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Outcome dei pazienti con malattie infiammatorie croniche intestinali dopo sospensione dei farmaci biologici.

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Academic year: 2021

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Outcome dei pazienti con malattie infiammatorie croniche

intestinali dopo sospensione dei farmaci biologici

Candidato: Luca Zatteri Relatore: Prof. Santino Marchi

Laurea in: Medicina e Chirurgia Università di Pisa, Dicembre 2018

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Sommario:

Introduzione………i Definizione………..1 Epidemiologia……….1 Fattori di rischio………..2 Eziopatogenesi………4 Segni e Sintomi………....8 Complicanze………..11 . Diagnosi………...…..12 Trattamento farmacologico………...15 Farmaci biologici………....20 Terapia chirurgica………..26 Studio clinico……….29 Obiettivi………...29 Materiali e metodi………..………30 Risultati……….………31 Discussione………..……….43 Conclusioni……….…………..54

Indice delle figure………..56

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Introduzione:

Le malattie infiammatorie intestinali e in particolare la colite ulcerosa e il morbo di Crohn sono disturbi autoimmuni la cui incidenza e prevalenza sta aumentando in tutto il mondo. Sebbene la causa dello sviluppo di questa malattia sia ancora sostanzialmente sconosciuta e attribuita ad un insieme multifattoriale di fattori, nelle ultime decadi sono stati fatti molti progressi nella comprensione della fisiopatologia di queste malattie. Questi progressi hanno trovato espressione in nuove strategie terapeutiche come la terapia con farmaci biologici; questi farmaci hanno condotto a remissione un maggior numero di pazienti o comunque migliorato le loro condizioni cliniche e quindi la qualità della loro vita. In questa dissertazione proporremo un breve quadro sulle malattie infiammatorie croniche intestinali in generale, focalizzandoci soprattutto sulle nuove terapie biologiche, successivamente descriveremo e discuteremo uno studio retrospettivo condotto su 46 pazienti affetti da colite ulcerosa e morbo di Crohn, che hanno per vari motivi dovuto interrompere la terapia biologica, concentrandoci in particolar modo sul loro outcome post sospensione.

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Definizione:

Le malattie infiammatorie intestinali sono patologie croniche, a carattere immunologico, a carico dell’intestino e comprendono principalmente la Colite ulcerosa e la Malattia di Crohn. (1)

Epidemiologia:

L’incidenza delle IBD è più elevata nelle nazioni occidentali con un’incidenza per la Colite Ulcerosa di 0,6-24,3 su 100000 in Europa, 0-19,2 su 100000 nel Nord America e 0,1-6,3 su 100000 in Medio Oriente e Asia, e per la Malattia di Crohn di 0,3-12,7 su 100000 in Europa, 0-20,2 su 100000 in Nord America e 0,04-5 in Medio Oriente e Asia. Il picco d’incidenza di queste patologie si colloca tra la seconda e la quarta decade, con la maggiore incidenza tra i 20 e i 29 anni riportata nel 78% degli studi sulla malattia di Crohn e nel 51% di quelli sulla colite ulcerosa. Un secondo anche se più modesto aumento dell’incidenza, avviene tra la settima e nona decade di vita. Dagli studi effettuati non sembra esserci correlazione con il sesso e la prevalenza è maggiore nelle aree urbane rispetto a quelle rurali e tra le classi socio-economiche più elevate. (1)

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Fattori di rischio:

Vari fattori ambientali vengono considerati potenzialmente rilevanti nello sviluppo delle IBD. Partendo dall’infanzia tra i fattori rilevanti risultano la modalità di nascita, l’allattamento e la precoce esposizione ad antibiotici mentre in età adulta l’esposizione al fumo, fattori stressogeni e la dieta. (2).

Scendendo nei particolari il fumo di sigaretta costituisce un importante fattore di rischio per le IBD con effetti opposti per la Colite Ulcerosa (odds ratio 0,58) e per la malattia di Crohn (odds ratio 1,76). L’utilizzo di contraccettivi orali è associato a un maggior rischio di Malattia di Crohn, mentre per quanto riguarda la Malattia di Crohn questa associazione è limitata solo alle donne con pregressa storia di tabagismo (1). I Neonati che ricevono uno o più cicli di antibiotici nel primo anno di vita, hanno un rischio di sviluppare la malattia durante l’infanzia incrementato di 2,9 volte; l’allattamento al seno sembra invece avere un ruolo protettivo. Altri fattori di rischio sono le gastroenteriti infettive (rischio aumentato di 2-3 volte) e una dieta ricca di proteine animali, oli, zuccheri, pesci, crostacei e grassi alimentari. (1). Per quanto riguarda la familiarità, le IBD sono una malattia familiare nel 5-10% dei pazienti. In un parente di primo grado il rischio di sviluppare la malattia nel corso della vita è del 10%, se invece entrambi i genitori sono affetti, ciascun figlio ha una probabilità del 36% di essere colpito. Negli studi condotti sui gemelli, il 38-58% dei gemelli

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monozigoti è concordante per la malattia di Crohn e il 6-18% per la Colite Ulcerosa, mentre per quanto riguarda i gemelli dizigoti la concordanza oltre che essere inferiore sembra essere invertita con un 4% per la Malattia di Crohn e uno 0-2% per la Colite Ulcerosa.

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Eziopatogenesi:

Sebbene l’eziologia delle Malattie infiammatorie croniche intestinali resti per larga parte sconosciuta, recenti studi indicano che la predisposizione genetica individuale, l’ambiente esterno, la flora microbica intestinale e la risposta immune, sono tutti fattori coinvolti e funzionalmente integrati nella patogenesi di queste malattie. (3). É inoltre importante sottolineare che in condizioni normali l’intestino non infiammato contiene un gran numero di cellule immunitarie che si trovano in un particolare stato di attivazione, in cui tutto il sistema viene trattenuto dal montare una risposta immunologica completa verso i batteri residenti nell’intestino e gli antigeni introdotti col cibo da potentissime vie di regolazione interne allo stesso sistema immunitario (per esempio cellule T regolatorie che esprimono il fattore di trascrizione FoxP3 e sopprimono l’infiammazione). In un individuo normale, nel corso di un’infezione o per altri stimoli ambientali, si ha un’attivazione completa del tessuto linfoide intestinale, ma tale attivazione viene rapidamente sostituita dallo spegnimento della risposta immune e dalla riparazione tissutale. Nelle malattie infiammatorie intestinali tali processi potrebbero non essere regolati in maniera corretta (1).

Genetica: le IBD sono considerate un disturbo poligenico; recenti studi hanno evidenziato la presenza di 163 loci genici associati a queste malattie, di cui 110 associati ad entrambe le patologie, 30 specifici per

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il Morbo di Crohn e 23 specifici per la Colite Ulcerosa (3). Mediante studi di associazione genome-wide (GWAS) si è riscontrata un’assozciazione tra sviluppo di IBD e mutazioni geniche a carico di geni coinvolti in processi biologici fondamentali e nello stress metabolico come XBP1 o ORMDL3, oppure in geni associati all’immunità innata e all’autofagia come NOD2, ATG16L1, IRGM, JAK2, STAT3 e in quelli associati alla regolazione dell’immunità adattativa quali IL23R, IL12B, IL10, che regolano il bilancio tra citochine infiammatorie e antinfiammatorie; infine si è riscontrata associazione anche con geni implicati nello sviluppo e risoluzione dell’infiammazione quali MST1, CCR6 e TNFAIP3 che espletano la loro azione mediante il reclutamento di leucociti e la produzione di mediatori dell’infiammazione. (1)

Microbiota: l’intero microbioma umano consiste approssimativamente di 1150 specie batteriche con ogni individuo che ne possiede approssimativamente 160 (4). Si stabilisce nelle prime 2 settimane di vita e di solito non subisce grandi variazioni qualitative e quantitative nel corso della vita dell’individuo. Molti studi hanno esaminato la flora batterica commensale in individui affetti da Morbo di Crohn e colite ulcerosa sia nei segmenti con infiammazione che in quelli senza; si è riscontrata una notevole diminuzione di biodiversità nel microbioma fecale dei segmenti affetti da IBD rispetto ai corrispettivi sani. (5). Da altri studi é inoltre emerso che il microbiota nei pazienti affetti é meno stabile nel tempo (6) e caratterizzato da una diminuzione di Firmicutes

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e Bacteroidetes e da un eccesso di Enterobatteri. Il Microbiota commensale è quindi chiaramente diverso negli individui affetti rispetto a quelli non affetti, cosa che conferma uno stato di disbiosi con presenza di microrganismi che conducono a malattia. (1).

