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Il ruolo della dieta mediterranea nella sindrome metabolica

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Academic year: 2021

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Corso di laurea specialistica/magistrale in scienze della nutrizione umana TESI DI LAUREA

RUOLO DELLA DIETA MEDITERRANEA NELLA SINDROME

METABOLICA

RELATORE: Chiar.mo prof. Giancarlo Demontis CANDIDATO: Paolo Trovarelli

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INDICE

RUOLO DELLA DIETA MEDITERRANEA NELLA SINDROME METABOLICA ... 1

Introduzione ... 6

1.1 Storia, curiosità e origini ... 8

1.2 Il modello della piramide alimentare ... 10

1.3 CIBI DA ASSUMERE AD OGNI PASTO PRINCIPALE ... 12

1.4 FRUTTA E VERDURA ... 13

1.5 CEREALI ... 16

1.6 OLIO DI OLIVA ... 17

2 CIBI DA ASSUMERE QUOTIDIANAMENTE ... 18

2.1 OLIVE, FUTTA SECCA E SEMI ... 18

2.2 SPEZIE, ERBE AROMATICHE, CIPOLLE E AGLI ... 19

2.3 LATTE ... 19

2.4 YOGURT ... 20

3 CIBI DA ASSUMERE SETTIANALMENTE ... 20

3.1 PRODOTTI CASEARI ... 21

3.2 CARNI BIANCHE ... 21

3.3 CARNI ROSSE ... 22

3.4 PESCE E FRUTTI DI MARE ... 22

3.5 PATATE ... 23 3.6 UOVA ... 23 3.7 LEGUMI ... 24 3.8 DOLCI ... 25 4 BEVANDE ... 25 4.1 ACQUA ... 25 4.2 VINO ... 26 5 SINDROME METABOLICA ... 27

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5.1 DEFINIZIONE ... 27

5.2 POSSIBILI FATTORI EZIOPATOGENETICI: GENOTIPO FLORIDO, L’INSULINO-RESISTENZA E L’IPOTESI LIPOCENTRICA ... 31

4.3 L’INSULINO RESISTENZA E L’IPOTESI LIPOCENTRICA ... 32

5.4 TESSUTO ADIPOSO; INSULINO-RESISTENZA, LEPTINA, RESISTINA, ADIPONECTINA ... 34

6 Associazione tra sindrome metabolica e dieta Mediterranea ... 36

6.1 EFFETTI GENERALI DELLA DIETA MEDITERRANEA ... 36

6.2 AZIONI SPECIFICHE DELLA DIETA MEDITERRANEA ... 37

6.3ASCORBATO ... 37 6.4 IDROSSITIROSOLO ... 38 6.5 QUERCETINA ... 38 6.6 RESVERATROLO ... 38 6.7 TOCOFEROLO ... 39 6.8 ANTOCIANINE ... 39 6.9 CATECHINE ... 40

7 ESEMPIO DI APPROCCIO PRATICO CON DIETA MEDITERRANEA NELLA SINDROME METABOLICA ... 40

8 “SEVEN COUNTRIES STUDY”: UN BILANCIO DOPO 60 ANNI ... 42

Il concetto di “Dieta Mediterranea” nasce in larga parte dal “SEVEN COUNTRIES STUDY” (SCS), cominciato alla fine degli anni 50 del secolo scorso, ed ancora in corso oggi (70). ... 42

9 CONCLUSIONI ... 50

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4 Cara mamma,

Questo lavoro è dedicato a te ed è frutto di quei sacrifici che tu mi hai sempre insegnato ad affrontare. Saresti molto contenta di vedermi discutere una nuova tesi, ma farò come se tu ci fossi e immaginerò di vederti piangere come facesti la prima volta.

Ti ringrazio per avermi permesso e per permettermi ancora di fare tutto questo. Un grande abbraccio.

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5 Ringraziamenti

Un ringraziamento speciale al mio relatore, nonché professor. Demontis Giancarlo che ha saputo darmi gli stimoli giusti con professionalità unita a tanta umanità ed elevata comprensione.

Ringrazio il dr. Paolo Pifferi che mi ha insegnato ad avere una visione equilibrata della gestione dell’alimentazione e quindi dei pazienti durante il tirocinio.

Ringrazio anche i compagni di studio che mi hanno sostenuto con allegria e confronti costruttivi quasi quotidianamente.

Un ringraziamento va alla mia compagna per la forza che sa trasmettermi anche per portare a termine questo percorso di studi.

Non posso dimenticare di ringraziare mia figlia che a soli sei anni spesso mi è stata accanto con grande pazienza mentre portavo avanti lo studio.

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Introduzione

Le numerose evidenze fornite da studi scientifici indicano l’effetto benefico per il mantenimento dello stato di salute del regime alimentare nonché uno stile di vita salutare; in questo contesto si inserisce il ruolo fondamentale del nutrizionista, capace di promuovere un’educazione alimentare adeguata per le specificità di ogni soggetto che deve essere compreso nella sua complessità biologica.

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7 Tutti gli elementi cruciali per il, mantenimento dello stato di salute sono ben rappresentati nel regime alimentare della dieta Mediterranea, sia per le caratteristiche che per la variabilità dei cibi che le appartengono.

La dieta Mediterranea prevede infatti un approccio equilibrato per le esigenze nutrizionali e biologiche dell’uomo, impattando in modo molto positivo anche sull’ambiente poiché è nota la sua buona ecosostenibilità, un elemento da non trascurare nell’ottica del mantenimento dello stato di salute.

Questa tesi sviluppa l’importanza dell’adesione ad un profilo nutrizionale specifico per ottenere effetti postivi sulla salute e prevenire le conseguenze della sindrome metabolica, ma, ovviamente, non si può prescindere da una regolare attività fisica come aspetto fondamentale dello stile di vita che il nutrizionista deve promuovere. La prevalenza della sindrome metabolica per la popolazione nell’area di Lucca (Lu) è del 18% nelle donne e 15% negli uomini ed è incrementata dal 3% nei soggetti di età tra 20-29 anni al 25% nei soggetti oltre i 70 anni (1); applicando questa prevealenza stimata alla popolazione adulta italiana si può stimare che 3,6 milioni di donne e 3 milioni di uomini hanno la sindrome metabolica (e vista l’elevata incidenza dell’obesità infantile è destinata ad aumentare se non si interviene) (1). La sindrome metabolica è strettamente correlata con scarsa attività fisica, con sedentarietà oltre che con un apporto nutrizionale sbilanciato verso zuccheri semplici e grassi.

Trattando questi temi non si può prescindere dal contesto storico in cui ci troviamo, ovvero, a partire dal secondo dopoguerra, lo sviluppo del settore agroalimentare, dell’industria, della tecnologia, delle comunicazioni, dell’urbanizzazione, la maggiore disponibilità di cibo, la capacità di trasformare e conservare gli alimenti, i passaggi da un’economia rurale a un’economia industriale, hanno lasciato profonde tracce nei consumi e nei modelli alimentari. Il progressivo e radicale cambiamento delle abitudini alimentari con sconvolgimento di quello che era l’equilibro nutrizionale originario ha spinto le popolazioni dei paesi occidentali ad adottare quella che viene definita “western diet”.

Nei giorni nostri, complice la crisi economica a livello mondiale, si è diffusa la cultura del “junk food”, del cibo spazzatura ipercalorico e appetitoso: una sola porzione fornisce circa il 30% dell’apporto calorico giornaliero e contiene circa la metà del fabbisogno dei grassi di un individuo. Il vantaggio è, oltre al gusto estremo, soprattutto quello del basso costo, che fa di questi cibi una scelta facile in tempi di crisi economica.

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1.1 Storia, curiosità e origini

Lo stato di salute di un individuo o di un’intera popolazione è il risultato delle interazioni tra fattori genetici e numerosi fattori ambientali: tra questi la nutrizione può essere considerata come quello di considerevole importanza (2) , dal momento che contrariamente ai fattori genetici e a molti fattori ambientali è modificabile.

La Dieta Mediterranea è, come suggerisce l'etimologia della parola (dal greco diaita), una regola di vita, un modus vivendi, un elemento relazionale e culturale che rafforza il senso di appartenenza e di condivisione tra i popoli che vivono nel bacino del Mediterraneo. Perché il "mangiare insieme", tipico della Dieta Mediterranea, non significa semplicemente consumare un pasto, ma vuol dire rafforzare il fondamento delle relazioni interpersonali, promuovere il dialogo e la creatività, tramandare l'identità e i valori delle comunità.

