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Il Ramayana nel sud-est asiatico e nella letteratura contemporanea. Diffusione, popolarità e varianti

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Academic year: 2021

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“Il Ramayana nel sud-est asiatico e nella letteratura contemporanea. Diffusione, popolarità e varianti”

di Valentina Ebranati

Relatore: Correlatore:

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Indice

Introduzione

1. Quadro storico della presenza indiana in Indocina

2. Il Ramayana in Cambogia: Reamker

3. Gli altri Ramayana nel sud-est asiatico

4. Il Ramayana dove non te lo aspetti: la letteratura italiana contemporanea e l’archeologia del mistero

5. Il Ramayana delle varianti contemporanee

Appendice 6. Immagini 7. Video Note Bibliografia e sitografia Indice Immagini

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Introduzione

L’epica del Ramayana è un mare pressoché infinito, nel quale sono presenti oltre trecento differenti versioni senza contare le rivisitazioni moderne e tutto ciò che è stato, anche di recente, rielaborato per cinema, tv, fumetto.

Tentare un approccio comparativo generale sarebbe quindi come affrontare questo infinito mare con una piccola zattera senza peraltro giungere a destinazione alcuna.

Tenendo conto che la cultura indiana con i suoi enormi portati storici, letterari, iconografici e di costume ha raggiunto zone più o meno limitrofe (ma non solo, e lo vedremo) fin dai tempi più antichi, anche scegliere l’area su cui concentrare l’attenzione e la direzione della nostra navigazione epica non è stato semplice.

Tuttavia, è stato il Ramayana in particolare, preso a confronto con altri giganti della letteratura indiana classica come il Mahabharata, a trovare una sua particolare fortuna nell’area sud-est asiatica, per intendersi quella che ad oggi comprende Birmania, Thailandia (antico Siam), Cambogia (impero Khmer), Laos (regno Champa), Vietnam, Malesia, Indonesia (Giava).

In tutta quest’area la presenza indiana risale a tempi estremamente remoti ed ha avuto per questo il tempo di fondersi con la cultura locale, anch’essa molto spiccata, creando situazioni uniche e interessanti dal punto di vista narrativo e anche iconografico.

Si cercherà quindi di contestualizzare la presenza di questa grande opera letteraria nelle sue varianti sud-est asiatiche compatibilmente con le risorse a disposizione, non facilmente accessibili e di indagare soprattutto come cambiano, oltre ovviamente alla trama principale della storia, le figure principali di Rama, Sita, Ravana, Hanuman e anche altri, che magari compaiono esclusivamente nella versione locale e non in quella classica, prendendo come “classica” quella sanscrita attribuita al saggio e mistico Valmiki.

Sarà messo a confronto anche l’aspetto figurativo, tenuto in considerazione che è stato proprio questo aspetto ad avere particolare successo, ad esempio nella versione khmer, il Reamker, di cui è vivissima la tradizione del balletto e del teatro con la messa in scena degli episodi del Ramayana nonché le pitture murali sempre khmer e anche siamesi. Un excursus nella fortuna di quest’opera in alcune varianti moderne, nonché in aree culturali

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inaspettate, completerà un quadro che, seppur limitato, rende l’idea di quanto grande e stratificata è la presenza della cultura indiana nel tempo e nel mondo.

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1. Quadro storico della presenza indiana in Indocina

Chiamata anche e impropriamente in epoca coloniale “India posteriore” l’Indocina porta questo nome non solo per la posizione geografica che la situa fra il subcontinente indiano e i grandi territori della Cina, ma anche e piuttosto per una antica forma di “colonizzazione” da parte degli indiani nei suoi territori.

