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La diagnosi precoce dei Disturbi dello Spettro Autistico: l'uso del questionario ITSEA

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e

dell’Area Critica

Corso di Laurea Magistrale in Psicologia Clinica e della Salute

Tesi di Laurea

“La diagnosi precoce dei Disturbi dello Spettro Autistico:

l’uso del questionario ITSEA.”

Relatore: Candidato:

Dott. Fabio Apicella Roberta Lasala

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INDICE

Riassunto 3

Introduzione 4

Capitolo 1: La diagnosi precoce dei disturbi dello spettro autistico 6

1. La storia dei Disturbi dello Spettro Autistico 6

1.1 L’evoluzione della diagnosi di Autismo nel DSM 7

2. I Disturbi dello Spettro Autistico nel DSM-5 9

3. La diade sintomatica dei Disturbi dello Spettro Autistico 11

3.1 Il deficit della comunicazione e dell’interazione sociale 11

3.2 Comportamenti, attività e interessi ristretti e ripetitivi 18

4. La diagnosi precoce 20

Capitolo 2: Strumenti per la diagnosi precoce dei Disturbi dello Spettro Autistico 27

1. Strumenti per lo screening e la diagnosi di ASD 27

2. TSEA e BITSEA 31

Capitolo 3: Studio con il questionario ITSEA 39

1. Scopo dello studio 39

2. Materiali e metodi 41

3. Analisi statistiche 44

4. Risultati 44

4.1 Correlazioni 44

4.2 Confronto fra gruppi 49

5. Discussioni 54

Conclusioni 55

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RIASSUNTO

L’autismo, nel DSM 5, è stato inserito nella categoria dei disturbi del neurosviluppo, per i quali le manifestazioni comportamentali sono solamente la componente emergente di una più profonda alterazione della neurobiologia cerebrale. Wing e Gould hanno proposto l’utilizzo del termine “Spettro Autistico” per indicare la complessa e ampia variabilità con la quale l’autismo può esprimersi. I Disturbi dello Spettro Autistico (Autism Spectrum Disorders - ASD), nel complesso, vengono diagnosticati in presenza di deficit della comunicazione e dell’interazione sociale, insieme ai comportamenti, attività e interessi ristretti e ripetitivi. Ad oggi, la diagnosi di ASD viene effettuata mediamente a 3 anni di età, epoca in cui la sindrome si è già chiaramente stabilita. Tuttavia, il crescente aumento dei casi diagnosticati e la mancanza di specifici biomarcatori, hanno indirizzato la ricerca verso lo studio dei comportamenti che possano segnare in età più precoci l’insorgenza di un ASD al fine di anticiparne la diagnosi. Lo sviluppo dei protocolli età-specifici per l’assessment e la diagnosi precoce, permetterebbe di identificare nel minor tempo possibile quei bambini a rischio di ASD, inviandoli tempestivamente ai trattamenti precoci, al fine di migliorarne il più possibile la sintomatologia e la gravità del disturbo. Lo studio “Early Bird” condotto dall’IRCCS Fondazione Stella Maris di Calambrone (PI) nell’ambito del Programma di Ricerca Finalizzata finanziato dal Ministero della Sanità, ha lo scopo di sviluppare protocolli diagnostici età-specifici, sufficientemente sensibili nell’individuare i segnali precoci di sviluppo atipico e specifici nel differenziare i Disturbi dello Spettro Autistico da altri disturbi del neurosviluppo. All’interno dell’Early Bird, si inserisce lo studio sull’efficacia del questionario “Infant-Toddler Social and Emotional Assessment” (ITSEA), come strumento utile per l’assessment, insieme alla Child Behavior Checklist (CBCL 11/2 -5).

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INTRODUZIONE

I bambini con un Disturbo dello Spettro Autistico appaiono spesso agli occhi di tutti come bambini “bizzarri”, per le evidenti anomalie comportamentali causate dalla sindrome. Lo Spettro Autistico è un continuum lungo cui si inseriscono sia la sintomatologia che la gravità della condizione specifica di ogni bambino. Con il DSM 5, infatti, è stata adottata questa terminologia, abbandonando il singolo termine “autismo”, proprio perché non rispecchia la varietà e totalità della fenomenologia del disturbo. Risulta quasi del tutto impossibile trovare due persone con autismo che abbiano la stessa identica costellazione sintomatologica. Lorna Wing ha proposto una divisione semplificativa delle tipologie di bambini con ASD, in: bambini “passivi”, bambini “bizzarri” e bambini “inaccessibili” (Wing e Gould, 1979). In tutti e tre i casi, ciò che li contraddistingue è la mancanza di comportamenti socialmente adeguati, causata da una complessa e profonda alterazione del neuro sviluppo. In particolare, ciò che sembra maggiormente alterato è l’insieme delle connessioni fra specifiche aree cerebrali, che vanno a formare il cosiddetto “cervello sociale”. Il “cervello sociale” è l’impalcatura neuronale che permette fin dai primi giorni di vita di creare una corsia preferenziale verso quegli stimoli che sono di natura sociale: volto, voce umana, sguardo, richiamo per nome, movimento biologico, etc. Purtroppo, non vi è un’unica e conclamata causa dell’insorgenza dell’autismo. L’ampia gamma di alterazioni che il disturbo comporta fa capo a molte e diverse alterazioni genetiche, neurotrasmettitoriali e della connettività cerebrale, che non permettono l’identificazione di specifici biomarcatori. La diagnosi di ASD, infatti, poggia su un approccio multidisciplinare, sia biologico che comportamentale, al fine di ottenere una valutazione completa del bambino. Solo in questo modo, la diagnosi, può essere considerata affidabile. Non essendoci indagini pre- e post-natali che confermino la presenza di ASD nel neonato, l’invio presso centri specializzati avviene con l’avanzare dello sviluppo, nel momento in cui le richieste ambientali eccedono rispetto alle capacità di adattamento e sviluppo del bambino, determinando la comparsa di anomalie comportamentali. I genitori si accorgono, solitamente, intorno ai 2 anni di alcuni campanelli d’allarme, come: il ritardo o l’assenza del linguaggio, lo scarso contatto oculare, l’infrequente risposta

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al nome, la tendenza ad isolarsi e a mettere in atto giochi afinalistici o stereotipati, messi in atto continuamente in modo ossessivo, etc. Essendo l’autismo un disturbo causato da un deficit nella comunicazione e nell’interazione sociale e dalla presenza di comportamenti, attività e interessi ristretti e ripetitivi, risulta chiaro che le anomalie possono emergere chiaramente soprattutto all’interno della relazione con l’altro e nello sviluppo delle attività di gioco. Questo ritarda la comparsa delle prime preoccupazioni genitoriali, che portano ad intraprendere l’iter diagnostico. La diagnosi di ASD, oggi, viene fatta definitivamente a 3 anni, nonostante le prime preoccupazioni dei genitori comincino già verso entro i 24 mesi. A tal proposito, gli studi presenti in letteratura hanno cercato di indagare la presenza di anomalie ricorrenti nello sviluppo dei bambini con ASD, al fine di individuare dei red falgs che li portino precocemente all’attenzione clinica. Finora, i suddetti studi, si basano principalmente su indagini retrospettive, condotte attraverso l’analisi dei filmati familiari dei bambini che hanno successivamente ricevuto la diagnosi di ASD, e su indagini prospettiche, con il monitoraggio longitudinale delle traiettorie di sviluppo di bambini ad alto rischio di ASD, noti come siblings (fratellini e sorelline minori di bambini con ASD). L’obiettivo comune è quello di dare il più possibile affidabilità e stabilità alla diagnosi precoce, da effettuarsi entro i 2 anni. Questo permetterebbe, non solo, di comprendere meglio l’origine e l’insorgenza dello Spettro Autistico, ma di permettere ai bambini individuati a rischio e diagnosticati di beneficiare degli interventi precoci e personalizzati, per migliorarne l’outcome. Numerose ricerche, infatti, hanno dimostrato come un intervento svolto entro i primi 3 anni di vita possa modificare significativamente la successiva traiettoria di sviluppo del bambino (Muratori, Narzisi & Cioni, 2011; Handleman, Harris, Celbiberti, Lilleheh & Tomcheck, 2001;Rogers & Vismara, 2008). Il primo capito della tesi descrive le caratteristiche dei Disturbi dello Spettro Autistico, approfondendo la tematica della diagnosi precoce. Il secondo capito è dedicato alla descrizione degli strumenti utilizzati nell’assessment e nella diagnosi di ASD. Il terzo capitolo, infine, descrive uno studio sperimentale, che rientra nel progetto “Early Bird” della Fondazione Stella Maris di Calambrone (PI), sull’efficacia del questionario ITSEA, affiancato dalla CBCL, nelle procedure di assessment.

