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Death of a Nation - Elaborazione luttuosa del trauma 9/11 nella cinematografia americana contemporanea

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1

Grazie soprattutto a te, che non hai fatto in tempo a vedermi qui, ma

che sono sicura, ovunque tu sia, nel vento e negli alberi, sotto i baffi,

mi stai sorridendo.

“Love is the one thing we're capable of perceiving that transcends

dimensions of time and space.”

-

Interstellar (2014)

Borders

What's up with that?

Politics

What's up with that?

Police shots

What's up with that?

Identities

What's up with that?

-

Borders, M.I.A.

(2)

2

Sommario

Introduzione ...4

Variazioni sul tema ... 13

Il problema postmoderno ... 13

Benvenuti nell’era della convergenza ... 14

Immersione nell’Iperrealtà... 18

Nietzche, True Detective e la crisi della narrazione ... 21

La terra delle possibilità ... 26

1.1.1 La città ... 26

1.1.2 Nelle terre selvagge ... 28

Il ritorno al realismo ... 31

1.1.3 Catfish (2010) ... 32

1.1.4 The Bay (2013)... 36

Trauma storico o trauma estetico? ... 39

Narrare l’inenarrabile, udire l’inudibile, guardare l’inguardabile. ... 59

World Trade Center (2006) di Oliver Stone ... 73

United 93 (2006) diretto da Paul Greengrass ... 83

Farhenheit 9/11 (2004) di Michael Moore ... 91

11’09’’01 (2002, 11 settembre 2001) episodio USA diretto da Sean Penn ... 100

Reign Over Me (2007) di Mike Binder ... 110

La paura collettiva ... 122

The Dark Knight Rises (2012, Il cavaliere oscuro – il ritorno) di Christopher Nolan 129 Il male straniero è il male virale. ... 138

A history of violence (2005) di David Cronenberg... 139

Prisoners (2013) di Denis Villeneuve ... 144

Il senso di colpa americano ... 158

25th Hour (2002, La 25° ora) di Spike Lee ... 160

Affrontare il rimosso: la ricostruzione del passato traumatico... 170

Iron Man (2008) di Jon Favreau ... 175

Gone Girl (2014, L’amore bugiardo) di David Fincher – una riflessione sulla struttura ... 185

Affrontare il male partendo dall’immagine. ... 198

Redacted (2007) di Brian De Palma ... 204

Guerra e redenzione. ... 210

(3)

3

Zero Dark Thirty (2012) di Katryn Bigelow... 224

Birth of a nation / Death of a nation – Intervista al Professor Geoff King ... 236

Bibliografia ... 243

Filmografia ... 252

(4)

4

Introduzione

Who doubts that America is strong? But that’s not all America has to be.

Susan Sontag

8,45 (ora locale, le 14,45 in Italia): un aereo si schianta contro una delle Torri Gemelle del World Trade Center a New York.

9,05: un secondo aereo si schianta contro l'altra torre del World Trade Center.

9,18: il Presidente George W. Bush, immediatamente informato del disastro, cancella gli impegni della mattinata.

9,20: l'Fbi indaga sulla possibilità che i due atti siano frutto di un atto di terrorismo. A New York si apprende che l' FBI era stato messo in allerta per il possibile dirottamento di un aereo poco prima dell'impatto dei due aerei.

9,28: fonti del governo parlano di un attentato.

9,30: sono evacuati la Borsa del Nymex e il New York Mercantile Exchange.

9,32: il New York Stock Exchange, la Borsa Valori di Wall Street, rinvia l'apertura del mercato.

9,33: si apprende che uno degli aerei kamikaze era un Boeing 767 delle American Airlines dirottato da Boston.

(5)

5 9,36: la rete televisiva CNBC parla di almeno sei morti accertati e di un migliaio di feriti.

9,40: la polizia avverte le persone vicine al World Trade Center che un terzo aereo potrebbe avvicinarsi alle due torri.

9,42: la televisione di Abu Dhabi comunica che il Fronte democratico per la liberazione della Palestina ha rivendicato il doppio attentato.

9,45: viene evacuata la Casa Bianca.

9,45: un incendio divampa al Pentagono che viene fatto evacuare. L'incendio è forse causato dall'esplosione di un aereo.

9,47: è evacuato il dipartimento al Tesoro. Evacuati per precauzione anche altri grattacieli.

9,48: un incendio divampa sul Mall di Washington, non lontano dalla Casa Bianca.

9,48: la Borsa Valori di Wall Street annulla l'apertura.

9,49: il Congresso e il ministero del Tesoro a Washington sono fatti evacuare in seguito a minacce terroristiche.

9,53: scoppia un incendio al dipartimento alla Difesa che viene fatto evacuare.

9,53: la Federal Aviation Administration chiude tutti gli aeroporti degli Stati Uniti.

(6)

6 Gemelle del World Trade Center.

10,00: il personale dell'Onu scende per precauzione nei sottosuoli.

10,03: il Fronte democratico per la liberazione della Palestina (Fdlp) smentisce di essere responsabile degli attentati.

10,03: viene evacuato il grattacielo Sears a Chicago.

10,07: crolla il primo grattacielo colpito a New York.

10,08: il segretario di Stato Colin Powell lascia il Perù dove si trova per l'assemblea generale dell'Osa e rientra negli Usa.

10,11: la rete televisiva NY1 informa che il secondo aereo che ha colpito il Wtc era stato dirottato dall'aeroporto di Boston ed era della United Air Lines.

10,20: per precauzione è fatto evacuare il palazzo di Vetro.

10,27: tutti i voli transatlantici per gli Usa sono dirottati sul Canada.

10,27: crolla la seconda torre del World Trade Center.

10,28: si diffonde la voce di un'autobomba esplosa davanti al dipartimento di Stato a Washington che provoca un incendio.

11,34: si apprende che i due aerei usati negli attentati a Manhattan avevano in totale 156 persone a bordo.

11,36: un funzionario del dipartimento di Stato smentisce che un’ autobomba sia esplosa davanti alla sede del ministero.

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7 12,26: crolla un altro palazzo vicino al World Trade Center per i danni provocati dalle esplosioni.

12,39: La polizia di New York parla di migliaia tra morti e feriti.

Il lavoro di tesi proposto si prefigge di analizzare un problema: in che modo una delle tematiche più influenti e difficili della storia americana si riflette nel cinema e nella cultura popolare.

Partendo da una fase zero, ovvero lo studio delle caratteristiche (uguali e dissimili) tra quel cinema permeato di caratteristiche definite postmoderne e cinema contemporaneo (dove, per contemporaneo, intendo degli ultimi quindici anni) traccerò un percorso lungo una delle tematiche che ha mutato per sempre la cultura e la quotidianità non solo statunitense ma mondiale: l’attentato alle Twin Towers di New York l’11 settembre 2001.

All’interno della società americana, definita da Beck “società del rischio”, il ruolo e il senso di una catastrofe di questa portata per la collettività assume una rilevanza notevole in relazione alle modalità di narrazione, rappresentazione e di elaborazione dell’evento stesso.1

Tutto viene rimesso in discussione dopo un evento traumatico come un attacco terroristico che causa circa 3.000 perdite umane: non è solo il futuro dell’America a essere ripensato e narrato con un alto tasso di incertezza, il trauma spinge le nuove narrazioni (cinematografiche nel mio studio, ma naturalmente anche letterarie, fotografiche, giornalistiche e così via) ad

1

Monica Musolino, Distruzione, ricostruzione, memoria. La catastrofe come mito fondativo ed

(8)

8 una rappresentazione critica, disturbata e disturbante di tutto ciò che avvenne prima del disastro, modificando la stessa visione del passato.2 La collettività è costretta a riorganizzarsi, a ri-crearsi, seguendo spesso delle direttrici di cambiamento estremamente brusche, allargandosi sulle tre temporalità (passato, presente, futuro) e tentando di ricostruire il trauma riconsiderando i traumi simili provenienti dal passato, comprendere l’esplosione dell’evento nel tempo presente e la sedimentazione dello stesso evento nella memoria collettiva.