Già a partire dal II secolo a.C. si hanno testimonianze di piccoli regni indianizzati nella penisola malese e in particolare dal I secolo emerge uno schema di traffici commerciali fra est e ovest dell’oceano Indiano in cui i porti indiani erano lo scalo sia intermedio che terminale di una rete ancora più estesa. Ne sono testimonianza, fra l’altro, i ritrovamenti archeologici dell’Asia sud-orientale che seppure non eclatanti come quelli trovati su altre direttrici hanno portato alla luce sia città con palazzi e stupa ispirati dai modelli buddhisti indiani che abbondante materiale come vasellame, gemme, oggetti in metallo indiani e addirittura monete romane. Frammenti di ceramiche del tipo indo-romano sono state ritrovate nei siti sepolcrali giavanesi e oggetti in bronzo considerati buddhisti, anche di grandi dimensioni, in Thailandia a riprova che fu proprio l’attività missionaria a penetrare per prima in queste aree e supportare l’intensa attività commerciale ed espansionistica dell’India in queste aree ⑴.

Nato dall’illuminazione di Gautama Siddharta, proveniente da una nobile famiglia e detto poi Buddha, il buddhismo scaturì come reazione al ritualismo induista, fatto di sacrifici e di divieti. Ispirato dalla dottrina jainista Siddharta fece breccia soprattutto nelle classi nobiliari e intellettuali: i re sostennero la nuova religione e grazie a questa l’influenza indiana si estese in Indocina, Tibet, Mongolia, Cina e Giappone. In India invece, in seguito al contrattacco di grandi filosofi hindu, sparì quasi del tutto per restare viva in zone periferiche come Sri Lanka e Nepal ⑵.

La dottrina buddhista, fra gli altri aspetti devozionali e filosofici, incoraggiando l’investimento di risorse che altrimenti sarebbero andate sprecate in sacrifici e negando la separazione in caste favorì largamente i commerci. I monasteri divennero centri focali per i traffici e sorta di caravanserragli che attraevano donazioni sia private che da parte delle famiglie reali.

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Ci fu così un sovrapporsi di elementi e legami che spaziavano da commerciali e missionari a migratori ed espansionistici, che si potrebbero definire una antica forma di colonizzazione sostenuta anche dalla spontanea adozione, da parte della classe nobiliare e dirigente locale delle nuove idee riguardanti la regalità, la cultura e il posizionamento sociale ⑶.

Il legame fra commercio, attività missionaria e dominio alimentava se stesso in maniera non conflittuale. Si ha una primissima attestazione tratta da documenti cinesi che riporta l’esistenza di un regno indiano denominato Tun Sun, in area malese, formato da cinquecento famiglie provenienti dall’India e circa un migliaio di brahmani a cui la popolazione locale dava volentieri in spose le proprie figlie.

L’influenza più pervasiva nel sud-est asiatico si riscontra tra il V° e il VII° secolo per impulso della dinastia Pallava attiva nell’area dell’attuale Cambogia, frutto dell’unione fra la zona allora detta Funan dai cronisti cinesi e il Champa (un altro stato indianizzato più o meno corrispondente all’attuale zona del Vietnam). Da questa presenza nacque quella che sarà poi la grande dinastia khmer, i cui re portarono nomi tutti terminanti in -varman proprio come i Pallava.

Kanbuja peraltro è un nome sia di luogo che di popolo già attestato nei Purana che però lo situa nella zona dell’alto Indo. E’ tuttavia noto che i nomi della geografia epica e sacra tendessero a essere replicati attraverso la sanscritizzazione di nuove aree (si veda il caso di Mathura, Madurai e Madura, quest’ultima in Indonesia) ⑷.

I sovrani indocinesi fondarono la loro legittimità su pretese e rivendicazioni di progenitori indiani parlanti il sanscrito. La presenza Pallava è inoltre attestata da iscrizioni nella loro scrittura ritrovate in antichi templi a Giava così come sulle coste del Funan è stata rinvenuta una stele del III° secolo nella zona dell’attuale Nha Trang. Questi indizi non sono altro che gli albori della presenza indiana nell’area, che diventerà una vera e propria diaspora culturale nell’epoca Gupta.