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CAPITOLO 1

La diagnosi precoce dei Disturbi dello Spettro Autistico

1. La storia dei Disturbi dello Spettro Autistico

Nel corso degli anni sono stati fatti notevoli cambiamenti e passi avanti per quanto riguarda la diagnosi di Autismo. Kanner è stato il primo ad introdurre il concetto di “disturbo autistico” nel 1943, riferendosi ad individui “venuti al mondo privi della capacità innata di formare contatti affettivi” (Kanner, 1943, p.43). Nel suo lavoro, Autistic disturbance of affective contact, Kanner ha descritto 11 bambini che apparivano indifferenti verso ciò che gli accadeva intorno, con regole proprie, tanto che il loro comportamento non sembrava seguire logiche comprensibili. Kanner delineò una descrizione generale della sindrome: con il termine Autismo, infatti, si riferì alla tendenza di questi bambini ad isolarsi e alla loro apparente inaccessibilità. In questo modo distinse fin dall’inizio questa condizione dalla schizofrenia o da qualsiasi altro disturbo psichiatrico (Volkmar F. R. e McPartland J. C., 2014). Kanner ha sostenuto fin dal principio che ci fosse una base genetica nell’insorgenza del disturbo, specificando come questi bambini avessero una circonferenza cranica atipicamente ampia.

A partire da questa prima formulazione, il concetto di Autismo è stato oggetto di molteplici ricerche, interpretazioni e revisioni. Negli anni ’60, numerosi studiosi, con formazione di tipo psicoanalitico o psicodinamico, avanzarono un’ipotesi etiopatogenetica, poi rivelatasi infondata, che faceva ricadere sui genitori e sul loro stile di accudimento la causa dell’autismo. L’autismo, secondo il loro punto di vista, rappresenterebbe una difesa primordiale, messa in atto dal bambino nei confronti di genitori freddi e anaffettivi, le cosiddette “madri frigorifero”. L’opera manifesto di questa visione è stata “La fortezza vuota” di Bettelehim, nel 1967, in cui egli paragonò il comportamento dei genitori dei bambini con autismo a quello dei nazisti con gli ebrei nei campi di concentramento. Secondo tale ipotesi, la cura richiedeva la “parentectomia”, ovvero sia l’allontanamento del bambino dalla propria famiglia (Vivanti G.,

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2010). Questa interpretazione fu messa tempestivamente in discussione da numerose successive ricerche, svolte con il necessario rigore metodologico, in cui emerse la natura fondamentalmente innata della sindrome. In particolare, i lavori condotti sui gemelli e sui correlati neurobiologici sono stati determinanti per l’affermazione dell’origine genetica dell’autismo (Folstein e Rutter, 1977).

1.1 L’evoluzione della diagnosi di Autismo nel DSM

Nonostante l’autismo fosse conosciuto a partire dai primi studi di Kanner e un numero cospicuo di studiosi e di ricerche si siano occupati delle sue cause e del trattamento, è solo nel 1980 che il DSM, alla sua terza edizione, incluse l’autismo tra i disturbi diagnosticabili. I lavori di Rutter (1978) sono stati molto influenti a tal proposito, in quanto hanno collocato l’insorgenza dei sintomi nella prima infanzia, proponendo una triade sintomatologica: problemi sociali, linguistici (o assenza di linguaggio) e comportamenti insoliti e ripetitivi. In particolare, le caratteristiche di quest’ultima area di difficoltà sono state molto enfatizzate e consistono in fasi insolite di sviluppo e anomalie sensoriali verso l’ambiente (ipo-o ipersensibilità). C(ipo-on il DSM III, la definizi(ipo-one del disturb(ipo-o è “autism(ipo-o infantile”, assegnato alla categoria dei “disturbi generalizzati dello sviluppo”, e questo sottolinea la centralità dell’insorgenza nella prima infanzia.

Un’importante modifica alla definizione di autismo è stata applicata al DSM III-R, identificabile già nel nuovo nome: “disturbo autistico”. Questo mostra come venga data maggiore importanza allo stato attuale, senza rendere necessario includere l’anamnesi precoce con la documentazione sull’insorgenza precoce. Ciononostante, viene posta molta attenzione all’aspetto evolutivo della condizione (Volkmar et al., 1992). Un’altra peculiarità è l’approccio politetico, fonte di una maggiore flessibilità diagnostica. Con il DSM III-R, infatti, per poter fare diagnosi di disturbo autistico devono essere soddisfatti 8 criteri, in particolare: due nella categoria sociale e almeno uno per ognuna delle altre due. Tuttavia, questa modifica ha causato un notevole incremento di falsi positivi, soprattutto in presenza di disabilità intellettiva. (Factor et al., 1989; Hertzig et al., 1990).

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Con il passaggio al DSM IV le innovazioni riguardano principalmente l’inclusione di altri disturbi, quali: la sindrome di Asperger (Szatmari, 1991), il disturbo di Rett (Gillberg, 1994) e il disturbo disintegrativo della fanciullezza (Volkmar, 1992a).

La sindrome di Asperger

La sindrome di Asperger è stata descritta per la prima volta nel 1944 da Hans Asperger, il quale ha utilizzato il termine “autismo”, non conoscendo ancora il lavoro di Kanner pubblicato l’anno precedente, per indicare la condizione di alcuni bambini con gravi compromissioni sociali e motorie con competenze verbali sufficientemente preservate e buone. Individui con questa sindrome hanno, quindi, deficit nelle competenze sociali e della reciprocità associati ad un repertorio di attività e interessi ristretti. Accanto a queste analogie con l’autismo, se ne discostano per le buone abilità linguistiche e l’intelligenza nella norma (Vivanti, 2010). La sindrome di Asperger, tuttavia, ha causato non pochi problemi a livello di specificità e sensibilità diagnostica a causa dell’ampia varietà sintomatologica. Infatti, vari lavori l’hanno spesso associata al profilo neuropsicologico della disabilità di apprendimento non verbale (Klin et al., 1995; Lincoln et al., 1998; Volkmar et al., 2013).

La sindrome di Rett

Nel 1966 il medico austriaco Andreas Rett ha descritto i casi di alcune pazienti con lo stesso comportamento di “lavaggio”, ovvero queste ragazzine si sfregavano le mani come se le stessero lavando. La sindrome di Rett è una malattia X-linked che colpisce quasi esclusivamente le femmine e, queste bambine, subiscono un arresto nello sviluppo intorno al primo anno di vita con un conseguente deterioramento cognitivo e motorio. Questo deterioramento progressivo comporta, intorno ai tre anni, una perdita di interesse verso le persone con scarsa responsività e iniziativa sociale, insieme alla comparsa di stereotipie (Rett, 1986). Tali caratteristiche hanno fatto sì che la patologia fosse inserita nei disturbi pervasivi dello sviluppo. Tuttavia, a differenza dell’autismo, la sindrome di Rett ha cause note riconducibili alla mutazione del gene MECP2 e rappresenta

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una malattia rara: colpisce 1:15000 bambine (Amir et al., 1999). Circa l’80% delle bambine con la sindrome di Rett presenta tale mutazione, ma è anche riscontrabile in alcuni individui con autismo.

Disturbo disintegrativo della fanciullezza

Heller, educatore viennese, ha descritto nel 1908 questo disturbo raro e pervasivo. Il disturbo disintegrativo della fanciullezza si manifesta in bambini che crescono normalmente fino al terzo anno di vita, per poi regredire in modo rapido o insidioso. Questi bambini mostrano una sintomatologia simile all’autismo, ma con maggiore gravità: totale perdita del linguaggio e delle capacità adattive (Volkmar e Rutter, 1995).

Disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato (autismo atipico)

Nel DSM IV questa categoria diagnostica viene riservata a coloro che non soddisfano pienamente tutti i criteri per la diagnosi di autismo, ad esempio bambini con problemi in due aree su tre (American Psychiatric Association, 2001). La prognosi di questi bambini risulta essere migliore di quelli con autismo ed è una condizione ancor più comune (Fombonne, 2009).

Con il DSM IV, quindi, i criteri per la diagnosi di autismo sono:

A: Compromissione qualitativa dell’interazione sociale; compromissione qualitativa della comunicazione; presenza di interessi ristretti e stereotipati.

B: Insorgenza entro i 3 anni.

