectitudo delle cose.
• Dal pensiero poi il linguaggio esprime rettamente con le parole (voces) le cose (res). •La rectitudo del linguaggio è quella di evocare nella mente immagini (significationes) rette, cioè vere, della realtà.
Quindi
1)dalla parola umana (vox), si genera la rappresentazione mentale (significatio), 2)la rappresentazione si adegua alla verità delle cose (pensa le cose come sono),
3)cioè al modo in cui le cose sono state pensate da Dio e da lui create con la sua Parola.
Il legame con Dio
Tutta la realtà discende da Dio e quindi a lui deve riferirsi ogni
nostra conoscenza.
Ma che cos’è, prima della conoscenza, ciò che ci mette in una
relazione vera con Dio?
È la fede. La fede ricostruisce il nostro legame con Dio reciso
dal peccato originale, che ha provocato, tra le altre cose, tutti i
nostri difetti e tutta la nostra fallibilità.
- La fede ci mette in relazione con Dio e ci dà quindi il
fondamentale indirizzo per comprendere la verità.
- Infatti, del tutto coerentemente con la prospettiva
agostiniana, per Anselmo bisogna credere per comprendere:
«Se non crederete non comprenderete» (Is 7)
Il dibattito sul corretto uso della
filosofia
Anselmo aveva vissuto la temperie culturale dei primi anni del sec. XI, dominati dalla polemica tra dialettici e antidialettici. Questo conflitto aveva visto e vedeva schierati su fronti opposti
1) il suo maestro Lanfranco di Pavia insieme a Pier Damiani (ma quello è molto più moderato di questo),
2) Berengario di Tours (eretico che nega la transustanziazione con argomenti filosofici) insieme al pittoresco Anselmo da Besate (che va in giro a fare giochetti logici e filosofici per ottenere successo e consenso).
I primi ritengono che la filosofia non abbia autonomia nella ricerca della verità
e che quindi vada sottomessa alla teologia, quando non tralasciata del tutto come dice Pier Damiani nel suo De sancta simplicitate: se Dio avesse ritenuto la filosofia necessaria alla salvezza ci avrebbe mandato dei filosofi a convertirci, invece ha mandato dei pescatori e delle persone semplici.
I secondi invece tutto affidano alla dialettica filosofica e arrivano a ritenere che
le verità della fede debbano essere passate al vaglio della ragione prima di essere pienamente accettate. Se la tradizione della fede risulta contraria alla ragione, va riformulata e reinterpretata in modo da armonizzarla.
La posizione di Anselmo
La posizione di Anselmo è più complessa. «Bisogna
in primo luogo credere nei misteri della fede prima
di discuterli con la ragione, poi sforzarsi di
comprendere ciò in cui si crede. È presunzione non
mettere per prima la fede, come fanno i dialettici; è
negligenza non fare successivamente appello alla
ragione come ci vietano i loro avversari (E. Gilson,
La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche
alla fine del XIV secolo, Sansoni, Firenze, 2008,
La richiesta dei fratelli e il Monologion
Di conseguenza appare del tutto giustificata la risposta positiva che Anselmo dà ai suoi confratelli quando gli chiedono un modello di meditazione in cui «niente (Anselmo) vi asseriss(e) sulla base dell’autorità della Scrittura, ma che ogni asserzione redatta in stile piano e con argomentazione semplice e accessibile fosse dimostrata dalla sola succinta e patente necessità di ragione» (Anselmo, Il
Monologio, tr. it. di C. Ottaviano, Signorelli, Roma, s.A., p. 25). Questa
risposta fu il Monologio, cioè, come recitava il titolo originale dell’opera, poi modificato su suggerimento di Lanfranco, un Esempio di
meditazione sulle ragioni della fede, in cui gli articoli fondamentali di
quest’ultima circa l’esistenza e gli attributi di Dio, l’anima e il destino dell’uomo, fossero dimostrati dalla pura e semplice ragione, la quale, dal canto suo, mostrasse che i suoi risultati fossero totalmente in linea con le verità della tradizione ecclesiale e scritturale.
Bisogna credere e bisogna
comprendere
Dunque nel Monologio, che ha la forma della
meditazione e del colloquio con sé stesso, Anselmo
propone di spiegare ciò che già si crede,
soddisfacendo al tempo stesso i requisiti della fede
e della ragione. Si capirà allora come attraverso la
rectitudo del pensiero e della parola si possa
giungere a capire a fondo quello che Dio ha voluto
comunicare agli uomini circa se stesso e la sua
verità…a partire dalla questione della sua stessa
esistenza.