Per quanto riguarda il Funan, o Cambogia, pare essere stata la presenza hindu a dare la prima impronta e originare i miti fondativi di questa terra. Per primo quello in cui essi affermano di discendere dall’unione di una principessa locale, Mera, con Kambu Swayambhuva, un saggio (il nome Kambu non a caso crea un legame con Kambuja). La leggenda più attestata e anche più popolare, che viene tutt’oggi narrata correntemente e

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insegnata in Cambogia, è quella che vede protagonista Kaundinya, il brahmano navigatore. La storia, confermata anche dal cronista cinese K’ang T’ai in visita al Funan nel III° secolo e riportata negli annali delle antiche ambasciate cinesi, vede Kaundinya arrivare in Cambogia, all’incirca nel I° secolo a.C. con le sue navi e sposare la principessa locale per formare un’alleanza.

“In origine, il sovrano di Funan era una donna chiamata Lieu-ye (foglia di salice). Nel paese di Mo Fu, in India c’era un uomo di nome Huen Chen che venerava uno spirito con amore e passione. Lo spirito si commosse per la sua pietà e una notte Huen Chen vide in sogno un uomo che gli donava un arco divino e che gli ordinava di salire su una barca e di partire sul mare. L’indomani, Huen Chen entrò nel tempio e trovò un arco ai piedi dell’albero nel quale risiedeva lo spirito. Si procurò una grande barca e fece vela. Lo spirito diresse i venti in modo tale che Huen Chen arrivò a Funan. Lieu-ye volle catturare la nave ma Huen Chen tese il suo arco e tirò. La freccia attraversò la barca di Lieu-ye da parte a parte ed essa, spaventata, si sottomise e Huen Chen divenne il signore di Funan” ⑸.

Sempre secondo il cronista cinese K’ang T’ai le genti di Funan erano rozze, i metodi agricoli rudimentali e gli abitanti giravano nudi. Motivo per cui lo stesso Kaundinya, non soddisfatto del corpo e dai modi di Lieu-ye, prese delle stoffe per farle un indumento in cui la costrinse a infilarsi la testa e così la rivestì governando in pace e trasmettendo il potere ai suoi discendenti, considerati una dinastia lunare (mentre secondo il mito che vede protagonista Kambu, la dinastia discendente era solare). Più probabilmente la realtà vede Kaundinya, brahamano commerciante proveniente dalle comunità indiane attive nei traffici con la Malesia, mettersi in viaggio attraverso il golfo della Thailandia verso il Mekong. Lì incontrò una qualche ostilità con i locali sanata con l’unione strategica, metodo che fu poi portato avanti dalla classe dirigente locale come strategia per legarsi pacificamente ai “colonizzatori”.

Kaundinya obbligò anche gli altri abitanti a indossare abiti e organizzò l’agricoltura secondo il modello indiano, riformò le istituzioni dando origine al regno hindu più celebre: quello degli Khmer.

In Cambogia (Funan) fu dunque l’impronta hindu a lasciare il segno iniziale, con le prime iscrizioni sanscrite risalenti al VI° secolo. Jayavarman, fondatore della dinastia storica, si proclamò Dio-Re (ereditando il concetto hindu di Devaraja) e aveva la sua corte sparsa fra

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Phnom Kulen e Hariharalaya (Roluos); i suoi successori portarono avanti l’espansione sviluppando la potenza khmer, che al suo apice (XII secolo) comprendeva Siam (Thailandia), Laos, Sud della Brimania, Champa (Vietnam) e Malesia.

Alla dinastia Khmer si deve la meravigliosa costruzione del complesso di Angkor Wat e Angkor Thom, oggi patrimonio dell’Umanità: Angkor Wat fu ideata da Suryavarman II mentre Angkor Thom fu costruita da Jayavarman VII. L’iniziatore dell’epoca d’oro è considerato dagli studiosi cambogiani (primo fra tutti il Professor A. Choulean, massimo esperto di antropologia della Cambogia) Suryavarman I a cui si deve la prima visione politica d’insieme.

