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Fine del blocco sovietico e storiografia occidentale

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Fine del blocco sovietico e storiografia

occidentale

GIOVANNI GOZZINI

Dipartimento di scienze sociali, politiche e cognitive, Università di Siena, San Niccolò, 43100 Siena (Italy)

e-mail: gozzini@unisi.it

ABSTRACT

L’articolo ricostruisce il dibattito storiografico e politologico sulla fine dei regimi comunisti in Europa orientale e in Urss alla luce delle più recenti acquisizioni archivistiche. La «terza ondata» di democratizzazione del mondo presenta caratteri molto diversi dalle precedenti. La tradizione storiografica delle scuole realista ed essenzialista la interpreta nei termini di un naturale ricongiungimento con l’Occidente, mentre l’approccio costruttivista sottolinea il ruolo personale di Gorbačëv e delle sue scelte: il tentativo di risposta ideologica e sempre più radicale alle difficoltà economiche del sistema, la graduale ma sempre più incontrollata apertura al pluralismo politico, la rinuncia all’uso della violenza. Storia sociale e storia economica dell’Urss e dei paesi est-europei mettono in luce come tali scelte non seguano un programma coerente e siano largamente determinate da una crescente dipendenza dalle importazioni e dai prestiti occidentali. L’allargamento comparativo ad altri regimi comunisti passati indenni attraverso il 1989, come Cina e Vietnam, porta a individuare le chiavi della loro sopravvivenza in un perdurante dinamismo del ceto contadino unito a un modello di crescita economica fondato sulle esportazioni: entrambe condizioni sostanzialmente assenti nel blocco sovietico.

PAROLE CHIAVE

Comunismo, guerra fredda, Unione Sovietica, Stati Uniti, Europa orientale, relazioni internazionali, politica economica, globalizzazione.

È possibile tracciare un primo bilancio di come la storiografia in Occidente ha interpretato il crollo dei regimi comunisti in Europa orientale e in Unione Sovietica?

Credo di sì e sono anzi convinto che questa naturalmente provvisoria ricostruzione presenti aspetti significativi per l’evoluzione della disciplina nel suo complesso. Il punto di partenza è infatti rappresentato da una comprensibile «sindrome da vittoria» della guerra fredda. Non mi riferisco tanto a immaginifiche e tutto sommato marginali tesi sulla «fine della storia», quanto a uno specifico approccio interpretativo che legge la fine del

comunismo come il risultato di una partita con un vinto e un vincitore, portando in primo piano la competizione ravvicinata (non solo militare) con gli Stati Uniti. Nello studio delle relazioni internazionali e delle scienze politiche questa scuola di pensiero viene spesso definita «essenzialista» e ricomprende la caduta del blocco sovietico entro una «terza ondata» di diffusione della democrazia nel mondo – dopo quella di metà Ottocento e quella legata alla decolonizzazione – messa in moto a metà degli anni settanta in Spagna e

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Portogallo per poi estendersi in America latina.1 Ne scaturisce un modello sociologico di

transizione, che però fatica molto a racchiudere casi nazionali così distanti in meccanismi organici di cause-effetti.Uno dei fattori esplicativi più richiamati – lo sviluppo di una classe media urbana, colta, a reddito medio-alto – appare infatti un prerequisito troppo lontano nel tempo per poter essere considerato sempre e ovunque determinante.

Tanto è vero che nessuno degli studiosi della «terza ondata» si è azzardato a

prevedere la fine dei regimi comunisti europei: «la probabilità di uno sviluppo democratico in Europa orientale – scrive nel 1984 Samuel Huntington – è virtualmente nulla. La

presenza sovietica è un ostacolo insormontabile decisivo».2 La scuola essenzialista finisce

così per ricongiungersi a una spiegazione «eroica» del 1989: il caso est-europeo viene separato da quello sovietico, per incarnare una fattispecie di «rivoluzione recuperante», secondo la celebre definizione di Habermas, che arriva a ricomporre una frattura artificiale, indotta manu militari dal Cremlino, nella storia di paesi comunque appartenenti a una casa comune europea (e non asiatica).3 A «recuperare» la storia è la human agency di minoranze

coraggiose, senza leader e ideologie (se non un generico afflato democratico

filooccidentale), che abbattono il muro di Berlino e popolano i resoconti del 1989.4 Esiste

una effettiva diversità di percorso che (almeno finora) separa l’est europeo dalla Russia e dalle altre ex repubbliche sovietiche.5 E va sottolineato il fatto che le seconde non hanno

mai conosciuto la democrazia. Ma sono molti i testimoni e gli studiosi che sottolineano come la risonanza pubblica dei gruppi del dissenso si riveli comunque assai limitata sia prima sia durante il moto democratico, anche per una loro particolare modalità d’azione finalizzata a preservare una sfera privata di diritti e libertà anziché disegnare un nuovo progetto collettivo.6

1. Essenzialismo e realismo nella storia delle relazioni internazionali.

1 S.P.Huntington, The third wave: democratization in the late twentieth century, University of Oklahoma Press, Norman OK 1991; J.Linz-A.Stepan, Problems of democratic transition and consolidation: southern Europe, South

America, and post-communist Europe, Johns Hopkins University Press, Baltimore MD 1996. Sulla scuola essenzialista

cfr.D.Rowley, Interpretations of the end of the Soviet Union: three paradigms, «Kritika», 2, 2001, 2, pp.395-426; l’origine del termine risale a A.Dallin, Causes of the collapse of the Ussr, «Post-Soviet Affairs», 8, 1992, 2, pp.279-302. 2 S.P.Huntington, Will more countries become democratic?, «Political Science Quarterly», 99, 1984, 2, p.217. I rari casi di preveggenza non provengono dalla politologia bensì dalla geopolitica: cfr.R.Collins, The future decline of the

Russian empire (1980), in Id., Weberian sociological theory, Cambridge University Press, New York 1986, pp.186-209.

Alla dialettica tra modernizzazione sociale e immobilismo politico era dedicata la discussione avvenuta su «Problems of Communism», 15, 1966, 1, poi riedita in Z.Brzezinski (a cura di), Dilemmas of change in Soviet politics, Columbia University Press, New York 1969. Diversi economisti avevano analizzato le contraddizioni potenzialmente esiziali del sistema sovietico: tra di essi cfr.I.Birman, The financial crisis in the Ussr, «Soviet Studies», 32, 1980, 1, pp.84-105. Fondato sul parallelo con lo zarismo e sulla previsione di una guerra con la Cina era invece A.A.Amal’rik,

Sopravviverà l’Unione Sovietica fino al 1984?, Coines, Roma 1971 mentre H.Carrère d’Encausse, L’Empire éclaté. La révolte des nations en Urss, Flammarion, Paris 1978 prevedeva l’esplosione demografica delle popolazioni islamiche

nelle repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Cfr.P.Rutland, Sovietology: who got it right, and who got it wrong? and

why?', in M.Cox (a cura di), Rethinking the Soviet collapse: sovietology, the death of communism and the new Russia,

1998, pp.32-50.