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2. I Disturbi dello Spettro Autistico nel DSM-5

Il passaggio al DSM 5, nel 2013, vede nuove modifiche nella definizione e nei criteri dell’autismo. Per quanto riguarda l’etichetta diagnostica, ci si riferisce ai Disturbi dello Spettro Autistico. Il concetto di “spettro autistico” è stato introdotto da Wing e Gould per descrivere il continuum sintomatologico di anomalie sociali riscontrabili da soggetto a soggetto con diversi livelli di gravità. Le aree di compromissione vengono ridotte a due, accorpando quella dell’interazione e della comunicazione e inserendo una serie di specificatori. I criteri del DSM 5, quindi, diventano:

A: Deficit persistenti della comunicazione sociale e dell’interazione sociale in svariati contesti, quali:

1. Deficit nella reciprocità socio-emotiva (approccio sociale anomalo; assenza della normale reciprocità della conversazione; ridotta condivisione degli interessi, emozioni o sentimenti; assenza di iniziativa e/o risposta durante le interazioni sociali).

2. Deficit nei comportamenti comunicativi non verbali usati all’interno dell’interazione sociale (scarsa integrazione fra comunicazione verbale e non verbale; anomalo contatto oculare; anomalie nel linguaggio del corpo e nell’uso dei gesti; mancanza di espressività facciale e gestualità).

3. Deficit dello sviluppo, della gestione e della comprensione delle relazioni appropriate al livello di sviluppo (scarsa flessibilità nell’adattare il comportamento alle diverse situazioni sociali; difficoltà nella condivisione del gioco di immaginazione; difficoltà nel fare amicizia; apparentemente scarso o assente interesse verso i coetanei).

B: Pattern di comportamento, interessi o attività ristretti, ripetitivi, come manifestato dalla presenza di almeno due dei seguenti punti:

1. Movimenti, azioni o eloquio stereotipati o ripetitivi (stereotipie motorie semplici, ecolalia, frasi idiosincratiche, mettere i uso ripetitivo di oggetti).

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2. Eccessiva riluttanza e avversione verso i cambiamenti, aderenza alla routine in modo eccessivamente rigido o presenza di comportamenti verbali o non verbali ritualizzati (estremo disagio davanti a piccoli cambiamenti, difficoltà durante le transizioni, schemi di pensiero rigidi). 3. Interessi molto limitati, fissi che sono anomali per intensità o profondità.

4. Iper- o iporeattività verso gli stimoli sensoriali o interessi insoliti verso aspetti sensoriali dell’ambiente (avversione verso suoni o consistenze tattili specifiche; indifferenza verso il dolore o la temperatura; forte fascino verso sorgenti luminose o movimenti particolari).

C: I sintomi devono essere presenti nel periodo precoce dello sviluppo, anche se possono non manifestarsi pienamente prima che le esigenze sociali eccedano le capacità limitate.

D: I sintomi causano compromissione clinicamente significativa del funzionamento quotidiano.

E: Tali alterazioni non sono meglio spiegate da disabilità intellettiva o da un ritardo globale dello sviluppo. Dal momento che l’ASD spesso si manifesta in concomitanza di questi altri due disturbi, per poter fare diagnosi di comorbilità, è necessario che il livello di comunicazione sociale sia inferiore rispetto a quanto atteso per il livello di sviluppo generale.

Un ulteriore cambiamento è rappresentato dall’eliminazione della categoria dei disturbi pervasivi dello sviluppo. L’autismo rientra, ora, nei disturbi del neurosviluppo. Questi sono caratterizzati da anomalie nello sviluppo cerebrale che si manifestano dalle prime fasi della crescita. I sintomi possono presentarsi o per eccesso o per difetto all’interno delle aree sintomatologiche della comunicazione, dell’interazione sociale e delle attività e interessi ristretti e ripetitivi (Fabbro, 2012).

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3. La diade sintomatica dei Disturbi dello Spettro Autistico

3.1 Il deficit della comunicazione e dell’interazione sociale

Il deficit delle capacità comunicative, solitamente, sono il primo campanello d’allarme percepito dai genitori, che li porta a consultare uno specialista. I bambini con autismo mostrano difficoltà nello sviluppo del linguaggio e, queste, possono manifestarsi in svariati modi lungo un continuum che va dall’assenza totale di linguaggio e iniziative comunicative, alla presenza di un linguaggio ben sviluppato, con un vocabolario ricco, ma che tuttavia manca di flessibilità legata al contesto (Luyster, 2007; Tager-Flusberg, 1999). I problemi comunicativi emergono sia in relazione alle capacità di comprensione che di produzione e possono essere invalidanti nello sviluppo delle competenze sociali. Le difficoltà di comprensione del linguaggio, in particolare, sono frequentemente all’origine di comportamenti aggressivi auto- ed etero diretti che si osservano spesso in bambini con autismo (Cafiero, 2005; Mirenda e Iacono, 2009). Problemi nella comprensione sono associati all’interpretazione letterale del linguaggio, legata al deficit nelle capacità immaginative e di astrazione, e alla scarsa attenzione rivolta verso gli stimoli comunicativi. I problemi di produzione, a loro volta, coinvolgono vari aspetti, in particolare la possibile assenza di linguaggio verbale che caratterizza una percentuale variabile di bambini (20-50%) (Rapin, 1996; Wetherby e Prizant, 2000). Molti bambini acquisiscono un certo numero di parole tra i 12 e i 18 mesi di vita, per poi subire una regressione con conseguente perdita delle abilità acquisite. Questo fenomeno è presente unicamente nell’autismo (Lord, Shulman e DiLavore, 2004). Parallelamente ai deficit verbali, spesso vi sono anche difficoltà nella comunicazione non verbale che tendono ad aggravare il quadro. Infatti, bambini con ritardo nello sviluppo del linguaggio mostrano una sufficiente compensazione comunicativa a livello non verbale. Bambini con autismo, invece, mostrano un ridotto, se non assente, uso delle competenze non verbali e pragmatiche della comunicazione. Uno dei primi segnali è la mancanza di contatto oculare, canale comunicativo di eccellenza fin dai primi istanti di vita, seguito nel corso dello sviluppo dall’assenza del pointing (gesto dell’indicare)

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(Camaioni et al, 2003; M. Sigman, Mundy, Sherman e Ungerer, 1986; Trillingsgaard, Ulsted Sorensen, Nemec e Jorgensen, 2005). Le ricerche mostrano, infatti, come gli individui con autismo hanno maggiori difficoltà nell’uso del linguaggio rispetto ai suoi aspetti formali. Questa caratteristica è un criterio differenziale tra l’autismo e il disturbo specifico del linguaggio. Emerge ancora una volta, quindi, la carenza della componente sociale nello sviluppo delle abilità, in questo caso, comunicative. A tal proposito, nel 1994, è stata cambiata la definizione di uno dei criteri diagnostici dell’autismo, ovvero, è stato modificato il “deficit di linguaggio” in “deficit della comunicazione”. Un’altra caratteristica peculiare dell’autismo nell’ambito della produzione linguistica è l’ecolalia. L’ecolalia interessa circa il 25% degli individui con autismo (Prizant e Dunchan, 1981; Quill, 1995) e consiste nella ripetizione letterale di una parola o di un gruppo di parole sentite da una fonte esterna e può essere immediata, se la ripetizione avviene subito dopo l’ascolto, o differita, se avviene a distanza di tempo dall’ascolto. Nell’autismo, l’ecolalia è conseguenza della tendenza ad imitare rigidamente ciò che si sente. In questo caso, il gruppo di suoni memorizzati non viene analizzato nelle sue componenti e risulta inaccessibile all’uso flessibile nella comunicazione (Vivanti, 2010). Recenti studi hanno dimostrato come l’uso dell’ecolalia può essere interpretato in alcuni casi come un intento comunicativo del bambino, il quale associa una parola o un’espressione ad un messaggio o bisogno da comunicare (National Research Council, 2001). In altri casi, però, l’ecolalia appare come una forma di autostimolazione , in particolare quando vengono ripetute parole in modo ossessivo. Questa ripetizione di frasi familiari tranquillizza il bambino (Prizant e Dunchan, 1981). Ma come fanno i bambini ad apprendere il linguaggio e il suo uso all’interno della comunicazione sociale? Fin dai primi istanti di vita, le esperienze del neonato sono guidate dalle azioni degli adulti (Rogoff, 2003; Vygotsky, 1978). I bambini imparano all’interno del gioco e delle interazioni quotidiane: comprendono che le proprie azioni possono avere un effetto sull’altro, imparano il significato delle parole e la funzione degli oggetti. L’autismo, d’altro canto, impedisce questo naturale processo di apprendimento. Fin dal quarto giorno di vita, si nota un orientamento preferenziale nei bambini a sviluppo tipico verso i suoni della voce

