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Arte e interattività nell'Estetica di Luigi Pareyson

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Academic year: 2021

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Convegno Il pensiero della libertà. Luigi Pareyson a cent’anni dalla nascita 23/11/2018 (mattina)

Federico Vercellone

Vorrei fare un passo indietro e partire dall’estetica di Pareyson, che muove dalla tesi centrale per cui il fare artistico è un fare che inventa il proprio modo di fare, facendosi. È una tesi che ha avuto un effetto dirompente nel panorama dell’estetica italiana, perché significava intendere l’opera come un lavoro, come qualcosa di costantemente incompiuto. Questa prospettiva estetica di tipo generale si confronta con il fare delle avanguardie, e soprattutto con l’idea poi sviluppata da Umberto Eco -di un’«opera aperta», cioè -di un’opera in cui l’elemento della fruizione, quin-di dell’interazione, svolge un ruolo fondamentale: un’opera che vive dell’essere partecipata.

Ora, in tutto questo c’è un passo importante che va oltre l’estetico, pur restando nell’ambito dell’opera d’arte: l’idea che l’opera d’arte, sviluppando una forma originaria che si articola, si dipana, si moltiplica in altre forme, abbia a che fare con un modello fondamentale della simbolizzazione. Il fare artistico è il cespite da cui sorgono le forme simboliche. Pareyson deve questa prospettiva ad un autore che in quegli anni gli è particolarmente caro, Goethe, il quale intravede nel fare artistico un modello generale della simbolizzazione possibile.

Questo fare che inventa il proprio fare nel suo farsi deriva da diversi elementi interattivi. Il primo è il contatto con i materiali e la loro modificazione (un ruolo che riemerge nell’estetica pareysoniana dopo che era stato respinto da quella crociana). È un altro elemento che ci porta dentro il confronto teorico con le avanguardie, l’idea di una resistenza positiva dei materiali al fare umano, dentro cui appunto s’inserisce l’opera. Siamo nell’epoca dell’espressionismo astratto di Rauschenberg e Burri, in cui i materiali appunto emergono come elemento potente della significazione, e non solo: come elemento potente di un’auto-significazione dell’essere. L’essere è cioè capace di auto-significarsi simbolicamente attraverso dei materiali, e lavorare sui materiali significa lasciar emergere questa significazione possibile. Molti artisti riconducibili alla Land Art e alla Body Art hanno lavorato su questo principio: che il simbolo sia in re e che si tratti di farlo emergere, portarlo fuori, lasciarlo essere. Un impianto goethiano rivisto in senso morfologico avrebbe naturalmente potenti effetti per un’estetica ecologica, poiché se il simbolo è deposto in re, noi abbiamo a che fare con un equilibrio soggetto-natura che viene dettato dalla natura e non solo dal soggetto.

A mio avviso, il nichilismo significa che tutto questo non sarebbe possibile; che è sparita dal mondo la traccia di una significazione simbolica oggettiva. Non ci sono più tracce di Dio. Il soggetto è un soggetto totalmente disorientato, spaventato (lo Schrecken di Jacobi), che si aggira per il mondo senza più indicazioni su come procedere. Torniamo a cogliere quanto ha di importante questo tipo di estetica come elemento di un’originaria donazione del senso che non deriva dal soggetto. Una intelligenza del fare umano e un carattere emancipativo del fare umano nell’opera ci rimanda a un altro grande autore che non mi risulta Pareyson abbia affrontato in maniera diretta, John Dewey (oltre a Valéry, a cui invece Pareyson ha dedicato pagine molto importanti). Nell’idea di esperienza estetica di Dewey c’è qualcosa di profondamente vicino a questa dimensione pareysoniana: l’idea di un’esperienza estetica come esperienza effettivamente compiuta e quindi effettivamente significativa, come restituzione del significato in un universo svuotato, alienato a se stesso se vogliamo.