Pane, pasta, verdure, legumi, frutta fresca e secca, ma anche carni bianche, pesce, latticini, uova, olio d'oliva e vino sono gli alimenti alla base della Dieta Mediterranea. Un modello alimentare sano ed equilibrato fondato prevalentemente su cibi di origine vegetale e sul loro consumo diversificato e bilanciato, che viene tramandato di generazione in generazione in sette diversi Paesi affacciati sul "Mare Nostrum". Numerosi studi scientifici hanno infatti dimostrato che la Dieta Mediterranea aiuta a prevenire le principali patologie croniche come

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9 quelle cardiovascolari, diabete, bulimia e obesità e, grazie al potere antiossidante dell'olio d'oliva unito al consumo di verdure, un mezzo importante nella prevenzione dei tumori. Il primo a definire la dieta Mediterranea fu Ancel Keys (nato a Colorado Springs nel 1904 e deceduto a Minneapolis nel 2004), biologo e fisiologo statunitense, il quale studiando l’epidemiologia delle malattie cardiovascolari, giunse a formulare ipotesi dell’influenza dell’alimentazione su tali patologie e ad individuare i benefici di un regime alimentare da lui stesso definito “dieta Mediterranea”. Già famoso come ideatore della ‘Razione K’, razione da combattimento individuale giornaliera introdotta negli Stati Uniti d’America nel 1942, nel corso della seconda guerra mondiale, nei primi anni ’50, a Roma per il primo “Convegno sull’alimentazione”, rimase affascinato dal dato della bassa incidenza di patologie cardiovascolari e di disturbi gastrointestinali nella regione Campania e nell’isola di Creta, e fu il promotore del primo studio pilota per chiarire tale mistero.

Prese in esame la popolazione di Nicotera, in Calabria, e nel 1962 si trasferì a Pioppi, villaggio di pescatori del comune di Pollica, nel Cilento, dove rimase per 28 anni, e insieme ad alcuni collaboratori (Martti Karvonen, Flaminio e Alberto Fidanza, Jeremiah Stamler) studiò l’alimentazione della popolazione locale.

Dalle anamnesi che estrapolò dalle interviste dei pazienti, emerse che nei paesi del sud Italia, viste le precarie condizioni economiche della popolazione, l’alimentazione era basata su cibi poveri come cereali integrali, legumi, frutta, verdura, pesce e pochissima carne. Dopo avere studiato lo stile alimentare del ceto medio della popolazione campana e calabrese, cominciò a sottoporre i suoi pazienti negli USA allo stesso stile alimentare, riscontrando una notevole riduzione di eventi mortali per patologie cardiovascolari, ma niente di paragonabile alle percentuali nell’Italia meridionale. Ipotizzò quale elementi chiave la qualità e le proprietà dei grassi impiegati, e in particolare quelli presenti nell’olio extravergine d’oliva, eleggendolo uno degli alimenti fondamentali per la prevenzione e la cura delle patologie cardiovascolari.

La Dieta Mediterranea, schematizzata dai nutrizionisti utilizzando la piramide alimentare, non ha solo una valenza nutrizionale, sociale e culturale. Grazie all'impiego di risorse naturali e di emissioni di gas serra poco intensivo (perché basata prevalentemente su alimenti vegetali), al rispetto della stagionalità dei prodotti, del territorio e della biodiversità (attraverso semine diverse e alla rotazione delle colture), la Dieta Mediterranea garantisce l'equilibrio tra la natura e l'uomo basato sul rinnovarsi delle risorse. È, in poche parole, un modello di dieta salubre sostenibile; uno dei modelli alimentari più sostenibili sia per l'ambiente che per la salute.

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10 Per tutti questi motivi, quindi per l’impatto positivo sulla salute e sulla vita di tutte le popolazioni del mondo, la dieta mediterranea è stata inserita nella lista ufficiale dell’UNESCO nell’autunno 2010 (3).

In realtà è riduttivo parlare di una sola ed unica tipologia di dieta mediterranea: di fatto, esistono diverse sfumature di questo modello dietetico, dovute al fatto che i vari paesi del bacino Mediterraneo differiscono per tradizioni religiose, culturali e situazioni economiche che a loro volta influenzano, spesso in maniera sostanziale, la sfera comportamentale e/o alimentare della dieta. Tra questi, l’aspetto che influenza profondamente il regime alimentare è rappresentato dalle tradizioni religiose, di cui ricorderò solo qualche esempio: i Musulmani non assumono carni di maiale e non bevono vino o altre bevande alcoliche, mentre i greci Ortodossi solitamente non consumano la carne di mercoledì e venerdì, ma possono comunque bere vino; gli Ebrei, invece, hanno il divieto di mangiare carne di maiale e crostacei, mentre non possono unire nello stesso pasto prodotti lattiero-caseari e carni, alle quali deve essere comunque tolta ogni traccia di sangue dell’animale; i Cattolici, infine, non possono mangiare carne durante il venerdì, divieto che si estende anche al mercoledì nel periodo della Quaresima.

1.2 Il modello della piramide alimentare

La rappresentazione in forma grafica del modello alimentare della dieta mediterranea, avvenuta per la prima volta nel 1995, può essere considerata come lo strumento che ha permesso la diffusione e la conoscenza a livello globale di questo regime nutrizionale. Questa raffigurazione assume la forma di una piramide: alla base troviamo tutti i gruppi di alimenti che devono essere consumati quotidianamente, mentre al vertice quelli da assumere occasionalmente, con moderazione (4)

Dal sei all’otto Luglio 2016, al fine di bilanciare l’interesse mondiale verso la dieta Mediterranea con l’aumento delle preoccupazione di carattere ambientale, IFMeD (international foundation of Mediterranean diet) ha lanciato una proposta di rappresentazione aggiornata della piramide della dieta mediterranea. Questa nuova ed aggiornata piramide si basa sui risultati dei più recenti studi epidemiologici, concernenti il ruolo di prevenzione della dieta mediterranea nei confronti di diversi tipi di malattie croniche, e di indagini scientifiche “nutrizionali” volte a esaminare gli effetti salutari del regime alimentare noto come dieta mediterranea (5; 4).

Questa nuova piramide alimentare è stata concepita come un modello alimentare piuttosto generale: al suo interno, ad esempio, non vengono indicati alimenti specifici da consumare, ma piuttosto categorie di cibi, così come viene consigliato soltanto il numero di porzioni per

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11 pasto e non la quantità della singola porzione; queste variabili sono state appositamente tralasciate in quanto il regime dietetico di ogni paese dell’area mediterranea è indissolubilmente legato al proprio contesto culturale, alla propria posizione geografica, alla propria situazione socio-economica e al buonsenso di ogni individuo (figura 1)

La piramide alimentare della dieta mediterranea fornisce tutti gli elementi per poter seguire un’alimentazione equilibrata: essa indica non solo le tipologie di alimenti da assumere, ma anche la frequenza con cui questi dovrebbero essere consumati. All’interno della piramide troviamo praticamente tutti i tipi di alimenti, che sono in grado di fornire un sufficiente apporto di tutti i nutrienti di cui l’organismo ha bisogno rispetto a chi segue un modello alimentare diverso: la differenza tra un’alimentazione sana e una non sana sta nella quantità in cui questi vengono consumati.

Alla base della piramide alimentare hanno sede gli alimenti di origine vegetale, che contribuiscono a fornire i nutrienti più importanti, ad apportare le sostanze protettive che contribuiscono a mantenere il benessere generale, a soddisfare il senso di sazietà e a mantenere una dieta bilanciata: questi sono gli alimenti da consumare in elevata quantità e in maniera più frequente; la maggior parte delle calorie assunte durante la giornata dovrebbe proprio derivare da questo tipo di alimenti. Nella parte superiore della piramide, invece, sono rappresentati i cibi di cui si dovrebbe fare un moderato consumo a causa del loro elevato contenuto di zuccheri e del loro elevato contenuto lipidico.

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12 Figura 1

1.3 CIBI DA ASSUMERE AD OGNI PASTO PRINCIPALE

I pasti nella dieta mediterranea assumono una notevole importanza, sottolineata anche dal fatto che la loro giusta composizione viene indicata all’interno dello schema della

piramide. I pasti principali dovrebbero essere composti soprattutto da verdure e cereali (cibi che possono essere consumati anche nell’arco della giornata), con delle modeste aggiunte di altri tipi di alimenti di origine vegetale, prodotti lattiero-caseari e altre fonti (6).

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1.4 FRUTTA E VERDURA

Per quanto riguarda la frutta, sono consigliate 2-3 porzioni al giorno; è indicato variare il tipo di frutta assunta scegliendo frutti colore e consistenza diversi (6).

Anche per la verdura sono consigliate 2-3 porzioni al giorno; per un’adeguata assunzione di vitamine e di minerali, è consigliabile consumare almeno una dose di verdura cruda e variarne la scelta tenendo conto del colore e della consistenza delle stesse (6).