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umana. Il “motherese”, linguaggio caratterizzato da picchi e cambiamenti nell’intonazione che i genitori usano quando si rivolgono al neonato, solitamente è una fonte attentiva molto forte. Nei bambini con autismo, invece, si nota una riduzione dell’attenzione verso il motherese associata ad una futura riduzione delle capacità comprensive e produttive del linguaggio. Alcune ricerche mostrano come all’interno del gruppo di bambini con autismo, coloro che prestano più attenzione al motherese sviluppano migliori competenze linguistiche rispetto agli altri (Paul, Chawarska, Fowler, Cicchetti e Volkmar, 2007). Studi con la risonanza magnetica in individui con autismo hanno evidenziato, durante compiti di ascolto del linguaggio, l’attivazione di aree del Solco Temporale Superiore deputate all’elaborazione generale di suoni non linguistici (Gervias et al, 2004). Questo dimostra come manca la predisposizione innata ad elaborare selettivamente gli stimoli linguistici. Un dato predittivo, quindi, sembra essere l’attenzione che il neonato rivolge verso la voce umana. Questo deficit di orientamento riduce la quantità di stimoli di natura sociale che arrivano al bambino con autismo, non permettendogli di sincronizzarsi con il genitore, condividerne l’affetto e usufruire di ogni scambio interattivo per sviluppare le proprie competenze comunicative (Colombi, Vivanti e Rogers, 2007). Un’abilità cruciale nell’acquisizione del linguaggio è l’attenzione condivisa. Quest’ultima è la capacità di dirigere o seguire con lo sguardo l’attenzione verso un focus comune fra due interlocutori, abilità che si acquisisce pienamente intorno ai 18 mesi (Carpendale e Muller, 2004). L’attenzione condivisa è un precursore del linguaggio, una prima forma comunicativa non verbale e presuppone l’elaborazione parallela di due processi: la propria attenzione e quella del partner comunicativo. Nell’interazione con un bambino con sviluppo tipico avviene in modo naturale la triangolazione dello sguardo. Questa è una sequenza comunicativa immediata che avviene senza il bisogno di ricorrere al linguaggio. Frequentemente, invece, nei bambini con autismo, lo sguardo resta fisso sull’oggetto o sull’interlocutore e non sembrano cogliere l’intento comunicativo del movimento oculare. All’aumentare del deficit di attenzione condivisa, si assiste anche ad una riduzione dello sviluppo del linguaggio e delle attività simboliche (Minshew e Williams, 2007; Weng, 2009). Il deficit delle attività simboliche si riscontra anche nell’interpretazione letterale

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del linguaggio, a sua volta connessa alla maggiore predisposizione all’elaborazione locale piuttosto che globale. Nello studio di Just e colleghi emerge che le persone con autismo, durante l’ascolto di frasi, attivano maggiormente l’area di Wernicke rispetto al gruppo di controllo, affiancata ad una minore attivazione dell’area di Broca. Secondo gli autori, questo pattern di attivazione è legato ad una maggiore analisi del significato delle parole con una minore integrazione delle parole nella globalità della frase (Just, Cherkassky, Keller e Minshew, 2004). Questo pattern è anche coerente con la tendenza delle persone con autismo ad utilizzare strategie di pensiero basate sulla rappresentazione visiva, piuttosto che linguistica. Uno studio che ha dimostrato questa supposizione è stato condotto da Kana e colleghi, i quali hanno osservato come vi sia una prevalente attivazione delle aree occipitali, deputate all’elaborazione visuo-spaziale, durante l’ascolto di frasi rispetto ai controlli (Kana, Keller, Cherkassky, Minshew e Just, 2006).

Per poter interagire socialmente, quindi, bisogna saper differenziare gli stimoli sociali da quelli non sociali, interpretare correttamente i messaggi e saper bilanciare le iniziative e le risposte agli stimoli sociali in modo flessibile (Emery, Clayton e Frith, 2008). Come già detto in precedenza, neonati con sviluppo tipico mostrano un orientamento preferenziale verso gli stimoli sociali. Non si tratta solamente di stimoli linguistici, ma anche di segnali provenienti dal volto umano, in particolare dagli occhi, dal contatto fisico e dal movimento biologico rispetto a quello meccanico (Farroni et al, 2005; Johnson, Grossman e Choen Kadosh, 2009; Johnson, Grossman e Farroni, 2008). Questa predisposizione e specializzazione del cervello umano verso gli stimoli sociali è cruciale nello sviluppo di un’organizzazione neurocognitiva che gliene permetta la lettura e l’interpretazione (Vivanti, Congiu e Romano, 2006; Klin et al, 2003). L’autismo crea importanti difficoltà nello sviluppo di questa organizzazione, che è alla base dello sviluppo della reciprocità sociale e intersoggettività. Si è visto che i bambini con autismo orientano in modo preferenziale la loro attenzione verso gli stimoli caratterizzati da contingenze perfette, come quelli del mondo fisico-meccanico, a scapito di quelli sociali (Klin, Lin, Gorrindo, Ramsay e Jones, 2009). Le interazioni e i comportamenti sociali, per quanto possano essere ripetitivi, non sono mai

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contingenze perfette e, di volta in volta, subiscono delle variazioni. Questa imprevedibilità del comportamento umano può risultare uno scoglio difficile da superare per un bambino la cui architettura cerebrale non ne permette una corretta e facile lettura. Ne può conseguire, quindi, un possibile aumento di risposte di evitamento verso gli stimoli di natura sociale, che va a ridurre ulteriormente la stimolazione necessaria per il corretto sviluppo neurocognitivo. Tutte queste ipotesi fanno riferimento ad una teoria di fondo, secondo la quale, i comportamenti sociali e automatici sono il frutto della presenza di specifiche connessioni biologicamente determinate: il cosiddetto “cervello sociale”. Il cervello sociale è un insieme di connessioni fra aree corticali e sottocorticali (Solco Temporale Superiore, Amigdala, Giro Fusiforme, Sistema dei Neuroni Specchio, Corteccia prefrontale) che permette di discriminare fin dai primi mesi di vita ciò che appartiene al mondo sociale da ciò che non gli appartiene, al fine di sviluppare una “corsia preferenziale” per l’elaborazione di tali stimoli, necessari per lo sviluppo di numerose abilità adattive. Nei primi sei mesi di vita, bambini con sviluppo tipico partecipano all’interazione con la madre attraverso sguardi, vocalizzazioni, sorrisi e contatto fisico, sviluppando sincronia, coordinazione e alternanza di turni (Trevarthen e Aitken, 2001). Una prima manifestazione dell’anomalia di queste connessioni emerge proprio dalla mancanza di contatto oculare, caratteristica frequente in bambini con autismo (Senju e Johnson, 2009). Il contatto oculare è cruciale nell’apprendimento e nello sviluppo, dato che le espressioni facciali trasmettono una quantità notevole di informazioni che guidano la percezione e la scelta dei comportamenti più appropriati da mettere in atto. Prestare attenzione al volto e, in particolar modo, allo sguardo permette di capire lo stato emotivo altrui, le sue intenzioni e di predire il comportamento che metterà in atto in una determinata situazione (Nadig e Sedivy, 2002). Analogamente all’elaborazione degli stimoli linguistici, anche per quanto riguarda gli stimoli provenienti dal volto umano nei bambini con autismo sembra mancare la selettività presente in bambini con sviluppo tipico. A tal proposito, è stato evidenziato come il Giro Fusiforme, area del network del cervello sociale che si attiva quando si osservano i volti, è ipoattivo in persone con autismo rispetto ai controlli, con una maggiore attivazione del Giro Temporale Inferiore, area attiva

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durante la visione degli oggetti (Hadjikhani et al, 2004). Vi è un fallimento nell’elaborare i volti umani come classe speciale di stimoli rispetto agli altri stimoli visivi. Il contatto oculare, tuttavia, non è solo la base per l’apprendimento e la comprensione del comportamento altrui, ma è fondamentale per lo sviluppo delle emozioni e dell’attaccamento. Verso i 12 mesi emerge il fenomeno del “social reference” (riferimento sociale), che consiste nella ricerca della madre nel momento in cui il bambino si trova a contatto con oggetti, persone ed eventi sconosciuti per poi reagire di conseguenza alla sua reazione emotiva. Attraverso questo processo la qualità emotiva attribuita ad un evento viene modulata dalle emozioni osservate nell’altro. È un passo avanti nello sviluppo della regolazione emotiva (Hornik e Gunnar, 1988). Nei bambini con autismo, questo fenomeno non si manifesta. In uno studio di Seligman e colleghi, sono stati messi a contatto dei bambini con sviluppo tipico e dei bambini con autismo con un robot e le loro madri sono state istruite a mostrarsi terrorizzate. Ciò che è emerso è che i bambini con sviluppo tipico hanno mostrato comportamenti di evitamento in seguito alla reazione delle madri, mentre i bambini con autismo non hanno mostrato preoccupazione (Sigman, Kasari, Kwon e Yimiya, 1992). La componente cerebrale più importante implicata in questi processi è l’amigdala, struttura sottocorticale cruciale nell’elaborazione emotiva e nel mantenimento delle memorie emotivamente significative (Amaral et al, 2003). Un esperimento ha infatti dimostrato come l’amigdala sia ipoattiva in un gruppo di persone con autismo rispetto ai controlli in un compito in cui devono giudicare cosa sta pensando una persona basandosi sullo sguardo (Cohen et al, 2000). Baron-Cohen, verso la metà degli anni ’80 ha attribuito la causa delle difficoltà sociali delle persone con autismo ad un deficit specifico dell’attribuzione degli stati mentali altrui, da lui definito “cecità mentale”. La “Teoria della mente” è, quindi, l’abilità che permette alle persone di capire e prevedere le intenzioni, i desideri, i pensieri e le emozioni altrui. L’autismo sembrerebbe associato ad una carenza in questa capacità, rendendo il mondo sociale e le interazioni con gli altri imprevedibili e difficili da comprendere e da gestire (Baron-Cohen, 1991). Le manifestazioni comportamentali del deficit di Teoria della mente sono riscontrabili in alterazioni dell’espressione mimica, dell’attenzione condivisa,