Fattori ambientali: un gran numero di fattori ambientali sono considerati fattori di rischio per le IBD inclusi il fumo, la dieta, droghe, fattori geografici e stress sociale (7): tra questi il fumo resta il fattore più studiato con un ruolo protettivo nei confronti della Colite ulcerosa con un aumentato rischio di sviluppo e soprattutto di peggioramento del morbo di Crohn . La carenza di vitamina D sembra inoltre essere associata ad un aumento di rischio di sviluppare IBD (8). Un altro fattore di rischio è l’uso prolungato di antinfiammatori non steroidei ad alte dosi e l’uso di antibiotici durante il primo anno di vita (9). Altro ruolo importante è giocato da componenti umorali quali stati di depressione o ansia come dimostra uno studio retrospettivo nel quale si dimostra un beneficio dato dall’assunzione di antidepressivi in pazienti affetti da IBD. Infine l’inquinamento atmosferico è associato ad un aumento di citochine plasmatiche e leucociti polimorfonucleati che a loro volta contribuiscono all’insorgenza di queste malattie. (10). Alterazione della regolazione immunitaria: il sistema immunitario della mucosa in genere non reagisce nei confronti del contenuto luminale grazie al fenomeno della tolleranza orale: vari meccanismi sono coinvolti nello sviluppo di questo fenomeno, dall’anergia o l’eliminazione delle cellule T specifiche, all’induzione di cellule T

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CD4+ che sopprimono la flogosi intestinale e che secernono citochine antinfiammatorie come l’interleuchina 10, IL35 e il TGF-β. Nelle IBD questo meccanismo di soppressione dell’infiammazione risulta alterato, portando ad un’infiammazione incontrollata (1). Da esperimenti condotti su topi knockout e transgenici, risulta verosimile che un’inappropriata risposta al microbiota commensale in un ospite geneticamente suscettibile, costituisca il principale meccanismo nella malattia di Crohn e nella colite ulcerosa. Sembra dunque emergere una via infiammatoria che è associata a inappropriata percezione e reattività epiteliale e immunitaria innata ai batteri commensali che secernono mediatori dell’infiammazione, insieme a inadeguate risposte regolatorie che portano all’attivazione di cellule T CD4+ e CD8+ nell’epitelio e nella lamina propria, con conseguente secrezione di un’eccessiva quantità di citochine infiammatorie rispetto a quelle antinfiammatorie.

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Segni e Sintomi:

Man mano che queste patologie progrediscono, la mucosa intestinale dei pazienti affetti si fa sempre più infiammata ed ulcerata. L’intestino perde quindi gradualmente la capacità di processare adeguatamente cibo e materiali di scarto nonché la capacità di assorbire acqua; come risultato avremo feci liquide (diarrea) e spesso perdita di peso (11). La maggior parte delle persone con Morbo di Crohn e Colite ulcerosa manifestano tenesmo, urgenza defecatoria e crampi addominali; lo stato infiammatorio cronico può portare alla formazione di piccole ulcere sia nel colon che nel retto (12); queste piccole ulcere col tempo possono confluire in lesioni di maggiori dimensioni che non di rado sanguinano; il paziente potrà quindi riscontrare sangue nelle feci e qualora il sanguinamento sia particolarmente abbondante e duraturo potrà anche sviluppare anemia. Altri sintomi generali meno specifici ma che comunque possono essere associati alle IBD sono febbre, perdita di appetito, stanchezza, sudorazione notturna e perdita del normale ciclo mestruale.

Colite ulcerosa: i sintomi principali sono diarrea, proctorragia, tenesmo, muco nelle feci e dolore addominale. La gravità dei sintomi è correlata all’estensione della malattia. I pazienti con proctite lamentano la compara di sangue rosso vivo o di muco sia commisti alle feci sia sotto forma di striature su feci normali; nella proctite o proctosigmoidite il transito prossimale è rallentato e può essere

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responsabile della stipsi che si può riscontrare nei pazienti con localizzazione distale di malattia. Quando la malattia si estende oltre il retto la motilità colica risulta alterata per effetto dell’infiammazione e da questo risulterà un transito accelerato lungo l’intestino colpito. Segni obiettivi di proctite includono proctalgia e presenza di sangue all’esplorazione rettale. Nei casi di malattia più estesa i pazienti lamentano dolorabilità alla palpazione del colon.

Malattia di Crohn: la sede più colpita risulta essere l’ileo terminale e la presentazione clinica è caratterizzata da episodi ricorrenti di dolore addominale in fossa iliaca destra con diarrea. Il quadro talvolta può simulare un’appendicite e il dolore è solitamente di tipo colico pre-evacuativo e alleviato all’evacuazione. Il calo ponderale è frequente, pari al 10-20%. L’edema, l’ispessimento e la fibrosi della parete intestinale portano ad un restringimento del lume intestinale che dopo diversi anni può condurre ad una vera e propria stenosi. L’infiammazione grave della regione ileo-cecale può condurre inoltre ad una microperforazione con formazione di fistole comunicanti con le anse vicine, la cute o la vescica. Se la malattia si manifesta come digiuno-ileite si assocerà a perdita di superficie digestiva e assorbimento con conseguente malassorbimento e steatorrea, e da qui si potranno avere una serie di problematiche quali anemia, ipoalbuminemia, ipomagnesemia, coagulopatia e iperossaluria con nefrolitiasi. Qualora la malattia avesse una localizzazione gastroduodenale i sintomi principali saranno nausea, vomito ed epigastralgia. Infine la

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localizzazione esclusivamente colica si associa a febbricola, malessere, dolore addominale crampiforme e talvolta ematochezia; il sanguinamento abbondante non è così frequente come nella colite ulcerosa; il dolore è causato dal passaggio di materiale fecale attraverso porzioni di intestino crasso infiammato e ridotto di calibro inoltre la malattia colica può portare a fistolizzazione a livello di stomaco o nel duodeno causando vomito fecaloide o nel piccolo intestino con malassorbimento e contaminazione batterica. Infine la malattia perianale si manifesta con incontinenza, marische perianali, stenosi anale, fistola anorettale e ascessi perirettali (1).

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Complicanze colite ulcerosa

Le complicanze della colite ulcerosa sono la diarrea persistente, il sanguinamento rettale, il dolore addominale; complicanze possibili e più gravi sono anche la perforazione intestinale e il megacolon tossico.

Complicanze Morbo di Crohn:

Le complicanze principali e più frequenti del morbo di Crohn sono la formazione di fistole, ostruzioni, ascessi, il malassorbimento, la malnutrizione e le possibili perforazioni del viscere.

Complicanze possibili extraintestinali:

Oltre alle complicanze in loco, le malattie infiammatorie croniche intestinali possono dare complicanze anche a distanza; le più comuni riguardano gli occhi con rossore, bruciore, prurito, dolore e gonfiore alle articolazioni, ulcerazioni orali; il distretto osseo può essere colpito da osteoporosi e può essere favorita la formazione di calcoli renali; il distretto cutaneo può essere interessato dalla formazione di piaghe, rush e persino ulcerazioni; infine il fegato può andare incontro a epatiti, cirrosi e colangiti sclerosanti primitive.