Ai differenti colori dei vegetali corrispondono differenti contenuti di nutrienti:

 i vegetali di colore giallo-arancione (carote, pesche, caki, albicocche, pomodori, peperoni, banane, zucche, albicocche, arance, mandarini, meloni gialli, mango, ananas ecc.) sono ricchi di caotenoidi, flavonoidi, vitamina A, E, C

 I vegetali di colore giallo (limone, banana, ananas ecc.) sono ricchi di vitamine A, E, C,

 I vegetali di colore rosso sono ricchi di potassio, antocianine e licopene,  I vegetali di colore verde (broccoli, spinaci, carciofi, bietole, radicchio verde,

cicoria, rucola, prezzemolo, indivia, lattuga, kiwi ecc.) sono ricchi di carotenoidi, di luteina e di vitamina K e C

 I vegetali di colore bianco(aglio, cipolla, finocchi, sedano, cavolfiore, indivia, mele, pere, banane ecc.) contengono sostanze solforate, flavonoidi e procianidine,

 I vegetali di colore blu-viola (mirtilli, prugne, melanzane, radicchio) sono ricchi di antocianine e di polifenoli

Numerosi studi epidemiologici hanno mostrato come una dieta ricca in frutta e verdura sia associata ad una diminuzione di patologie cronico-degenerative e di quelle legate

all’invecchiamento (6; 7).

Frutta e verdura, infatti, oltre ad essere delle importanti fonti di vitamine, sostanze minerali e fibre, sono anche ricche di composti bioattivi, sostanze fitochimiche a spiccata attività antiossidante e antiinfiammatoria (8). Tali sostanze come la vitamina C e la E, elementi come il selenio, composti come flavonoidi, β-carotene e fitosteroli possono contribuire a prevenire alcuni processi coinvolti nella cancerogenesi, ad esempio proteggendo il DNA dal danno ossidativo (7) (che causa alterazione della sequenza nucleotidica alterando la funzionalità genica (9)), e nello sviluppo di malattie cardiovascolari, ad esempio inibendo il danno ossidativo nei confronti del colesterolo LDL (7) che nella sua forma ossidata agisce da

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14 precursore delle placche aterosclerotiche e da promotore per il distacco delle stesse (10). Molte delle sostanze bioattive presenti nella frutta e nella verdura hanno una struttura fenolica (figura 2). Queste molecole sono metaboliti secondari delle piante, nelle quali sono generalmente coinvolte nei meccanismi difensivi nei confronti delle radiazioni ultraviolette o degli attacchi patogeni. Questi composti, anche detti polifenoli, possono essere classificati in diversi gruppi a seconda del numero di anelli fenolici che contengono e del tipo di elementi che legano tali anelli (8). In questo modo si possono distinguere gli acidi fenolici (come l’acido clorogenico), gli stilbeni (come il trans-resveratrolo), i lignani e i flavonoidi (come la genisteina). I polifenoli sono stati oggetto, negli ultimi anni, di sempre più numerosi studi che hanno dimostrato i vantaggi che possono apportare alla salute dell’uomo: sono infatti in grado, in concentrazioni opportune, di inibire la proliferazione delle cellule tumorali (in vitro), di ridurre la vascolarizzazione e la secrezione di insulina (8; 11; 12).

Figura 2

Un altro importante gruppo di composti fitochimici presente in frutta e verdura sono i carotenoidi, come luteina, la zeaxantina, il β-carotene (figura 3) e il licopene, molecole che si trovano soprattutto negli alimenti di colore rosso-arancio (pomodoro, arancio, ecc.). Nelle piante, i carotenoidi svolgono principalmente due funzioni essenziali: sono pigmenti accessori nel processo di fotosintesi e nella fotoprotezione dai raggi ultravioletti. La loro azione viene svolta correttamente grazie alla catena polienica, che permette alle molecole di assorbire la luce e di inattivare l’ossigeno singoletto e i radicali liberi in generale (8). L’assunzione di frutta e verdura ricche di carotenoidi è stata associata ad una diminuzione del rischio di diverse patologie, come alcuni tipi di tumore, malattie cardiovascolari, degenerazione maculare e cataratta (8). I carotenoidi, inoltre, possiedono un’attività antiossidante che li rende in grado di svolgere protezione cellulare e regolazione della crescita, della differenziazione e dell’apoptosi (8).

La frutta e la verdura sono inoltre tra le principali fonti di folati nella dieta (13). I folati sono composti che agiscono come enzimi in molte reazioni di trasferimento di un singolo atomo di carbonio, così come nella sintesi degli acidi nucleici, di alcuni neurotrasmettitori, di fosfolipidi e di ormoni (14). Sono inoltre coinvolti nel metabolismo dell’omocisteina, in quanto donano un gruppo metilico durante la fase di metilazione dell’omocisteina a metionina: un inadeguato apporto di folati, quindi, è una delle principali cause di iperomocisteinemia (14). La carenza di folati, inoltre, è un comprovato fattore di rischio per l’insorgenza di alcuni tipi di tumori, di malattie cardiovascolari, di difetti dello sviluppo (ad esempio del tubo neurale) e di disturbi neurologici o psichiatrici (14). Anche se la maggior parte degli effetti positivi dei folati sullo stato di salute dell’uomo è legata alla loro correlazione con i livelli di omocisteina, esistono anche degli studi che evidenziano come

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15 sussista un’azione positiva diretta dei folati sulla funzione vascolare dell’endotelio e sullo stato ossidativo delle cellule (14; 15).

Infine la vitamina C, o acido ascorbico, è un composto bioattivo le cui fonti naturali principali sono frutta e verdura (16) e la cui concentrazione dipende da vari fattori, come il periodo di raccolta, la distanza di trasporto fino al mercato, il tempo di conservazione e il tipo di cottura dell’alimento. La vitamina C è un lattone a sei atomi di carbonio (figura 3) sintetizzato nel fegato di alcuni mammiferi, ma non in quello umano. Risulta quindi fondamentale che l’uomo assuma vitamina C tramite la dieta (75/die per l’uomo, 60 mg/die per la donna) (17), al fine di evitare situazioni di carenza che potrebbero portare a diverse manifestazioni cliniche, come lo scorbuto, letale se non trattato (16).

Figura 3

La vitamina C esplica le sue funzioni agendo come riducente, mostrando attività antiossidante in grado di prevenire l’ossidazione di lipidi, proteine e DNA. Per quanto riguarda i grassi, la vitamina C riduce le specie reattive dell’ossigeno che causano sia l’instaurarsi che il propagarsi della perossidazione lipidica (prima tappa verso le degenerazioni di tipo aterosclerotico); con lo stesso meccanismo la vitamina C protegge le proteine dall’ossidazione, andando a ridurre gli iniziatori radicalici che possono provocare la scissione delle catene peptidiche o l’ossidazione di specifici amminoacidi (con conseguente alterazione e perdita di funzionalità di enzimi come DNA polimerasi); per quanto riguarda il DNA, l’acido ascorbico è in grado di prevenire il danno ossidativo sia agendo direttamente da riducente sui radicali liberi, i quali possono ossidare direttamente i singoli nucleotidi del DNA inducendo la rottura dei filamenti del DNA e mutazioni puntiformi, sia prevenendo l’attacco dei radicali alle proteine adibite alla riparazione del DNA (16). Spesso comunque la concentrazione plasmatica dei metaboliti degli antiossidanti visti fino ad ora può essere piuttosto inferiore a quella degli antiossidanti assunti con la dieta (8): per migliorare la loro biodisponibilità, possono essere assunti in associazione con altri tipi di composti, come avviene ad esempio nel caso del pomodoro, dove l’aggiunta dell’olio d’oliva durante la cottura aumenta notevolmente l’assorbimento del licopene (13).

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1.5 CEREALI

I cereali sono piante erbacee appartenenti alla famiglia delle Graminacee. Il frutto o cariosside dei cereali contiene amido, fibre vegetali, vitamine, minerali, proteine (in buona quantità, ma carenti di alcuni aminoacidi essenziali come la lisina) e pochissimi grassi. I cereali di utilizzo più comune sono: il frumento, il riso, il mais, la segale, il miglio, l’orzo e l’avena.

Si consiglia di consumare giornalmente 1 porzione di cereali a pasto (18). E’ sempre raccomandabile consumare prodotti integrali, in quanto la lavorazione dei cereali può portare ad una perdita di fibre e di alcuni degli elementi presenti in tali alimenti. Tra questi i più comuni sono le vitamine B (tiamina o B1, niacina o B3, riboflavina o B2, acido pantotenico o B5), i minerali (Ca, Mg, K, P, Na e Fe) e gli aminoacidi basici (come arginina) (6). I cereali, insieme a frutta e verdura, rappresentano una fonte considerevole di fibre nella dieta. Queste possono essere suddivise in fibre idrosolubili (pectine, gomme, mucillagini e polisaccaridi di riserva) e non idrosolubili (cellulosa, emicellulosa e lignina) (19). La fermentazione delle fibre a livello del colon produce acidi grassi a catena corta, soprattutto acetato (che entra nella circolazione periferica per essere metabolizzato dai tessuti periferici), propionato (particolarmente richiesto nel fegato) e butirrato (la fonte energetica principale per i colonciti) (20). Le fibre insolubili hanno al contrario una bassa fermentescibilità, ma possiedono la capacità di attrarre acqua passivamente, andando a favorire l’ammorbidimento e l’evacuazione fecale (19).