3 J.Habermas, La rivoluzione in corso, Feltrinelli, Milano 1990.

4 Tra i tanti cfr.T.Garton Ash, The magic lantern: the revolutions of ’89 witnessed in Warsaw, Budapest, Berlin, and

Prague, Random House, New York 1990.

5 Nel 2013 Freedom House classifica 7 delle 15 ex repubbliche sovietiche (tra cui la Russia) come non libere, altre 5 come parzialmente libere e 3 (gli stati baltici) come libere. Tutti i paesi est-europei sono classificati liberi dal 1992. Sulle diverse transizioni cfr.J.Kopstein, 1989 as a lens for the communist past and post-communist future,

«Contemporary European History», 18, 2009, 3, pp.289-302.

6 A.Michnik, Letters from freedom: post-Cold War realities and perspectives, University of California Press, Berkeley CA 1998; S.Kotkin, Uncivil society: 1989 and the implosion of the communist establishment, Modern Library, New York 2009; P.Bren, The greengrocer and his TV: the culture of communism after the 1968 Prague Spring, Cornell University Press, Ithaca NY 2010, che si riferisce al droghiere passivo esecutore delle direttive di regime, descritto da V.Havel, Il potere dei senza potere, Garzanti, Milano 1991.

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Alla base della scuola essenzialista mi pare risieda un «paradigma totalitario» che tende a considerare democrazia e comunismo come sistemi concettuali monolitici (essenze) privi di articolazioni interne e di evoluzioni diacroniche.7 Per quanto riguarda il secondo, lo

si ritiene costituito da un nesso fondante tra utopia collettivista (quindi antiumana) e coercizione pratica: l’una non regge senza l’altra.8 Il problema però si complica se il

comunismo diventa l’unico totalitarismo della storia a scegliere di inabissarsi da solo, senza guerre né sangue, pur venendo da una storia che di guerre e sangue ne ha conosciuto oltre misura. Come osserva Stephen Kotkin, ancora nel 1991 il sistema sovietico controlla un potentissimo apparato militare, in nessun punto del quale si registrano ammutinamenti: solo in Germania est l’Armata Rossa impegna 390 mila soldati (più del triplo dell’esercito regolare tedesco-orientale).9 La dura repressione di Tian’anmen costituisce un esempio e

una possibile alternativa contro la quale Gorbačëv deve espressamente battersi.10

Proprio la figura del segretario del Pcus rappresenta il cruciale punto irrisolto per la scuola essenzialista: come può un leader riformatore emergere da un regime totalitario e mettere volontariamente a repentaglio il proprio potere?

Entra allora in campo un argomento, tipico della tradizione realista di politica

internazionale, più aliena da considerazioni ideologiche sulla natura dei regimi e più attenta agli equilibri di potere strategico e militare: è la pressione esercitata a metà anni ottanta da Reagan con la Strategic Defense Initiative (popolarmente nota come il programma di «guerre stellari») a rompere gli equilibri di bilancio sovietici mettendo a nudo la loro irrimediabile inferiorità e incapacità competitiva.11 È vero che l’ascesa al vertice di

Gorbačëv viene favorita dal ritiro dell’ala militarista e imperialista del Cremlino, seccamente sconfitta in ogni teatro di guerra da essa prescelto: Angola, Etiopia,

Afghanistan, euromissili. La scelta di non intervenire in Polonia nel 1980 rappresenta – oltre che un atto di necessaria cautela dopo l’ascesa di un cardinale polacco al soglio pontificio – un sintomo indiretto di tali difficoltà (successivamente confermate dalla fragilità del

tentativo di putsch dell’agosto 1991).12 Ma è anche vero che, nonostante le ripetute prese di

posizione pubbliche di Gorbačëv sulla riduzione delle spese militari come prerequisito indispensabile per la perestrojka, il bilancio della difesa non cala in cifra assoluta fino al

7 Per una rassegna critica cfr.C.Kelly, What was Soviet studies and what came next?, «Journal of Modern History», 85, 2013, 1, pp.109-49. Per una considerazione delle differenze tra paesi più e meno democratici cfr.L.Diamond-D.Plattner (a cura di), The global divergence of democracies, Johns Hopkins University Press, Baltimore MD 2001.

8 Cfr.R.Pipes, The Russian revolution, Knopf, New York 1990; M.Malia, The Soviet tragedy: a history of socialism in

Russia 1917-1991, Free Press, New York 1994.

9 S.Kotkin, A un passo dall’Apocalisse. Il collasso sovietico 1970-2000, Viella, Roma 2010 [New York 2001], pp.14-5. 10 Nell’ottobre 1989 la dirigenza della Germania est si orienta verso una «soluzione cinese» di repressione dei disordini ma cambia idea di fronte all’opposizione sovietica: cfr.M.Kramer, Ideology and the Cold War, «Review of International Studies», 25, 1999, 4, pp.570-1. Per l’opposizione sovietica al ripristino della legge marziale in Polonia nell’agosto 1988, cfr.Id., The collapse of East European communism and the repercussions within the Soviet Union (Part 1), «Journal of Cold War Studies», 5, 2003, 4, pp.195-6. Per l’esplicito riferimento all’esempio negativo del caso polacco nella gestazione della scelta dell’uso della forza da parte del gruppo dirigente cinese cfr.C.Jian, Tiananmen and the fall

of the Berlin wall: China’s path toward 1989 and beyond, in J.A.Engel (a cura di), The fall of the Berlin Wall: the revolutionary legacy of 1989, Oxford University Press, New York 2009, p.112.

11 A.Dolan, Undoing the evil empire: how Reagan won the Cold War, American Enterprise Institute for Public Policy Research, Washington DC 1990; P.Schweizer, Victory: the Reagan administration’s secret strategy that hastened the

collapse of the Soviet Union, Atlantic Monthly Press, New York 1994; J.L.Gaddis, The Cold War: a new history,

Penguin, New York 2005 [Milano 2007], p.226.

12 M.J.Ouimet, The rise and fall of the Brezhnev Doctrine in Soviet foreign policy, University of North Carolina Press, Chapel Hill NC 2003; O.A.Westad, The global Cold War: Third World interventions and the making of our times, Cambridge University Press, Cambridge 2005; A.Brown, The seven years that changed the world: Perestrojka in

perspective, Oxford University Press, Oxford 2007; V.M.Zubok, A failed empire: the Soviet Union in the Cold War from Stalin to Gorbachev, University of North Carolina Press, Chapel Hill NC 2007.