E’ facile comprendere come l’epica del Ramayana facesse particolarmente breccia nell’immaginario dei re khmer proprio per il concetto espresso di regalità esemplare e divina incarnato da Rama. E’ infatti all’interno di questo enorme complesso templare, che comprende bacini grandi come laghi, che si trova il monumentale bassorilievo con scene dal Ramayana, in particolare la battaglia di Lanka dove Rama, sulle spalle di Hanuman accompagnato dal suo esercito di scimmie combatte Ravana, il quale invece si presenta su un carro trainato da mostri e comanda un esercito di giganti mentre nell’Angkor Thom troviamo ancora statue rappresentanti i personaggi del Ramayana distribuite lungo i porticati.

La letteratura sanscrita esercitò una forte influenza su questa dinastia: la lingua khmer, oltre alla grafia calcò dal sanscrito tutte le parole dei riti, della politica e della religione (tutt’oggi in uso, ad esempio nel rituale di insediamento del Re) e non solo furono tradotte le opere sanscrite ma se ne crearono di nuove sugli argomenti del tantrismo sia in sanscrito che in lingua khmer.

Benchè hindu per impronta e formazione quest’area non restò a lungo al di fuori dalla già menzionata espansione e influenza buddhista. La corrente Mahayana si mescolò strettamente all’induismo che era incentrato principalmente sullo shivaismo. Il culto di Shiva-Buddha si propagò fino a Giava e a Sumatra e anche la lingua Pali fece il suo ingresso nell’area, accanto al sanscrito. Le cronache buddhiste sono state ampiamente incrementate in questi paesi, scritte sia in pali che nelle lingue locali da esso influenzate in Siam, Cambogia e ovunque il buddhismo si era propagato in questa sua forma strettamente connessa con l’induismo. La concezione innovativa del buddhismo sulla

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figura degli dei, non più esseri astratti ma persone deificate, fece sì che nascesse una vera e propria storia cronologica così come la si concepisce oggigiorno e che le versioni locali del Ramayana, per restare sulla materia di nostro interesse, scaturissero dalle diverse concezioni e interpretazioni che il buddhismo aveva portato, legato e sovrapposto all’induismo.

Il Champa, regno rivale della Cambogia, fu fondato dal re Shrimara: anche qui la corrente shivaita era predominante e i re avevano come suffisso al nome -varman. Questo regno durò ben tredici secoli e corrispondeva alle zone oggi occupate dagli stati di Vietnam e Laos, anche in quest’area l’influenza della cultura indiana e della letteratura sanscrita fu forte e compare una variante locale del Ramayana, il Phra Lak Phra Lam.

La Birmania, chiamata nella letteratura sanscrita Suvarna Bhumi, che poi è la zona più vicina geograficamente all’India, era considerata “terra d’oro”. Qui lo stesso grande re Ashoka inviò dei missionari buddhisti, ma purtroppo non abbiamo documenti dell’epoca. Entrò a far parte ben presto dell’area di influenza indiana sia attraverso la visione religiosa hindu che buddhista, anche se l’architettura dei templi di Rangoon e di Pagan era decisamente hindu, così come le leggi adottate dai re locali, la lingua e la letteratura.

L’influenza del buddhismo fu forte anche nell’impero marittimo pelagico detto Srivijaya, potenza e probabilmente dinastia da cui si fa scaturire lo spirito fondativo dell’odierna Indonesia, realtà decisamente indianizzata ma più in senso buddhista che brahmanico. La sua capitale, vicino a Palembang, nell’odierna Sumatra sud-orientale era luogo di floride comunità monastiche registrate dallo studioso buddhista I-Tsing nel VII secolo, che visse con i monaci locali traducendo opere che si era portato dall’India e raccontando la storia di quest’area che era sotto l’influenza indiana già molto tempo prima dell’era cristiana ⑹. Giava, chiamata allora Jawa Dvipa o Lankasuka nelle cronache giavanesi, era stata oggetto di immigrazione da parte degli abitanti del Kalinga, che fondarono uno stato detto Ho Hing (trascrizione cinese di Kalinga), si ritiene possibile che il nome Kling dato agli abitanti di origine indiana dell’area derivi proprio da Kalinga. La prima iscrizione sanscrita ritrovata risale al IV° secolo, la capitale era Kedah, menzionata nella letteratura Tamil (in particolare nel Manimekhalai) già nel I° secolo. La religione diffusa era l’induismo e infatti troviamo un numero considerevole di immagini raffiguranti il pantheon hindu; tuttavia il buddhismo, nella sua forma connessa all’induismo era molto