Tutte le fibre, inoltre, inducono una sensazione di sazietà maggiore rispetto ai polisaccaridi digeribili e agli zuccheri semplici (monosaccaridi e disaccaridi), dovuta alle proprietà fisiche intrinseche delle fibre stesse, come la formazione di gel e di massa e il successivo cambiamento della viscosità del contenuto gastrico (19). Gli alimenti ricchi di fibre presentano inoltre una minore valenza calorica (per minor indice glicemico) e un’alta appetibilità che, uniti al senso di sazietà, permettono di ridurre l’apporto energetico e quindi di diminuire sensibilmente il rischio di sviluppare malattie causate da un’iperalimentazione (19) (21). I cereali integrali assunti in adeguate quantità riducono il rischio di sviluppare obesità, del diabete di tipo 2, della sindrome metabolica, della cardiopatia ischemica, dell’ipertensione e insufficienza cardiaca e pare che proteggano anche dalla broncopneumopatia cronica ostruttiva e da vari tumori, in particolare dal cancro del colon-retto soprattutto grazie al loro contenuto di fibre vegetali insolubili nell’acqua (22)

Tuttavia, l’elevata assunzione di fibre con la dieta può presentare anche alcuni svantaggi, come la riduzione dell’assorbimento di vitamine, minerali, proteine e la comparsa di diarrea e flatulenza (23).

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17 In molti cereali è presente glutine, controindicato nei soggetti affetti da celiachia (frumento, farro, orzo, avena, segale).

1.6 OLIO DI OLIVA

L’olio di oliva, e in particolare l’olio di oliva extravergine, è uno degli alimenti più rappresentativi della dieta mediterranea e viene utilizzato sia come condimento di altri cibi sia come mezzo di cottura, in quanto è in grado di resistere alle alte temperature. La sua importanza nella dieta mediterranea è notevole: rappresenta infatti la fonte principale di lipidi e il suo utilizzo è fortemente raccomandato in quanto aumenta la qualità nutrizionale dei cibi ai quali viene abbinato (6), con una frequenza giornaliera di 3-4 porzioni (18). L’olio extravergine di oliva è una fonte inestimabile di acidi grassi monoinsaturi, che non solo hanno un impatto positivo sul profilo lipidico sierico, ma sono in grado, grazie alla loro scarsa ossidabilità, anche di limitare quei fenomeni che portano all’ossidazione delle LDL. Inoltre, l’olio extravergine di oliva contiene un’ampia gamma di potenti sostanze bioattive come tocoferoli (vitamina E), carotenoidi, steroli, composti fenolici, la cui azione si esplica non solo modificando il profilo lipidico, ma promuovendo gli effetti antiossidanti e antiinfiammatori, con aumentata capacità di protezione endoteliale e di scavenging radicalico (24).

Tra i numerosi composti fenolici dell’olio extravergine di oliva, i principali ed i più biodisponibili sono l’idrossitirosolo e il tirosolo (24); in particolare l’idrossitirosolo migliora il profilo lipidico, glicemico, l’insulino-resistenza e ha azione antiossidante e antiinfiammatoria (25), ma assumono notevole importanza anche l’oleuropeina e l’oleocantale. Questi composti fenolici hanno mostrato in vitro un’azione antibatterica verso i patogeni responsabili di infezioni intestinali e respiratorie. L’oleocantale, ad esempio, ha mostrato un’azione di inibizione della crescita di Helicobacter pylori, un batterio coinvolto nello sviluppo dell’ulcera peptica e del carcinoma gastrico (24). Azione dell’oleocantale su TrpA1 etc...

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2 CIBI DA ASSUMERE QUOTIDIANAMENTE

2.1 OLIVE, FUTTA SECCA E SEMI

Sono considerati una buona fonte di vitamine (acido folico o vitamina B9, niacina o vitamina B3, vitamina E, vitamina B6), lipidi (soprattutto acidi grassi insaturi), fibre, proteine e sostanze minerali (Cu, Mg, K e Zn) e la loro dose consigliata è di 1-2 porzioni al giorno; sono particolarmente indicati come spuntini da consumare nel corso della giornata, in quantità però limitate (un quantitativo di10-20 g da modulare in base al restante profilo nutrizionale se facciamo una valutazione tramite le tabelle INRAN ) dato l’elevato apporto calorico (6).

In particolare, la frutta secca e i semi sono ricchi in fenoli, fitosteroli, acido fitico e flavonoidi come gli isoflavonoidi e il loro consumo è stato associato, come per la frutta e la verdura, ad una riduzione dei lipidi plasmatici e ad una protezione contro il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari (26) (13).

Nonostante le sue qualità nutrizionali, la frutta a guscio ha però un elevato valore calorico, dovuto al suo elevato contenuto di lipidi: ad esempio 100g di mandorle e di pinoli contengono circa 50g di lipidi e forniscono circa 500Kcal. In conclusione la frutta secca è particolarmente utile nei soggetti sottopeso, astenici e negli sportivi.

I fenoli presenti all’interno delle olive da tavola, soprattutto oleuropeina, idrossitirosolo e tirosolo, proteggono le LDL dall’ossidazione provocata dai radicali liberi, contrastando l’instaurarsi del fenomeno aterosclerotico (27).

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2.2 SPEZIE, ERBE AROMATICHE, CIPOLLE E AGLI

Sono prodotti utilizzati soprattutto come condimento e presentano almeno quattro aspetti positivi da tenere in considerazione. Innanzitutto, permettono ai cibi di acquisire sapori, odori e sfumature gustative intense che li rendono ancora più appetibili al palato; in secondo luogo, possiedono una buona quantità di micronutrienti e composti antiossidanti che aumentano il valore nutrizionale del cibo a cui vengono accompagnati (le cipolle e gli agli, ad esempio, contengono grandi quantità di allicina, che può proteggere da malattie cardiovascolari e contribuire a migliorare la funzione cognitiva (13) (28)). Un altro aspetto da tenere in considerazione è che il loro utilizzo per insaporire gli alimenti limita automaticamente quello del sale, considerato uno dei principali responsabili dell’insorgenza dell’ipertensione, soprattutto in pazienti particolarmente predisposti (6). Infine, essi rappresentano alimenti tipici delle diverse zone del bacino del Mediterraneo e quindi il loro utilizzo contribuisce a dare una forte identità regionale al piatto in cui sono utilizzati.

2.3 LATTE

Il latte è il prodotto della mungitura, completa ed ininterrotta delle mammelle di animali in buono stato di salute e nutrizione. Con il solo termine latte si intende quello di vacca per gli altri si deve specificare la specie dell’animale (29).

Il latte può essere considerato un alimento completo perché contiene proteine, lipidi, glucidi, vitamine liposolubili, idrosolubili e anche sali minerali come potassio, calcio, fosforo e sodio. Le proteine sono di alto valore biologico; calcio e fosforo sono in un equilibrio particolarmente favorevole per l’assorbimento del calcio. I glucidi sono

rappresentati soprattutto dal lattosio, che è l’unica fonte di galattosio; i lipidi sono costituiti da gliceridi, caratterizzati da una grande varietà di acidi grassi saturi e insaturi e da

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20 fosfolipidi; il latte è però un alimento povero di ferro e bambini che nell’arco della prima infanzia vengono alimentati prevalentemente con latte sviluppano facilmente anemie di grado severo (REF).

Grazie a tutti i nutrienti presenti, il latte è un alimento che viene utilizzato comunemente per la prima colazione in quantità di 2 porzioni (interscambiabili con lo yogurt), per affrontare gli impegni della giornata.

2.4 YOGURT

Lo yogurt non è né latte né formaggio, ma è latte fermentato da una coltura di diverse specie di lactobacilli. Per assicurarsi che lo yogurt sia di buona qualità dovrebbero essere scritti sulle etichette i diversi tipi di colture batteriche come lactobacillus acidophilus o streptoccoccus termophilus e la concentrazione batterica dovrebbe essere compresa tra i 500 e gli 800 milioni per millilitro (non inferiore a 10 milioni /g di prodotto). Nello yogurt i batteri lattici devono essere vivi e vitali e se conservato a 4°C restano tali per venticinque-trenta giorni.

Lo yogurt è un alimento funzionale apportatore di probiotici, facilmente digeribile, di elevata qualità nutrizionale, ricco di calcio biodisponibile, ben tollerato anche dai soggetti intolleranti al latte per deficit di lattasi (lo yogurt ha un basso contenuto di lattosio e contiene lattasi) ed è particolarmente utile nei soggetti con dismicrobismi intestinali da alterazioni della flora batterica. Di massima allo yogurt intero è preferibile lo yogurt scremato che contiene meno acidi grassi saturi, ma ha all’incirca lo stesso contenuto di calcio, fosforo, protidi di elevato valore biologico, e vitamine del gruppo B (22).

3 CIBI DA ASSUMERE SETTIMANALMENTE

Nella parte più alta della piramide troviamo altri prodotti tipici della dieta mediterranea che forniscono un giusto apporti di proteine di origine animale e vegetale, ma la cui assunzione non è però prevista su base giornaliera: questi prodotti sono le carni animali (sia bianche che rosse), il pesce, le patate, i formaggi, le uova e i legumi.