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1990. Reggere la corsa agli armamenti significa per l’Urss un peso sul prodotto interno (sostanzialmente stabile per tutto il corso della guerra fredda) quattro-cinque volte superiore a quello statunitense.13 Si tratta di uno squilibrio strutturale del sistema – non

particolarmente aggravato dai progetti di «guerre stellari» statunitensi – con effetti esiziali in materia di compressione dei consumi privati e di concentrazione della ricerca scientifica, che tuttavia i cittadini sovietici sono abituati a sopportare almeno fino dal 1960.14 A ragione

si sottolinea che, dal punto di vista del reddito pro capite, tra Stati Uniti e Unione Sovietica (come anche la Russia zarista) non c’è mai stata partita.15 Nel bilancio critico degli

economisti le economie pianificate, a partire da quella sovietica, forniscono vantaggi iniziali in termini di infrastrutture e capitale umano (energia, sanità, scuola) soprattutto in paesi che partono da condizioni originarie di relativa povertà, ma nel lungo periodo la debolezza degli incentivi di mercato produce deficit di innovazione tecnologica, flessibilità produttiva, costi e qualità di merci e servizi.16 Ciò che appare incontrovertibile agli studiosi sul piano della

relativa efficienza dei sistemi, sembra però assai meno chiaro ai cittadini sovietici

sottomessi da sempre alla censura e alla scarsità (come anche al contrappunto patriottico della ricchezza delle proprie forze armate).

D’altra parte, uno degli issues che decidono la vittoriosa campagna presidenziale di Reagan nel 1980 è la restaurazione del potere imperiale degli Stati Uniti e la ripresa della spesa in armamenti. Anzi, la Reagan Doctrine è contraddistinta da una inedita fiducia nella possibilità di estirpare «l’impero del male» che manca a gran parte dei suoi predecessori. Eppure, ancora alla vigilia della nomina di Gorbačëv a segretario generale, quella fiducia si converte in un’attitudine più cooperativa, strettamente legata alla prospettiva di un

ridimensionamento congiunto degli arsenali nucleari.17 Il collasso dell’Unione Sovietica non

matura nell’atmosfera di pressione esasperata e di protagonismo aggressivo statunitense immaginata dalla scuola realista. Lo stesso fallimento del vertice di Reykjavik nell’ottobre 1986 (dove Reagan tiene duro sulle «guerre stellari») non sembra procurare a Gorbačëv particolari problemi interni.

2. Costruttivismo e storia economica.

A porre invece l’accento sui cambiamenti endogeni avviati dal nuovo vertice sovietico, anziché sulla competizione bipolare, è un filone di studi spesso definito «costruttivista» perché incline a rivalutare nelle relazioni internazionali il ruolo di

dinamiche (innanzitutto culturali) in atto su scala tendenzialmente globale e non più soltanto nazionale.18 Uno dei limiti di questa scuola è tuttavia quello di concepire tali dinamiche a

13 J.Cooper, The military expenditure of the Ussr and the Russian Federation, 1987–97, in Stockholm International Peace Research Institute, SIPRI Yearbook 1998: Armaments, Disarmament, and International Security, Oxford University Press, New York 1998, pp.243-61; W.Easterly-S.Fischer, The Soviet economic decline, «World Bank Economic Review», 9, 1995, 3, tab.3 p.348.

14 R.N.Cooper, Economic aspects of the Cold War 1962-1975, in M.P.Leffler-O.A.Westad (a cura di), Cambridge

history of the Cold War, v.2, Cambridge University Press, Cambridge MA 2010, pp.44-64.

15 Secondo le stime di A.Maddison, The World economy: a millennial perspective, Oecd, Paris 2001, tab.B-21 p.264, il Pil pro capite degli Usa era 2,6 volte quello dei territori compresi nei confini dell’Urss nel 1913, 2,9 volte nel 1960, 2,8 volte nel 1973, 3,3 volte nel 1989. Per dati concordanti cfr.A.Bergson, The USSR before the fall: how poor and why, «Journal of Economic Perspectives», 5, 1991, 4, p.31 tab.1.

16 Per una rassegna aggiornata ed esaustiva cfr.W.Carlin-M.Schaffer-P.Seabright, Soviet power plus electrification:

what is the long-run legacy of communism?, «Explorations in Economic History», 50, 2013, 1, pp.116-47.

17 J.F.Matlock, Reagan and Gorbachev: how the Cold War ended, Random House, New York 2004, p.52; F.Romero,

Alle origini del 1989: i fattori internazionali, «Passato e Presente», 28, 2010, 80, p.29 e la bibliografia ivi citata.

18 R.N.Lebow, The long peace, the end of the Cold War, and the failure of realism, «International Organization», 48, 1994, 249-78; S.G.Brooks-W.C.Wohlforth, Power, globalization, and the end of the Cold War: reevaluating a

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senso unico, da Occidente verso Oriente. A motivare il «new thinking» del segretario in politica estera e la sua enfasi sull’interdipendenza e sulla «casa comune» sarebbe così una cultura globale post-sessantotto antinuclearista, ambientalista, pacifista, umanitaria, in qualche modo condensata dall’Atto finale della Conferenza di Helsinki nel 1975.19 In realtà

mi sembra che a mettere in movimento le cose sia un’altra «costruzione» culturale

interamente autoctona: la drastica consapevolezza maturata da Gorbačëv che «così non si può più andare avanti».20 A differenza del suo predecessore e «padrino» Andropov – che la

traduce nel fermo immobilismo del «tirare a campare» − nel nuovo segretario la consapevolezza delle storture del sistema si nutre di due elementi, uno slavofilo e uno occidentalista (per usare i tradizionali e forse usurati termini del dibattito culturale russo): da un lato, un ritorno all’ideologia leninista e alla fiducia nel cambiamento attraverso la

mobilitazione, dall’altro il confronto impietoso (ma adesso più informato di prima) con i livelli di vita e le capacità produttive e tecnologiche dell’Occidente.21 Per quanto

reciprocamente contraddittori, rinvio all’Ottobre e consapevolezza del declino relativo, appaiono di fatto condivisi, o comunque non esplicitamente avversati, dalla grande maggioranza della nomenklatura: il che contribuisce a spiegare la sostanziale assenza di opposizione a Gorbačëv, fino alla tardiva e dilettantesca resipiscenza dell’estate 1991.22 La

perestrojka è dunque il frutto di un’ideologia «neoleninista» di rivincita contro l’Occidente

sul terreno del progresso economico e si traduce così in una accelerazione «non realista», che nello stesso tempo sopravaluta le capacità di risposta coordinata e convergente del sistema sovietico (ed est-europeo) e invece sottovaluta l’atrofia privatistica e rassegnata indotta nella popolazione (e nello stesso quadro dirigente intermedio) da decenni di assuefazione all’inefficienza statalista.

La scuola costruttivista lascia così il passo alla storia economica e sociale dell’Urss. Il nesso tra politica interna e politica estera ricolloca Gorbačëv in un contesto nazionale e imperiale, che non è quello totalitario (nel senso di monolitico) immaginato dalla tradizione di studi realista e dalla scuola essenzialista, bensì è quello policratico contraddistinto da una pluralità di soggetti – forze armate, partito, burocrazia centrale e periferica, nazionalità – in competizione tra loro.23 La riforma gorbačëviana soffre di una natura intimamente

transnational movement to end the Cold War, Cornell University Press, Ithaca NY 1999; G.J.Ikenberry, Liberal Leviathan: the origins, crisis, and transformation of the American world order, Princeton University Press, Princeton

NJ 2011.

19 D.C.Thomas, The Helsinki effect: international norms, human rights, and the demise of communism, Princeton University Press, Princeton NJ 2001.