Nella sua opera America (1986), Jean Baudrillard si domanda:

“What are you doing after the orgy?’ What do you do when everything is available - sex, flowers, the stereotypes of life and death? This is America's problem and, through America, it has become the whole world's problem.”3

Attraverso un’interpretazione forse estrema dell’American way of life, Baudrillard profetizza il modo attraverso cui verrà recepito l’attacco terroristico del 2001; più di quindici anni dopo, si ritroverà a riflettere sull’evento vero e proprio con Lo spirito del terrorismo, soffermandosi sul senso di neutralità iniziale, al quale si giunge a causa della radicalità dello spettacolo offerto a reti unificate quella mattina di settembre. Sul piano mediatico, il 9/11 corrisponde “al terrorismo dello spettacolo, più che allo spettacolo del terrorismo.”4

2

Ivi, p. 238.

3

Jean Baudrillard, Amérique, Paris, Grasset, 1986, tr. it. America, p. 11.

4

Jean Baudrillard, L’esprit du terrorism, Paris, Galilée, 2002, tr.it..Lo spirito del terrorismo, Milano, Cortina, 2002, p. 39

(9)

9 Se la domanda che imperversava tra la popolazione non era “Perché?” quanto “Come?”, cosa non aveva funzionato nell’impenetrabile sistema difensivo americano per permettere a due aerei di linea di entrare nello spazio aereo di New York e attaccare la metropoli, il centro culturale ed economico degli Stati Uniti al cuore, scrittori, economisti e giornalisti come Susan Sontag, Noam Chomsky e Naomi Klein sostenevano che “le ragioni degli attacchi terroristici non possono essere ascrivibili esclusivamente all’altrui lettura errata e aberrante dei valori costitutivi del Paese, né spiegabili attraverso categorie come “odio” “bene” “male”.5

Se da un lato emergevano teorie complottiste (assecondate nel cinema da prodotti come Zeitgeist: the Movie film non profit del 2007 diretto, prodotto e distribuito da Peter Joseph, e lo stesso film documentario, oramai assunto a simbolo della ricerca americana della verità e della necessità di trovare i responsabili di quanto successo, Farhenheit 9/11 di Michael Moore, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 2003), l’altra faccia della medaglia portava i segni di un interrogativo proveniente direttamente dalla mattina dell’attentato. Mentre la nuvola di polvere e detriti si stava depositando sulla città, una donna, parlando al microfono di un telecronista chiede: “Perché ci odiano?”. Sono parole che si ripeteranno nei giorni successivi: il presidente George W. Bush durante la prima intervista dopo gli attentati in primis, poi politici, statisti, opinionisti.6 Tuttavia, nel corso delle loro infinite reiterazioni, queste parole hanno mutato il loro significato, non si tratta più di una domanda, ma di un dato di fatto, di una certezza che nasconde il bisogno di non sapere.7 L’incomprensione

5

Susan Sontag, Real Battles and Empty Metaphors, in ‹‹New York Times››, 10 settembre 2002.

6

Merryl Wyn Davies, Ziauddin Sardar, Why do people hates America?, London, Icon Books, 2003, tr.it. Perché il mondo detesta l’America, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 7.

7

(10)

10 altrui della cultura e dei valori americani è fonte di profonda angoscia per molti cittadini Usa; gli attacchi al WTC e al Pentagono impongono, quindi, una profonda riflessione sulla percezione dell’immaginario statunitense in America e all’estero: due mesi dopo, Bush nomina come Sottosegretario per gli Affari Pubblici e Diplomatici una delle personalità del settore pubblicitario più in vista, la texana Charlotte Beers. Celebre per essere stata una delle poche donne apparse sulla copertina del Fortune, la Beers si mette subito al lavoro per “ritoccare l’immagine USA all’estero”. La Beers dichiarerà “L’idea in sé di costruire un marchio consiste nel creare una relazione tra il prodotto e il suo utente […]. Sarà nostro compito comunicare le risorse impalpabili degli Stati Uniti, come il nostro sistema di valori”.8

Questa dichiarazione di intenti non è altro che l’ennesimo sfasamento della cultura americana: vivere un trauma cercando di “vendere” un’immagine migliorata e distorta dell’America, quello che Octave Mannoni definisce “contrattualizzazione con il Reale” e “adattamento dell’Io alla realtà”: questi due processi assicurano l’attaccamento dell’Immaginario alla realtà, ma, l’altro lato della medaglia svela una rappresentazione viziata e deviata dell’evento, causata da una defezione interna allo stesso Immaginario statunitense, che si concentra più sulla mostruosità dell’evento in sé piuttosto che sulla sua fattualità.9

Una settimana dopo l’attentato dell’11 settembre, lo scrittore americano Johnathan Franzen scrive un articolo sul New Yorker, dal titolo The one recurring nightmare (tradotto in italiano con Da molti anni ho un incubo ricorrente sulla fine del mondo) nel quale descrive esattamente la scena dell’attacco a una delle due torri,

8

Ivi, p. 97

9 9

Luigi Avvantaggiato, Archivio di cenere. L’immaginario mediatico e il trauma dell’11

(11)

11 dal punto di vista di uno dei passeggeri dell’aereo. Oltre che essere un incubo abbastanza comune10, prima e dopo l’attentato, questo articolo intende paragonare la realtà dell’immagine appartenente all’attentato a quella di un sogno, o quantomeno a quella cinematica. L’attesa euforica, quasi trepidante della catastrofe, dell’attentato che avrebbe “cambiato del tutto lo stile di vita americano” (parole pronunciate dal discorso alla Casa Bianca di George W. Bush, immediatamente dopo gli attacchi), il desiderio di rivendicare ancora una volta con forza la potenza e l’organizzazione degli Stati Uniti, che si sarebbero difesi perfettamente “in vista di un attentato che avrebbe dovuto aver luogo da almeno dieci anni”, dopo l’auto-bomba nei sotterranei del World Trade Center (queste sono invece le parole dell’allora sindaco di New York, Rudolph Giuliani), si volge in dolore silente: siamo entrati in un mondo di paura e precarietà; non siamo più invulnerabili.11 Ora che l'attentato è arrivato, scrive Franzen, la sensazione che prova non è di soddisfazione intellettuale o di semplice orrore, dettato da un sentimento di empatia, "ma un profondo dolore per la perdita di una vita quotidiana trascorsa in tempi prosperi e incuranti".

Infine, non bisogna dimenticare la portata creativa di un evento di questa portata: il poeta Robert Pinsky, esaminando l’enorme ondata di poesia, seguente agli attacchi di New York e Washington, parlerà della nascita di un “nome”, 11 settembre, nel quale la memoria personale e collettiva si fondono l’una nell’altra. Da quando il nuovo nome è entrato a far parte della cultura collettiva, i cittadini americani sono stati costretti a fare i conti con il tempo, la sua decisività e

10

Kelly Bulkuley, Dreams of healing. Trasforming nightmares into visions of hope, New York, Paulist Press, 2003, p. 72.

11

Giovanna Taviani, Inventare il vero. Il rischio del reale nel nuovo cinema italiano, in ‹‹Allegoria››, 69, anno XXVI, p. 4.