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presente, al punto che il Buddha stesso in quanto tale faceva parte della teoria di dei hindu. La letteratura giavanese fu fortemente influenzata da quella sanscrita e si ritrovano tradotte la maggior parte delle opere classiche (Ramayana compreso col nome di Kakawin), filosofiche, religiose, politiche. Le arti, seppur profondamente diverse nella loro espressione da quelle indiane, ne osservarono lo stesso ideale di mezzo di istruzione per il popolo.

La prima gloriosa fase di edificazione dei templi giavanesi si deve all’influenza che lo Srivijaya esercitò sui regni rivali di Sailendra (un personaggio di religione buddhista) e Sanjaya che finirono infatti con l’unificarsi. Anche in questo caso si osserva lo stile architettonico Pallava e ci restano pochi ma significativi templi al centro dell’isola: Prambanan e soprattutto il colossale Borobudur, in origine un tempio di Shiva successivamente trasformato in stupa, è al pari dell’Angkor Wat uno dei più straordinari reperti dell’influenza indiana nell’area, dove la filosofia si riflette sulla struttura costruttiva e l’organizzazione degli spazi.

A Sumatra e Bali, rimaste sotto la dominazione dei Chola fino al XIII secolo, la presenza indiana di matrice hindu era forte al punto che a Bali questa religione è rimasta in vita lungo i secoli ed è tutt’oggi praticata nei riti della vita comune e nelle espressioni artistiche ereditate dal grande trattato sulla danza e sul teatro: il Natyashastra.

A Bali il pantheon indiano è entrato a far parte del folklore magico e le varie divinità sono utilizzate come amuleti, oppure disegnate sulle case, nei cortili o tatuate. Lo studioso C. Hooykaas, a cui dobbiamo anche lo studio del Ramayana giavanese, il Kakawin, ha censito tutte le immagini magiche balinesi fra cui spiccano, insieme ai vari Bhuta (demoni di sud indiana memoria), le figure di grandi dei come Shiva, Brahma o Ganesha ⑺.

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Ganesha in forma di disegno-amuleto rinforzato da lettere magiche (1)

Tutti questi processi della diaspora delle idee indiane nel sud-est asiatico riflettevano un’opera di concerto di commercio, istituzioni religiose e autorità reali per promuovere sicurezza, ampliamento dei territori, dei metodi agricoli e di formazione dello stato e della cultura piuttosto che un’opera di conquista in senso stretto. Infatti i regni locali indocinesi mantennero sempre una propria unicità e le varianti delle opere letterarie e artistiche sono la testimonianza di una riuscita declinazione delle idee che, partendo dall’influenza indiana, si erano stratificate con il buddhismo e il folklore locale ⑻.

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2. Il Ramayana in Cambogia: Reamker

Reamker nel suo contesto

La letteratura classica cambogiana è ampia e comprende opere che vanno principalmente dal XVI al XVIX secolo d.C., la grande maggioranza delle quali di chiara influenza culturale indiana. I generi maggiori sono l’epica, le storie in versi sui Jataka (narrazioni delle vite di Buddha) e i “Chap” poemi didattici e istruttivi redatti dai monaci per uso edificante ⑴.

L’epica in assoluto più famosa, oggetto del nostro approfondimento, è la versione khmer del Ramayana: il Reamker (o Ramakerti).