Le parole della nostra esperienza
Sul tema della plausibilità razionale dell’esistenza di Dio, anzitutto Anselmo indaga quale sia la rectitudo delle parole più immediatamente legate alla nostra esperienza, anzitutto l’esperienza di ciò che noi desideriamo. Il nostro desiderio è sempre rivolto infatti a conseguire qualcosa che sia un bene che sia qualitativamente, oltre che quantitativamente, «grande», che sia qualcosa che, in virtù di queste due ultime caratteristiche, deve anzitutto essere, che insomma abbia il grado maggiore possibile di perfezione. Tutto ciò noi rileviamo nella nostra esistenza personale e la domanda sul significato di ciò che è
bene, grande, essere, perfetto è tale che quando noi comprendiamo la
realtà autentica alla quale si rivolgono queste parole, perveniamo ipso
facto a Dio. Ecco il senso delle quattro prove di Anselmo nel Monologio.
La prima prova: i gradi di bontà e il
Bene sommo
Dato che noi nella nostra esperienza constatiamo gradi diversi di bontà di ciò che noi riteniamo buono, non capiremmo il significato di «buono» se non avessimo un paradigma ultimo, un criterio di bontà, che ci restituisse il senso pieno e «senza macchie» della parola. Tale senso è da ricondursi alla realtà di un sommo Bene, che deve essere unico come unico deve essere il motivo per cui è detto con lo stesso termine «buono» tutto ciò che è buono (si noti l’andamento schiettamente platonico di tutta la dimostrazione). Questo sommo bene è anche un bene per sé, perché tutto ciò che è bene è bene grazie a lui e quindi da nessuno egli riceve la bontà se non da se stesso. Il sommo Bene che è Bene in sé è Dio.
La seconda prova: la grandezza
qualitativa o «eccellenza»
Lo stesso ragionamento effettuato per la bontà
vale per la grandezza o eccellenza (areté,
direbbero i greci) di ogni cosa. Grandezze
ineguali non risulterebbero intellegibili se non vi
fosse una grandezza ultima dalle quali esse
dipendono, e questa somma grandezza è Dio.
Terza prova (la più impegnativa):
l’essere
1) Tutto ciò che esiste deve essere in virtù e grazie a qualche
cosa, infatti dal nulla non viene nulla.
2) Questo qualche cosa può essere
unico o molteplice.
Ma non può essere molteplice quindi è unico e questo essere
unico in virtù del quale tutto l’essere è, è Dio.
Ora, il punto 1 è chiaro e di per sé evidente. Il problema è solo
nel punto 2 quando si deve dimostrare che ciò grazie a cui
l’essere è – la causa ultima dell’essere - non può essere
molteplice.
(prova 3) La causa dell’essere non
può essere molteplice
• Se la causa fosse molteplice, sarebbe costituita da più enti:
1) O dipendenti da un’ulteriore loro causa, che sarebbe dunque la causa ultima dell’essere;
2) O esistenti ciascuno per sé, ma tali enti esistenti ciascuno per sé avrebbero una qualità in comune, quella appunto di «esistere per sé», e da questa qualità essi otterrebbero appunto di «esistere per sé». Dunque essi dipenderebbero da un’unica «Esistenza per sé» che ne sarebbe la causa e che pertanto occuperebbe da sola il posto sommo nelle cause dell’essere;
3) Oppure sarebbero tali da esistere l’uno grazie all’azione dell’altro, in modo da darsi reciprocamente l’essere, ma è assurdo che ciò che causa un ente riceva l’essere dall’ente che ha causato.
Dato che 1 e 2 riconducono ad un unico ente sommo e 3 non è possibile, la causa di tutti gli esseri, e quindi dell’essere in generale, non può essere molteplice.