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12 incontrovertibilità. Il termine 11 settembre (9/11 in inglese) è un’onda d’urto di proporzioni gigantesche che si è abbattuta con violenza su una cultura non ama collocare gli eventi nel tempo – eccezion fatta per il 4 luglio 1776, data della Dichiarazione d’Indipendenza a Philadelphia e per il 22 novembre 1963, l’uccisione di John Fitzgerald Kennedy a Dallas). 12

Pinsky insinua dunque il dubbio che la crisi della narrazione e dell’indicazione temporale non appartenga solo alla contemporaneità, ma che sia compresa nel bagaglio culturale e sociale americano; si chiede allora “Non sarà mica che negli Stati Uniti diffidiamo di un’istintiva preferenza per la vaghezza” a favore del “paradiso temporale della nostalgia”?13

12

Robert Pinsky, A provincial sense of time, in George Clack (a cura di), “Writers of America. Fifteen refections”, 2002, Office of International Information Programs, trad. it Sara Antonelli (a cura di), “Ritratti americani. 15 scrittori raccontano gli Stati Uniti”, Roma, Elleu Multimedia, 2004, p. 234-237

13

(13)

13

PARTE I

Variazioni sul tema

All’interno di un discorso strettamente formale riguardante il cinema americano contemporaneo, risulta difficile non stilare una sorta di lista delle “analogie e differenze” coerentemente a quella che Luca Malavasi definisce “insofferenza verso il postmoderno”.14 Se Lyotard nel 1979 sosteneva che le “grandi narrazioni” (“grands récits”) legittimano la ricerca della conoscenza moderna in termini di progresso e partecipazione, il postmoderno, arrendendosi all’idea che una Grande Conoscenza Unificata sia impossibile, determina il tramonto di queste grandi meta narrazioni, in favore di una razionalità plurale a raggio corto, mirante a legittimazioni fluide, parziali e reversibili, che presuppongono un consenso esclusivamente locale e temporaneo e che implicano la massima comunicazione e trasmissione del sapere.15

Il problema postmoderno

Nel campo cinematografico, la definizione e la terminologia postmoderna è andata incontro a momenti a dir poco problematici e, generalmente ad una grande confusione. Come tutte le tendenze, i movimenti e le inclinazioni artistiche e culturali, gli studiosi desiderano tenacemente trovar loro una periodizzazione precisa, confinandole e delimitandole in rigorosi recinti. Roy Menarini propose

14

Luca Malavasi, Realismo e tecnologia. Caratteri del cinema contemporaneo, Torino, Edizioni Kaplan, 2013, p. 10.

15

Jean François Lyotard, La condition postmoderne. Rapport sur le savoir, Paris, Minuit, 1979, p. 12.

(14)

14 come fine del cinema postmoderno la cesura storica del 9/11; Marcello Walter Bruno si domanda dunque “Se l’immaginario dominante è l’immaginario della società dominante, chiedersi se il cinema postmoderno sia superato equivale a chiedersi se siamo, se l’Occidente sia passato oltre quella che è stata chiamata società postmoderna.”

Risulta a questo punto altresì legittimo porsi una domanda: cosa ha preso il posto del cinema postmoderno?16

Naturalmente il passaggio dalla sfera postmoderna a quella della contemporaneità non è stato così limpido e netto, e, soprattutto, non è avvenuto a causa di un solo evento scatenante (l’undici settembre, la guerra in Afghanistan, il governo Bush jr.); ciononostante è interessante notare che anche l’inizio del postmoderno, o quantomeno la decadenza delle grandi narrazioni moderne, era stato fissata da Lyotard con gli orrori della Shoah.17

Tentiamo dunque di fissare i punti comuni e le “variazioni sul tema” che contraddistinguono lo spostamento dal cinema postmoderno a quello contemporaneo.

Benvenuti nell’era della convergenza

Innanzitutto, la digitalizzazione dei mezzi di comunicazione. La “traduzione” digitale dei mezzi di comunicazione, infatti, ha profondamente scosso il cinema: Jon Lewis titola il suo saggio più celebre “The end of cinema as we know it” proprio perché la digitalizzazione del mezzo cinematografico (media enviroment)

16

Luca Malavasi, Realismo e tecnologia. Caratteri del cinema contemporaneo, cit., pp. 7-8.

17

Jean François Lyotard, La condition postmoderne. Rapport sur le savoir, Paris, Minuit, 1979, tr.it. La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 27.

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15 ha certamente introdotto nuove modalità di fruizione (un film ad oggi può essere visto nella sala cinematografica, copiato e scambiato sulla rete, compresso e condiviso sui principali siti di file sharing, sui social network e sulle piattaforme tecnologiche che offrono una vastissima scelta di prodotti cinematografici e televisivi tramite abbonamento), offuscando, almeno parzialmente, il protocollo definito “tradizionale”.18

Inoltre, il film può essere fruito dallo spettatore non più solo tramite schermo (cinematografico o televisivo), ma anche su una serie di dispositivi che rendono la visione del prodotto film una fruizione individuale e privata (smartphone, tablet, pc). Tramite un processo che Jenkins definisce “convergenza” i media non sono più chiaramente definiti in base alla saldatura tra una data tecnologia e una serie di pratiche sociali ad essa legate;19 in altre parole, ogni singolo medium, grazie al processo che Bolter e Grusin definiscono “remediation, non smette mai di incorporare e riprodurre contenuti e modelli provenienti da altri media in prima istanza, e poi da dinamiche storiche, sociali, culturali, economiche e così vi; possiamo dunque dire che i media sono “oggetti dinamici”,20

tramite la relazione tra tre concetti principali: convergenza mediatica, cultura partecipativa e intelligenza collettiva.

Parlare di “convergence culture” e “collective knowledge” permette di restringere il campo di analisi che la tesi si propone alle produzioni statunitensi: com’è intuibile, infatti, i processi costitutivi sono scatenati dalla produzione

18

Ivi, p. 26.

19

Simone Carlo, Fausto Colombo, La digitalizzazione: questioni strutturali in Fausto Colombo (a cura di), La digitalizzazione dei media, Roma, Carocci, 2007, p. 16.

20

Luca Malavasi, Realismo e tecnologia. Caratteri del cinema contemporaneo, Torino, Edizioni Kaplan, 2013, p. 25.

(16)

16 cinematografica americana, qui intesa come punto di partenza per la conoscenza, la cultura popolare e l’immaginario collettivo mondiale.

La supremazia della produzione statunitense nel cinema mondiale fa sì che ogni settore della vita culturale e delle arti visuali sia contagiato dalla cultura popolare americana – altrimenti detta semplicemente “Americana”.21 Il termine si riferisce all’insieme di oggetti e artefatti, naturali e artificiali legati al retaggio, alla storia e al folklore degli Stati Uniti d’America, e che ne caratterizzano il patrimonio culturale.22 Ma cos’è “Americana”, dove si situa? Ogni singolo individuo è convinto di conoscerla, di averla vista, di averne sentito parlare in libri, film, canzoni, ma effettivamente, cosa semplifica al meglio la concezione culturale che il mondo (Stati Uniti compresi) ha della cultura popolare americana? Come scriveva Waldo Frank a inizio anni Trenta “Andiamo tutti in cerca dell’America, e nel cercarla la creiamo.”

La storia delle arti americane del diciannovesimo secolo può essere raccontata in termini di fusione e incontro tra tradizioni popolari indigene e quelle portare in America dalla Mayflower: i prodotti culturali circolavano liberamente, senza alcun limite legale o economico (si vedano i canti afroamericani giunti fino a noi privi di un autore ben preciso). Quando le forme di intrattenimento commerciale (ad esempio, i minstrels show) emergono come spettacoli professionali a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, la linea di separazione tra cultura commerciale emergente e cultura popolare tradizionale diviene ancor più sottile;23 infatti, in

22

Mario Maffi, Cinzia Scarpino, Cinzia Schiavini, Sostene Massimo Zangari, Americana. Storia e

culture degli Stati Uniti dalla A alla Z, Milano, Il Saggiatore, 2012 p. 67. 23

(17)

17 diversi film classici hollywoodiani verranno utilizzati brani provenienti proprio dalla cultura popolare tradizionale, già perfettamente radicata in quella più commerciale e pop.24

Inoltre, nel cortocircuito delle convergenze, il cinema ha prevedibilmente rappresentato un punto di riferimento e confronto, non solo per quanto riguarda, appunto, la fruizione e l’organizzazione, ma anche, ed è questo il punto che più mi interessa in questa sede, per quanto riguarda la dimensione materica e percettiva dell’immagine, con un inaspettato ritorno al concetto di “realismo”.25

Quando nel corso delle storie delle arti visive si ripresenta la parola “realismo” è sempre buona norme considerarla con estrema attenzione. In questo caso saranno particolarmente importanti gli studi di David N. Rodowick e Lev Manovich. Il primo, nel suo testo Il cinema nell’era del virtuale, solleva una questione centrale: i processi computazionali e quindi digitali hanno in qualche modo cambiato la natura dell’immagine cinematografica? Un film digitale può essere definito film, si tratta di un prodotto completamente indipendente o si tratta della nuova (ennesima) frontiera del medium cinema? Per considerare un’immagine reale in termini percettivi è necessario essere convinti che essa rappresenti la realtà;26 il “realismo” verso cui tende il cinema contemporaneo non è quello che Malavasi definisce “realitysmo”, inteso come un distaccamento totale e privo di ripensamenti dalla realtà, ma come progettazione di un nuovo sguardo, diretto al

24

Ad esempio, il celebre spiritual Go down Moses, pubblicato nel 1872, cantato poi in una celebre versione da Louis Armstrong, verrà utilizzato in moltissimi film della Hollywood classica, quali

Sullivan’s Travels (1941, Id.) di Preston Sturges, cantata da Jess Lee Brooks, fino a Blackboard Jungle (1955, Id.) e alla contemporanea teen comedy Easy Girl (2010, Easy A), diretto da Will

Gluck e interpretato da Emma Stone, in una rilettura contemporanea e ironica de La Lettera

Scarlatta di Nathaniel Hawthorne. 25

Ivi, p. 30.