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dell’imitazione, del gioco simbolico e della comunicazione intenzionale. Le difficoltà nella reciprocità sociale, tuttavia, si esprimono in modo diverso nei bambini con autismo. Lorna Wing ha proposto una classificazione dei profili di comportamento sociale in tre sottogruppi: bambini “inaccessibili”, bambini “passivi” e bambini “bizzarri” (Wing e Gould, 1979). I bambini inaccessibili appaiono come ripiegati su se stessi perché trovano molta difficoltà nelle cose che gli vengono richieste, mostrando anche crisi di aggressività verso se stessi o gli altri. I bambini passivi, invece, sono quelli che raramente prendono l’iniziativa nelle interazioni sociali, ma nel momento in cui vengono abbassate le richieste, sono in grado di partecipare. I bambini bizzarri, infine, sono molto attivi, prendono facilmente l’iniziativa e partecipano alle attività, ma il modo in cui lo fanno risulta inappropriato. La difficoltà di apprendimento e imitazione che non permette lo sviluppo di comportamenti socialmente adeguati sembra essere riconducibile all’alterazione del funzionamento dei “neuroni specchio”. Questi neuroni sono bimodali, ovvero rispondo sia a stimoli sensoriali che motori e creano un collegamento fra ciò che viene visto e l’azione riprodotta. È un meccanismo che permette di legare le azioni e le intenzioni messe in atto, per comprendere e prevedere il fine di un comportamento (Rizzolatti et al, 1996). Diversi autori hanno ipotizzato una compromissione del meccanismo dei neuroni specchio alla base del deficit di reciprocità sociale nell’autismo. Questo non permetterebbe ai bambini ASD di comprendere le azioni degli altri “come se fossi io a farle” e di simulare mentalmente il comportamento dell’altro identificandosi in esso (Oberman e Ramachandran, 2007; Rizzolatti e Fabbri-Destro, 2009).

3.2 Comportamenti, attività e interessi ristretti e ripetitivi

Il secondo dominio di alterazioni nell’autismo, accanto al deficit dell’interazione e della comunicazione sociale, è quello dei modelli di comportamento, attività e interessi ristretti e ripetitivi. Sono una manifestazione peculiare dell’autismo, che distingue questi bambini da quelli che nel DSM 5 riceveranno una diagnosi di disturbo socio-comunicativo. I bambini ASD, infatti, appaiono attratti dai dettagli degli oggetti, da un particolare suono o da specifiche sensazioni corporee. Mettono spesso in atto comportamenti stereotipati, come lo

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sbattere ripetitivamente le braccia, dondolarsi con il busto, muovere le dita davanti agli occhi e camminare sulle punte. Anche all’interno di sessioni di gioco, in cui le azioni sono finalizzate, appare evidente la loro propensione a ripetere ossessivamente la stessa routine di azioni, come ad esempio mettere gli oggetti in fila e impilare i cubi. Tali alterazioni sono attribuibili ad un deficit di immaginazione e astrazione, che oltre a manifestarsi attraverso questi comportamenti, rendono anche il bambino resistente ai cambiamenti nel suo ambiente (Gabriels, Cuccaro, Hill, Ivers e Goldson, 2005; Watt, Wetherby, Barber e Morgan, 2008). Un’ipotesi che è stata proposta per spiegare queste anomalie, principalmente per gli interessi ristretti, fa riferimento ad un particolare stile cognitivo che caratterizza gli individui con autismo. Uta Frith lo definisce come un deficit di “Coerenza centrale”, vale a dire la propensione a focalizzarsi sul dettaglio, piuttosto che sulla globalità dello stimolo. Questa ipotesi è altresì supportata dalle teorie sulla connettività atipica, secondo cui vi è una riduzione della connettività a lungo raggio affiancata da un aumento della connettività a breve raggio, con un maggiore processamento dei dettagli. La coerenza centrale è una modalità percettiva di default delle persone con sviluppo tipico che permette di estrapolare il significato complessivo di un fenomeno, vedendolo nel suo insieme, a scapito dei dettagli. Tuttavia, questa modalità di elaborazione percettiva, rende le persone con autismo superiori nella discriminazione percettiva (Dakin e Frith, 2005). La superiorità nell’elaborazione dei dettagli si ipotizza essere alla base dei talenti straordinari osservati in alcune persone con autismo (Mottoron, Dawson e Soulieres, 2009). Questi talenti eccezionali possono riguardare l’arte, la musica, il calcolo e sono riscontrabili anche in coloro che ottengono bassi punteggi nei test cognitivi e, in questo caso, si parla di “isole di intelligenza” (Happe e Frith, 2009; Howlin, Goode, Hutton e Rutter, 2009). Il 10-30% delle persone con autismo possiede un talento in un particolare ambito e questo è reso possibile prevalentemente dalla capacità di non farsi “rapire” dalla configurazione globale. I comportamenti ripetitivi e stereotipati, invece, vengono spesso interpretati come una forma di autostimolazione motoria e sensoriale. Un’altra frequente caratteristica dell’autismo, infatti, riguarda proprio l’alterazione della modulazione sensoriale. Questo è un fenomeno presente più

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nell’autismo che in altre patologie (Ben-Sasson et al, 2009). Il profilo sensoriale dei bambini ASD può apparire differente da quello dei bambini con sviluppo tipico. Uno stesso bambino può essere ipersensibile verso determinati stimoli ed essere, allo stesso tempo, iposensibile verso altri stimoli, i quali dovranno essere di maggiore intensità per ottenere una reazione. Il pattern sensoriale varia da bambino a bambino e a seconda della combinazione, potranno manifestarsi comportamenti di evitamento verso gli stimoli che risultano eccessivamente intensi oppure comportamenti di ricerca sensoriale verso quegli stimoli per i quali c’è iposensibilità. Manifestazioni frequenti, come detto prima, possono essere il muovere le dita davanti agli occhi come stimolazione visiva, il camminare sulle punte come stimolazione vestibolare oppure l’emettere suoni di diverse intonazioni o ecolalie per stimolare il sistema uditivo (Vivanti, D’Ambrogio e Zappella, 2007). Le anomalie sensoriali non sono dovute a deficit nell’apparato visivo, uditivo o sensoriale, infatti risultano normali nei test di acuità visiva o uditiva (Klin, 1993). Tuttavia, una carenza nelle capacità d’integrazione sensoriale può portare all’emissione di comportamenti aggressivi e di evitamento come risposta ad un “bombardamento” di stimoli da cui il bambino si sente sopraffatto, portando ad un peggioramento del quadro clinico. Un bambino che è impegnato a proteggersi da uno stimolo di intensità insopportabile, non sarà in grado di prestare attenzione alle richieste ambientali o agli altri stimoli che rappresentano una fonte di apprendimento.