La storia di Rama in Cambogia non si limita ad essere famosa solo nella forma letteraria, anzi, la stessa forma letteraria nasce già pensata tenendo conto della sua principale forma di divulgazione: il teatro e il balletto mimato.

Il Ramayana classico in sanscrito, ad opera di Valmiki, era noto nella cultura khmer già da tempi remoti: abbiamo un’iscrizione del 598 d.C. che ci testimonia l’uso della recitazione quotidiana dei suoi versi in un tempio di Shiva. Non possiamo risalire alla prima versione nella lingua khmer, purtroppo gran parte della letteratura precedente al XV secolo non ci è pervenuta, ma sappiamo con certezza che esisteva già la versione del balletto prima di quella letteraria. Lo studioso e antropologo Ang Choulean nomina inoltre il ritrovamento di statue d’oro dei personaggi del Reamker risalenti al VI secolo ad Angkor Borei nella provincia di Takeo.

Ci è testimonianza di quanto il Ramayana fosse famoso in tutte le forme artistiche l’esistenza di un’epica chiamata “Lpoek Angkor Wat” (La storia di Angkor Wat), del XVII secolo che racconta ed esalta la bellezza della città di Angkor e in particolare dei bassorilievi con le storie di Rama. A questo proposito, i bassorilievi di Angkor Wat costituiscono la prima concreta manifestazione del Reamker.

Reamker nelle arti figurative

Risalenti al XII secolo e portati a termine nel XVI, i bassorilievi di Angkor Wat coprono un’estensione di circa 800 metri e ritraggono la battaglia di Kurukshetra (dal Mahabharata), l’esercito del re khmer Suryavarman I e quello dei siamesi, il paradiso e

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l’inferno e le scene del Ramayana; queste ultime in particolare si trovano nel porticato dell’angolo sudoccidentale. Sfiorate da milioni di mani nel corso dei secoli, sia per scopo devozionale che propiziatorio sono a tratti lucidate al punto da sembrare di marmo nero anziché della pietra originale, in gran parte arenaria, di cui sono composte.

Hanuman e il suo esercito in lotta contro l’esercito di Ravana (3)

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Sono stati gli stessi bassorilievi la fonte che ha fatto scaturire le versioni pittoriche, in particolare in forma di affreschi: le più famose sono quelle del palazzo reale di Phnom Penh ma sono state anche fonte di ispirazione per quasi tutti gli artisti cambogiani, anche moderni. Praticamente ogni pagoda ha una sua versione del poema e ogni artista ha voluto cimentarsi con la sua versione dei personaggi.

Dipinti nel 1895 all’interno delle gallerie che circondano il tempio del Buddha di Smeraldo (nome originale Wat Ubosoth Ratanaram, nome dato dai francesi Pagoda d’argento, per via della pavimentazione in argento) nel Palazzo reale, sono l’unica versione completa delle storie del Ramayana khmer presenti in Cambogia e derivano la loro iconografia dalla versione siamese degli stessi affreschi, anche questa presente nell’omologo palazzo reale. Questa influenza deve la sua origine nella storia politica delle relazioni fra Cambogia e Siam in particolare nel periodo del XIX secolo. I due re Ang Duong e Norodom passarono gran parte della loro vita nel Siam e il primo dei due fu il fautore di una sorta di restaurazione nazionale sotto l’egida del buddhismo, della politica ma anche dell'arte. Grazie a questo re la cultura in generale, le arti e il balletto vissero una rinascita e il successore, Norodom, non si sottrasse all’influenza siamese e anzi fu ulteriormente aperto a mantenere relazioni culturali con tutto il sud-est asiatico. Fu proprio sotto di lui che furono dipinti i murali del Reamker, facendo riferimento a quelli del palazzo reale siamese e con l’intento di superarli in bellezza e di utilizzare la storia come preciso messaggio alle generazioni future sia sulla legittimazione del suo potere che come buon auspicio per le vite successive. Le pitture coprono circa 600 metri di muro e furono realizzata sotto la supervisione di un famoso architetto dell’epoca, Okna Tep Nimit Mak e del Supremo Patriarca Nil Teang, entrambi erano stati educati a Bangkok.