26

David N. Rodowick, The Virtual Life of Film . Harvard, Harvard Press, 2007, trad. it. Il Cinema

(18)

18 passato e contemporaneamente alle nuove tecnologie.27 La “rivoluzione digitale” ha unificato, dunque, i singoli universi mediali, creando una nuova modalità di scrittura cinematografica; secondo Lev Manovich:

“l’approccio cinematografico al mondo, alla strutturazione del tempo, alla narrazione della vicenda, al collegamento tra un’esperienza e l’altra è divenuto il mezzo principale attraverso cui gli utenti interagiscono coi dati culturali”.28

Come profetizzato da Jacques Aumont, i film della seconda modernità sono “una serie di film sull’esplorazione dell’asignificanza del mondo”.29

Il cinema risulta essere il mezzo per eccellenza in grado di dialogare criticamente con le problematiche sociali, temporali e della soggettività - anche dal punto di vista tecnologico, naturalmente, il cinema risulta essere radicato nella contemporaneità, si veda la trilogia di Peter Jackson, Lo Hobbit (2012, The Hobbit: an unexpected journey – 2013, The Hobbit: the desolation of Smaug – 2014, The Hobbit: the battle of five armies), girata interamente in 3D con l’uso di cineprese RedEpic e con un frame rate di 48 fps, il doppio rispetto agli usuali 24.30

Immersione nell’Iperrealtà

Altro elemento costitutivo del mezzo cinematografico, particolarmente esaltato nella contemporaneità è quello che Francesco Casetti definisce “la funzione di

27

Luca Malavasi, Realismo e tecnologia, cit., p. 51.

28

Lev Manovich, The language of new media, New York, MIT Press, 2002, tr.it., Il linguaggio dei

nuovi media, Milano, Olivares, 2002, p. 37. 29

Jacques Aumont, Moderne? Paris, Cahiers du Cinéma,2007, tr. it., Moderno? Come il cinema è

diventato la più singolare delle arti, Torino, Kaplan, 2008, p. 33. 30

http://www.stuff.co.nz/4241119/Jackson-to-direct-The-Hobbit-in-3-D articolo di Tom Cardy, consultato il 01/02/2016.

(19)

19 soddisfare un prepotente bisogno residuo di storie”,31 favorendo l’esperienza di un mondo che non conosciamo, ma sentiamo estremamente vicino alla nostra vita.32 Con il contemporaneo, quindi, l’influenza del mezzo cinematografico si acuisce, rendendo se possibile ancor più labile il confine tra vita quotidiana e cinema. Un’altra anticipazione dunque, stavolta del filosofo francese Jean Baudrillard, che nel 1988 scriveva:

“In America il cinema è vero perché sono lo spazio e lo stile di vita ad essere cinematografici. La rottura tra i due non esiste […] la vita è cinema”33

Lo stile di vita americano è inconsciamente ma sistematicamente governato dal mito dell’ American Dream, vale a dire la speranza condivisa che attraverso la determinazione, il lavoro, la libertà, è possibile raggiungere una condizione di prosperità economica e un’ottima posizione sociale. Baudrillard sostiene, in seguito, che gli americani vivono in una condizione di “iperrealtà”, una totale sovrapposizione di mito e realtà.34 Lo stesso termine pop culture indica un’assimilazione dei prodotti culturali nelle vite quotidiane dei singoli individui,35 dove per prodotto culturale non si intende più solo la scena di un film, una canzone rock o uno spot televisivo. Gli stessi eventi storici sono diventati prodotti culturali, probabilmente grazie alla stessa convergenza mediatica, attraverso la quale la notizia ad esempio, dello stupro di una donna in una cittadina del

31

Francesco Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Milano, Bompiani, 2005, p. 297.

32

Jacques Aumont, Que rest-t-il du cinéma, Vrin, Philosophie du Cinéma, 2013, p. 3.

33

Jean Baudrillard, America, Londra, Verso, 1988, tr. it. America, Milano, SE, 2009, p. 101.

34

Jaap Kooijman, Fabricating the absolute fake. America in contemporary pop culture, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2014, p. 49.

35

Henry Jenkins, Convergence Culture, New York University Press, New York, 2006, tr. it.

(20)

20 Wisconsin diviene immediatamente un oggetto intermediale da “rimbalzare” tra un social network, un quotidiano per poi magari diventare una web-serie, proprio come nel caso del docu-drama Making a Murderer (2015), trasmesso direttamente sulla piattaforma streaming di Netflix.

Risulta quindi lecito domandarsi: cosa è diventato ad oggi il cinema e come agisce sulla contemporaneità? Alla luce di quanto detto, possiamo giungere alla conclusione che la digitalizzazione, indebolendo la tenuta identitaria del mezzo e dell’”istituzione” cinema ha, allo stesso tempo, permesso ad alcuni dei suoi tratti specifici di confluire nel campo d’azione dei nuovi media digitali, rendendolo una sorta di “superlinguaggio”, il modello alla base della cultura collettiva.36

In questo caso il concetto di “realismo” rappresenta un “ritorno al film”, alla sua materialità e densità, necessariamente legata alla sua costruzione linguistica, discorsiva, esperienziale e, ai fini del nostro discorso, alla sua storicità.37 Il realismo contemporaneo del dispositivo cinematografico non poggia più, dunque, su garanzie semiotiche o socioculturali, si tratta di un “realismo del codice”, innestato su una complessa rete culturale che ne stabilisce la conformità rispetto a un insieme di contesti storicamente determinati.38 Tornando su un piano più americano, pensiamo alle celebri fotografie dei detenuti di Abu Ghraib; quando nel 2004 il rotocalco televisivo 60 minutes diffuse il reportage degli orrori che i carcerati erano costretti a subire per mano di soldati statunitensi e inglesi, nessuno dubitò della veridicità di quelle immagini terribili; le fotografie digitali ci portano a essere considerate percettivamente reali, anche se, come sottolinea

36

Luca Malavasi, Realismo e tecnologia, cit., p. 32.

37

Ivi, p. 34.

38

(21)

21 giustamente Rodowick, effettivamente molto più facilmente manipolabili rispetto a quelle analogiche.39 La fotografia e il cinema (soprattutto quello documentario) sono vittime o beneficiari del declino generale dell’indessicalità, favorito dallo sfondo storico e culturale vigente.40 Le immagini di Abu Ghraib sono quindi considerate reali e veritiere (ma non giustificabili) alla luce della lotta spasmodica al terrorismo mediorientale, dell’appartenenza al sistema esercito e alla de-umanizzazione del detenuto, una vera anticipazione della sua completa eliminazione fisica.