20 Nei ricordi di Gorbačëv un momento chiave è la condivisione di tale consapevolezza con il futuro ministro degli esteri Ševardnadze durante una passeggiata in Crimea della fine del 1979: cfr.M.Gorbačëv, Ogni cosa a suo tempo.

Storia della mia vita, Marsilio, Venezia 2013, p.204. Il ricordo è invece collocato alla fine del 1984 da E.Ševardnadze, The future belongs to freedom, Free Press, New York 1991, p.37; A.Brown, The Gorbachev factor, Oxford University

Press, Oxford 1997, p.81.

21 N.Robinson, Ideology and the collapse of the Soviet system: a critical history of Soviet ideological discourse, Elgar, Aldershot UK 1995; J.Lévesque, 1989, la fin d’un empire: l’Urss et la liberation de l’Europe de l’Est, Presses de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, Paris 1995; R.English, Russia and the idea of the West: Gorbachev,

intellectuals, and the end of the Cold War, Columbia University Press, New York 2000; M.Flores, La fine del

comunismo, Bruno Mondadori, Milano 2011. Il «ritorno a Lenin» è il punto di partenza di M.S.Gorbaciov, Perestrojka. Il nuovo pensiero per il nostro paese e per il mondo, Mondadori, Milano 1987, p.25. Tra 1960 e 1986 in Urss le

abitazioni con TV passano dal 5 al 93%: cfr.Brown, Gorbachev, p.18.

22 Per un panorama di fonti orali che mostrano l’ampia condivisione di entrambi i punti di vista cfr.P.Hollander,

Political will and personal belief: the decline and fall of Soviet communism, Yale University Press, New Haven CN

1999; O.Skvortsov (a cura di), Cold War oral history project, Institute of General History, Moscow.

23 Per l’approccio policratico allo studio dell’Urss cfr.M.Fainsod, How Russia is ruled, Harvard University Press, Cambridge MA 1953; J.F.Hough-M.Fainsod, How the Soviet Union is governed, Harvard University Press, Cambridge MA 1979

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contraddittoria: l’apertura graduale al mercato e all’iniziativa privata non produce ritorni immediati in termini di ricchezza e benessere mentre l’introduzione di un ridotto pluralismo politico innesca processi di radicalizzazione sempre meno controllabili. L’idealismo del segretario si scontra con la refrattarietà dell’apparato (sovietico ed est-europeo) a ogni sperimentazione riformatrice e con la riemersione di identità nazionalistiche rispetto alle quali l’ideologia sovietica si dimostra sorprendentemente debole. Al vertice e alla base della società civile si respira infatti un clima di cinismo, distacco, apatia che rappresenta il primo e maggiore ostacolo della perestrojka e che contribuisce anche a spiegare il carattere non violento della transizione che si prepara. Ancora nel 1990 lo sviluppo del settore privato è fermo al 4-5% dell’economia sovietica, scoraggiato dal taglieggiamento che gli impiegati pubblici esigono per la registrazione, mentre il mercato nero copre dagli anni settanta il 40% delle spese familiari.24 Quando Gorbačëv allenta la repressione, il numero delle

manifestazioni di dissenso in chiave nazionalista è dieci volte superiore a quelle in chiave di democratizzazione economico-politica. Nel gennaio 1991 centocinquantamila russi

scendono in piazza contro la repressione dei paesi baltici e a favore della loro battaglia indipendentista, mentre sono assai meno (40-50 mila, su 10 milioni di abitanti della città) i moscoviti che si mobilitano contro il putsch militare dell’agosto successivo (nel novembre 1989 i praghesi che riabbracciano Dubcek in piazza San Venceslao sono un milione).25

«Raramente si è visto nella storia – commenta Jerry Hough – un processo rivoluzionario o democratizzante accompagnato da un così esiguo appoggio popolare».26

È un’apatia che viene da lontano. Molte ricerche convergono infatti nell’indicare la prima metà degli anni settanta come punto di svolta negativo e radice storica di un accordo al ribasso tra popolo e istituzioni. È allora che la mobilità sociale ascendente si arresta e al suo posto subentra un patto sociale fondato sui prezzi bassi dei generi di consumo: ancora nel 1989 si stima che una loro liberalizzazione produrrebbe un’inflazione vicina al 40%.27 A

partire dal 1970 la crescita produttiva rallenta di ritmo, si stabilisce una pesante e non momentanea dipendenza dalle importazioni di grano statunitense (cui Mosca destina nel 1972 la più grande mole di denaro mai impegnata nel mercato internazionale dei cereali), si frustrano le aspettative crescenti maturate nel «piccolo benessere» kossighiano del decennio precedente, aumentano le ineguaglianze di reddito, l’estrazione delle risorse naturali si sposta verso i giacimenti siberiani con aumenti di costo conseguenti: la rendita garantita dal

24 P.Hanson, The rise and fall of the Soviet economy: an economic history of the Ussr from 1945, Pearson, London-New York 2003, p.207; A.Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica 1945-1991, il Mulino, Bologna 2008, p.536. Insistono maggiormente sul potere di ricatto esercitato dall’alto nella fornitura di beni e servizi a basso costo (e sulla corruzione) K.Jowitt, New world disorder: the Leninist extinction, University of California Press, Berkeley 1992, pp.227-8; S.Crowley, Hot coal, cold steel: Russian and Ukrainian workers from the end of the Soviet

Union to the post-communist transformations, University of Michigan Press, Ann Arbor 1997.

25 M.R.Beissinger, Nationalist mobilisation and the collapse of the Soviet state, Cambridge University Press,

Cambridge 2002, p.75; Kramer, The collapse of the Soviet Union (part 2): introduction, «Journal of Cold War Studies», 5, 2003, 4, pp.6-9; W.D.Connor, Soviet society, public attitudes, and the perils of Gorbachev’s reforms: the social

context of the end of the Ussr, «Journal of Cold War Studies», 5, 2003, 4, p.53.

26 J.F.Hough, Democratization and revolution in the Ussr 1985-1991, Brooking Institution Press, Washington DC 1997, p.11. Per tesi solo in parte diverse cfr.J.B.Sedaitis-J.Butterfield (a cura di), Perestroika from below: social

movements in the Soviet Union, Westview Press, Boulder CO 1991; G.A.Hosking-J.Aves-P.J.S.Duncan, The road to post-communism: independent political movements in the Soviet Union 1985-1991, Pinter, London 1992; D.A.Filtzer, Soviet workers and the collapse of Perestrojka: the Soviet labour process and Gorbachev's reforms 1985-1991,

Cambridge University Press, Cambridge 1994; M.S.Fish, Democracy from scratch: opposition and regime in the new

Russian revolution, Princeton University Press, Princeton NJ 1995.