4. La diagnosi precoce

Secondo le più recenti analisi, l’incidenza dell’autismo è pari a 1 caso su 68 (CDC MMWR, 2014). A fronte di questo incremento, l’autismo rappresenta oggi una sfida diagnostica ed è oggetto di numerose ricerche che si sono concentrate sull’abbassamento dell’età media in cui viene effettuata la diagnosi. Questo interesse è dovuto, oltre che all’incremento dei casi diagnosticati, anche agli importanti benefici che danno i trattamenti precoci e alla possibilità di identificare il cuore del disturbo e le funzioni cerebrali specifiche coinvolte (Dawson et al. 2008; Warren et al. 2011; Dawson et al. 2012; Crais & Watson, 2014; Koegel et

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al. 2014; Roger set al. 2009). Attualmente, l’età media in cui viene diagnosticato l’autismo si aggira intorno ai 3 anni, nonostante l’età media in cui i genitori riportano l’insorgenza dei primi sintomi sia verso i 2 anni (Wiggins et al., 2006; Ozonoff et al., 2009; Daniels et al., 2013) o anche prima in una significativa percentuale di casi. Secondo recenti studi, infatti, la diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico può essere realisticamente anticipata a 2 anni mantenendo una significativa stabilità (Chawarska et al. 2009; Rogers 2009). Le motivazioni circa il ritardo nella diagnosi del disturbo sono attribuibili a svariate cause. Oltre ai problemi legati alle pratiche di screening inadeguate, alla disponibilità limitata dei servizi specializzati per i bambini di età inferiore ai tre anni, all'accesso ritardato a un servizio specializzato dopo la prima comunicazione di preoccupazione, ci sono motivazioni intrinseche all’espressione clinica del disturbo stesso che rendono la diagnosi precoce una sfida. In particolare, lo sviluppo nei primi anni di vita ha un andamento rapido e talvolta irregolare nelle sue fasi, sia in bambini con sviluppo tipico che atipico (Mossman Steiner et al. 2012). Questo crea problemi di stabilità e specificità nella diagnosi, aumentando notevolmente l’incertezza e la possibilità di ottenere numerosi falsi negativi e falsi positivi. Non meno importante in questo contesto è l’ampia eterogeneità della gravità, dell’insorgenza e della costellazione dei sintomi dello Spettro Autistico, a cui è associata una altrettanto ampia varietà di disturbi cognitivi, linguistici, di comunicazione, socio-emotivi, comportamentali e sensoriali. Nonostante la moltitudine di studi sull’origine biologica del disturbo, non sono stati ancora individuati biomarcatori e, di conseguenza, la diagnosi resta basata sull’osservazione comportamentale del bambino. Ad oggi, nelle fasi iniziali dello sviluppo, l’osservazione è focalizzata sull’assenza o sulla perdita di marcatori tipici di sviluppo sociale, piuttosto che sulla presenza di particolari comportamenti atipici (Martinez-Pedraza e Carter, 2009). Le prime linee di ricerca sull’individuazione dei segnali precoci di ASD si sono concentrate su studi retrospettivi attraverso l’osservazione dei filmati familiari e sulle interviste genitoriali sui primi anni di vita dei bambini con diagnosi di ASD (Baranek, G.T. 1999; Maestro et al., 2001; Maestro et al, 2005; Palomo et al., 2006; Ozonoff et al., 2011). Oltre a dare importanti informazioni sulla manifestazione delle prime anomalie nello sviluppo, questa metodologia è

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soggetta ad alcune limitazioni, come bias nel campionamento o nel richiamo di informazioni da parte dei genitori per un pregiudizio legato alla diagnosi (Zweigenbaum et al. 2013). Una soluzione a tali problemi metodologici è stata trovata negli studi prospettici incentrati su bambini ad alto rischio di ASD, condotti con misure standardizzate. Lo scopo è quello di mappare la traiettoria longitudinale dello sviluppo di questi bambini, al fine di individuare potenziali biomarcatori e specifiche anomalie comportamentali, segno della presenza dello Spettro Autistico. I progetti di ricerca, in questo modo, includono misure sperimentali, come l’eye tracking e i potenziali evocati cerebrali. I bambini che rientrano nella categoria di soggetti ad alto richio di ASD sono principalmente i fratellini e le sorelline di bambini con autismo. Il 20% di questi fratellini riceve la diagnosi di ASD entro i 3 anni di età e un ulteriore 20% mostra difficoltà di sviluppo o aspetti subclinici del fenotipo dello Spettro Autistico (Ozonoff, Young, Carter, Messinger, Yirmiya, Zwaigenbaum, et al. 2011). Un dato significativo che è emerso da queste ricerche è che, durante il secondo anno di vita, molti bambini, a cui viene diagnosticato il disturbo in seguito, manifestano già comportamenti che li differenziano dal gruppo di controllo. I primi risultati indicano che le differenze più significative sono a livello delle capacità percettive e cognitive, oltre che ad un’alterazione delle connessioni del “cervello sociale” (Elsabbagh e Johnson, 2016). Le manifestazioni più evidenti sono: lo scarso contatto oculare, la ridotta risposta al nome, l’assenza del pointing e un ritardo nello sviluppo delle abilità motorie (Szatmari, Chawarska, Dawson, Georgiades, Landa, Lord, Messinger, Thurm, Halladay, 2016). Uno degli obiettivi è quello di creare dei pattern sintomatologici specifici per ogni fascia d’età. Ad oggi si è visto che, durante il primo anno di vita, le anomalie sono riscontrabili nella mancanza del sorriso sociale, nelle espressioni facciali inappropriate, nell’ipotonia e nelle ridotte capacità attentive. Nel secondo anno di vita, invece, i bambini con autismo mostrano soprattutto scarsa attenzione verso le persone, una preferenza per la le attività solitarie, uno scarso contatto oculare e una povertà di gesti e di espressione emotiva (Charman e Baird, 2002). Mentre i marcatori di rischio a 12 mesi risultano essere alquanto predittivi della successiva diagnosi di ASD, non ci sono ancora studi prospettici che hanno riportato un’associazione significativa fra

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marcatori rilevati prima dei 12 mesi e la diagnosi di ASD a 3 anni. Al momento, le ricerche hanno evidenziato che a 6 mesi di età le anomalie che risultano maggiormente correlate con l’autismo riguardano la simmetria posturale e il comportamento di comunicazione sociale (Elsabbagh et al., 2012). Zwaigenbaum e colleghi (2013) hanno pubblicato una revisione completa di entrambi gli studi, prospettici e retrospettivi, in cui vengono riportati i risultati relativi a tutti i domini di sviluppo. È possibile, quindi, effettuare un confronto fra i dati ottenuti a 12 mesi e quelli registrati a distanza di un anno, a 2 anni:

12 mesi 24 mesi

Comunicazione Sociale orientamento verso le persone ridotto o atipico, in particolar modo verso i volti; ridotta o assente risposta al nome; ridotto contatto oculare; ridotto sorriso sociale; scarsità di gesti comunicativi, come il pointing. Le anomalie nel contatto oculare e nella risposta al nome sembrano significative nel differenziare bambini con ASD da bambini con ritardo nello sviluppo.

negligenza verso le persone; ridotto interesse verso le interazione con i pari; la risposta al nome e il contatto oculare

restano anomali; ridotta espressione spontanea emotiva; deficit di attenzione congiunta; ritardo ne’l'acquisizione di gesti comunicativi e vocalizzazioni dirette agli altri. Durante il secondo anno di età, invece, sembrano maggiormente discriminativi il ritardo nell’acquisizione di gesti e il ridotto interesse verso i pari. Comportamenti e Interessi ripetitivi e ristretti

azioni motorie ripetitive; spinning, rotazione e anomala esplorazione visiva.

aumentata frequenza di comportamenti ripetitivi con gli oggetti e con il corpo.

Linguaggio e Sviluppo

Cognitivo neonati ad alto rischio mostrano bassi punteggi nei domini del linguaggio espressivo e ricettivo delle scale Mullen.

continua ad esserci un ritardo nello sviluppo delle abilità linguistiche ricettive ed espressive rispetto ai controlli.

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posturale e asimmetria posizionale, osservate fin dai 6 mesi di vita.

punteggi ridotti nella motricità fine e grossolana delle scale Mullen in bambini ad alto rischio di ASD.

Autoregolazione e Temperamento ridotta espressione dell’affettività positiva; disregolazione emotiva e dell’attenzione visiva. aumenta la durata dell’attenzione ma continua ad esserci una marcata disregolazione, soprattutto verso la frustrazione e l’affettività negativa.

Il dominio dell’autoregolazione è risultato particolarmente significativo nel differenziare i bambini ad alto rischio, con diagnosi di ASD a 36 mesi, da quelli ad alto rischio non ASD e dai controlli. I bambini che hanno ricevuto la diagnosi hanno mostrato un profilo temperamentale caratterizzato da un’affettività positiva bassa, con conseguente aumento di quella negativa, evidenziabile soprattutto attraverso la ridotta frequenza del sorriso sociale, e difficoltà nel controllo dell’attenzione e del comportamento (Garon et al., 2009; Filliter et al., 2015). È stata avanzata l’ipotesi che tale disregolazione emotiva e comportamentale sia causata da un’alterazione della modulazione sensoriale. Dato confermato da uno studio prospettico su bambini ad alto rischio di ASD che hanno mostrato maggiori difficoltà nel processamento uditivo rispetto ai controlli (Germani et al., 2014). Questo risulta coerente con il recente inserimento fra i criteri del DSM 5 dell’ipo-o iper-respdell’ipo-onsività agli stimdell’ipo-oli sensdell’ipo-oriali e degli interessi andell’ipo-omali versdell’ipo-o gli aspetti sensoriali. Le alterazioni sensoriali presenti nello Spettro Autistico sono state correlate ai deficit di comunicazione sociale, ai comportamenti ristretti e ripetitivi e alla disregolazione emotiva. I risultati hanno mostrato un’associazione tra la sensibilità sensoriale e l’orientamento attentivo verso stimoli sociali e non (Foss-Feig et al., 2012; Baranek et al., 2013, Ben-Sasson et al., 2008, Green et al., 2010), coerentemente con quanto proposto da Mundy e colleghi (2010), i quali hanno ipotizzato un deficit nell’autismo del sistema attenzionale posteriore, responsabile dell’orientamento sensoriale e della risposta all’attenzione congiunta,

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e del sistema attenzionale anteriore, che sottende i comportamenti volontari di orientamento.