Possiamo quindi dire che la contemporaneità del cinema è rappresentata proprio da una sfasatura storica ed esperienziale, da un continuo gioco di opposizioni tra una drammaturgia debole e frammentata (eredità postmoderna) e la densità dei racconti, tra un’immagine sempre più sfuggente e il valore tangibile, quasi tattile della sua rappresentazione.41 Il cinema è parte integrante del contemporaneo, ne è critico attivo, ma, non vi appartiene fino in fondo; il suo compito è filtrare, giudicare, penetrare la Storia e la cultura dell’America anni Duemila. L’opposizione però, spesso si trasforma in dialogo tra il deciso e necessario ritorno alla realtà delle narrazioni cinematografiche e il massimo dell’astrazione e della manipolazione.42

Nietzche, True Detective e la crisi della narrazione

Come già detto però, non possiamo parlare di un vero e proprio turning point che trasforma le istanze postmoderne in determinate caratteristiche della

39

David N. Rodowick, The Virtual Life of Film, cit., p. 163.

40

Ibidem.

41

Luca Malavasi, Realismo e tecnologia, cit., p. 41.

42

(22)

22 contemporaneità cinematografica, i quali sembrano mettere in pratica alcuni degli assunti filosofici postmoderni più estremi. Prendiamo l’esempio della prima stagione della serie-evento della HBO True Detective (2014): serie antologica, scritta e parzialmente diretta da una delle promesse della letteratura americana contemporanea, Nic Pizzolatto, giovane scrittore e sceneggiatore di New Orleans, la prima stagione di True Detective (la seconda sarà trasmessa nel corso del 2015) è stato un enorme successo di pubblico (11, 9 milioni di spettatori per episodio in America, la serie più seguita, al primo anno della messa in onda nella storia della HBO)43: composta da otto episodi (durata di 60 minuti ciascuno) dal taglio decisamente più vicino al cinema che allo show, True Detective propone una riflessione non solo sulle modalità di ricezione e condivisione di un prodotto televisivo nell’era della convergenza, ma circa la messa in scena delle principali teorie del cinema postmoderno e della narrazione (sofferente) dell’America contemporanea. La vicenda dei detectives Rust Cohle (Matthew McConaughey) e Marty Hart (Woody Harrelson) percorre diciassette anni; nel corso del tempo i due non si dedicano solo alla ricerca di un killer creduto scomparso, ma anche alle loro vite personali. Questo tipo di temporalità, costruito su continui salti in avanti e indietro, raffigura un presente contenente una storia al passato che viene riscritta. La Storia ripercorsa è anche quella della post-collapse America44, dalla metà degli anni Novanta, in pieno periodo Clinton quindi, periodo (1993) di un’apparente boom economico che avrebbe agevolato le fasce popolari, puntando su una nuova economia basata sull’informatica (Bill Gates e la Microsoft, Steve

43

Nellie Andreeva, True Detective Now Most Watched HBO Freshman Series Ever,

http://deadline.com/2014/04/true-detective-now-most-watched-hbo-freshman-series-ever-715055/#more-715055/, consultato il 5 febbraio 2016.

44

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23 Jobs e la Apple)45, fino al post 9/11 e alla storia contemporanea (l’ambientazione temporale arriva al 2012). Tuttavia, nelle desolate paludi della Louisiana il passare del tempo scorre senza destare interesse nei personaggi, limitandosi a scavare dentro di loro e a pesare più ancora delle proprie vicende umane; si tratta di una rappresentazione di America come immagine residua quasi plastica, sottolineata dalla fotografia della ripresa, che nell’episodio finale “Form and Void” (“Forma e Vuoto” tradotto diversamente nella versione italiana) si concentra sui toni del grigio alluminio. Il tempo, come saggiamente enuncia Rust parafrasando Nietzche, “è un cerchio piatto”, il tempo passa ma tutto torna, ancor più esausto, distrutto: questa battuta viene ripetuta diverse volte, in particolare vediamo la sequenza dell’esecuzione di Reggie Ledoux: in ginocchio, come il nano di Così parlò Zarathustra, LeDoux mormora: «Time is a flat circle», e Rust gli risponde gelido, come il suo alter ego Zarathustra: «What is that, Nietzche? Shut the fuck up!».

45

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24 Rust/Zarathustra non nega che il tempo sia un cerchio, una ruota che gira e nella quale passato, presente e futuro si confondono. Negarlo vorrebbe dire assecondare una concezione che assimila il tempo a una linea retta con un inizio e una fine, una linea che procede secondo una logica predeterminata verso una meta, uno scopo: Rust, dalla scena della morte di Ledoux, si rende conto che la vicenda sta collassando in una spirale di ripetizione (il tatuaggio sul corpo della prima vittima è proprio una spirale) ed è per questo che nelle scene appartenenti al 2012 si lascia andare all’alcolismo, presentandosi agli interrogatori con barba e capelli lunghissimi, in una sorta di personificazione col Cristo.

Il collasso completo della narrazione cinematografica in True Detective si ha però in un’altra scena: il lunghissimo e celebre piano sequenza (long take) di sei minuti durante i quali Rust e una squadra di polizia effettuano un blitz nella casa dei trafficanti di droga informati su alcuni aspetti degli omicidi seriali. Dal momento

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25 in cui Rust afferra il primo ostaggio al momento in cui porta via l’ultimo, la camera non stacca mai la ripresa, in un intenso dialogo con i più importanti long-takes della storia del cinema (solo per citarne alcuni all’interno del panorama hollywoodiano moderno e contemporaneo Goodfellas di Martin Scorsese, Kill Bill vol.I di Quentin Tarantino, Gravity di Alfonso Cuaròn Birdman di Alejandro González Iñárritu). Se negli anni della Nouvelle Vague il piano sequenza era celebrato quale strumento di scrittura “elettivo”, negli anni del contemporaneo, al contrario, viene messo in crisi (anche) questo aspetto della narrazione cinematografica, iniziandolo a praticare non come forma della visibilità e della realtà, bensì come artificio linguistico che sperimenta la difficoltà di vedere.46

Lo stesso formato di True Detective consente al regista e agli sceneggiatori di mantenere una high fidelity negli spettatori, questa volta in linea con gli eroi principali della TV americana (serial killers come Dexter, spacciatori e uomini dalla doppia identità come Breaking Bad, politici sanguinari in House of Cards).47 In conclusione, è particolarmente interessante notare la dimensione identitaria che emerge da questo tipo di narrazioni “ibride”: all’interno del circuito mediatico questi eroi erranti acquisiscono quello che Lotman definisce “semiotica personalità”: continua Marianne St.Laurent “nelle narrazioni contemporanee il buono e il cattivo sembrano essere in profonda crisi”. Così Rust Cohle è un personaggio con PTSD (Post-Traumatic Stress Disorder), conseguente alla cruenta morte della figlioletta, mentre Marty, apparentemente il perfetto americano medio, padre di famiglia orgoglioso, lavoratore diligente, che si

4646

Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Milano, Bompiani, 2000, p. 89.

47

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26 autodefinisce “Just a regular type dude... with a big ass dick” risulta essere molto diverso sotto la superficie: padre assente, marito infedele e con un forte problema di gestione della rabbia. True Detective risulta essere un prodotto, dunque, che afferma la forza narrativa mandandola in tilt, e descrive i personaggi contrapponendoli per opposti.48

La terra delle possibilità

1.1.1 La città

L’opposizione prima citata si concretizza in una coabitazione problematica tra spazio e tempo: al non-luogo postmoderno si sostituisce, infatti, la raffigurazione di un paesaggio ben preciso, ma che perde la sua forza costitutiva: pensiamo al passaggio dal non-luogo dell’Overlook Hotel di The Shining (1980, Shining), e, restando in tema alberghi, lo Chateau Marmont di Somewhere (2010), quarto film di Sofia Coppola, premiato a Venezia con il Leone d’oro al miglior film. Lo spazio labirintico e fortemente delimitato di The Shining viene omaggiato nel film della Coppola, dove il protagonista, un attore sulla cresta dell’onda ma alla deriva dei rapporti sociali, che vive all’interno dell’hotel stesso con sua figlia, percorrendo un lungo corridoio, incontra improvvisamente un gruppo di figure nere, snelle, quasi orrorofiche, lugubri. Proseguendo, le figure vengono messe a fuoco, mostrando che non si tratta altro che di un gruppo di modelle, vestite tra l’altro in modo da ricordare l’iconica fotografia di Helmut Newton Le Smoking, scattata per Vogue France nel 1975.