27 L.J.Cook, The Soviet social contract and why it failed: welfare policy and workers’ politics from Brezhnev to

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petrolio si avvia ad esaurimento.28 Capitolo significativo della svolta negativa è la

bocciatura – per i rischi di un eccessivo decentramento del potere di controllo – di un progetto di rete nazionale di computer (nel 1987 i personal computer in Unione Sovietica sono pari allo 0,5% di quelli negli Stati Uniti) che taglia fuori il paese dalla sfida della terziarizzazione post-industriale avviatasi in Occidente negli stessi anni.29

3. Globalizzazione e scelte politiche.

Nonostante la sua fede ideologica, a Gorbačëv non manca la precoce consapevolezza dell’assenza di una risposta in tempi rapidi dal sistema e dalla nomenklatura, da cui deriva un doppio mutamento di strategia. Sul piano internazionale il «new thinking» del segretario acquista lo spessore di un ridispiegamento strategico dell’Unione Sovietica come

superpotenza pronta a negoziare il proprio disarmo e a ridimensionare la propria area di influenza in cambio di una piena e paritetica cogestione della fine della guerra fredda.30 Del

resto questa disponibilità corrisponde alla presa d’atto «realista», e non «costruttivista», che il debito estero sovietico − «non necessariamente ingestibile» lo definisce Philip Hanson – costituisce comunque un vincolo ineludibile, che estende anche sul piano finanziario la dipendenza dal grano e dalla tecnologia occidentali consolidatasi a partire dagli anni settanta. È la globalizzazione, non solo di denaro e merci ma anche di idee e di raffronti, a rappresentare il nemico mortale del comunismo sovietico; così come rappresenta,

all’opposto, una ragione di sopravvivenza per quello cinese.31

Sul piano dei rapporti con l’est europeo valgono le medesime considerazioni. Solo nel 1988 Gorbačëv formalizza la fine della dottrina Brežnev (la sovranità limitata dei paesi del patto di Varsavia): una scelta tutt’altro che scontata – «unica nella storia mondiale» la definisce anzi Zubok – visto che ancora nel 1980 la minaccia dell’intervento ha favorito una restaurazione, seppur temporanea, in Polonia, che in passato la reazione statunitense è sempre stata assai blanda e che nel dicembre 1994 il «democratico» El’cin non esiterà a ricorrere alla violenza in Cecenia.32 Ma una scelta non solo e non tanto ingenuamente

28 W.D.Connor, The accidental proletariat: workers, politics, and crisis in Gorbachev’s Russia, Princeton University Press, Princeton NJ 1991; R.C.Allen, The rise and decline of the Soviet economy, «Canadian Journal of Economics», 34, 2001, 4, pp.859-81; C.Gerlach, Die Welternährungskrise 1972 bis 1975, «Geschichte und Gesellschaft», 31, 2005, p.546; J.S.Flemming-J.Micklewright, Income distribution, economic systems, and transition, in A.B.Atkinson-F.Bourguignon (a cura di), Handbook of income distribution, Elsevier, Amsterdam 1999, pp.857-60; T.Gustafson,

Crisis amid plenty: the politics of Soviet energy under Brezhnev and Gorbachev, Princeton University Press, Princeton

NJ 1989.

29 S.Gerovitch, InterNyet: why the Soviet Union did not build a nationwide computer network, «History and Technology», 24, 2008, 4, pp.335-50. Anche la riforma universitaria introdotta nel 1968 in Germania est determina ricadute simili, in termini di arretratezza in campo microelettronico e controllo politico sulla ricerca: cfr.D.I.Augustine,

Red Prometheus: engineering and dictatorship in East Germany 1945-1990, Mit Press, Cambridge MA 2007, p.347.

30 Zubok, Failed empire, p.285.

31 Hanson, Rise, p.192. M.Harrison, Coercion, compliance, and the collapse of the Soviet command economy, «Economic History Review», 55, 2002, 3, pp.397-433, colloca l’inizio del collasso nel 1990; A.Aslund, How Russia

became a market economy, Brookings Institution, Washington DC 1995, nel 1988. Per una tesi diversa che anticipa la

crisi dovuta alla globalizzazione dei prezzi del petrolio (prima favorevole e poi avversa all’export sovietico) cfr. V.Mau-I.Starodubrovskaia, The challenge of revolution: Russian transformation in historical perspective, Oxford University Press, Oxford 2001.

32 Zubok, Failed empire, p.320; Graziosi, L’Urss, p.506; Kramer, Introduction, «Journal of Cold War Studies», 5, 2003, 4, p.16 n.38 che azzarda un parallelo controfattuale con il Lincoln del 1861. Nei ricordi di Gorbačëv il primo momento di ripudio pubblico della dottrina Brežnev avviene ai funerali di Černenko (marzo 1985) tra l’incredulità dei rappresentanti dei paesi est-europei: cfr.Gorbačëv, Ogni cosa, p.280. La memoria di Gorbačëv è contestata sulla base dei verbali originali da M.Kramer, The demise of the Soviet bloc, «Europe-Asia Studies», 63, 2011, 9, pp.1535-90, che posticipa agli inizi del 1988 l’avvio della revisione del Patto di Varsavia come alleanza difensiva ristretta al pericolo di aggressioni occidentali e alla primavera 1989 l’effettiva decisione (condivisa dallo stato maggiore militare) del non-intervento in caso di disordini interni. Parzialmente diversa la tesi di S.Savranskaya, The logic of 1989: the Soviet

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idealistica, bensì obbligata dai vincoli commerciali e finanziari contratti con l’Occidente: fino dagli anni settanta Mosca importa un terzo dei suoi macchinari industriali dalla Germania federale.33 Una qualsiasi riedizione dell’invasione cecoslovacca del 1968 –

oltretutto su scala più ampia e quindi con minori garanzie di successo – esporrebbe l’intero blocco a ritorsioni «disarmate» ma esiziali da parte occidentale.34 Non mi pare sbagliato

pensare che la Ostpolitik dell’allora cancelliere Brandt, con la sua apertura di linee commerciali e creditizie verso oriente, si sia rivelata assai più determinante delle guerre stellari reaganiane nella fine del comunismo europeo e sovietico.

Sul piano interno Gorbačëv punta invece a ridimensionare il ruolo del partito comunista – ormai rivelatosi poco efficace strumento di mobilitazione e anzi fattore di immobilismo a livello del quadro intermedio e dirigente – attraverso la proposta di elezioni a candidatura multipla del Congresso dei deputati del popolo, formulata nel luglio 1988 e poi realizzata l’anno successivo. Finisce qui la fedeltà a Lenin, attraverso l’apertura seppur parziale del partito alla rappresentanza della società civile (sono molti i segretari locali non eletti) e la tendenziale separazione tra questo e lo stato. Ma il pluralismo politico che si manifesta non è quello immaginato dal segretario: penetra adesso nelle istituzioni delle repubbliche il vento del nazionalismo che porterà rapidamente alla separazione da Mosca.