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Diagnosi

Aspetti macroscopici, bioumorali, ed endoscopici

Colite ulcerosa: la colite ulcerosa è una malattia della mucosa che colpisce solitamente il retto e si estende prossimalmente con coinvolgimento parziale o totale del colon. In circa il 40-50% dei casi la malattia è limitata al retto e al sigma, nel 30-40% dei casi si estende oltre il sigma e solo nel 20% dei casi coinvolge l’intero colon. L’estensione in senso prossimale è continua senza aree di mucose intervallate indenni. (1) La malattia in fase acuta è caratterizzata da un aumento degli indici di fase acuta (PCR, VES, numero piastrine)e da una diminuzione dei valori di emoglobina. I livelli di calprotectina risultano ben correlati alle IBD, spesso preannunciano una recidiva e stanno diventando parte integrante della gestione delle IBD e vengono utilizzate frequentemente per individuare un’infiammazione attiva rispetto ai sintomi dell’intestino irritabile o alla sovrainfezione batterica. La diagnosi parte dall’anamnesi e l’esame clinico del paziente; sono inoltre necessari l’esame parassitologico e gli esami coprocolturali per escludere eventuali infezioni batteriche o la presenza della tossina di Clostridium difficile. L’esame conclusivo è comunque rappresentato dall’ indagine endoscopica con valutazione istologica dei prelievi bioptici. Dal punto di vista strettamente endoscopico la malattia lieve è caratterizzata da eritema, riduzione della trama vascolare e lieve friabilità; la malattia moderata sarà individuabile attraverso un eritema

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marcato, assenza della trama vascolare, friabilità ed erosioni; la malattia severa infine sarà caratterizzata da sanguinamento spontaneo ed ulcerazioni. Le austrature possono rimanere normali nella malattia di grado lieve, ma con il progredire dell’attività diventano edematose e ispessite; la perdita della normale austratura è frequente soprattutto nei pazienti di lunga durata; il colon appare ridotto di calibro e accorciato con spesso la presenza di polipi e pseudopolipi; la TC e la RMN rivestono un ruolo meno importante rispetto all’endoscopia mostrando un modesto ispessimento di parete e disomogeneità della densità parietale.

Morbo di Crohn: la malattia di Crohn può colpire qualsiasi tratto gastrointestinale dalla bocca all’ano, il 30-40% dei pazienti ha la malattia localizzata solo al piccolo intestino, il 40-55% ha anche localizzazione colica e il 15-20% ha solo localizzazione colica. Nel 75% dei pazienti con malattia del piccolo intestino, l’ileo terminale è colpito nel 90% dei casi; inoltre il retto è spesso risparmiato a differenza della colite ulcerosa in cui invece è sempre coinvolto; altra differenza rispetto alla colite ulcerosa è la natura segmentaria delle lesioni con aree indenne lungo l’intestino ammalato (13); inoltre a differenza della colite ulcerosa, il morbo di Crohn è un processo transmurale. Le principali alterazioni bioumorali sono l’aumento della VES e della PCR, e solo nei quadri gravi si riscontrano ipoalbuminemia, anemia e leucocitosi. (14) Endoscopicamente nella malattia di grado lieve si riscontrano

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piccole ulcere superficiali o aftoidi, mentre nelle fasi più avanzate si possono riscontrare ulcere stellate che confluiscono in modo da demarcare isole di mucosa istologicamente normale. Questo aspetto tipico è detto ad “acciottolato” ed è caratteristico sia dal punto di vista endoscopico che radiologico. La malattia attiva è caratterizzata dalla formazione di tratti fistolosi che conducono a fibrosi e stenosi dell’intestino.

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Trattamento

:

Endpoints

Il primo e più importante obiettivo del trattamento delle IBD è il miglioramento della qualità della vita dei malati e la loro remissione clinica. Oltre a questo come secondo obiettivo ci poniamo anche la remissione endoscopica della malattia (15). In particolare per quanto riguarda la colite ulcerosa, i target principali della terapia sono la remissione clinica (intesa come fine del sanguinamento rettale, della diarrea e dell’alvo alterato) e la remissione endoscopica (intesa come Mayo score 0 o 1), con la remissione istologica come obiettivo secondario. Per quanto riguarda invece la malattia di Crohn gli obiettivi principali risultano la remissione clinica (vedi sopra) e quella endoscopica (scomparsa ulcerazioni alla ileocolonscopia ) con una normalizzazione dei biomarkers quali la PCR e la calprotectina fecale, come obiettivo secondario. Il monitoraggio dell’efficacia del trattamento stesso avviene tramite colonscopia ed esame istologico della mucosa, tuttavia per evitare un numero eccessivo di questi esami si utilizzano come opzioni alternative il monitoraggio della calprotectina fecale e della lattoferrina fecale come predittori di malattia in fase di attività, sia per quanto riguarda la colite ulcerosa sia per il morbo di Crohn. In certe situazioni tuttavia la chirurgia è un’opzione inevitabile ed irrinunciabile; questo si verifica nelle situazioni in cui si viene a configurare un quadro di fibrostenosi (16) per quanto riguarda

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la malattia di Crohn, mentre per la colite ulcerosa quando la malattia risulta refrattaria a tutti i tipi di trattamento o nel caso di megacolon tossico.

Composti di acido 5-aminosalicilico

Il tattamento principale della CU in fase lieve moderata è rappresentato dalla salazopirina (sulfasalazina) e dagli altri derivati del 5-ASA (1). Questi agenti sono efficaci nell’indurre e nel mantenere la remissione nella CU. Rivestono invece un ruolo più limitato nei confronti della malattia di Crohn. La salazopirina è stata usata inizialmente per la sua doppia funzione antibatterica e antinfiammatoria; la sua struttura molecolare consente il rilascio nel colon permettendo all’intera molecola di passare nel piccolo intestino dove viene assorbita parzialmente, e di essere scissa nel colon dove le azoreduttasi scindono il legame diazidico che le lega la sulfapiridina e la molecola di 5-ASA. Come detto la salazopirina è in grado di indurre e mantenere remissione di malattia nella colite ulcerosa lieve-moderata, tuttavia i suoi eventi avversi frequenti (quali cefalea, anoressia, nausea, vomito oppure reazioni da ipersensibilità) ne limitano l’uso (17). Per ovviare a questo problema si è passati ad utilizzare la Mesalazina tramite preparati a rilascio ritardato e disponibili sia sotto forma di terapia orale sia sottoforma di terapia topica con clisteri e supposte; la terapia combinata orale e topica si è dimostrata più efficace della monoterapia. (18)

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Glucocorticoidi:

La maggior parte dei pazienti con colite ulcerosa moderata-grave trae beneficio dall’uso di glucocorticoidi per via orale o parenterale. Nella colite ulcerosa che non risponde a 5-ASA viene usato il prednisone a dosi di 40/60 mg/die. I glucocorticoidi usati per via parenterale sono l’idrocortisone a dose di 300 mg/die o il metilprednisolone a dose di 40/60 mg/die. Un nuovo glucocorticoide per la Colite ulcerosa è la Budesonide (19) che viene rilasciato interamente nel colon e presente minimi effetti collaterali (20). I glucocorticoidi a differenza dei 5-ASA sono in grado di indurre remissione nel 60-70% dei casi di Malattia di Crohn in fase moderata-grave; tuttavia non mostrano alcuna utilità come terapia di mantenimento in entrambe le IBD a causa dei numerosi effetti collaterali. I possibili effetti indesiderati sono la ritenzione idrica, striature addominali, iperglicemia, redistribuzione lipidica, osteoporosi, miopatia e cataratta.

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Antibiotici:

Per quanto riguarda la colite ulcerosa gli antibiotici non rivestono alcun ruolo nel trattamento della malattia, sia attiva che quiesciente, solo nel trattamento della pochite trova indicazione l’uso di metronidazolo o ciprofloxacina (21). Il metronidazolo trova invece indicazione nella malattia di Crohn attiva, fistolizzante e perianale e può essere utile per la prevenzione delle recidive dopo resezione ileale (22). Anche la ciprofloxacina è utile nel trattamento della malattia di Crohn in fase di attività anche se associata a sviluppo di tendinite e rottura tendine di Achille.

Immunomodulatori:

L’uso degli immunomodulatori Azatioprina, 6-Mercaptopurina e Metotrexato nel trattamento delle IBD, grazie al loro ruolo di risparmiatori di glucocorticoidi in oltre i 2/3 dei pazienti con colite ulcerosa e morbo di Crohn dipendenti da glucocorticoidi per il mantenimento dello stato di remissione di malattia. Il loro uso ha trovato ulteriore spazio con l’avvento della terapia biologica dal momento che vari studi hanno dimostrato come l’uso combinato di farmaci biologici e immunomodulatori portasse ad un incremento di efficacia della terapia. L’Azatioprina viene rapidamente convertita a 6-Mercaptopurina e poi metabolizzata ad acido tioinosinico, un inibitore

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della sintesi purinica e quindi della proliferazione cellulare; sfruttando questo meccanismo questi composti inibiscono anche la risposta immunitaria (23). Il Metotrexato invece agisce invece inibendo l’enzima diidrofolato reduttasi, portando quindi ad un’alterata sintesi del DNA; iniettato per via intramuscolare o sottocutanea, è in grado di indurre la remissione e ridurre la corticodipendenza: l’evento avverso principale di Azatioprina e 6-Mercaptopurina è la pancreatite (24), mentre per il Metotrexato la leucopenia e la fibrosi epatica (25).