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3.1 PRODOTTI CASEARI

Il formaggio è il prodotto della coagulazione acida del latte intero o parzialmente scremato, di mucca, di pecora e di capra ed è una gradevole pietanza pronta che apporta proteine di alto valore biologico, minerali (in particolare calcio e fosforo), vitamina A, vitamina B12 ecc., ma anche acidi grassi saturi.

La dose raccomandata di prodotti caseari da assumere è di due porzioni a settimana in alternativa alla carne bianca, alle uova, al pesce (18), con una preferenza per i prodotti a basso contenuto di grassi come parmigiano e grana, sia freschi che stagionati. Il loro consumo deve essere moderato perché, pur essendo importanti per la presenza di calcio (che aumenta significativamente il contenuto di sostanze minerali nelle ossa (30) e contribuisce a diminuire la pressione sistolica (31)), sono la principale fonte alimentare di acidi grassi saturi (che aumentano i livelli di colesterolo LDL nel sangue e quindi rischio di malattie coronariche (32)). Comunque, grazie al contenuto di batteri lattici, una loro assunzione presenta vantaggi “probiotici” notevoli, come il miglioramento dello stato di salute gastrointestinale e della risposta immunitaria (13).

3.2 CARNI BIANCHE

Le porzioni consigliate di carni bianche (pollame, tacchino, coniglio, ecc.) da assumere sono di 1-3 per settimana. La loro caratteristica principale è quella di essere fonti importanti di proteine di alta qualità (ossia proteine che contengono nella loro struttura gli aminoacidi essenziali, quelli cioè che l’organismo non è in grado di sintetizzare), senza avere lo svantaggio di possedere livelli alti di acidi grassi saturi, come avviene in alcuni tagli di carni rosse.

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3.3 CARNI ROSSE

Per carne si intende l’insieme di tessuto muscolare, tessuto connettivo, grasso, tendini ecc, ottenuto da animali da macello (ovini, bovini, suini, equini) e da cortile (pollame, conigli) e dalla selvaggina.

Il consumo di carni rosse (massimo 1 volte alla settimana, preferibilmente magre) e di salumi (non più di una porzione a settimana) deve essere fortemente limitato sia come quantità che come frequenza, visto il loro elevato contenuto di grasso e colesterolo. Numerosi studi hanno infatti dimostrato che esiste una stretta relazione tra il consumo di carni rosse, appunto, e l’insorgenza di patologie croniche come tumori e patologie cardiovascolari, quindi ciò che conta è rientrare in un’assunzione moderata (poco più di mezza porzione 2 volte a settimana) della carne rossa (33) (34).

In base al colore si distinguono carni bianche e carni rosse; il colore rosso dipende dalla mioglobina presente nelle strutture muscolari. Le carni rosse mediamente contengono più grassi, specialmente come acidi grassi saturi, più ferro eme e più carnitina delle carni bianche e delle carni scure (22).

3.4 PESCE E FRUTTI DI MARE

Il pesce e i frutti di mare sono fonti di proteine di alta qualità e di lipidi. Il loro consumo consigliato è di 2-3 porzioni alla settimana, cercando di variarne il tipo (pesce azzurro, pesce magro o frutti di mare). La caratteristica principale del pesce, in particolare di quelli ricchi in lipidi, e dei molluschi è l’elevato contenuto di acidi grassi polinsaturi a lunga catena n-3 (PUFA), che sembrano di apportare un notevole contributo nella prevenzione di malattie cardiovascolari e possedere proprietà antiinfiammatorie (35) (6). L’assunzione di pesce si è dimostrata essere una buona strategia per favorire la prevenzione di diversi tipi di cancro piuttosto comuni (del tubo digerente, della colecisti, della laringe, della mammella e del tratto genitale femminile); inoltre, il consumo di pesce si è dimostrato un efficace regolatore dei fattori emostatici e uno strumento di protezione contro le aritmie cardiache e l’ipertensione (36). Tra i vari PUFA, il pesce è particolarmente ricco di acido docosaesanoico (DHA, 22:6n-3), uno dei componenti principali della membrana fosfolipidica del cervello

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23 (37). Alti livelli di DHA sono stati trovati anche nelle aree metabolicamente più attive del cervello, come la corteccia cerebrale, e a questo livello nei mitocondri, nei sinaptosomi e nelle vescicole sinaptiche (38). Il consumo di una buona quantità di pesce, e quindi un buon apporto di DHA, può ridurre sensibilmente il rischio di malattie neurodegenerative, compresa la malattia di Alzheimer.

3.5 PATATE

Le patate, servite in piatti tradizionali come accompagnamento di carni e pesce, non devono essere consumate più di due volte a settimana (18). Il loro principale problema infatti è che mostrano un indice glicemico piuttosto elevato, che può aumentare il rischio di diabete di tipo 2 (6).

3.6 UOVA

Anche le uova, come il pesce e le carni bianche, sono una fonte di proteine animali di alta qualità. Il loro consumo ottimale è di 1-2 porzioni alla settimana.

Fin dall’antichità è considerato un alimento pregiato ed esclusivo, tuttavia Anitchow dimostrò l’elevata concentrazione di colesterolo e la conseguente aterosclerosi che sorgeva nei conigli. Grazie agli attuali metodi di allevamento delle galline, le uova attualmente in commercio contengono meno grassi rispetto a quelle del passato.

Il tuorlo è ricco di proteine pregiate (elevata presenza di aminoacidi essenziali), acidi grassi insaturi, colina, lecitina, luteina, vitamine e minerali (in particolare il ferro-eme ben assorbito a livello intestinale), ha un elevato contenuto di colesterolo (200mg) ed uno scarso di acidi grassi saturi.

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24 Le uova sono controindicate nei soggetti con alterazioni ostruttive delle vie biliari, nei soggetti allergici all’uovo ed è prudente che ne facciano un uso limitato i soggetti ipercolesterolemici; non è consigliabile associare le uova ad altri cibi grassi (22).

L’albume è composto per il 90% di acqua contiene circa 3,6g di proteine, tracce di glucidi ed è praticamente privo di lipidi. Nell’albume è presente la glicoproteina avidina, antagonista della biotina, disattivata dalla cottura.

L’albume dell’uovo è molto simile alla componente albuminica del sangue e all’equilibrio colloido-osmotico del sangue ed è insostituibile nei casi di diminuzione di albumina plasmatica. Il ferro contenuto nell’uovo migliora i livelli di emoglobina, la colesterina riporta ai livelli normali il colesterolo che in questi pazienti risulta molto basso ed è importante per la produzione di ormoni e di sostanze implicate nella difesa immunitaria e in tutti i processi riparativi dell’integrità cellulare compromessa (22).

3.7 LEGUMI

I legumi (fagioli, fave, lenticchie, ceci, piselli, soia, arachidi ecc.) sono una buona fonte di lipidi e proteine vegetali e il loro utilizzo (più di 2 porzioni a settimana), soprattutto insieme ai cereali, è fortemente consigliato, anche in sostituzione di una porzione di carne; (39). Hanno un basso indice glicemico grazie al ricco contenuto di fibre, che riduce la velocità di digestione dell’amido. I legumi contengono isoflavoni (specialmente la soia) e hanno un buon contenuto vitaminico e minerale, inoltre sono più ricchi di proteine della carne e del pesce, ma hanno un valore biologico più basso perché contengono meno aminoacidi essenziali, quali triptofano, metionina e cisteina, ma con l’associazione di cereali e di legumi si realizza un’utile integrazione proteica introducendo pochi grassi.

Un incoveniente dei legumi, in particolare dei fagioli, è quello di provocare meteorismo e flatulenza. Questi sgradevoli effetti sono dovuti all’assenza nell’intestino di enzimi capaci di attaccare certi carboidrati presenti nei legumi, che quindi giungono inalterati nel colon dove fermentano ad opera della flora batterica intestinale producendo gas. Meteorismo e flatulenza sono però in gran parte evitabili assumento i legumi sottoforma di passati e creme (22).

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3.8 DOLCI

I dolci, in particolare i cibi ricchi di zuccheri e di grassi non salutari come gli acidi grassi saturi o i grassi idrogenati, si trovano al vertice della piramide. Il loro consumo è raccomandato come occasionale, in quanto una loro eccessiva assunzione potrebbe portare ad un aumento di peso (sono cibi ad elevato contenuto energetico), ad un aumento della glicemia, con conseguente rischio di sviluppare diabete, e a problemi di carie dentaria (6). Rientrano in questa categoria caramelle, pasticcini, succhi di frutta, bevande dolci, snack e tutto ciò che contiene elevate quantità di zuccheri.