Come mostrano le puntigliose ricostruzioni di Mark Kramer, la fine del comunismo segue un movimento a pendolo che si origina al cuore dell’Unione Sovietica con il ripudio della dottrina Brežnev, si traduce nell’incapacità riformatrice e nell’implosione dell’est europeo nel 1989, per poi tornare verso oriente sotto forma di spinta disgregatrice

dell’impero sovietico. Ogni ipotesi controfattuale è naturalmente molto complicata, ma mi sembra difficile escludere che senza le riforme di Gorbačëv il blocco dei paesi comunisti europei avrebbe potuto sopravvivere ancora: fino al 1989 analisti e politici occidentali ne sono convinti in larghissima maggioranza.35

Il che torna a sottolineare il ruolo cruciale esercitato dal segretario del Pcus. Nella sua dinamica apparentemente casuale – la dichiarazione televisiva sbagliata di un dirigente di secondo piano del governo tedesco-orientale che anticipa ed estende misure di

liberalizzazione dei passaggi di frontiera – la caduta del Muro di Berlino mette in luce uno spontaneo dinamismo di massa ma soprattutto la paralisi degli apparati repressivi, bloccati dalla ferma opposizione sovietica.36 La multiforme e caotica transizione che allora si avvia

peaceful withdrawal from Eastern Europe, in Id.-T.Blanton-V.Zubok (a cura di), Masterpieces of history: the peaceful end of the Cold War in Europe 1989, Central European Press, Budapest-New York 2010, pp.1-47, per cui segnali in

questa direzione sono lanciati da Gorbačëv fin dall’autunno 1985.

33 W.Taubman-S.Savranskaya, If a wall fell in Berlin and Moskow hardly noticed, would it still make a noise?, in Engel, Fall, p.73.

34S.Kotkin, The kiss of debt: the East bloc goes borrowing, in N.Ferguson et al.(a cura di), The shock of the global: the

1970s in perspective, ppp.80-93; Romero, Alle origini, pp.37-8 e la bibliografia ivi citata. Nel giugno 1986 Gorbačëv

sostiene ancora l’indispensabilità dei rapporti economici con l’est europeo ma nel marzo 1988 dichiara al Politburo che la realtà del Comecon è fatta di debiti con l’Occidente più materie prime sovietiche a prezzo politico: cfr. Savranskaya,

Logic, pp.15-6. Per esempi di interpretazione idealistica cfr.F.Furet, Il passato di un illusione. L’idea comunista nel XX

secolo, Mondadori, Milano 1995, p.556: «se nell’autunno del 1989 [Gorbačëv] ha aperto la strada alla liquidazione dei

regimi comunisti esteuropei, è stato per un rifiuto di spargere sangue, non per volontà deliberata»; Beissinger,

Nationalist mobilization, p.328: «l’incapacità del regime sovietico di difendersi con la forza fu in parte dovuto alla

personale adesione di Gorbachev alla non violenza».

35 Nessuno ne dubita almeno fra i collaboratori e conoscenti dell’allora direttore della Cia: cfr.R.M.Gates, From the

shadows: the ultimate insider’s story of five presidents and how they won the Cold War, Simon and Schuster, New York

1996, p.449.

36 H.H.Hertle, Der fall der Mauer: die unbeabsichtigte selbstauflösung des Sed-staates, Westdeutscher Verlag, Opladen 1999; N.D.Cary, ‘Farewell without tears’: diplomats, dissidents, and the demise of East Germany, «Journal of Modern History», 73, 2001, 3, pp.617-51; M.Funken, Das jahr der Deutschen: die glückliche geschichte von Mauerfall

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in Europa orientale fuoriesce subito dall’alveo «neoleninista» auspicato da Gorbačëv ma è significativo che i verbali del Politburo mostrino una discussione sorprendentemente disattenta ai fatti dell’Europa orientale e pressoché monopolizzata dall’emergenza economica nazionale, come a testimoniare una raggiunta consapevolezza che l’Unione Sovietica non sia più in grado di condizionare lo svolgimento politico dei paesi dell’est europeo. Già nel 1991 la loro alleanza economica e militare cesserà di esistere.37 D’altra

parte, anche il ruolo degli Stati Uniti e dei paesi occidentali in questa svolta storica è sostanzialmente quello di rigidi spettatori passivi «realisticamente» preoccupati per la stabilità europea: complice anche la diffidenza del primo Bush nei confronti di quella che ritiene «l’infatuazione» di Reagan per Gorbačëv.38 Ma con un’unica decisiva eccezione che

matura a novembre per impulso principale del cancelliere Kohl e che Washington sostiene con cautela: l’innesco di un processo di unificazione della Germania che, nonostante tutte le perorazioni del leader sovietico, avviene sotto le insegne della Nato.39

4. Nazionalismi e comunismi resilienti.

In senso stretto, com’è noto, la dissoluzione dell’Urss avviene per effetto, non già della competizione statunitense, né della crisi economica, né della perdita dell’est europeo, bensì di secessioni nazionali, che vengono innescate dai fronti nazionali creati nelle

repubbliche baltiche (le uniche ad essere state incorporate con la forza nel 1940) in occasione delle elezioni parzialmente libere tenute nel 1989. Su questo dato si fonda la corrente storiografica che enfatizza la natura «imperiale» del potere sovietico e della sua crisi.40 Nessuno degli studiosi interpreti di tale corrente attribuisce ai nazionalismi un peso

esclusivo: fino al 1985 i dati economici confermano che il «compact» tra Mosca e le

repubbliche funziona, nel senso di garantire sostanziale eguaglianza di condizioni tra l’etnia sieben mythen der wiedervereinigung: fakten und analysen zu einem prozess ohne alternative, Ehrenwirth, München

1991, pp.123-63.

37 Taubman- Savranskaya, If a wall.

38 T.Blanton, U.S.policy and the revolutions of 1989, in Savranskaya-Blanton-Zubok, Masterpieces, pp.49-98; L.Borhi,

The international context of Hungarian transition 1989: the view from Budapest, in F.Bozo et al.(a cura di), Europe and the end of the Cold War: a reappraisal, Routledge, London-New York 2008, pp.78-92; K.Spuhr Readman, International reactions to Soviet disintegration: the case of the Baltic states, ivi, pp.220-32; M.P.Leffler, Dreams of freedom, temptations of power, in Engel, The fall, pp.136-7; M.E.Sarotte, 1989: The struggle to create a post-Cold War Europe, Princeton University Press, Princeton NJ 2009, p.24; G.H.W.Bush-B.Scowcroft, A World Transformed, Knopf,

New York 1998, p.13. Per una tesi diversa che sottolinea comunque la preoccupazione di non rompere con Gorbačëv, cfr.P.Zelikow-C.Rice. Germany united and Europe transformed: a study in statecraft, Harvard University Press, Cambridge MA 19952.

39 K.H.Jarausch, The rush to German unity, Oxford University Press, New York 1994; M.Görtemaker, Unifying

Germany 1989-1990, St,Martin’s Press, Prague-New York 1994; C.Maier, Dissolution: the crisis of communism and the end of East Germany, Princeton University Press, Princeton NJ 1997 [Bologna 1999]; T.Forsberg, Power, interests and trust: explaining Gorbachev’s choices at the end of the Cold War, «Review of International Studies», 25, 1999, 4,

pp.603-21; A.Stent, Russia and Germany reborn: unification, the Soviet collapse, and the new Europe, Princeton University Press, Princeton NJ 1999; K.Spohr, German unification: between official history, academic scholarship, and

political memoirs, «Historical Journal», 43, 2000, 3, pp. 869-88; H.J.Küsters, The Kohl-Gorbachev meetings in Moscow and the Caucasus 1990, «Cold War History», 2, 2002, 1, pp.195-235; H.Adomeit, Gorbachev, German unification and the collapse of empire, «Post-Soviet Affairs», 10, 1994, 3, pp.197-230; Id., Gorbachev’s consent to united Germany’s membership of Nato, in Bozo et al., Europe, pp.107-18.