Questo tipo di estetica è immediatamente ermeneutica, laddove l’artista e l’interprete dell’opera sono l’uno in conseguenza dell’altro e l’uno in quanto altro, dato che non ci sarebbe comunicazione tra il fare dell’autore dell’opera se il fruitore non vi partecipasse a sua volta attivamente e artisticamente (secondo un modello riconducibile già alla tradizione romantica). L’interpretazione allora è fin dall’inizio un’interpretazione dei materiali in quanto materiali simbolici, e la creazione è interpretazione del simbolo deposto nei materiali, svisceramento della verità simbolica del materiale che viene a proporsi e che viene scelto poieticamente dall’artista.

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Da questo punto di vista l’interpretazione è qualcosa di più che non semplice interpretazione. L’interpretazione è cura di ciò con cui abbiamo a che fare, ed è cura in quanto indica che esattamente questo va curato in quanto simbolicamente significativo per noi. Si tratta di un’emergenza del senso che riscopre un lato creaturale dell’essere, che viene tutelato in questo modo. L’opera d’arte e il fare artistico è dunque tutela dell’essere da questo punto di vista. L’interpretazione è effettivamente artistica in quanto non può che trascorrere attraverso degli elementi patico-simpatetici, e la relazione con l’opera in tal senso è pienamente ermeneutica perché è sempre una relazione soggettiva: l’opera è sempre un “tu” e non un obiectum, è l’alter di un processo dialogico di scoperta dell’altro e di se stessi nell’altro, di una donazione di significati che si universalizzano nel fare. Scoperta dialogica di significato dell’opera che in quello stesso momento è universalizzazione del materiale che si ha di fronte, sua resa simbolica - dialegein, dunque, “percorrere i logoi”.

È così che Pareyson entra in contatto profondo con molti momenti dell’avanguardia artistica, oltre che con alcuni momenti che hanno a che fare in senso lato con l’esperienza religiosa. L’autonomia dell’arte va intesa in questo senso come autonomia dell’oggetto artistico, che si soggettivizza, che diventa un “tu”. Torna in mente la famosa conferenza del ’23 di Paul Klee, il quale afferma che è l’opera innanzitutto a guardare piuttosto che ad essere guardata; tu ne hai attivato lo spazio simbolico e l’opera te lo restituisce, modificandoti, introducendoti nel suo, indicandoti che non ne sei padrone, innescando un processo di destituzione del soggetto “proprietario” dell’opera, il quale libera l’oggetto artistico, lo lascia essere nella sua libertà aurorale e ne diventa responsabile in un altro senso.

Per concludere, il carattere dialogico della relazione con l’opera consente non solo una riflessione potente sullo stato dell’arte moderna e sui compiti etici, ma in fondo anche di aprire in due direzioni (e probabilmente in molte altre) che sono componenti fondamentali dell’estetica contemporanea. Per un verso sappiamo bene come l’estetica abbia da fare oggi con il concetto di interattività, con una relazione cioè sempre più esplicitamente fondata sull’interazione, a partire da Bourriaud e in tutto lo sviluppo della relazione tra arte e nuovi media (quando invece nel Joyce di Opera aperta essa restava un implicito dell’opera). Abbiamo a che fare con una serie di opere che richiedono un intervento esplicito da parte del fruitore, di effettivo compimento dell’opera: pensiamo alle opere di Plensa a Chicago, dove il soggetto pone davanti ad una fontana e riflettendosi in essa si monumentalizza, o agli specchi di Pistoletto. Il soggetto è inserito in una relazione di responsabilità costante verso di sé, verso l’ambiente, verso l’altro, e costruisce un mondo. L’altro grande elemento, connesso a questo, è la possibilità di rivalutare il concetto di improvvisazione. L’improvvisazione apre ai caratteri di performance di molta arte contemporanea, in cui di nuovo si tratta di scoprire uno spazio simbolico préalable che viene sviluppato a contatto e non a maîtrise dell’artista, il quale entra in un intervento patico che si traduce in un intervento intelligente e consegna l’opera a una prosecuzione simbolica che è anche simbolo di una comunità possibile, che può essere agita da ognuno di noi.

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