Lo spazio cinematografico contemporaneo, può far dimenticare allo spettatore dove si trova, depurando lo scenario narrativo della sua concretezza, rendendolo

48

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27 un archetipo multiuso; così lo Chateau Marmont Hotel di Somewhere rimanda più ad un luogo indeterminato, privo di identità, una “scena americana” nel quale i personaggi affogano, senza possibilità di fuga, e, all’interno del quale, nel 1982 venne trovato il corpo senza vita del celebre attore e musicista John Belushi.49

Nell’opera America (1986), Jean Baudrillard descrive lo spirito, l’essenza, il significato dato al paesaggio statunitense, concentrandosi soprattutto sul legame con il deserto circostante e con il resto del mondo contemporaneo.50 New York, Los Angeles, Las Vegas, il confine col Messico e il Grande Nord, non sono concepite come isole sicure(“No oases, no monuments”)51 in uno sterminato nulla ma “insediamenti umani come metafora di quel vuoto, e l’opera dell’uomo come continuità del deserto, la cultura come miraggio e perpetuità del simulacro”.52

Los Angeles si presta bene al concetto, persino dal punto di vista geografico presenta una serie di ambiguità: sorge presso la costa dell’Oceano Pacifico, in una regione pianeggiante, famosa per la sua predisposizione ai terremoti, chiusa a Nord dalle cime di San Gabriele, San Antonio e Santa Monica. Da un lato, tutto il glamour, la coolness della city of angels: il distretto di Beverly Hills, West Hollywood e il Sunset Boulevard, dove le stars e le starlettes hollywoodiane vivono isolate dal resto del mondo, in una sorta di bolla di sapone, un paradiso artificiale dentro il quale il tempo è incredibilmente rallentato, letargico.53 Nei percorsi dell’intelligenza collettiva, alla voce Los Angeles, non viene evocato l’altro lato della medaglia: la piaga della criminalità organizzata, che affligge la

49

Intervista di Rai Educational a Jean Baudrillard, Parigi, 11 febbraio 1999.

50

Jean Baudrillard, America, cit.,p. 87

51

Ivi, p. 7

52

Ivi, p. 104

53

Dai contenuti speciali del dvd Somewhere, intervista a Sofia Coppola alla 67ma edizione della Mostra del cinema di Venezia.

(28)

28 metropoli e la circostante contea sin dai primi anni del XX secolo. Los Angeles non presenta un vero e proprio centro urbano cittadino, la periferia è estremamente estesa e proprio all’interno dei suburbs, si aggregarono sin dal secondo dopoguerra, bande criminali organizzate, prima formate dalla malavita losangelina, poi dagli esponenti delle minoranze più diffuse della California: afroamericani, ispanici e asiatici. In particolare, la storica faida tra la gang di Bloods e Crips sfociò, nel 1972, in una guerra che provocò enormi perdite umane e immensi danni alla comunità.54 Le tensioni e i problemi derivanti dalla criminalità organizzata e dalla corruzione losangelina vengono narrati in moltissimi film della contemporaneità: solo una città di “angeli caduti” può raccontare i due livelli narrativi che formano LA (si vedano esempi quali L.A. Confidential o Changeling). Una città perfetta, sfavillante e ricca, ma al contempo città di facciata, dove il concetto tutto americano di “raggiungimento della felicità” non è altro che un’illusione, un prologo alla caduta e al disfacimento personale del personaggio.55

1.1.2 Nelle terre selvagge

Il potere scenografico delle narrazioni americane risulta essere molto più potente, in via generale, rispetto al cinema europeo. La spettacolarizzazione estrema di quella che in passato veniva chiamata “narrazione forte” si esplicita nei film degli ultimi quindici anni, ad esempio, attraverso il rapporto tra Storia e natura; complici gli immensi spazi incontaminati del proprio paesaggio, gran parte della letteratura americana, delle arti visive e del cinema si trova debitrice al mito della

54

http://www.lapdonline.org/

55

Antonio Monda, La magnifica illusione. Un viaggio nel cinema americano, Fazi, Roma, 2003, p.p. 332-333.

(29)

29 wilderness, inteso come rapporto organico con tutti gli elementi della Natura e dell’Universo. Ralph Waldo Emerson, uno degli esponenti più illustri del Trascendentalismo Americano, sosteneva che l’intellettuale deve essere educato dalla Natura e che, abbandonando il legame con essa, avrebbe trovato solo un ambiente freddo, superficiale, ostile. La wilderness (mondo selvatico, natura incontaminata) è il luogo della liberazione degli istinti, ma, al contempo è uno spingersi oltre i propri limiti e possibilità, avventurandosi in un mondo ambiguo, oscuro ed enigmatico. Ne è l’esempio il film, oramai divenuto cult, Into the Wild (2007, Into the Wild – Nelle terre selvagge) diretto dall’attore e regista Sean Penn; il film racconta l’avventurosa impresa e la caduta del giovane Christopher Mc Candless, che a 22 anni, dopo essersi laureato, decide di abbandonare famiglia e amici e di intraprendere un viaggio attraverso l’America fino al tanto sognato North, l’Alaska. Ispirato all’omonimo libro di Jon Krakauer, il film ebbe un ottimo successo di pubblico, portando, coerentemente a questa sede, a domandarci il motivo di un successo così importante (83% di recensioni positive su rottentomatoes.com56). Il tópos della wilderness, largamente frequentato da cinema e letteratura americani, oltre al suo significato romantico acquista un alto valore politico, dal momento che sottolinea come, oltre alla ricerca estetica, è l’abiura dai principi in cui ha vissuto ed è cresciuto a muovere il protagonista, alla maniera di un altro dei grandi autori a lui cari (il già citato Emerson, Jack London, Lev Tolstoj e il Walden di Henry Thoreau) che non cesseranno mai di accompagnarlo e motivarlo. il “selvaggio”, come sostiene lo storico e ambientalista Rodowick Nash nel suo Wilderness and the American mind (1967),

56

(30)

30 comprende anche i concetti di perso, incontrollabile, disordinato, confuso; uno spazio quindi, che è sfuggito al controllo e alla colonizzazione del popolo americano, un luogo “a prova di cittadinanza”.57

Non è raro incontrare, soprattutto nella letteratura americana ottocentesca, ossimori riferiti alla wilderness, quali “il buon selvaggio”, un tentativo, probabilmente di domare, quantomeno attraverso la parola scritta, qualcosa che rifugge qualsiasi tipo di normativa e ordine.58 Il film di Penn raffigura questo procedimento seguendo una narrazione non filologica ma composta di continui flashback alla vita di Chris prima della partenza, visione sconsolata e deprimente della provincia americana, in forte antitesi con gli scenari di natura selvaggia, immense vallate, monti coperti di neve, surreali e desertici paesaggi del Texas (l’importanza di questo tipo di scenario naturale all’interno del cinema e della cultura visuale americana è fondamentale, dal genere western ai campi di roulotte squallidi e senza speranza di Dallas Buyers Club). Ciononostante, tutta questa bellezza risulta essere se non traditrice, quantomeno priva di scrupoli: Christopher Mc Candless morirà per avvelenamento dopo aver ingerito una bacca mortale; il finale è una grande soggettiva del ragazzo morente, una lunga panoramica su uno splendido cielo spruzzato di nuvole candide; l’ultima frase del protagonista risuona di una valenza quasi cristologica: “What if I were smiling and running into your arms? Would you see then what I see now?”.

57

Pierre Floquet, « Into the Wild : la Nature, ce n’est pas du cinéma ! », Mise au point, 4, 2012, http://map.revues.org.biblio-proxy.uniroma3.it/786

58

In riferimento al concetto di “buon selvaggio”, si veda l’esempio del celebre personaggio radiofonico, creato da George W. Trendle e Fran Striker, dell’indiano Tonto. Fido compagno del Lone Ranger, Tonto è un indiano Potawomi (in alcuni episodi diventa però della tribù Comanche), connotato da una descrizione definita da alcuni autori Nativi Americani come degradante e dispregiativa: in particolare il suo modo di parlare è connotato dalla mancanza di articoli e da verbi rigorosamente all’infinito ("That right, Kemo Sabe," or "Him say man ride over ridge on horse.")