40 R.G.Suny, The revenge of the past: nationalism, revolution and the collapse of the Soviet Union, Stanford University Press, Stanford CA 1993; T.Martin, The affirmative action empire: nations and nationalism in the Soviet Union

1923-1939, Cornell University Press, Ithaca NY 2001; F.Hirsch, Empire of nations: ethnographic knowledge and the making of the Soviet Union, Cornell University Press, Ithaca NY 2005; A.S.Tuminez, Nationalism, ethnic pressures, and the breakup of the Soviet Union, «Journal of Cold War Studies», 5, 2003, 4, pp.81-136; A.Pravda, The collapse of the Soviet Union 1990-1991, in Leffler-Westad, Cambridge history, v.3, pp.356-77; G.Schroeder, Nationalities and the Soviet economy, in L.Hajda-M.R.Beissinger (a cura di), The nationalities factor in Soviet politics and society, Westview

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russa e le altre. Gli episodi di rivolta nazionalista sono limitati e dimostrano nello stesso tempo sia la sopravvivenza di identità non sovietiche sia la loro minima incidenza politica.41

Da un lato le insorgenze nazionali – non solo nel Baltico – rappresentano una «vendetta del passato», come le definisce Ronald Suny: un fuoco che continua a covare sotto la cenere della repressione in uno stillicidio di rivolte riportate alla luce dagli studi recenti, contro cui il processo di nation-building sovietico esercita un potere decrescente man mano che ci si allontana nel tempo dalla legittimazione pur decisiva della Grande Guerra Patriottica contro Hitler. Così come anche in Europa orientale lo stesso fattore nazionale anti-sovietico gioca un ruolo nel fomentare l’opposizione a regimi comunque imposti dall’esterno nel 1945.42

Dall’altro, è interessante il raffronto con il caso jugoslavo perché mette in luce come la ricerca storiografica tenda a superare il generico richiamo ad «antichi odi» per impostare il problema nei termini di una crisi dei meccanismi della rappresentanza istituzionale. Anche la Jugoslavia è uno stato federale che, già prima della morte di Tito, si trova ad affrontare l’emergenza di una esposizione difficilmente sostenibile al debito estero contratto con l’Occidente. La complicazione strutturale di una dispersione significativa (in misura di quasi il 40%) dell’etnia serba nelle altre repubbliche – che contribuisce a spiegare la natura

violenta della dissoluzione – corrisponde a un decentramento di poteri che si accentua dopo il 1974 e arriva a superare, per livelli di autonomia, l’architettura istituzionale sovietica.43

Visto in questa luce, il nazionalismo di Milošević appare una strategia di exit da una situazione compromessa e nello stesso tempo di imitazione-reazione rispetto agli egoismi separatisti delle repubbliche federali più prospere (Slovenia e Croazia): una strada che somiglia – anche nella brutalità della repressione delle province più povere, in Kossovo come in Cecenia – a quella percorsa da El’cin attraverso la «de-sovietizzazione della Russia».44

Piuttosto che una spontanea invarianza della storia, il «richiamo della foresta» nazionalista appare l’esito convergente di tre diversi processi. In primo luogo l’ideologia nazionalista si configura come uno strumento di riciclaggio politico consapevolmente usato da élite tradizionali che hanno paura di soccombere nella crisi economica e nella perdita di legittimazione ideologica. D’altra parte, anche per i gruppi di opposizione (come quelli baltici) il nazionalismo incarna il contenuto ideologico più semplice, già pronto e più

41 Beissinger, Nationalist mobilization; B.Nahaylo-V.Swoboda, Soviet disunion: a history of the nationalities problem

in the Ussr, Free Press, New York 1990; R.L.Rudolph-D.F.Good (a cura di), Nationalism and empire: the Habsburg empire and the Soviet Union, St. Martin’s Press, New York 1992; J.B.Dunlop, The rise of Russia and the fall of the Soviet Empire, Princeton University Press, Princeton NJ 1993.

R.Karklins, Explaining regime change in the Soviet Union, «Europe-Asia Studies», 46, 1994, 1, pp.29-45; K.Dawisha-B.Parrott (a cura di), The end of empire? the transformation of the Ussr in comparative perspective, Sharpe, Armonk NY 1997; K.Barkey-M.von Hagen (a cura di), After empire: multiethnic societies and nation-building-the Soviet Union

and the Russian, Ottoman, and Habsburg empires, Westview Press, Boulder CO 1997; B.Fowkes, The disintegration of the Soviet Union: the triumph of nationalism, MacMillan, London 1997;Tuminez, Nationalism, pp.81-136. Per una tesi

parzialmente diversa che sostiene l’incongruenza istituzionale di ogni struttura etno-federale cfr.V.Bunce, Subversive

institutions: the design and the destruction of the socialist state, Cambridge University Press, New York 1999;

E.W.Walker, Dissolution: sovereignty and the breakup of the Soviet Union, Rowman and Littlefield, Lanham MD 2003. 42 S.Pons, Concettualizzare l’89: la prospettiva storica, «Passato e Presente», 28, 2010, 80, p.21.

43 S.P.Ramet, Nationalism and federalism in Yugoslavia 1962-1991, Indiana University Press, Bloomington IN 1992; R.Lukic-A.Lynch, Europe from the Balkans to the Urals: the disintegration of Yugoslavia and the Soviet Union, Oxford University Press, New York 1996; S.Petrungaro (a cura di), La fine della Jugoslavia: tempo di bilanci, «Passato e presente», 31, 2013, 90, pp.17-36. Per una precoce previsione della rottura secondo questa linea interpretativa cfr.S.Burg, Conflict and cohesion in socialist Yugoslavia, Princeton University Press, Princeton NJ 1983.

44 R.Szporluk, Russia, Ukraine, and the break-up of the Soviet Union, Hoover Institution, Stanford CA 2000. Sulla rivalità tra El’cin e Gorbačëv cfr.M.D.Zlotnik, Yeltsin and Gorbachev: the politics of confrontation, «Journal of Cold War Studies», 5, 2003, 1, pp.128-64.

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trasversale per rimarcare la distanza dal regime comunista: qualsiasi altro contenuto

programmatico – ad esempio in termini di democrazia, liberalismo o diritti umani – sarebbe inevitabilmente meno unanimistico e più controverso. In terzo luogo, proprio il federalismo sovietico ha salvaguardato e quindi mantenuto in relativa efficienza le identità nazionali predisponendo il terreno per la loro riemersione.45 Nella risorgenza delle ideologie

nazionalistiche, nei Balcani come in Urss, non c’è niente di inevitabile: molto dipende invece dalle scelte delle élite centrali e periferiche. A proposito Astrid Tuminez ricorda i numerosi casi, dal Kashmir al Kurdistan, all’Irlanda del nord e alla regione basca, in cui l’uso combinato e tempestivo della repressione e della trattativa si dimostra efficace.