4 BEVANDE

4.1 ACQUA

Mantenere un’idratazione equilibrata è essenziale per il corpo umano: la quantità ottimale di acqua che ogni individuo dovrebbe assumere giornalmente si aggira tra 1,5 e 2 litri (equivalente a 10-12 bicchieri), anche se tale quantità può ovviamente variare a causa di numerosi fattori, come l’età, lo svolgimento di attività fisica, particolari condizioni fisiologiche e/o metereologiche. Inoltre, bisogna sottolineare che il raggiungimento del quantitativo di liquidi da consumare può essere ottenuto non solo con acqua, ma anche con l’ausilio di tisane e tè senza zucchero e di brodi a basso contenuto di sodio e di grassi.

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4.2 VINO

Qualora i principi religiosi o le regole di comportamento sociale non lo impedissero, nella dieta mediterranea è consigliato ai pasti il consumo moderato di vino o di altre bevande fermentate (al giorno un bicchiere per la donna e due bicchieri per l’uomo come regola generale) (6).

Una serie di composti bioattivi, soprattutto di natura fenolica, sono da anni valutati per il loro potenziale contributo all’effetto benefico associato al moderato consumo di vino rosso. In particolare, sono presenti flavonoli (miricetina, caempferolo e soprattutto quercetina), monomeri del olo (catechina ed epicatechina), polimeri ed oligomeri del flavan-3-olo (proantocianidine), diverse antocianine (molto cflavan-3-olorate), alcuni acidi fenolici (acido gallico, acido caftarico, acido caffeico, acido p-cumarico) e lo stilbene resveratrolo (40). Diversi studi hanno concentrato l’attenzione sui possibili effetti positivi di questi polifenoli, in particolare della quercetina e del resveratrolo, sulla salute (41).

La quercetina è stata la prima a suscitare un particolare interesse a causa della sua forte azione antiossidante, con i risultati degli studi in vitro che sembrano indicarne il potenziale ruolo nel contrastare l’insorgenza di malattie cardiovascolari (42) e di tumori (43) (44). Il resveratrolo viene sintetizzato sulla buccia degli acini d’uva in risposta ad un’infezione fungina. Una volta prodotto, agisce come fitoalessina andando a prevenire la proliferazione del patogeno. Nell’uomo, il resveratrolo è stato proposto intervenire in diverse funzioni: inibisce o ritarda la crescita di diversi tipi di cellule tumorali umane in modelli murini, andando ad agire sui mediatori pro-infiammatori, sui regolatori della sopravvivenza e dell’apoptosi cellulare e sui fattori di trascrizione delle cellule tumorali; svolge effetti antiinfiammatori tramite l’inibizione della sintesi e del rilascio di mediatori pro-infiammatori, la modificazione della sintesi degli eicosanoidi, l’inibizione dell’attivazione di alcune cellule immunitarie e l’inibizione di alcuni enzimi e fattori di trascrizione. Si ritiene quindi che possa svolgere un ruolo di protezione in quelle malattie legate a processi infiammatori, come sindrome metabolica, artrite reumatoide e disordini neurodegenerativi (45) (46).

(27)

27

5 SINDROME METABOLICA

5.1 DEFINIZIONE

Dal 1956 ad oggi l’associazione di entità metaboliche che possono essere correlate con l’obesità viscerale, nell’età adulta, è stata denominata in modo diverso. Vague (47) nel 1956 definì “sindrome dell’obesità androide” l’insieme di obesità addominale, diabete e gotta e dieci anni più tardi Avogadro e Crepaldi (48) utilizzarono il termine di “sindrome plurimetabolica” (SP). In seguito sono state utilizzate diverse definizioni per indicare l’aggregazione di più disordini metabolici nello stesso individuo (tabella1).

TABELLA 1

I diversi termini possono sembrare equivalenti ad una lettura superficiale che non prenda in considerazione il rischio cardiovascolare cumulativo: se vengono messi a confronto i criteri diagnostici proposti, ci si accorge che l’obesità non compare sempre e l’iperuricemia quasi mai. Tante diverse definizioni hanno creato confusione nei clinici e problemi negli studi epidemiologici che necessitano di riferimenti chiari, precisi, riproducibili e universalmente accettati. Finalmente, nel 1998, la commissione consultiva della WHO (49) ha inserito un paragrafo dedicato alla sindrome metabolica nel documento che ha presentato i nuovi criteri classificativi e diagnostici del diabete mellito ed ha stabilito che per “sindrome metabolica” debba intendersi l’associazione di ridotta tolleranza al glucosio o diabete di tipo2 ed insulino-resistenza con almeno altre due alterazioni tra ipertensione arteriosa, ipertrigliceridemia e /o ridotto colesterolo HDL, obesità centrale e microalbuminuria. Altre espressioni patologiche come l’iperuricemia o alterazioni della coagulazione non sono state ritenute necessarie per il riconoscimento del quadro clinico (tabella 2).

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28 TABELLA 2

DEFINIZIONE DI SINDROME METABOLICA SECONDO L’OMS Intolleranza al glucosio

Oppure

Insulino-resistenza con due o più delle altre componenti sottoelencate:  Alterata regolazione glucidica o diabete

 Insulino-resistenza

 Ipertensione (≥140/90 mmHg)

 Ipertrigliceridemia (≥150 mg/dl) e/o basso HDL-colesterolo (<35mg/dl nei maschi<39mg/dl nelle femmine)

 Obesità centrale (WHR C 0,9 nei maschi e >0,85 nelle femmine) e/o BMI>30  Microalbuminuria (≥20µg/min o rapporto Alb/creat 3mmg/mmol

Il documento sottolinea che manifestazioni della sindrome metabolica possono essere presenti fino a dieci anni prima che i disordini glicemici vengano rilevati e che la perdita della normale tolleranza glucidica identifica il soggetto come appartenente ad un gruppo ad elevatissimo rischio di sviluppare diabete in futuro.

Il gruppo di studio Europeo dell’insulino-resistenza (EGIR) ha criticato quanto proposto dall’OMS ed ha indicato criteri alternativi alla definizione classica di sindrome dell’insulino-resistenza (50) allo scopo di evitare sovrapposizioni con il diabete e di semplificare le procedure diagnostiche.

Nel 2001 il Third Report of the National of Cholesterol in Adults (Adult Treatment Panel III, ATPIII) per la prima volta ha elaborato dei propri criteri diagnostici (51) e ha stabilito che la presenza di tre o più dei seguenti disordini nello stesso paziente sia sufficiente per identificare la sindrome:

 Circonferenza vita >102 cm nei maschi, >88cm nelle femmine  Glicemia a digiuno >110mg/dl

 Ipertensione arteriosa (>130/85 mmHg)  Ipertrigliceridemia (>150mg/dl)

 Ridotto colesterolo HDL (<40 mg/dl nei maschi; <50 mg/dl nelle femmine)

Nonostante l’apparente favore incontrato, nemmeno questa definizione è stata accettata da tutti; ad esempio, l’American College of Endocrinology, in un documento definito ACE Position Statement (52), ribadisce l’importanza di utilizzare ancora il termine di “sindrome da insulino-resistenza” che mette in risalto il momento patogenetico che collega il cluster dei diversi disordini metabolici (TABELLA3), ovvero:

(29)

29 INSULINO-RESISTENZA

INADEGUATA RISPOSTA INSULINICA IPERINSULINEMIA compensatoria DIABETE DI TIPO 2 SINDROME da insulino-resistenza RETINOPATIA CVD IPERTENSIONE NEFROPATIA STROKE

NEUROPATIA PCOS NAFDL

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30 TABELLA 3

DEFINIZIONE DI SINDROME DA INSULINO-RESISTENZA ACE POSITION STATEMENT

Presenza di due delle quattro anormalità:

1. Trigliceridi >150 mg/dl 2. Colesterolo HDL  Uomo <40mg/dl  Donna <50mg/dl 3. Pressione >135/85 mmHg 4. Glicemia:  A digiuno 110-125 mg/dl  120 minuti dopo carico orale di 75 g di glucosio 140-200mg/dl

Questo modello classificativo non comprende l’obesità, considerata una causa e non una conseguenza del fenomeno.

Ad Aprile 2004 sono state pubblicate le raccomandazioni, italiane, per la prevenzione, la diagnosi e la terapia dell’eccesso di peso e delle patologie ad esso associate (53) che hanno recepito i criteri proposti dal National Cholesterol Education Programme Adult Treatment Panel (NCEP ATPIII) per la diagnosi della sindrome metabolica. La pubblicazione che le racchiude riporta la dizione di “sindrome metabolica” e nel capitolo dedicato alla valutazione del rischio di patologie endocrino-metaboliche viene specificato letteralmente che:

1. L’obesità può essere considerata fattore di rischio maggiore, tale da orientare l’intervento terapeutico

2. L’ipertrigliceridemia può essere considerato un fattore di rischio indipendente 3. L’iperomocisteinemia non può essere ritenuto un ulteriore fattore di rischio di

patologia cardiovascolare. L’omocisteinemia va seguita solo in soggetti con malattia coronarica senza altri fattori di rischio;

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31 4. Il dosaggio dell’insulinemia a digiuno non comporta vantaggi clinico-assistenziali. Su questo ultimo punto si potrebbe aprire un dibattito infinito, ma quello che si può evidenziare è che le difficoltà incontrate fino ad oggi, nel trovare accordo su una definizione condivisa, sono legate ai molteplici fenotipi clinici di presentazione della sindrome e ai quadri clinici che possono cambiare nel tempo in relazione anche a fenomeni parafisiologici come l’invecchiamento e la menopausa.