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Farmaci biologici:

Agenti Anti TNF:

il fattore di necrosi tumorale alfa è una citochina che è coinvolta in maniera molto importante nello sviluppo delle IBD, ma anche di altre malattie quali l’artrite reumatoide, la psoriasi e l’artrite psoriasica. L’uso di questi agenti per bloccare la produzione di queste citochine ha modificato in maniera rilevante il trattamento delle IBD. Attualmente sono 4 gli anti TNF approvati per la terapia di queste malattie: 3 per il morbo di Crohn ( Infliximab, Adalimumab e Certolizumab) e 3 per la colite ulcerosa ( Infliximab, Adalimumab e Golimumab). Tutti questi, sono immunoglobuline G che legano il TNF-α apparte Certolizumab che corrisponde al frammento Fab dell’immunoglobulina e che è unito alla molecola PEG per aumentarne l’emivita.

Infliximab

: la prima terapia biologica approvata per il Morbo di Crohn fu Infliximab, un anticorpo IgG chimerico che adesso è approvato anche per il trattamento della colite ulcerosa attiva da moderata a severa (26). Si è visto che il 65% dei pazienti con Crohn refrattario risponde a terapia con Infliximab endovena 5 mg/kg e il 39% va addirittura incontro a remissione completa (27). Da un altro studio fatto è emerso come per pazienti con morbo di Crohn moderato-severo l’associazione Infliximab-Azatioprina portava ad una maggior percentuale di remissione rispetto alla monoterapia in quanto

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tale combinazione riduceva il tasso di formazione di anticorpi anti-farmaco. L’associazione con Metotrexato invece non mostrava benefici. Risultati analoghi venivano ottenuti anche per quanto riguarda la colite ulcerosa (28). Da citare tuttavia che l’uso di una terapia combinata è gravata da aumentati rischi infettivi per il paziente.

Adalimumab

:

è un anticorpo umano monoclonale ricombinante di tipo IgG1 che contiene solo sequenze di peptide umano e che viene iniettato per via sottocutanea. Adalimumab lega TNF-α e neutralizza la sua funzione bloccando l’interazione tra il TNF e il suo recettore sulla superficie cellulare (29). Sembra avere quindi un meccanismo d’azione simile ad Infliximab ma con minore immunogenicità. Adalimumab è stato approvato per il trattamento della Malattia di Crohn da moderata a severa. Lo studio Charm (30)ha messo in evidenza come in pazienti che stessero assumendo questo farmaco come terapia di mantenimento, la percentuale di remissione a 1 anno fosse del 42-48 % in pazienti che non avevano precedentemente assunto Infliximab e del 31-34% in pazienti già precedentemente trattati con Infliximab (31); nella pratica clinica nei pazienti che assumono Adalimumab, il tasso di remissione aumenta aumentando la dose fino a 40mg a settimana anziché a settimane alterne (32).

Certolizumab

: farmaco iniettato sottocute, è risultato efficace

nell’induzione di risposta clinica in pazienti con malattia di Crohn attiva (33). Uno studio per valutare i risultati di una terapia con Certolizumab

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come farmaco per il mantenimento, ha mostrato risultati analoghi allo studio Charm sopra descritto (34). Per motivi di sicurezza tale farmaco non è stato approvato dall’EMA e non è quindi prescrivibile in Italia a differenza invece degli Stati Uniti dove è regolarmente prescrivibile.

Golimumab

: farmaco biologico iniettato sottocute, anticorpo IgG1 totalmente umano attualmente approvato per il trattamento della colite ulcerosa attiva moderata-severa.

Eventi avversi

: importante annoverare tra gli eventi avversi derivanti

dall’uso degli anti TNF le infezioni opportunistiche; prima di iniziare la terapia biologica è importante fare una valutazione che metta in evidenza la possibile presenza di tubercolosi latente o epatite b; infatti a seguito della terapia si potrebbe avere una riattivazione delle suddette patologie; si segnalano inoltre possibili infezioni fungine e lo sviluppo nel tempo di anticorpi anti farmaco biologico; sono inoltre possibili reazioni allergiche nel sito d’iniezione o infusione; in tutti questi casi è opportuno interrompere immediatamente la terapia biologica. Si segnala inoltre il possibile sviluppo di sclerosi multipla e un paradosso peggioramento della psoriasi, con lesioni localizzate soprattutto a livello dei palmi delle mani e dei piedi. Infine vi è un aumento di rischio di sviluppo di linfoma e tumori in generale. Tutte questi possibili eventi avversi tuttavia non devono distogliere dal ruolo di indiscussa utilità della terapia biologica, che oltre a migliorare le condizioni cliniche di molti pazienti, è in grado anche di ridurre la probabilità di sviluppo di

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tumore del piccolo intestino e del colon retto nei pazienti affetti da IBD.

Anti Integrine

Sia nella Colite Ulcerosa che nella Malattia di Crohn sono coinvolti in maniera importante il reclutamento di leucociti nel tessuto intestinale assieme ad una disregolazione nell’attivazione delle cellule immunitarie. Le integrine sono espresse sulla superficie cellulare dei leucociti e funzionano come mediatori dell’adesione dei leucociti all’endotelio vascolare. Bloccando questo tipo d’interazione si è dimostrato una diminuzione dell’infiammazione nelle IBD. I principali farmaci anti integrine sono il Natalizumab e il Vedolizumab e sono indicati sia come terapia biologica primaria sia come ulteriore possibilità terapeutica in pazienti con perdita di risposta primaria, mancata risposta o intolleranza agli anti TNF.

Natalizumab: è un anticorpo monoclonale umanizzato IgG4 che agisce legando la α4 integrina e bloccando quindi l’adesione e successiva migrazione dei leucociti nel tessuto intestinale (35); è stato riconosciuto un suo ruolo anche nel trattamento della sclerosi multipla. Tramite gli studi ENACT1 e ENACT2 (36) si è dimostrato un migliore risultato

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in termini di remissione clinica nei pazienti con malattia di Crohn severa-moderata, che assumevano questo farmaco nei confronti di quelli che assumevano il placebo, il tutto sia per quanto riguarda l’induzione di remissione che il suo successivo mantenimento. Tale farmaco tuttavia non è stato approvato dall’EMA e dall’FDA per problemi di sicurezza in quanto si è riscontrato nei pazienti che ne facevano uso, un preoccupante incremento di leucoencefalopatia multifocale progressiva.

Vedolizumab

: è una anticorpo monoclonale umanizzato IgG1

approvato sia per il trattamento della colite ulcerosa che per la Malattia di Crohn (37). Espleta la sua azione legando specificatamente l’integrina α4β7 (38) e bloccando quindi la migrazione delle cellule T della memoria proprie dell’intestino, verso i siti d’infiammazione (39). La specificità per i linfociti intestinali è importante per poter scongiurare una tossicità sistemica e in particolare al sistema nervoso centrale. Lo studio Gemini 1 condotto su pazienti con colite ulcerosa moderata-severa ha messo in evidenza come i pazienti trattati con Vedolizumab traessero beneficio dalla terapia molto più di quelli trattati con placebo, sia in fase d’induzione che di mantenimento. Analoghi risultati sono stati ottenuti con lo studio Gemini 2 in cui però si studiavano pazienti con Malattia di Crohn moderata-severa. Nello studio Gemini 3 invece si sono somministrati rispettivamente

(30)

Vedolizumab e placebo in pazienti con Malattia di Crohn severa a cui erano già stati somministrati anti-TNF ma che poi erano andati incontro a perdita di risposta, mancata risposta o intolleranza; dallo studio è emerso un beneficio nei pazienti che assumevano il farmaco anti integrine, un beneficio rilevabile però solo a partire dalla decima settimana di trattamento.