(31)

31 Allo stesso modo esistono film della contemporaneità che tralasciano del tutto la localizzazione territoriale, accennandola appena sullo sfondo ma, proprio questo elemento di “perdita del luogo”, di ogni tipo di contatto palese con la vita sociale e la storia di quel determinato scenario, all’interno dell’ambiguità contemporanea, fa sì che uno spettatore attento sia incoraggiato a volerne sapere di più; ad esempio, la narrazione dell’esordio di Sofia Coppola, The Virgin Suicides (1999, Il giardino delle vergini suicide), tratto dal romanzo omonimo del 1993 di Jeffrey Eugenides, è interamente ambientata a Grosse Pointe, quartiere borghese del Michigan durante gli anni Settanta. Il luogo e il momento storico erano allora cruciali: sono gli anni dei disordini delle Black Panthers e dell’arresto di Angela Davis, della protesta della Jackson State University e delle prime lotte per il riconoscimento dei diritti LGBT, iniziati proprio nel 1969 a Stonewall Inn; l’America usciva dall’era del perbenismo anni Cinquanta, ed entra nella contemporaneità con delle profondissime cicatrici, eppure dal film della Coppola (attraverso un meccanismo che ricorda Badlands di Terence Malick) non traspare (apparentemente) nulla di tutto ciò.59

Il ritorno al realismo

D’altro canto, la crisi di questi stessi princìpi determina lo scontro tra le due diverse dimensioni esperienziali, e forse proprio da questo conflitto, dalla dialettica tra presenza e assenza (come sosteneva Renato Barilli a inizio anni Settanta, definendo tra i primi l’esperienza della postmodernità),60

dal dissidio tra estasi e azione viene fondato il problema principale del contemporaneo: la

59

B. Hoskin, Playground Love: Landscape and Longing in Sofia Coppola’s Virgin Suicides, in “Literature Film Quarterly”, 2007, 35, 3, p. 214

60

Renato Barilli, Tra presenza e assenza. Due ipotesi per l’età postmoderna, Milano, Bompiani, 1974.

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32 copresenza di due modi di essere nel reale, entrambi autentici:61 il realismo fenomenologico e il realismo epidermico. Quando ci spostiamo nel territorio dell’immagine testimoniale e documentaria riferita alla Storia questa duplicità è particolarmente evidente; l’immagine non è più un simulacro, ma una forma dell’espressione del mondo contemporaneo. Non è più necessario modificare e forzare l’immagine per farla entrare nella realtà: parafrasando Rossellini, l’immagine si trova già lì, insensibilmente.62

Affrontiamo dunque, due esempi di cinema “documentario” diversissimi tra loro:

1.1.3 Catfish (2010)

L’impulso soggettivo-diaristico, naturalmente non è un impulso originale del cinema contemporaneo; il cinema americano possiede una lunga storia del documentario, nella quale spicca il nome, ad esempio di Michael Moore, regista che ha affrontato nei suoi lavori i temi più scomodi della realtà statunitense (l’attacco alle Twin Towers in primis, ma anche il problema della sanità pubblica, la strage alla Columbine High School, il taglio dei 35.000 posti di lavoro alla General Motors).

In Catfish, però, risulta estremamente chiaro che la preoccupazione non sia mai il soggetto del documentario in sé, quanto il soggetto dietro e davanti l’immagine.63

Yaniv (Nev Schulman, poi diventato celebre volto di Mtv), fotografo ventiquattrenne di New York viene contattato via mail da Abby, una bambina di otto anni che ha dipinto un quadro sulla base di una delle sue fotografie.

61

Luca Malavasi, Realismo e tecnologia, cit., p. 50.

62

Luca Caminati, Una cultura della realtà. Rossellini documentarista, Roma, Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia, 2011, p. 13.

63

(33)

33 Affascinato da questo fatto, Nev si mette in contatto con il resto della famiglia della bambina, originari di una piccola città rurale del Michigan: Angela, la madre, Vince, il patrigno, ma soprattutto Megan, la sorellastra, con la quale stringe una sorta di relazione virtuale a distanza. Sin dai titoli di testa, notiamo come il documentario voglia in qualche maniera sovvertire l’ordine delle cose, disturbare e tranquillizzare lo spettatore al contempo (la celebre intro della 20th Century Fox viene bruscamente tagliata sostituito dal logo della piccola casa di produzione dei tre ragazzi, Nev, suo fratello Ariel Schulman e Henry Joost, amici, coinquilini e registi). La prima battuta di Nev anche è piuttosto esemplificativa: “If this is your documentary, you're doing a bad job.”; il documentario difatti nasce semplicemente come un documentario su una piccola pittrice incredibilmente talentuosa, dove il progredire della storia viene scandito dai dipinti di Abby. La promozione del documentario (premiato poi al Sundance Film Festival) era estremamente mirata a non svelare il colpo di scena finale: Nev aveva sempre parlato con Angela, , il resto della famiglia, le foto sui social network, gli aneddoti e anche i luoghi collegati ai vari parenti di Abby, era tutto inventato di sana pianta dalla donna, che aveva utilizzato fotografie raffiguranti una modella professionista di Vancouver, Aimee Gonzalez. Il documentario è interamente girato con piccole camere portatili, il volto di Nev è perennemente inquadrato; il resto della narrazione si basa su un montaggio serrato di elementi multimediali: fotografie dei profili Facebook degli interessati, dipinti, ritagli di giornale, mail, visioni satellitari provenienti da Google maps, persino i nome dei file che Nev si scambia con Meg sono utili ai fini della storia (un fotomontaggio che raffigura la “coppia” insieme viene rinominato someday.jpg dallo stesso

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34 protagonista). Anche solo la prima parte del film avrebbe fornito, a qualsiasi timoroso di nuove tecnologie una miriade di ragioni destinare a condannare completamente la Second Life tecnologica: è interessante notare, infatti, il

rapporto tra questo tipo di film e le arti ante-convergenza interessate; nelle scene in cui Nev lavora a contatto con la danza, infatti, il ritmo risulta essere molto più rilassato e contemplativo, così come le scene dedicate ai quadri di Abby, presentati in stop-motion, in opposizione alla frenesia delle immagini multimediali. Interessante anche il fatto che l’inganno venga alla luce tramite una canzone, in apparenza composta e interpretata da Meg per l’amato Nev; da questo momento, attraverso l’ascolto ossessivo dei primi cinque secondi del brano, la delusione e la vergogna portano lo spettatore nel secondo atto di questa “sad, inusual love story”64

: la frase della presa di coscienza di Nev è, infatti, “They’re complete psychopats”. La relazione tra soggetti, in Catfish, viene strappata alla realtà, si basa sulle misure della Network Society; eppure gli spettatori si sentono toccati nel profondo da questa storia, una sorta di avvertimento, di messa in guardia dai pericoli e dalle delusioni personali che fanno parte del gioco delle

64

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35 convergenze.65 Così, il momento della verità viene svelato in un crescendo drammatico (Angela fingerà dapprima che Meg sia in una clinica di riabilitazione, per poi ammettere tutto, mentre Nev e i due registi, oramai, disillusi commenteranno “She’s really smart […] play Meg is an alcholic. She’s really good with these dramatic twists”) che definisce l’elemento “epidermico” del documentario, il suo legame tattile con lo spettatore.66In accordo, inoltre, con la sfasatura tipica del contemporaneo, il film presenta la caratteristica principale del documentario: la ricerca della verità. Lo stesso titolo, Catfish, letteralmente “pesce gatto”, come spiega il marito di Angela alla fine del film, “All'inizio si era soliti trasportare in nave i merluzzi direttamente dall'Alaska fino alla Cina. Li tenevano nelle vasche all'interno delle navi. Ma una volta raggiunta la Cina, la carne era insapore e ridotta in poltiglia. Così a un tipo venne l'idea di mettere nelle vasche dei merluzzi alcuni pesci gatto, in modo da tenere i merluzzi agili. E ci sono quelle persone che nella vita reale sono pesci gatto, e riescono a tenerti sulle spine. Ti fanno fare delle domande, ti fanno riflettere, ti tengono sveglio. E io ringrazio Dio per il pesce gatto, perché sarebbe strano, noioso e deprimente se non ci fosse qualcuno che ci "mordesse le pinne".67 Nel linguaggio multimediale corrente, un catfish è una persona che crea una falsa identità sui Social Network, utilizzando foto prese da altri profili e informazioni completamente o parzialmente inventate.68 L’intento di Catfish (il film prima, poi lo show tv trasmesso su Mtv nel quale Nev e il suo amico e regista Max Joseph aiutano in ogni puntata un ragazzo o una ragazza alle prese con una relazione online) è

65

Luca Malavasi, Realismo e tecnologia, cit., p. 79.