Nel 2005 si è aggiunta anche la definizione da parte dell’International Diabetes Federation (IDF) che non ha ricevuto un consenso universale, tanto che i rappresentanti di IDF e AHA/NHLBI si sono incontrati per risolvere le rimanenti divergenze. Entrambe le parti hanno convenuto che l’obesità addominale non dovrebbe essere un prerequisito per la diagnosi, ma che è uno dei cinque requisiti preferenziali, in modo che la presenza di almeno tre (qualunque essi siano) su cinque fattori di rischio consenta di porre diagnosi di sindrome metabolica (54).

Quindi se mettiamo a confronto le quattro definizioni proposte possiamo avere un quadro comunque esaustivo per comprendere la manifestazione della sindrome metabolica (Tabella 4)

TABELLA 4

5.2 POSSIBILI FATTORI EZIOPATOGENETICI: GENOTIPO FLORIDO, L’INSULINO-RESISTENZA E L’IPOTESI LIPOCENTRICA

E’ accertato che la sindrome metabolica, il diabete e gli eventi cardiovascolari sono più frequenti dopo i cinquanta anni. Come è possibile che il nostro genoma includa geni che esordiscono in età avanzata? E' difficile e semplicistico ipotizzare che la natura sia

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32 possono avere rilevanza dal punto di vista evolutivo solamente se la popolazione vive abbastanza a lungo e in condizioni ideali per svilupparle.

L’insulino-resistenza è la condizione in cui l’esposizione ad una determinata quantità di insulina, strutturalmente e funzionalmente normale, evoca una risposta biologica inferiore all’attesa; l’iperinsulinemia è l’espressione plasmatica dell’insulino-resistenza. Fattori genetici ed ambientali sono stati invocati per spiegarne l’eziopatogenesi; in mancanza di evidenze certe sull’esistenza di uno specifico gene è possibile ipotizzare una poligenicità. E’ ovvio domandarsi, in analogia con il diabete, come possa un disturbo genetico con un effetto negativo sulla fertilità e sulla mortalità, sopravvivere con un così alto tasso di prevalenza.

La soluzione al quesito potrebbe essere nei tempi lunghi degli adattamenti genetici e nel cosiddetto genotipo florido o parsimonioso. L’insulino-resistenza sarebbe una delle espressioni del gene del risparmio in grado di contrapporsi all’ipoglicemia e di consentire un vantaggio nella sopravvivenza in popolazioni soggette a ricorrenti periodi di privazione alimentare. Il genotipo florido avrebbe determinato un vantaggio nella sopravvivenza dei nostri progenitori, costretti a ricorrenti periodi di privazione alimentari, favorendo la deposizione di tessuto adiposo nei rari periodi di abbondanza, e una serie di eventi metabolici solo temporaneamente positivi. Schematizzando la società antica di cacciatori e/o raccoglitori, con genotipo florido sviluppato, presentavano una massima efficienza metabolica per la sopravvivenza:

 Gluconeogenesi epatica  Lipogenesi epatica

 Insulino-resistenza selettiva nel muscolo

Mentre nella società moderna le persone in condizioni di abbondanza di cibo e genotipo florido presentano insulino-resistenza:

 Dieta ricca di grassi saturi  Inattività fisica

 Obesità

 Esaurimento cellule beta pancreatiche

 Sindrome metabolica con intolleranza al glucosio, dislipidemie e ipertensione Considerando la sindrome metabolica come una conseguenza/complicazione dell’eccessivo peso corporeo, sembra essere correlata con il polimorfismo rs926198 del gene che codifica per caveolina-1, così come i geni dei fattori di trascrizione TCF7L2 e PPAR-γ2 sono implicati nella patogenesi dello sviluppo del diabete (55); questi elementi presenti nell’obesità possono spiegare ulteriormente una correlazione genetica tra obesità stessa e sindrome metabolica.

4.3 L’INSULINO RESISTENZA E L’IPOTESI LIPOCENTRICA

Anche se recentemente è stata messa in dubbio la stessa utilità di utilizzare la definizione corrente di SM, vi sono comunque alcune caratteristiche largamente condivise:

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33  L’insulino-resistenza può essere definita come un’alterata capacità dell’ormone di

sopprimere la produzione epatica di glucosio e promuoverne l’utilizzazione periferica;

 L’adiposità viscerale è correlata con l’insulino-resistenza e la circonferenza vita è il miglior predittore di sindrome metabolica

 Il profilo lipoproteico di tipo aterogenico associato all’obesità ed all’insulino-resistenza è largamente attribuibile al grasso viscerale;

 Nel diabete di tipo 2 la compromissione della cellula beta pancreatica è tale che la secrezione insulinica diventa insufficiente a bilanciare il grado di

insulino-resistenza

 In una fase iniziale, che potremmo definire prediabetica ed in cui è già presente insulino-resistenza, la cellula beta ipersecerne insulina per compensare la resistenza insulinica e mantenere livelli glicemici normali (56) (57)

A livello del tessuto adiposo addominale, inizialmente l’insulino-resistenza si traduce in una riduzione dell’effetto antilipolitico dell’insulina, che comporta una conseguente riduzione dell’uptake di glucosio e un aumentato rilascio di acidi grassi liberi e glicerolo. Gli acidi grassi liberi, presenti in eccesso, sono drenati dalla vena porta al fegato, che risulta inondato da FFA e risponde mettendo in moto una serie di processi metabolici tipici dell’insulino-resistenza epatica. In pratica l’adipocita del soggetto con insulino-dell’insulino-resistenza utilizza in maniera minore gli acidi grassi liberi e ne rilascia in eccesso; il fegato risponde all’iperafflusso di acidi grassi liberi con:

 Aumento della neoglucogenesi

 Aumentata produzione di trigliceridi, apolipoproteina B e lipoproteine a densità, molto bassa (VLDL)

L’eccessiva produzione epatica di VLDL e trigliceridi comporta un conseguente aumento di produzione di LDL piccole e dense e una riduzione delle particelle HDL. Proprio l’aumento di trigliceridi VLDL, la riduzione del colesterolo HDL e l’aumento delle particelle LDL piccole e dense costituiscono il profilo dislipidemico della sindrome metabolica.

I lipidi intramiocellulari sono correlati all’insulino-resistenza più strettamente del BMI, del rapporto vita/fianchi o del grasso corporeo totale. I livelli di acidi grassi liberi e VLDL sono una delle principali cause di accumulo di grasso nelle cellule muscolari e nei soggetti con insulino-resistenza abbiamo un marcato aumento dei lipidi intramiocellulari. In queste condizioni era stato ipotizzato che l’effetto negativo degli acidi grassi liberi incidesse nella fase di trasporto del glucosio e/o della fosforilazione più che attraverso il classico meccanismo di Rande che descrive un aumento dei livelli di glucosio-6-fosfato secondario all’inibizione dell’ossidazione del piruvato. L’alterazione del trasporto/fosforilazione del glucosio nel muscolo deve essere un evento precoce nell’eziologia del diabete di tipo 2 poiché è presente nei parenti di primo grado normoglicemici, ma che hanno alti livelli di lipidi intramiocellulari (58). Normalmente il legame dell’insulina al suo recettore causa la fosforilazione della tirosina del substrato 1 del recettore insulinico con conseguente attivazione della fosfatidilinositolo 3-chinasi (PI-3), che è un elemento chiave nella traslocazione dei trasportatori di glucosio (GLUT4) sulla membrana plasmatica. Può essere ipotizzato che un’elevata concentrazione di LCA-COA nelle cellule muscolari generi un pool di diacilglicerolo che attiva la fosforilazione del substrato 1 del recettore insulinico su un residuo di serina in grado di interferire con la capacità di attivare la PI 3-chinasi. L’effetto

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34 immediato è la perdita dello stimolo alla traslocazione del GLUT 4 sulla superficie cellulare e quindi la riduzione della captazione di glucosio insulino-mediata.

A conferma del ruolo dell’insulino-resistenza periferica, nei pazienti sottoposti a diversione biliopancreatica la perdita di peso porta ad una diminuzione di accumulo di lipidi intramiocellulare e a normalizzazione dell’espressione del GLUT-4 e della leptinemia (59) (56).

Inoltre la rimozione chirurgica del grasso viscerale influenza positivamente la sensibilità insulinica periferica ed epatica così come i livelli di leptina e TNF alfa. Livelli di acidi grassi liberi moderatamente elevati contribuiscono all’iperinsulinemia necessaria a compensare il difetto dell’azione insulinica. L’esposizione cronica della cellula beta ad elevati acidi grassi liberi presenta, al contrario, conseguenze dannose e in particolare:

 Aumento della secrezione di insulina a basse concentrazioni di glucosio;  Ridotta biosintesi di proinsulina;

 Deplezione delle riserve insuliniche

 Ridotta risposta a concentrazioni di glucosio di stimolo

Per quanto riguarda il diabete mellito di tipo 2, in considerazione dell’eterogeneità della patogenesi e dell’espressione fenotipica è difficile determinare quanta parte del difetto, cioè la perdita della prima fase di secrezione insulinica, sia primitiva e quanta secondaria (gluco e lipotossicità). A causa della natura poligenica è difficile che esista un ordine temporale assoluto e valido in ogni caso.