Eventi avversi

: una meta analisi condotta da Wang e colleghi ha dimostrato come l’uso di farmaci anti integrine non sia associato allo sviluppo di gravi eventi avversi quali leucoencefalopatia progressiva multifocale (40), cancro o morte. Eventi avversi minori segnalati sono stati invece lo sviluppo di nasofaringite, mal di testa, artralgie, nausea, dolore addominale, affaticabilità e sviluppo d’infezioni delle alte vie respiratorie.

Farmaci biologici in sperimentazione

:

Ustekinumab: anticorpo monoclonale IgG1 totalmente umano che

blocca l’attività biologica dell’ IL12 e dell’ IL23 tramite la loro comune subunità p40, inibendo l’interazione di queste citochine con i loro recettori sulle cellule T, natural killer e presentanti l’antigene. Nei trial clinici si è dimostrato efficace nella Malattia di Crohn moderata-severa.

(31)

Terapia chirurgica

Colite ulcerosa: quasi la metà dei pazienti con pancolite ulcerosa viene sottoposta a intervento chirurgico entro 10 anni dall’inizio della malattia (41). Le indicazioni chirurgiche sono rispettivamente

• Malattia refrattaria

• Malattia fulminante

• Megacolon tossico

• Perforazione colica

• Emorragia colica massiva

• Ostruzione colica

• Profilassi cancro del colon

• Displasia o cancro del colon

I rischi sono costituiti principalmente da emorragia, contaminazione con sepsi e danni neurologici. L’ intervento chirurgico di scelta è l’anastomosi ileoanale, con realizzazione di una tasca ileale. L’ileo viene utilizzato per la creazione della pouch che funziona da neoretto e questa pouch ileale viene poi suturata attorno all’ano con un’anastomosi termino-terminale. La complicanza principale è

(32)

Malattia di Crohn

: la maggior parte dei pazienti con Malattia di

Crohn necessita almeno una volta nella vita di un intervento chirurgico. L’intervento si è visto riguardare l’80% dei pazienti con localizzazione a livello del piccolo intestino e il 50% dei pazienti con localizzazione colica (42). La chirurgia è indicata solo qualora la terapia medica non abbia avuto effetto o qualora le complicanze la rendano necessaria. Le indicazioni al trattamento sono:

Per l’intestino tenue:

• Stenosi o ostruzione non responsive a terapia medica

• Emorragia massiva

• Fistole refrattarie

• Ascessi

Per il colon e il retto:

• Malattia refrattaria

• Malattia fulminante

• Malattia perianale

(33)

• Ostruzione colica

• Profilassi del cancro

• Displasia o cancro del colon

Il tipo d’intervento effettuato nella maggior parte dei casi di malattia del tenue è una resezione chirurgica del segmento interessato con confezionamento di un’anastomosi per ristabilire la continuità intestinale. La stritturoplastica è un intervento meno eseguito e riservato a pazienti con stenosi brevi e aree di mucosa normale interposta e già sottoposti a estese resezioni intestinali al fine di mantenere una lunghezza intestinale sufficiente. Per la malattia con localizzazione colonrettale sono possibili diverse opzioni chirurgiche che vanno dal confezionamento di un’ileostomia temporanea fino alla resezione dei segmenti interessati o anche dell’intero colon e retto.

(34)

Studio clinico:

Obiettivi:

L’obiettivo primario di questo studio è stato quello di valutare l’outcome dei pazienti affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali dopo aver sospeso la terapia con farmaci biologici.

Come obiettivo secondari sono state valutate la causa di sospensione del farmaco biologico e l’impatto dell’ottimizzazione sull’outcome. Analizzando i dati raccolti previo consenso informato dei 46 pazienti del nostro studio, abbiamo preso in considerazione l’ipotesi che il primo valore di calprotectina post induzione con farmaco biologico, possa essere correlato con outcome di remissione.

Sempre prendendo spunto dai dati raccolti abbiamo infine preso in considerazione l’ipotesi che un inizio precoce di terapia biologica possa essere correlato con outcome di remissione.

(35)

Materiali e metodi

Siamo andati ad analizzare le cartelle cliniche di tutti quei pazienti affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali che avevano iniziato la terapia biologica e che per varie ragioni hanno dovuto interromperla; sono state consultate sia le versioni cartacee che quelle digitali delle suddette cartelle dei pazienti che hanno dato esplicito consenso all’ utilizzo dei propri dati; i dati emersi sono stati raccolti in un foglio excel in cui per ogni paziente sono stati presi in considerazione rispettivamente: nome, cognome, sesso, età, tipo di malattia infiammatoria cronica intestinale, eventuale presenza di comorbidità, nome e classe di appartenenza di farmaco biologico utilizzato, data d’inizio della terapia biologica, durata della terapia, se è stata effettuata oppure no ottimizzazione, causa della sospensione, primo valore della calprotectina post induzione e ultima valore pre sospensione, responso endoscopico alla sospensione e outcome alla sospensione. Per verificare la validità dell’ipotesi che il valore della prima calprotectina possa essere correlata ad una prognosi di remissione o meno, è stato utilizzato il test statistico di Mann-Whitney.

(36)

Risultati:

I casi studiati sono stati in totale 46; di questi, 22 avevano interrotto terapia con Infliximab, 14 con Adalimumab e 10 con Vedolizumab. Abbiamo scelto questi 3 farmaci perché sono quelli più comunemente usati nella terapia biologica delle malattie infiammatorie croniche intestinali, restringendo così il campo di osservazione e mirando ad avere risultati con una maggiore attendibilità e minore dispersione. Ne è quindi risultato che il 48 % del totale abbia utilizzato Infliximab, il 30% Adalimumab e il 22 % Vedolizumab come riportato nella sottostante tabella.

Tipo di Farmaco Biologico usato

Casi esaminati Percentuale Sul totale Infliximab 22 48% Adalimumab 14 30% Vedolizumab 10 22% Totale 46 100% Tabella 1

Siamo poi andati ad indagare i motivi che hanno portato alla sospensione dei suddetti farmaci biologici : su 46 casi abbiamo riscontrato 7 complicanze (il 15 % dei casi, divise tra complicanze

(37)

infettive, oncologiche, nefrologiche o allergiche), 29 casi (63%) di mancata risposta, perdita di risposta o parziale risposta, e 10 casi (22%) di remissione duratura (da almeno 2 anni) di malattia (vedi tabella sotto).

Motivo sospensione

Casi

riscontrati

% sul

totale

%

relativa

Complicanze 7 15% Complicanze infettive 2 4,3% 28,5% Complicanze oncologiche 2 4,3% 28,5% Reazioni infusionali 2 4,3% 28,5% Complicanze nefrologiche 1 2,1% 14,5% No Risposta 29 63%

Mancata risposta primaria

Perdita di risposta secondaria Mancata risposta endoscopica

ma remissione clinica Remissione Remissione completa 6 20 3 10 10 13% 43,5% 6,5% 22% 22% 21% 69% 10% Totale 46 100 Tabella 2

(38)

È interessante notare come si distribuiscano i valori appena riportati in base al farmaco biologico utilizzato: si è visto infatti che tra i 7 casi di complicanze avute, 5 erano pazienti che avevano utilizzato Infliximab, 1 Adalimumab e 1 Vedolizumab; tra i 29 casi di non risposta invece i pazienti che avevano assunto Adalimumab erano 12, quelli che avevano assunto Infliximab 9 e Vedolizumab 8; infine tra le 10 remissioni abbiamo riscontrato 8 remissioni da Infliximab, 1 da Adalimumab e 1 da Vedolizumab; da questi dati emerge con evidenza come i pazienti in terapia con Infliximab abbiano avuto tassi di remissione più alti rispetto rispetto agli altri 2 biologici; Adalimumab e Vedolizumab hanno invece dimostrato un tasso di mancata risposta primaria e secondaria maggiore rispetto ad Infliximab (vedi tabella)

(39)

Motivo sospensione Infliximab Vedolizumab Adalimumab Complicanze Infettive Oncologiche Reazione infusionale Nefrologica No risposta

Primary non responder Mancata risp. Secondaria

Risposta clinica ma non endoscopica Remissioni Remissioni complete 5 2 1 1 1 9 3 5 1 8 1 0 1 0 0 8 2 5 1 1 1 1 0 0 0 12 1 10 1 1 Tabella 3