Ozonoff e colleghi (2011), attraverso l’analisi prospettica e retrospettiva dei dati sullo sviluppo dei bambini con autismo tra i 6 e i 24 mesi, hanno proposto la divisione in tre possibili traiettorie evolutive: comparsa precoce, regressione e traiettoria plateau. Secondo altri autori, invece, più che una distinzione netta in tre traiettorie differenti, bisognerebbe vedere l’insorgenza dell’autismo come un continuum ai cui estremi ci sono la comparsa precoce e la regressione e, al centro, fenotipi intermedi con diversi gradi di ritardo nello sviluppo generale precedente o successivo all’insorgenza dei deificit sociali (Roger set al., 2009; Zwaigenbaum et al., 2013). A sostegno di questa posizione, ci sono alcuni studi sulla stabilità della diagnosi nonostante i possibili cambiamenti sintomatologici nel corso dello sviluppo. Guthrie e colleghi (2013) hanno indicato che, nonostante la stabilità della diagnosi a distanza di tempo, si osservano significativi cambiamenti nella gravità dei sintomi soprattutto in bambini molto piccoli. Sia i bambini con ASD che quelli senza diagnosi mostrano un miglioramento nelle competenze comunicative sociali e nell’interazione nel corso degli anni rispetto alla valutazione iniziale, ma, al contrario, i comportamenti ristretti e ripetitivi peggiorano nei bambini con ASD e restano stabili negli altri. Nonostante le incertezze sulle manifestazioni dell’insorgenza dello Spettro Autistico nei primi mesi di vita, i risultati riportano che al 93% dei bambini che ha ricevuto la diagnosi di ASD a 18 mesi e all’82% che l’ha ricevuta a 24 mesi, a 36 mesi è stata confermata. Tuttavia, restano alte le percentuali dei bambini che ricevono una diagnosi a 36 mesi e che non sono risultati a rischio a 18 mesi (63%) o a 24 mesi (41%). Ne consegue che un follow-up longitudinale è fondamentale sia per i bambini a rischio di ASD, sia per coloro che mostrano segni precoci di difficoltà socio-comunicative, ma che non soddisfano pienamente i criteri per una valutazione iniziale di rischio. Per fare ciò, è auspicabile ripetere più volte lo screening nei primi anni di vita, dal momento che, soprattutto nei primissimi mesi, alcune caratteristiche del disturbo possono emergere pur rimanendo sottosoglia (Ozonoff et al., 2015).

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Oltre ai problemi legati al disturbo in sé, un altro ostacolo alla diagnosi precoce proviene dalle difficoltà che incontrano le famiglie. I partecipati ad un recente studio che ha indagato questi fattori, hanno segnalato non solo la difficoltà nell’ottenimento di una diagnosi accurata da parte dei servizi, ma anche i costi elevati per il trasporto, la distanza dai servizi, l’assenza dei genitori dal lavoro e gli scarsi contributi per i trattamenti precoci. Gli esperti hanno riscontrato anche una cospicua diffusione di terapie alternative non supportate da evidenze scientifiche a cui le famiglie fanno ricorso (Elder, Brasher, Alexander, 2016). Le famiglie che ricevono una diagnosi precoce di ASD per il proprio figlio hanno la possibilità, infatti, di accedere ai trattamenti precoci, i quali apportano notevoli miglioramenti alla sintomatologia e alla sua gravità. Uno dei principali scopi della diagnosi precoce è proprio l’ottimizzazione delle opportunità d’intervento per i bambini con autismo. Sono stati analizzati i cambiamenti nella qualità dell’interazione genitrore-bambino prima e dopo la diagnosi a 18 o a 24 mesi e i risultati riportano un aumento delle ore di intervento, soprattutto nei successivi 6 mesi dalla diagnosi, che correla positivamente con un miglioramento nell’interazione. Il bambino sviluppa maggiori competenze a livello interattivo, legate, ad un cambiamento nella responsività genitoriale. I genitori, a loro volta, sono agevolati nel comprendere meglio e supportare gli atti comunicativi del bambino, ottenendo anche prestazioni migliori nell’agganciare la loro attenzione durante l’interazione (Suma, Adamson, Bakeman, Robins, Abrams, 2016).

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CAPITOLO 2

Strumenti per la diagnosi precoce dei Disturbi dello Spettro Autistico

1. Strumenti per lo screening e la diagnosi di ASD

Ad oggi c’è una grande eterogeneità nelle procedure di screening e diagnostiche sia fra vari paesi che all’interno dello stesso paese (Garcia Primo, 2014). Nonostante questo, però, sono state pubblicate delle linee guida al fine di standardizzare le procedure e ridurre il divario fra la prima preoccupazione dei genitori e la conferma della diagnosi (Filipek et al., 2000; Johnson et al., 2007; Falkmer et al., 2013). Alcuni autori ritengono che l’identificazione clinica dei bambini con autismo richieda due livelli di indagine (Filipek et al., 2000). Il primo livello consiste nelle procedure di monitoraggio e screening che hanno l’obiettivo di individuare principalmente tutti quei bambini a rischio di sviluppo atipico, tra i quali individuare quelli con un rischio specifico di autismo. Le raccomandazioni consigliano di effettuare lo screening per ASD a 18 e 24 mesi, data l’eterogeneità dei sintomi (Zwaingenbaum et al., 2005; Johnson et al., 2007). Il secondo livello, invece, è specifico per la diagnosi di ASD e prevede un’indagine più approfondita sui bambini che sono stati identificati a rischio, al fine di differenziare quelli con autismo da tutti gli altri. Charman e Baird (2002) sostengono un approccio multidisciplinare alla base della diagnosi di ASD. Solitamente l’equipe è formata da almeno un neuropsichiatra o psichiatra infantile, uno psicologo clinico dello sviluppo, un logopedista e un terapista occupazionale o neuropsicomotricista per ottenere una valutazione a 360° del bambino. È necessario indagare la storia dello sviluppo, lo stile d’interazione sociale sia con i genitori che con i coetanei, insieme alla valutazione delle funzioni cognitive, adattive, comportamentali e senso-motorie. Le procedure per la diagnosi di autismo fanno affidamento sull’uso di alcuni strumenti specifici per la valutazione. Gli strumenti ritenuti “gold standard” per la diagnosi di autismo sono l’ADOS-2 e l’ADI-R (Falkmer et al., 2013), a cui se ne aggiungono altri, tra i quali: Autism Observation Scale for Infants (AOSI) (Bryson et al., 2007), Childhood Rating Scale (CARS) (Schopler,

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1986), Autistic Behavioral Indicators Instrument (ABII) (Bornstein, 2010), Diagnostic Interview for Social and Communication disorders (DISCO) (Leekam, 2002); Screening Tool for Autism in Two-Year-Olds (STAT) (Stone, 2000). Le indagini mediche, infine, sono necessarie per completare il processo diagnostico e per identificare eventuali sindromi genetiche: esami fisici, neurologici, biochimici, metabolici, test genetici, EEG.

Dal 2012, è stato inserito un nuovo modulo ADOS (Toddler) somministrabile a bambini di almeno 12 mesi di età mentale e cronologica, fino a 30 mesi, con una buona sensibilità e specificità durante la convalida (Luyster et al., 2009). L’ADOS Toddler categorizza i punteggi in “fasce di rischio” sulla probabilità che il bambino abbia o no l’autismo (poca preoccupazione, lieve o moderata, moderata o grave), dal momento che a questa età i red flags sono molto sottili e rendono la diagnosi meno stabile. Consiste in un’osservazione standardizzata e semi-strutturata di comportamenti associati all’autismo appartenenti a varie aree: comunicazione verbale e non verbale, interazione sociale, gioco e utilizzo del materiale, comportamenti e interessi ristretti e ripetitivi. Inoltre, data l’età, viene data molta più importanza alle risposte del bambino alle stimolazioni del clinico, piuttosto che alle sue iniziative. Si svolge tutto all’interno di una sessione di gioco di 40-60 minuti, in cui sono previste 11 attività da poter effettuare in modo flessibile: gioco libero, bloccare l’accesso al gioco, risposta al nome, gioco con le bolle, anticipazione di una routine con oggetti, anticipazione di una routine sociale, risposta all’attenzione congiunta, sorriso sociale di risposta, gioco del bagnetto, imitazione funzionale e simbolica, snack. Al termine del processo di monitoraggio, la diagnosi finale viene poi effettuata con la somministrazione del Modulo 1 dell’ADOS, il quale permette di ottenere una valutazione di inclusione o esclusione dallo Spettro Autistico ed è somministrabile a bambini con almeno 30 mesi, età in cui le cui manifestazioni sintomatologiche permettono di fare una diagnosi sufficientemente stabile.