5.4 TESSUTO ADIPOSO; INSULINO-RESISTENZA, LEPTINA, RESISTINA, ADIPONECTINA

Fino ad alcuni anni fa il tessuto adiposo veniva descritto come un tessuto dove poteva essere immagazzinata una scorta energetica utile per i periodi di scarsa disponibilità alimentare (60).

La distinzione base tra adipociti bianchi e bruni ha fatto erroneamente pensare ad una barriera anatomica tra le regioni contenenti i due citotipi. Sono recenti la definizione di un vero e proprio organo adiposo a depositi multipli che potrebbe essere manipolato anche farmacologicamente e la scoperta di un ormone definito leptina, proteina di 167 aminoacidi prodotta dagli adipociti bianchi. La leptina viene sintetizzata e rilasciata dal tessuto

adiposo nel torrente circolatorio ed è in grado di attraversare la barriera ematoencefalica tramite un trasportatore specifico, per interagire con recettori situati sulle membrane delle cellule neuronali ipotalamiche a livello del nucleo arcuato. Questi neuroni

neuropeptidergici controllano il bilancio energetico in parte regolando l’assunzione di cibo e in parte regolando la termogenesi. La leptina è in grado di inibire l’espressione dell’RNA messaggero del neuropeptide Y (NPY) e sopprimere direttamente il rilascio di quest’ultimo con conseguente riduzione della fame.

Nei topi Ob/Ob non viene prodotta leptina e quindi vi è un alterato operato del sistema di controllo della fame/sazietà. Lo stesso meccanismo era stato proposto per gli obesi, ma nessun lavoro è stato in grado di dimostrare mutazioni a carico del gene che codifica per la leptina né a carico di quello che codifica per i recettori. Negli obesi, in realtà, i livelli di leptina sono molto alti e fortemente correlati agli indici di adiposità: il tessuto adiposo funziona dunque in modo corretto e il difetto deve essere individuato a livello dei recettori

(35)

35 centrali. Il meccanismo è complesso e coinvolge fenomeni di resistenza leptinica. Il grasso addominale è il maggiore predittore per la sensibilità all’insulina, mentre il grasso

sottocutaneo determina i livelli di leptina con ruoli e vie diverse per i due ormoni, ma un meccanismo comune che porta alla resistenza insulinica e leptinica. Fenomeni analoghi si potrebbero presentare in soggetti magri che, per un motivo verosimilmente genetico, sarebbero predisposti a sviluppare sia una resistenza all’insulina sia una resistenza alla leptina. All’inizio degli anni ottanta la definizione di “metabolically obese, normal weight” era stata attribuita ai soggetti normopeso che presentavano una delle tre alterazioni

metaboliche: ipertensione, diabete, ipertrigliceridemia. Nel 2004 è stato pubblicato su

Diabetes Care un articolo in cui si proponeva una nuova definizione degli individui

normopeso, ma metabolicamente obesi (MONW) che comprendeva gli individui con un peso normale o solo leggermente superiore alla norma ma che soddisfacevano i criteri dell’ATP-III di definizione di sindrome metabolica. Subito dopo, altri report hanno confermato l’importanza del tessuto adiposo viscerale come fonte di citochine

proinfiammatorie e sottolineato come la MONW occorra frequentemente nelle donne con una percentuale di grasso >30% del peso totale che dimostrano un rischio maggiore di patologie tipiche del soggetto obeso. In questi soggetti la sindrome metabolica ha una prevalenza quattro volte maggiore rispetto ai gruppi di controllo ed è associata ad un’alta prevalenza di rischio cardiometabolico, verosimilmente in relazione allo stress ossidativo cronico. Le caratteristiche dei normopesi metabolicamente obesi sono ormai ben

conosciute. La leptinemia, in questi ultimi, correla bene con l’insulinemia e potrebbe correlare altrettanto bene con variabili cliniche della sindrome metabolica quali l'ipertensione arteriosa.

E’ evidente che l’organo adiposo regoli attivamente il bilancio energetico attraverso un complesso network di segnali ormonali e neuronali quali la leptina, il tumor necrosis factor, la resistina. La resistina, al pari del TNF alfa e dell’adiponectina, agisce sui tessuti periferici e i processi coinvolti nel metabolismo di diversi substrati e potrebbe essere uno dei link principali tra obesità e diabete di tipo 2 inibendo l’adipogenesi ed elevando gli acidi grassi liberi circolanti. La secrezione di resistina è influenzata dagli ormoni tiroidei, dallo stato di nutrizione e dal digiuno ed è in relazione con gli ormoni sessuali.

Le concentrazioni plasmatiche di adiponectina sono inversamente proporzionali ai valori di trigliceridi e acidi grassi liberi e correlano positivamente con i valori di HDL;

l’adiponectina favorisce l’assunzione degli acidi grassi da parte del muscolo, dove induce la β-ossidazione e nel fegato accelera i processi ossidativi in cui si ha produzione di ATP (glicolisi, β-ossidazione degli acidi grassi), mentre blocca sensibilmente i processi che richiedono energia, quali la biosintesi degli acidi grassi, del colesterolo, delle proteine e del glicogeno. Negli Indiani Pima alti livelli di adiponectina sono associati ad un’aumentata sensibilità insulinica e ad un ridotto rischio di diabete di tipo 2. E’ stata sottolineata più volte l’associazione tra indicatori di flogosi e sindrome metabolica ed è stata osservata una relazione diretta tra i livelli di proteina C reattiva (PCR) ed il numero delle anomalie metaboliche.

Bassi livelli di adiponectina sono associati con alti livelli di PCR ed è ipotizzabile che l’insulino-resistenza del soggetto obeso, almeno in parte, sia una malattia infiammatoria cronica che inizia proprio nel tessuto adiposo. L’adiponectina, visti gli studi che

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36 regolatore principale delle adipocitochine e dell’espressività del GLUT 4, svolge

probabilmente un ruolo chiave nella sindrome metabolica (61) (62).

6 Associazione tra sindrome metabolica e dieta Mediterranea

6.1 EFFETTI GENERALI DELLA DIETA MEDITERRANEA

La dieta Mediterranea è un approccio nutrizionale caratterizzato da:

 Limitazione delle carni rosse e delle carni lavorate (carne magra bovina o suina o avicola o di coniglio, speck, bresaola, parti magre del prosciutto crudo),

 Limitazione di grassi di origine animale (latte, latticini grassi ecc.),  Olio extravergine di oliva,

 Pasta condita semplicemente, con pomodoro, olio extravergine di oliva e parmigiano,

 Pizza condita semplicemente  Vegetali freschi, legumi

 Pesce fresco o surgelato, misto,  Formaggi poco grassi,

 Frutta fresca di stagione e sporadicamente frutta secca a guscio,  Acqua,

 Moderate quantità di vino rosso,  Consumo sporadico di dolci

Tale regime alimentare consiste in una dieta ricca di cereali (oltre il 60% delle calorie totali), povera in grassi (in un range di 25-30% di energia), con una prevalenza dell’olio di oliva per oltre il 70% dei grassi aggiunti e degli acidi grassi mono- e polinsaturi su quelli saturi (7-8% dell’energia) e secondo molte evidenze scientifiche è efficace nella riduzione del rischio di sindrome metabolica, in contrapposizione allo stile alimentare definito “western diet” caratterizzato da un’elevata assunzione di grassi saturi e di zuccheri. La American Diabetes Association e la American Heart Association raccomandano la dieta Mediterranea per migliorare il controllo della glicemia e per ridurre i fattori di rischio cardiovascolare nel diabete di tipo 2, infatti la buona aderenza a questo regime alimentare è associata con una riduzione del 20-23% del rischio di insorgenza del diabete, riduzione dei livelli dell’emoglobina glicata e una riduzione del rischio di eventi cardiovascolari del 28-30%; i meccanismi con i quali la dieta Mediterranea permette il raggiungimento di questi benefici si ritiene siano principalmente due:

 Antiinfiammatorio;  Antiossidante;

L’aumento del consumo di cibo di alta qualità, come quello della dieta Mediterranea, comporta una modulazione del processo infiammatorio riducendo la produzione di citochine proinfiammatorie e aumentando quelle antiinfiammatorie; in questo modo si genera un mezzo antiinfiammatorio che incrementa la sensibilità all’insulina dei tessuti periferici e la funzione endoteliale a livello vascolare e costituisce una barriera verso la sindrome metabolica, all’insorgenza del diabete di tipo 2 e dell’aterosclerosi (63).

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