Non per caso, la scelta non violenta di Gorbačëv riproduce una scelta analoga da parte dei rivoltosi nei diversi contesti nazionali (dalla Germania est al Baltico, con l’eccezione della Romania e nonostante i numerosi casi di «indisciplina» violenta delle forze armate sovietiche, soprattutto in Georgia) fino a comporre un modello di rivoluzione pacifica – dove la mobilitazione di piazza si coniuga alla trattativa di vertice con i vecchi poteri – che esula dagli schemi ereditati dal passato.46 Ciò non toglie che l’esito si riveli

comunque esiziale per il segretario dell’Urss: la legittimazione popolare (talvolta, come nel caso russo, espressa dal voto) si rivela più forte e i costi della secessione appaiono inferiori a quelli della permanenza nella vecchia struttura «imperiale». Ma, ancora una volta, è difficile non collocare alle origini del processo le decisioni soggettive di Gorbačëv.

Questa enfasi sulla human agency appare corroborata dall’analisi comparativa con i paesi comunisti che passano indenni lo spartiacque del 1989: sono le scelte delle élite dirigenti a fare la differenza.47 La «divergenza» di Cina, Cuba, Corea del nord, Vietnam è

tuttavia anche il frutto di una originaria diversità genetica: lo stretto legame tra fazione comunista e guerra di indipendenza nazionale contro invasori stranieri e colonialismi occidentali procura una legittimazione superiore al «comunismo di guerra» sovietico del primo dopoguerra e soprattutto all’occupazione militare dell’Armata Rossa in Europa orientale del secondo dopoguerra.48 Eppure il medesimo legame tra regime e guerra di

liberazione nazionale si dissolve in Jugoslavia dopo la morte di Tito: a riprova del fatto che i regimi comunisti, anziché rispondere a una «essenza» totalitaria sempre uguale a se stessa, assumono caratteri anche profondamente diversi nello spazio e nel tempo. Se si eccettua il caso del «sultan state» patrimoniale e dinastico nord-coreano, in Cina e Vietnam il blocco di ogni riforma politica à la Gorbačëv si appoggia a una liberalizzazione dell’economia rurale e alla mobilitazione imprenditoriale degli strati contadini, che in Urss risulta invece

impossibile: decenni di statalismo violento, le larghe dimensioni delle unità produttive e la loro sottomissione agli input industriali della pianificazione hanno cancellato ogni residuo dinamismo imprenditoriale nelle campagne. Ma a Cuba, dove tra 1980 e 2000 le fattorie statali calano dall’82 al 33% del totale, il regime compensa la repressione con una

particolare efficienza dei servizi sanitari e la tolleranza del dualismo economico provvisto

45 R.Brubaker, Nationhood and the national question in the Soviet Union and post-soviet Eurasia: an institutionalist

account, «Theory and Society», 23, 1994, 1, pp.47-78; P.G.Roeder, Soviet federalism and ethnic mobilization, «World

Politics», 43, 1991, 1, pp.196-232; Y.Slezkine, The Ussr as a communal apartment, or how a socialist state promoted

ethnic particularism, «Slavic Review», 53, 1994, 2, pp.414-52.

46 J.A.Goldstone, Towards a fourth generation of revolutionary theory, «Annual Review of Political Science», 4, 2001, 2, pp.139-87.

47 S.Saxonberg, Transition and non-transition from communism: regime survival in China, Cuba, North Korea, and

Vietnam, Cambridge University Press, New York 2013; T.P.Bernstein, Resilience and collapse in China and the Soviet Union, in M.K.Dimitrov (a cura di), Why communism did not collapse: understanding authoritarian regime resilience in Asia and Europe, Cambridge University Press, New York 2013, pp.40-66.

48 M.Pei, From revolt to revolution: the demise of communism in China and the Soviet Union, Harvard University Press, Cambridge MA 1994.

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dal turismo in valuta straniera (che dal 1994 supera la produzione di zucchero nelle entrate di bilancio).49 In modo non dissimile da quanto avviene in Occidente anche nei regimi

comunisti agisce un nesso tra secolarizzazione e benessere, come fonte di legittimazione del potere: le élite dirigenti si rendono interpreti di un autoritarismo totalitario e post-ideologico che liberalizza la sfera economica e apre alla globalizzazione capitalistica, ma non attraverso il fatale connubio di indebitamento e importazioni (che affligge dagli anni settanta l’intero blocco sovietico) bensì attraverso la via delle esportazioni.50

La conclusione, solo apparentemente paradossale, è che ognuna delle correnti storiografiche qui analizzate può trarre motivo di conferma: quella realista-essenzialista sulla impossibilità di ogni riforma del totalitarismo comunista (a meno che non si traduca in apertura al libero mercato), quella costruttivista sul ruolo delle idee e dei leader politici come soggetti del cambiamento. Alla pari, forse, di ogni altro problema storiografico la dialettica tra individui e strutture rappresenta così il nodo problematico della fine del blocco sovietico: sono i primi a fare la differenza, almeno nello spazio che le seconde (ereditate da un passato più o meno lungo) concedono loro.

49 S.Powell, Agricultural reform in China: from commons to commodity economy 1978-1990, Manchester University Press, Manchester 1992; W.Brus, Marketisation and democratisation: the sino‐soviet divergence, «Cambridge Journal of Economics», 17, 1993, 4, pp.423-40; W.T.Alpert-J.Sanders, Recent economic history: a stalled expansion, in W.T.Alpert (a cura di), The Vietnamese economy and its transformation to an open market system, Sharpe, Armonk NY 2005, pp.32-43Y.Huang, Capitalism with Chinese characteristics: entrepreneurship and the state, Cambridge

University Press, New York 2008, p.33; M.Ravallion, A comparative perspective on poverty reduction in Brazil, China

and India, Policy Research Working Paper 5080, World Bank, Washington DC 2009;L.J.Enríquez, Reactions to the market: small farmers in the economic reshaping of Nicaragua, Cuba, Russia, and China, Pennsylvania State

University Press, University Park PA 2010.

50 X.L.Ding, Institutional amphibiousness and the transition from communism: the case of China, «British Journal of Political Science», 24, 1994, 3, pp.293-318; B.L.McCormick, Political change in China and Vietnam: coping with the

consequences of economic reform, «China Journal», 1998, 40, pp.121-43; M.Pei, China’s trapped transition: the limits of developmental autocracy, Cambridge University Press, New York 2006; B.J.Dickson, Wealth into power: the Communist Party’s embrace of China’s private sector, Cambridge University Press, New York 2008. Per una tesi

diversa che sottolinea il perdurante ruolo del partito in un quadro di «local state corporatism» diverso dal capitalismo occidentale, cfr.Y.Hou, Community capitalism in China: the state, the market, and collectivism, Cambridge University Press, New York 2013.

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