La quarta prova
Muove dalla stessa logica dei primi due argomenti e si concentra
sulla gradualità connessa alla diversa dignità che noi, quando
giudichiamo, attribuiamo a tutte le cose. Dato che, infatti,
quando giudichiamo presupponiamo un ordine, una scala in cui
ogni ente occupa un suo posto, questa scala non può non avere
un termine ultimo, altrimenti si avrebbe un regressus ad
infinitum che è assurdo (l’assurdità del regressus ad infinitum
riguarda un processo esplicativo che non è mai concluso, la
ricerca di un perché in qualche elemento che rimanda sempre ad
altro e che dunque contraddice il senso stesso della ricerca e
introduce ad un’inesplicabilità che produrrebbe un effetto
(prova 4) Il termine ultimo
Il termine ultimo può essere unico o molteplice. Al vertice
della scala del reale ci può essere un solo ente sommo
oppure una molteplicità di enti sommi uguali in dignità
(visto che occupano lo stesso grado della scala e tale grado
è l’ultimo). Ora tale uguaglianza potrebbe essere dovuta ad
una loro natura intima, che li renderebbe per l’appunto
uguali, e allora tali enti sarebbero lo stesso ente (poiché gli
enti che hanno la stessa natura intima sono lo stesso ente),
oppure per una natura diversa dai singoli enti uguali e che
tutti li supera e trascende, e allora quest’ultimo sarebbe
l’ente sommo.
Dio creatore
Data l’esistenza di Dio è molto semplice vedere in Dio il
responsabile della creazione, giacché dire che le cose sono in
virtù di Dio, significa dire che sono da Dio e che quindi Dio le ha
create.
La creazione è poi avvenuta dal nulla nel senso che ciò che è
stato creato proviene da una condizione in cui prima non c’era
(quindi non nel senso che il nulla sia la sua causa). Ma questo suo
non esserci era relativo, infatti le cose prima della creazione
sussistono in modo archetipale nella mente di Dio. Dio insomma
ha il progetto della creazione in testa fin dall’eternità, un’eternità
che trascende il tempo, il quale è anch’esso una creazione divina.
Dall’esistenza del Dio creatore agli
altri attributi divini
Dall’esistenza di Dio creatore, Anselmo deduce poi tutti gli altri attributi divini che di Dio si predicano quidditivamente, cioè in modo essenziale (quidditas = essenza), cioè in modo da pensarli come caratteri assoluti implicati nella stessa semplice nozione di Dio: non c’è Dio e poi la giustizia come sua qualità che gli appartiene in modo più o meno casuale ma, posto Dio come essere assoluto, sommo Bene ed eccellenza dell’universo, è posta automaticamente e necessariamente la sua Giustizia che non è se non un altro modo di vedere il suo essere unitario e semplice che tutti gli attributi contiene «fusi» dentro di sé.
Ecco gli attributi di Dio: semplicità, eternità, ubiquità spazio-temporale, immutabilità, sostanzialità.
L’anima umana
Chiude il Monologio la parte sull’anima di matrice
schiettamente agostiniana, con l’idea che essa sia, tra
ciò che è creato, l’elemento che meglio riflette il suo
Creatore (l’anima come vestigium Trinitatis, cioè
immagine della Trinità, nella sua triplice dimensione di
memoria, intelletto, amore) e che dunque meglio lo
può conoscere. La conclusione, dopo una digressione
sulle virtù teologali di fede, speranza e carità, ribadisce
la centralità del Dio unico che regge e domina tutte le
Il Proslogio
Il Monologio era un testo costituito da una concatenazione complessa di molti pensieri, in cui il problema di Dio era affrontato a partire da
diverse prospettive e con molteplici ragionamenti. Questo dice
Anselmo nella prefazione del Proslogio. Sappiamo che vi era una sostanziale unità di metodo nel primo testo impegnativo del priore di Bec: si trattava di trovare la rectitudo di alcuni termini che noi utilizziamo nella nostra esperienza per indicarne alcuni aspetti molto importanti come il desiderio di bene, la ricerca di una grandezza qualitativa dell’esistere, il nostro rapporto con l’essere e il nostro giudizio sulla perfezione e dignità delle realtà con cui abbiamo a che fare. Tuttavia, malgrado i risultati della riflessione anselmiana siano assai significativi, il nostro Filosofo non è soddisfatto.
L’unum argumentum
Anselmo nel Proslogio, un discorso cioè rivolto all’esterno e non più in
forma di meditazione fra sé e sé, intende cercare un unico argomento che renda certi razionalmente dell’esistenza di Dio e dal quale si
possano poi derivare con certezza i suoi attributi. Si tratta qui ovviamente di una certezza non assoluta, ma relativa ai nostri mezzi conoscitivi che, pur potendosi spingere molto in là, mai riusciranno a elucidare pienamente il mistero della divinità. Tale argomento unificante e decisivo Anselmo trova nella ricerca della rectitudo della
parola «Deus». Che cosa accade quando comprendo rettamente la
parola Dio? A quale realtà mi riferisco? Qual è la sua significatio e in che senso all’immagine mentale che mi faccio può corrispondere un qualcosa di esistente al di là della mia mente?