66

Ivi, p. 78

67

Catfish, (2010, Id.)

68

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36 dunque la ricerca della verità (“Catch the catfish!”), a prescindere da quale tecnologia ne determini l’offuscamento.

1.1.4 The Bay (2013)

Film del 2012, diretto da Barry Levinson (Rain Man, Good Morning Vietnam), The Bay, almeno apparentemente, segue la traccia ufficialmente aperta nel 1999 da The Blair Witch Project (1999) diretto da Eduardo Sànchez e Daniel Myrick del mockumentary e del (falso) found footage film69 (film realizzato con del materiale preesistente, successivamente riassemblato), due generi di certo non esclusivi della produzione contemporanea (Tre canti su Lenin di Dziga Vertov), ma che in essa conoscono una grande popolarità, soprattutto se legati al genere horror.70 Questi due generi mettono apertamente in gioco il valore testimoniale dell’immagine, grazie ad una serie di elementi quali la personificazione del punto di vista (l’operatore, in questo caso presentato in una brevissima scena dalla voce narrante ed un unico testimone oculare rimasto in vita, Donna Thompson), il mistero di una verità consegnata solo tramite il girato, il rafforzamento della veridicità dei fatti tramite dei dettagli, che sono in questo caso le due emblematiche frasi di apertura (“Those events were covered by the media. The following story was never made public”) e la sequenza iniziale, un collage di numerosi notiziari televisivi. The Bay è in questo senso, un vero e proprio assemblaggio di diversi contenuti mediali: abbiamo la voce e la presenza di Donna, che si trovava a Claridge per realizzare un servizio televisivo sulla fiera cittadina, la voce della radio, vari video provenienti da telefoni cellulari e piccole videocamere delle vittime, videochiamate Skype, messaggi in segreteria, pagine

69

Luca Malavasi, Realismo e tecnologia, cit., p. 124.

70

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37 Wikipedia, addirittura un blogger d’assalto, che sul suo sito pubblica periodicamente video di denuncia circa le acque inquinate della baia. Si tratta di un prodotto cinematografico che tocca numerose problematiche estetiche e tematiche della contemporaneità americana: innanzitutto la digital utopia,71 la convinzione distorta e ambigua che la velocità di risposta dei mezzi di comunicazione moderni possa darci libertà e la sicurezza da ogni tipo di problema che la vita reale possa presentarci, da un ingorgo nel traffico cittadino, alla scelta di un ristorante, fino alla necessità di salvarci durante una pandemia.

Guardiamo adesso alla problematica storica: ad un primo livello notiamo immediatamente che il film, girato nel 2012, interpreta tutte quelle ansie della società americana contemporanea: il terrorismo (“Si tratta di Ar Quaeda, Al Quaeda o come cavolo si chiama”), in primis, il terrore che uno o più Stati esteri possano essere in possesso di armi chimiche, e ultimo, ma non meno importante, il rischio di un’epidemia nazionale proveniente dal quotidiano, quale l’acqua, il cibo, addirittura l’aria (The Happening, tradotto in italiano come …E venne il giorno, film del 2008 diretto da M.Nigh Shyamalan); non dimentichiamo inoltre che, tra 2002 e 2008, gli Stati Uniti hanno vissuto il terrore collettivo di ben due epidemie, quella suina e quella aviaria.72

Ad un livello più profondo, le parole di Donna circa Claridge descrivono una cittadina ridente, serena, basata sull’industria del pollame, ma soprattutto sul turismo marittimo. Una città spensierata, che incarna appieno l’American Dream;

71

Ivi, p. 129.

72

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38 non a caso l’epidemia scoppia durante i festeggiamenti del 4 luglio, tra un uomo vestito da Uncle Sam e la reginetta di bellezza locale.

Privato e pubblico non esistono più, ai fini dell’indagine vengono tirati in ballo anche le riprese private di una famigliola in vacanza: del resto stiamo parlando di una società di controllo, nella quale la quantità archivistica dell’immagine conta ben più della sua qualità.73 The Bay è un falso documentario, certo, ma come sottolinea Guglielmo Pescatore “nel contemporaneo le immagini non sono più qualcosa che modifica l’universo di riferimento: vi si aggiungono”; ed è questo l’elemento che rende il film un ritorno al realismo, inteso non come banale rappresentazione della realtà, ma in quanto rappresentazione di oggetti sociali esposti in modo, grazie alla pienezza testimoniale, da non poter alzare dubbi di qualsiasi genere.74

73

Luca Malavasi, Realismo e tecnologia, cit., p. 131.

74

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Trauma storico o trauma estetico?

“Se guardi la polvere, puoi vedere torri dove torri non ci sono. Come l’amputato che sente il dolore delle membra sparite.” Patti Smith Dire che il cinema contemporaneo sia permeato di riferimenti al passato e che in generale il cinema ha sempre avuto la necessità di raccontare la storia passata, la storia segreta o la storia istituzionalizzata può sembrare scontato. L’elemento che però si discosta da tutto ciò, per quanto riguarda il cinema americano contemporaneo è il suo essere particolarmente permeabile a taluni avvenimenti della Storia, la sua tendenza a narrarli in maniera indiretta o quantomeno atipica. D’altro canto, l’esibizione dell’umano appare artefatta esattamente quanto quella del non umano: in altre parole, la rielaborazione di eventi traumatici della Storia nazionale (americana) forse, e nel corso della tesi mi propongo di analizzare se e in quale misura, risulta essere più funzionale allo scopo di un’elaborazione quasi luttuosa di un trauma?

Il trauma storico, tuttavia, non ha ancora raggiunto una soddisfacente definizione clinica: la maggior parte degli studi di psicologia concentra il trauma storico a quello intergenerazionale, conseguente, solitamente a un genocidio, ad esempio,

(40)

40 quello subìto dai Nativi Americani o dal popolo armeno.75 Lo studio di questo tipo di trauma e la sua rappresentazione in àmbito cinematografico risulta, a mio parere, estremamente interessante e meriterebbe di essere approfondita in una sede a parte.

Diverso è il caso del trauma nazionale e mondiale in seguito a un evento storico cruento, violento e del tutto inaspettato come quello dell’attacco alle Torri Gemelle e al World Trade Center, l’11 settembre 2001.

La definizione più aggiornata del concetto di trauma possiamo trovarla nel Dizionario di psicoanalisi con elementi di psichiatria, psicodinamica e psicologia dinamica curato da Piero Pietrini, Alessio Renzi, Anita Casadei e Annamaria Mandese:

“Danno subìto dalla psiche dell’individuo a seguito di un’esperienza critica vissuta dall’individuo stesso, definita ‘evento traumatico’. Nella concezione psicoanalitica classica il trauma psichico deriva da un evento inatteso e improvviso, che per la sua particolare intensità oltrepassa le capacità di elaborazione dell’Io ed ha effetti patogeni durevoli.”76

75

Lemyra M. DeBruyn, The America Indian Holocaust: Healing historical unresolved grief, in “American Indian and Alaska Native Mental Health Research, 1998 8, p.p. 60-82.

76

Piero Pietrini, Alessio Renzi, Anita Casadei e Annamaria Mandese, Dizionario di psicoanalisi

con elementi di psichiatria, psicodinamica e psicologia dinamica, Milano, Franco Angeli, 2008, p.

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