Siamo poi passati ad analizzare l’outcome dopo la sospensione del farmaco biologico, ossia l’obiettivo primario del nostro studio; su 46 pazienti ben 17 hanno avuto necessità di un intervento chirurgico; 8 sono stati i pazienti che hanno effettuato switch (ossia il passaggio da un farmaco biologico ad un altro con medesimo meccanismo d’azione); di questi ben 7 sono stati inefficaci e solo 1 efficace; i pazienti che invece hanno effettuato swap (ossia passaggio da un farmaco biologico ad un altro appartenente ad un’altra classe con differente meccanismo d’azione) sono stati 9, di cui 5 sono stati efficaci e 4 inefficaci; abbiamo avuto 2 pazienti inviati a valutazione

(40)

oncologica e 10 pazienti che sono andati in remissione di malattia. Un primo dato che emerge in maniera netta è come lo swap risulti efficace e conduca a remissione in una percentuale di casi molto superiore rispetto a quanto non faccia lo switch; gli switch efficaci sono stati infatti il 12,5% dei totali mentre gli swap efficaci sono stati il 55%, segno di quanto, in caso di terapia inefficace, cambiare target e meccanismo d’azione del farmaco usato, possa essere un’opzione preziosa. Siamo poi andati ad analizzare nei casi sopra descritti, come fossero le distribuzioni quantitative dei malati di morbo di Crohn e di colite ulcerosa. È emerso che tra i 17 casi avviati alla chirurgia, 9 erano casi di Crohn e 8 di colite ulcerosa, tra i 7 switch inefficaci 4 erano casi di Crohn e 3 di colite ulcerosa, l’unico caso di switch efficace era un caso di colite ulcerosa; tra gli swap inefficaci 2 erano i casi di Crohn e 2 quelli di colite ulcerosa e dei 5 casi di swap efficaci 3 erano Crohn e 2 colite ulcerosa.; infine i 10 casi di remissione erano divisi in 5 casi di morbo di Crohn e 5 coliti ulcerose. Da questi dati si nota come nei vari sottogruppi, creati in base all’outcome avuto, le distribuzioni tra i 2 tipi di malattia infiammatoria cronica intestinale siano pressochè uguali, segno di come questo non sia un fattore prognostico attendibile per un’eventuale outcome piuttosto che un altro. (vedi tabella).

(41)

Outcome pz con

biologico sospeso Numero casi M.di Crohn Colite ulcerosa

Intervento chirurgico 17 9 8 Valutazione oncologica 2 1 1 Switch inefficaci 7 4 3 Switch efficaci 1 0 1 Swap inefficaci 4 2 2 Swap efficaci 5 3 2 Remissione malattia 10 5 5 Totale 46 24 22 Tabella 4

È stata inoltre valutata la distribuzione nei vari sottogruppi dei 3 farmaci presi in esame. Dei 17 casi avviati alla chirurgia 4 pazienti avevano sospeso terapia con Infliximab, 6 con Adalimumab e 7 con Vedolizumab. Le 2 valutazioni oncologiche che hanno necessitato di valutazioni specialistiche, 1 era un Infliximab e 1 Vedolizumab. I 7 switch inefficaci risultano 5 Infliximab (da Inflectra a Remicade) e 2 Adalimumab (da Adalimumab a Inflectra); l’unico switch efficace

(42)

risulta un Infliximab (da Inflectra a Remicade), i 4 swap inefficaci risultano divisi tra 3 Adalimumab e 1 Vedolizumab, mentre i 5 swap efficaci si dividono tra 3 casi trattati con Infliximab (swap a Entyvio) e 2 con Adalimumab (swap a Entyvio). Infine le 10 remissioni si dividono in 8 casi in terapia con Infliximab, 1 con Vedolizumab e 1 con Adalimumab. Da questi dati emerge che i pazienti trattati con Infliximab hanno avuto una percentuale di remissione maggiore rispetto a quelli trattati con gli altri 2 farmaci, il Vedolizumab è il farmaco che nel nostro studio ha condotto con più frequenza ad un successivo intervento chirurgico mentre Adalimumab è il farmaco che ha portato con più frequenza allo swap inefficace. La tabella sottostante mostra i dati appena descritti.

Outcome pz con

biologico sospeso Infliximab Adalimumab Vedolizumab

Intervento chirurgico 4 6 7 Valutazione oncologica 1 0 1 Switch inefficaci 5 2 0 Switch efficaci 1 0 0 Swap inefficaci 0 3 1 Swap efficaci 3 2 0 Remissione malattia 8 1 1 Totale 22 14 10 Tabella 5

(43)

Altro obiettivo del nostro studio è stato valutare quanti dei pazienti studiati abbiano ottimizzato la terapia; per ottimizzazione intendiamo un adeguamento della dose rispettivamente a 40 mg/sett per Adalimumab, 5mg/kg per Infliximab e 300 mg/mese per Vedolizumab; ne è risultato che su 46 pazienti, 12 hanno ottimizzato con una percentuale quindi del 26%. Di questo 26% siamo poi andati a valutare l’outcome, confrontandolo percentualmente con l’outcome del numero totale dei pazienti studiati e con l’outcome dei pazienti che non avevano ottimizzato. Abbiamo posto particolare attenzione al dato delle remissioni per evincere se l’ottimizzazione potesse condurre o meno a un quadro di remissione con una percentuale maggiore rispetto ai non ottimizzati. Dei 12 casi di ottimizzazione, 5 si sono poi avviati all’intervento chirurgico, 1 è stata la valutazione oncologica, 1 lo switch inefficace, 2 gli swap efficaci e 3 le remissioni. Guardando come detto in particolare il dato sulle remissioni ne è risultata una percentuale del 25% contro un 22% dei pazienti totali e un 20% dei pazienti che non avevano ottimizzato. È risultato quindi un lieve incremento dell’indice di remissione per i pazienti ottimizzati che tuttavia non risulta numericamente abbastanza rilevante da trarre una conclusione definitiva. Nella tabella sottostante sono riportati i suddetti dati.

(44)

Tabella 6

Il nostro studio poi si è concentrato sulle rilevazioni della prima calprotectina post induzione, ipotizzando che tale valore potesse essere predittivo di remissione. Si è calcolata la media tra i valori della prima calprotectina post induzione di tutti i pazienti che poi sono andati effettivamente in remissione e l’abbiamo confrontata con la media della prima calprotectina post induzione di tutti gli altri pazienti che non sono poi andati in remissione.

Outcome pz con

biologico sospeso Pazienti ottimizzati % Pazienti ottimizzati Pazienti non ottimiz. %Pz non ottimiz. Intervento chirurgico 5 42% 12 35% Valutazione oncologica 1 8% 1 3% Switch inefficaci 1 8% 6 18% Switch efficaci 0 0% 1 3% Swap inefficaci 0 0% 4 12% Swap efficaci 2 17% 3 9% Remissione malattia 3 25% 7 20% Totale 12 100% 34 100%

(45)

La differenza tra le due medie di calprotectina post induzione è risultata essere pari a 318 dato dalla sottrazione tra 475 mg/kg (nei pazienti che non sono stati sospesi per remissione) – 175 mg/kg (nei pazienti che sono stati sospesi per remissione). Il valore è rilevante e dotato di significatività statistica secondo il test di Mann-Whitney: come illustrato dal grafico sottostante la differenza tra le 2 medie è significativamente diversa con una probabilità pari a p< 0,001. Dal nostro studio quindi emerge una correlazione tra il primo valore di calprotectina post induzione e il successivo outcome di remissione.

(46)

Figura 1

(47)

Abbiamo infine ipotizzato una correlazione tra l’inizio precoce della terapia biologica e un possibile outcome di remissione; siamo risaliti alla data della diagnosi di malattia infiammatoria cronica intestinale dei nostri pazienti e abbiamo calcolato la media di anni trascorsi dalla diagnosi stessa all’inizio della terapia biologica. Abbiamo diviso i nostri pazienti in 2 sottogruppi, il primo includeva tutti quelli andati in remissione, il secondo tutti quelli non andati in remissione; siamo quindi risaliti a un valore medio di anni per ciascun sottogruppo e li abbiamo confrontati; la differenza tra il numero di anni medio trascorso dalla diagnosi all’inizio della terapia biologica nei pazienti non andati in remissione e il numero di anni medio trascorso dalla diagnosi all’inizio della terapia biologica nei pazienti poi andati in remissione, è risultata essere di 1,5 anni (data dalla sottrazione di 10 anni per i pazienti non andati in remissione e 8,5 anni nei pazienti andati in remissione). Il risultato non è rilevante come confrontato da una mancata correlazione statistica al test di Mann-Whitney. Dal nostro studio non emerge quindi una correlazione diretta netta tra l’inizio precoce di terapia biologica e un possibile outcome di remissione di malattia.