L’AOSI, scala per l’osservazione dell’autismo nei bambini, è stata sviluppata per monitorare la presenza dei primi segnali di rischio in bambini ad alto rischio di ASD tra i 6 e i 18 mesi (Bryson, Zwaigenbaum, McDermott,

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Rombough, Brian, 2008). Consiste in un’osservazione diretta e semi-strutturata del bambino, che mira ad analizzare il livello di competenza e la presenza di un eventuale ritardo o assenza dell’acquisizione di determinate abilità sociali, motorie, sensoriali e attentive, rispetto al livello normale di sviluppo per quell’età. I comportamenti target dell’AOSI sono stati selezionati a partire dai dati emersi dagli studi retrospettivi sui filmati familiari e sulle interviste genitoriali (Gillberg et al., 1990; Adrien et al.1992) e consistono in: ricerca visiva, ancoraggio e disancoraggio attentivo, coordinazione oculo-motoria, imitazione, comportamenti comunicativi e socio-emotivi, presenza di interessi ristretti e vari comportamenti senso-motori. Gli studi hanno dimostrato una buona correlazione fra la capacità dello strumento di differenziare fra bambini ad alto rischio di autismo, che hanno ricevuto successivamente la diagnosi di ASD, da coloro che non lo sono (Brain et al., 2008; Zwaigenbaum et al., 2005).

All’interno della categoria degli strumenti specifici per lo screening dell’autismo ci sono la CHAT (Checklist for Autism in Toddlers) e l’MCHAT (Modified Checklist for Autism Toddlers). La CHAT è un’osservazione semi-strutturata, che permette al clinico di identificare la presenza di rischio per ASD sulla base delle relazioni dei genitori e del comportamento del bambino a partire dai 18 mesi di vita. È composta da 14 item divisi in due sezioni. La sezione A consiste in 9 domande da rivolgere ai genitori, mentre la sezione B contiene 5 item da valutare attraverso l’osservazione diretta del bambino (Baron-Cohen et al., 1992). L’MCHAT, invece, è la versione modificata della CHAT per bambini di età fra i 18 mesi e i 24 mesi. È composta solamente dalla sezione rivolta ai genitori, perdendo quella dell’osservazione diretta, dal momento che è stato dimostrato che la sezione B aggiungeva relativamente poche informazioni alla sezione A. L’M-CHAT è un questionario di 23 item che indaga diversi comportamenti, fra cui alcuni considerati critici: il rapporto con i pari, il mostrare, il rispondere al nome, l’attenzione condivisa, l’utilizzo del pointing e l’imitazione. Se il bambino fallisce 3 item qualsiasi o 2 di quelli critici, viene valutato a rischio di ASD. Il suo uso da parte dei pediatri, nell’ambito delle cure primarie, è molto utile nell’identificazione dei bambini a rischio di ASD, permettendone l’invio tempestivo in strutture specializzate. L’uso del questionario insieme ai criteri

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pediatrici sul riconoscimento dei segnali di rischio per l’ASD, permette di effettuare una valutazione di rischio sufficientemente accurata (80% dei bambini ha ricevuto la diagnosi) (Robins, 2008). Kleiman e colleghi (2008) hanno usato l’M-CHAT su un campione di bambini di età fra i 16 e i 30 mesi e hanno calcolato un PPV di 0,36 per lo screening iniziale, che è migliorato quando è stata aggiunta l’intervista di follow up (M-CHAT-R/F) (PPV=0,74), che ha ridotto i falsi positivi. La ricerca di Robins (2014) sull’M-CHAT-R/F ha dimostrato che può essere considerato un efficace strumento di screening per i bambini a basso rischio di ASD, in grado di ridurre l’età della diagnosi a 2 anni. I valori della sensibilità e della specificità che vengono riportati corrispondono, rispettivamente, a 0,85 e 0,99. Un altro studio ha utilizzato l’M-CHAT in una popolazione generale di bambini per valutare la sua capacità di identificare i segni precoci di autismo già a 18 mesi. I risultati hanno riportato che lo strumento non ha una sensibilità molto buona (criterio dei 6 item critici: 20,8%; criterio dei 23 item: 34,1%) nell’identificare i bambini con autismo a 18 mesi. Tra coloro che successivamente hanno ricevuto la diagnosi, molti non hanno superato il cutoff dell’M-CHAT. Una spiegazione è che molti dei comportamenti indagati e che discriminano i bambini con ASD da quelli a sviluppo tipico sono ancora emergenti a 18 mesi. Baird et al., hanno notato che, nella popolazione generale, solo 19 bambini su 50, tra coloro che hanno ricevuto la diagnosi di ASD, sono stati rilevati dal questionario a questa età (Stenberg et al., 2012). Allo stesso tempo, studi fatti su bambini di 24 mesi (Pandey et al., 2008) e di 30 mesi (Nygren et al., 2012) con l’M-CHAT hanno riportato migliori prestazioni nell’identificazione dei bambini ASD, coerentemente con quanto riportato dallo studio di Robins (2014).

La Child Behavior Checklist (CBCL/1.5-5, Achenbach and Rescorla, 2000) è un questionario, validato empiricamente, somministrato ai genitori che valuta le competenze sociali e i problemi emotivo-comportamentali in bambini di età fra i 18 mesi e i 5 anni. È uno strumento molto utilizzato in ambito clinico e comprende 100 item che vanno a comporre le “Syndrome Scale” (reattività emotiva, ansia/depressione, lamentele somatiche, ritiro, problemi del sonno, problemi attentivi, comportamenti aggressivi), i problemi internalizzanti ed esternalizzanti con la corrispettiva scala totale, e le scale “DSM-oriented”

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(problemi affettivi, problemi d’ansia, problemi pervasivi dello sviluppo, problemi ADHD e problemi oppositivo-provocatori). Un recente studio del 2013 ha indagato la sensibilità e la specificità della CBCL 11/2 -5 nell’identificazione di

bambini fra i 18 e i 36 mesi, che successivamente hanno ricevuto la diagnosi di ASD. Il campione è formato da 47 bambini con diagnosi di autismo, 47 bambini con diagnosi di un altro disturbo psichiatrico (OPD) e 47 bambini con sviluppo tipico (TD). Attraverso l’analisi dell’ANOVA univariata, le scale del Ritiro e dei Problemi Pervasivi dello Sviluppo (PDP) sono risultate maggiormente significative nell’identificazione dei bambini con ASD, sia rispetto al gruppo TD (p<0,001), sia rispetto al gruppo OPD (p<0,001). In particolare, la sensibilità e la specificità della scala Ritiro (0,92 e 0,97) e della scala PDP (0,98 e 0.91) sono molto alte nel confronto fra bambini ASD e bambini TD. Questi valori restano elevati anche nel confronto del gruppo ASD con quello di bambini OPD (Scala Ritiro: 0,90 e 0,83; Scala PDP: 0,85 e 0,83) (Muratori et al., 2013).

2. ITSEA e BITSEA

L’Infant-Toddler Social and Emotional Assessment è un questionario volto ad identificare i problemi e le competenze socio-emotive in bambini tra i 12 e i 36 mesi di età. È composto da 17 sottoscale, che vanno a formare 4 domini, e 3 item cluster, che nel complesso danno informazioni sui problemi esternalizzanti, internalizzanti, di disregolazione, comportamenti mal adattivi, atipici, pro-sociali e competenze socio-emotive. L’ITSEA è stato sviluppato per essere efficace anche con i bambini non verbali, dal momento che solo un piccolo numero di item fa riferimento alle capacità linguistiche. Non è uno strumento diagnostico, ma è utile nelle prime fasi di indagine per raccogliere informazioni sulla percezione dei genitori circa le competenze e i problemi socio-emotivi del figlio. Inoltre, è in grado di evidenziare e segnalare le aree che possono essere oggetto di preoccupazione, indirizzando le successive indagini per approfondire tali aspetti. L’ITSEA considera problematici due tipi di comportamenti: quelli che fanno parte del normale processo di sviluppo ma che eccedono o scarseggiano in frequenza e/o intensità; comportamenti devianti che non sono appropriati allo sviluppo. Nel

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