(48)

Discussione:

L’uso della terapia biologica, e in particolare degli anti TNF, si è diffusa largamente nelle ultime 2 decadi grazie alla sua capacità di modificare la storia naturale delle malattie infiammatorie croniche intestinali. Dati estrapolati sia da studi sperimentali che da casi real life, mostrano come gli anti TNF, includendo Infliximab e Adalimumab, siano capaci d’indurre e mantenere la remissione clinica e di ridurre la necessità di fare ricorso all’intervento chirurgico e all’ospedalizzazione (43); inoltre la terapia biologica porta ad una riduzione dei costi diretti ed indiretti associati a queste malattie croniche. Sfortunatamente i farmaci biologici non sono risolutivi per tutte le malattie infiammatorie croniche intestinali; gli effetti collaterali possono essere severi e arrivare a minacciare la vita del paziente; in particolare si è posto l’accento sugli eventi infettivi e l’immunogenicità con la possibilità di formazione di anticorpi anti TNF con conseguente perdita di risposta al farmaco. Per quanto riguarda gli anti TNF i dati in letteratura riportano una percentuale di primary non response (valutata non prima delle 8-12 settimane di terapia) pari al 20-40% di pazienti studiati in trial clinici, mentre del 10-20% in real life (44). Per quanto riguarda invece la perdita di risposta secondaria, situazione clinica comune, abbiamo un’incidenza compresa tra il 23% e il 46% a 12 mesi dall’induzione del farmaco (45); questi dati evinti da uno studio sviluppato da Lopetuso, Gerardi e Papa, sono in linea con le percentuali riscontrate nel nostro

(49)

studio, dove abbiamo riscontrato un dato di primary non response del 13% e una percentuale di secondary non response del 43%. Riguardo alla terapia con Infliximab, uno studio di Lemann (46) , prese in esame 113 pazienti affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali steroide dipendenti, alcuni di loro ricevettero come terapia Infliximab ed altri placebo; la percentuale di remissione si rivelò nettamente maggiore nei pazienti sottoposti a terapia biologica effettiva rispetto al placebo (47), con una percentuale del 75% alla settimana 12 e del 40% alla settimana 52.

Per quanto riguarda Adalimumab lo studio Gram attestava una remissione del 19% alla settimana 26 e del 29% alla settimana 56; questi dati concordano solo in parte con i nostri risultati in cui il tasso di remissione totale per terapia biologica si attesta al 22%, mentre per quanto riguarda nello specifico Infliximab raggiunge il 36% (8 remissioni su 22), e per Adalimumab il 7 % (1 remissione su 14). D’altra parte nella nostra casistica abbiamo incluso solo i pazienti che hanno sospeso i farmaci biologici e non tutti quelli trattati con essi, come generalmente viene fatto per valutare l’efficacia di un farmaco. Di conseguenza è normale che il nostro dato sia nettamente inferiore rispetto ai dati di efficacia (anche con l’endpoint di remissione clinica) presenti in letteratura.

Per quanto riguarda Vedolizumab, altro farmaco oggetto del nostro studio, sono stati riportati tassi di remissione clinica tra il 24% e il 36% a 12 mesi in pazienti con rettocolite ulcerosa e morbo di Crohn (48)

(50)

(49). Si è visto inoltre che un fattore predittivo negativo per l’eventuale remissione (50), era il fatto che il paziente fosse stato precedentemente trattato con anti TNF (51). La percentuale di remissione concorda con le nostre percentuali totali di remissione ottenute; se però andiamo ad analizzare i singoli dati ottenuti per Vedolizumab notiamo che il tasso di remissione è nettamente più basso (10%) in contrasto con lo studio appena citato; il fatto invece che la precedente esposizione ad anti TNF sia un fattore predittivo di mancata remissione, trova riscontro in maniera chiara: nei casi del nostro studio in cui si era effettuato uno swap a Vedolizumab a seguito di una terapia con anti TNF, non si è mai infatti avuta remissione. I nostri risultati sono poi stati confrontati con quelli di un altro studio detto Gain study (52); in quest’ultimo si prendeva in considerazione i pazienti in terapia con Infliximab che nel corso del tempo avevano sviluppato perdita di risposta e a seguito della quale erano passati ad una terapia con Adalimumab (53); in questi pazienti il tasso di remissione era stato del 22 %; siamo andati a considerare nel nostro studio tutti quei casi che allo stesso modo hanno sviluppato perdita di risposta ad Infliximab e sono passati ad Adalimumab (54); i casi in questione sono stati 5 e solo in un caso si è poi avuta remissione; la percentuale di successo è stata quindi del 20% perfettamente in linea con il Gain study sopracitato. Tutto questo ci porta quindi a concludere che Adalimumab (55) possa essere considerato come una valida opzione di seconda linea di trattamento in caso di perdita di risposta ad Infliximab (56).

(51)

Abbiamo poi preso in considerazione un altro studio denominato CHARM (57) e lo abbiamo confrontato con i nostri dati; in questo studio veniva messo in evidenza un più alto tasso di remissione alle settimane 26 e 56 in pazienti in terapia biologica che avevano una durata di malattia inferiore ai 2 anni rispetto a quelli che avevano una durata di malattia superiore ai 5 anni. Abbiamo selezionato nel nostro studio i casi con durata di malattia inferiore ai 2 anni (7 casi) e quelli superiori ai 5 anni (12 casi); in entrambi i sottogruppi si sono riscontrate 2 remissioni portando quindi ad un tasso della stessa del 28,5% per il primo gruppo e del 16,6% nel secondo gruppo; i dati si sono quindi mostrati in linea con lo studio CHARM; tuttavia abbiamo proseguito dividendo i nostri pazienti in 2 sottogruppi, il primo comprendente i pazienti poi andati in remissione e il secondo con quelli non andati in remissione; abbiamo calcolato per ogni sottogruppo il tempo medio in anni trascorso tra la diagnosi di malattia infiammatoria cronica intestinale e l’inizio della terapia biologica; il risultato è stato una media di 8,25 anni per i pazienti andati in remissione e 10 anni per quelli non andati in remissione; la differenza non risulta significativa ed è quindi in linea con la teoria scientifica attuale che ritiene ancora non sufficienti le prove a supporto dell’ipotesi che un trattamento precoce con farmaci biologici possa portare con maggior probabilità ad un outcome di remissione (58).

Siamo poi andati ad approfondire in letteratura il ruolo della calprotectina nella valutazione delle malattie infiammatorie croniche

(52)

intestinali per confrontarlo con i risultati ottenuti nel nostro studio (59) (60). È emerso un numero sempre maggiore di studi che prendono in esame questo argomento; in particolare in uno studio condotto in Giappone (61) si andava a valutare la possibile utilità di questo marcatore come indice predittivo precoce di remissione post induzione in pazienti con malattie infiammatorie croniche intestinali; 31 pazienti venivano divisi in 2 sottogruppi, il gruppo responder alla terapia e il gruppo non responder; si valutava quindi la variazione nel tempo della calprotectina nei 2 gruppi facendo emergere i seguenti risultati riportati nei grafici sottostanti:

(53)

Come emerge dal primo grafico, nei primissimi giorni a seguito del trattamento si ha un valore di calprotectina più alto nei pazienti che poi si dimostreranno non responder rispetto ai responder; questo dato concorda con quanto rilevato nel nostro studio in cui si riscontra un primo valore di calprotectina post induzione mediamente più basso per i pazienti che poi andranno in remissione; tuttavia lo studio giapponese sopracitato ha mostrato anche come la calprotectina mostri fattori di variabilità molto elevati e rilevanti (62); infatti campioni analizzati in momenti diversi della giornata e persino 2 campioni prelevati nello stesso momento, possono mostrare valori di calprotectina anche molto diversi tra loro (63); si è visto soprattutto che tale variabilità è particolarmente rilevante nella fase precoce post trattamento, soprattutto nelle prime 2 settimane (64), tendendo poi a ridursi dalla quinta-sesta settimana in poi. Si ribadisce quindi l’utilità della calprotectina come metodo alternativo alla colonscopia (seppur molto meno affidabile) nella valutazione dello stato infiammatorio intestinale, ma se ne confermano i limiti di attendibilità soprattutto nella fase precoce post induzione (65).

Da altri 2 studi denominati ACT1 e ACT2 (66), condotti su 364 pazienti affetti da malattie infiammatorie croniche intestinali, è emerso come alla settimana 8 i pazienti trattati con Infliximab abbiano avuto una risposta clinica del 69% contro il 37% di quelli trattati con placebo; alla settimana 54 questa differenza si manteneva con un 46% di risposta clinica nei pazienti in terapia con farmaco biologico contro il 20% di

(54)

quelli trattati con placebo (67); un altro studio condotto sugli stessi pazienti degli studi ACT1 e ACT2, mostra la concentrazione sierica media di Infliximab rispettivamente nei pazienti responder e nei pazienti non responder; nei pazienti responder alla settimana 8 di terapia la concentrazione sierica del farmaco è stata di 35 µg/ml, mentre nei non responder è stata di 25 µg/ml. Alla settimana 30 tale differenza è stata ancora più evidente con 5 µg/ml dei responder contro 1,2 µg/ml dei non responder. Questo si è ipotizzato essere dovuto ad una maggiore immunogenicità verso il farmaco da parte dei soggetti non responder, fattore che si è dimostrato essere predittivo verso un possibile outcome di remissione. Con lo stesso obiettivo uno studio condotto a Boston (68) su 3483 pazienti con malattie infiammatorie croniche intestinali in terapia con Infliximab, ha notato come la concentrazione di farmaco nel sangue fosse significativamente superiore in quei pazienti andati in remissione rispetto a quelli non in remissione ( 3,1 µg/ml di media contro 0,9 µg/ml); in particolare si è visto che livelli sierici di farmaco >2 µg/ml sono un fattore attendibile di predizione di remissione clinica ed endoscopica.

Un altro studio (69) condotto a Nashville ha preso in considerazione l’outcome di 29 pazienti con malattie infiammatorie croniche intestinali in terapia con Infliximab e con un’età media di 14 anni. In 18 pazienti, ossia nel 62% dei casi, non si è avuto risposta; di questi il 67 % ha avuto mancata risposta primaria o perdita di risposta secondaria, mentre il 33 % ha sviluppato reazioni avverse; questi dati concordano con quelli

(55)

rilevati dal nostro studio in cui nel 63% dei casi abbiamo avuto mancata risposta primaria o perdita di risposta secondaria; per quanto riguarda le reazioni avverse nel nostro studio abbiamo registrato un 15 %, dato significativamente inferiore rispetto al 33% dello studio di Nashville. Tale divergenza diviene però meno evidente se all’interno del nostro studio consideriamo solo i dati relativi ad Infliximab: in questo modo le reazioni avverse risultano 5 su 22 casi totali con una percentuale del 23% più vicina al 33% rilevato dallo studio di Nashville; un altro motivo di discrepanza tra i 2 risultati può essere dovuto alla maggior suscettibilità infettiva di un campione molto giovane di popolazione come quello preso in esame nello studio di Nashville. Altro dato invece perfettamente in linea con tale studio è la percentuale di pazienti che come outcome hanno avuto l’intervento chirurgico: 37% nel nostro studio e 41% nello studio di Nashville. Nella tabella sottostante sono riportati i dati appena citati.

(56)

Tabella 7

Inoltre uno studio (70) condotto all’IBD centre di Londra ha preso in considerazione l’outcome di 50 pazienti con malattie infiammatorie croniche intestinali e in terapia con Vedolizumab e di cui 37 avevano la malattia in fase attiva; di questi 37 alla settimana 14 il 41% non ha risposto alla terapia e il 38% è andato in remissione; tali dati non concordano con le nostre rilevazioni; tuttavia il nostro studio ha preso in considerazione pazienti che avevano sospeso l’assunzione di farmaci biologici e a tal proposito nello stesso studio alla settimana 30, ben 31 pazienti su 50 hanno sospeso l’assunzione di Vedolizumab; di questi un 20% aveva sospeso per mancata risposta primaria, il 3% per lo sviluppo di reazioni avverse e il 25% (4 casi su 31) per intervento chirurgico; tali datti appaiono molto più in linea con le nostre rilevazioni che mostrano un 13% di mancata risposta primaria, un 4,3% di reazioni avverse e un 37% di interventi chirurgici.

(57)

Un’ultima considerazione che può essere fatta è quella a riguardo della decisione di quale tra Infliximab, Adalimumab e Vedolizumab usare come terapia di prima linea nella terapia biologica delle malattie infiammatorie croniche intestinali. Il tema è stato affrontato in un articolo (71) di Langerberg in cui si pubblicavano i dati relativi al tasso di remissione di ognuno di questi 3 farmaci ad un anno dall’inizio della terapia. I risultati sono esposti nella figura sottostante:

(58)

Come si può evincere dal grafico, i 3 farmaci studiati hanno mostrato tassi di remissione praticamente sovrapponibili e del tutto in linea coi dati da noi raccolti nel nostro studio. Lo studio Gemini tuttavia ha mostrato come Vedolizumab si faccia preferire agli altri 2 in quanto a sicurezza e tollerabilità; i dati del nostro studio con 1 sola complicanza oncologica contro le 10 di complicanze totali di Infliximab, confermano tale riscontro; tuttavia nel nostro studio Infliximab ha mostrato un tasso di remissione molto più alto rispetto a Vedolizumab, dato che trova però spiegazione dal maggior utilizzo di Infliximab nel nostro studio, come farmaco di prima liena nella terapia biologica. A causa di questa maggior tollerabilità Vedolizumab è consigliabile come farmaco di prima scelta nella terapia biologica per i pazienti particolarmente a rischio quali gli anziani ( che presentano un 11% di complicanze infettive e un 3% di complicanze tumorali), i pazienti pediatrici (maggiormente esposti a rischi quali immunodepressione e sviluppo di linfomi) o per pazienti che abbiano una storia di neoplasia alle spalle e per cui gli anti TNF rappresenterebbero un aumentato rischio di recidiva.

(59)

Conclusioni:

Molti sono i progressi fatti nella comprensione delle malattie infiammatorie croniche intestinali, ma questo studio mostra come siano molti quelli che dovranno ancora essere fatti.

L’uso dei farmaci biologici ha portato molti benefici e segnato un grosso passo in avanti nella cura di queste patologie, portando a tassi di remissione prolungata non indifferenti che nel nostro studio hanno raggiunto il 22%; le complicanze e le perdite di risposta sono tuttavia frequenti e tra le armi che possiamo utilizzare, dai nostri dati si è dimostrato più efficace il ricorso allo swap rispetto allo switch.

Il tipo di malattia infiammatoria cronica intestinale non si è rivelato un fattore statisticamente rilevante per l’outcome del paziente mentre per quanto riguarda la terapia biologica, abbiamo riscontrato tassi di remissione più alti nei pazienti che avevano intrapreso la terapia con Infliximab. Inoltre i dati hanno mostrato un lieve incremento di tasso di remissione nei pazienti che hanno ottimizzato la terapia.

Un dato rilevante è stato il fatto che i pazienti in cui il farmaco è stato sospeso per remissione clinica prolungata hanno mantenuto la remissione anche dopo la sospensione, incoraggiando quindi questa pratica che porterebbe ad un netto risparmio in termini di costi legati ai farmaci.

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Infine il valore della prima calprotectina post induzione con biologico ha mostrato nel nostro studio una correlazione significativa con outcome di remissione, mentre il numero di anni medio trascorsi tra la data di diagnosi e l’inizio della terapia biologica, è risultato leggermente inferiore per quei pazienti poi andati in remissione. I dati raccolti in letteratura mostrano come alcuni di questi dati concordino con studi precedentemente svolti, mentre per altri siano necessari ulteriori approfondimenti.

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Indice delle tabelle e delle figure

Tabella 1 ... 31 Tabella 2 ... 32 Tabella 3 ... 34 Tabella 4 ... 37 Tabella 5 ... 39 Tabella 6 ... 51 Figura 1... 41 Figura 2... 47 Figura 3………52

Riferimenti

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