Parte degli affreschi sono oggi rovinati e sono stati oggetto di restauro tra il 1895 e il 1992

⑵.

La storia è narrata in ordine cronologico e si basa sulla narrazione (incompleta) del Reamker, anche se sono presenti scene che possono avere preso in prestito interpolazioni dal Ramakien siamese e da fonti orali.

I personaggi principali sono caratterizzati in modo marcato e peculiare:

Rama ha l’incarnato verde e porta l’arco mentre il fratello Lakshman ha un ordinario color carne e porta una spada, in entrambi i casi si nota lo stesso nel palazzo reale siamese. Sita è

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dipinta con un color carne ordinario e indossa una tiara e gioielli d’oro e ha una particolare acconciatura che era in uso nel XIX secolo in Cambogia, presa dalla moda siamese. Ravana è immediatamente riconoscibile per l’incarnato verde, le molte teste (sette) e braccia (sei, ma a volte anche solo quattro o due) mentre Hanuman, uno dei personaggi più popolari ha la pelle bianca e la facoltà di ingigantirsi a piacere secondo la necessità.

La specificità dell’ambientazione è particolarmente spiccata nelle scene di sfondo che ritraggono luoghi, case, persone nelle loro abituali attività quotidiane e costumi locali.

Hanuman si fa ponte per Lanka (18)

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Al giorno d’oggi gli artisti e illustratori moderni si sono fatti portavoce della tradizione attraverso la reinterpretazione delle scene e dei personaggi del poema col nobile intento di fare in modo che non sparissero dalla vita culturale della Cambogia.

Da questo intento è nato, dopo lunghe ricerche e dibattiti filologici a cura degli studiosi Ly Daravuth e Ingrid Muan, il libro illustrato “The Reamker” di Chet Chan che si apre con una versione del Reamker tradotta da Thiounn il Ministro del palazzo reale di Phnom Penh, all’inizio del secolo scorso e prosegue con una galleria di oltre sessanta personaggi (in originale dipinti a tempera e foglia d’oro su seta) che mettono in risalto le caratteristiche tipiche dei personaggi della versione khmer come ad esempio la maga Pipaet e la sirena Sovanna Maccha e una dettagliata critica iconografica ⑶.

Copertina del libro (36)

Reamker nel teatro, mimo, balletto e rappresentazione

La rappresentazione teatrale è probabilmente stata la prima forma di narrazione del Reamker: la sua stesura letteraria sembra essere permeata proprio della forma narrativa teatrale che così si attesta come la funzione principale per cui è nata la versione khmer del Ramayana.

Tutt’oggi in grande auge nelle sue più svariate forme dalle più auliche e fedeli a quelle di mera attrazione turistica il balletto-mimo in maschera (rappresentato, almeno in origine, da soli uomini) si chiama Lekhaon Kaol ed ha appunto una antica tradizione reale di danza mimica: il Khol è mimo mentre lo Sbek Thom proviene dalla tradizione delle marionette e delle ombre.

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Grande sagoma per il teatro delle ombre (49)

Per secoli legato al culto delle divinità locali, il “teatro delle grandi marionette di cuoio” passò a rappresentare quasi esclusivamente la storia di Rama ed era preceduto da offerte agli dei che rinforzavano il significato religioso. Sia gli strumenti musicali che i materiali con cui venivano fabbricate le maschere e le marionette erano dedicati agli dei tramite particolari rituali che avevano come scopo sia il buon auspicio che il mettere in evidenza non solo l’origine divina del Rama di derivazione indiana ma soprattutto la sostanza della figura di Rama nella sua più intima connessione col popolo Khmer, l’essere il Buddha stesso.

Rappresentati alle corti reali questi spettacoli erano una mescolanza di danza, mimica, canto e musica, la narrazione era sostenuta dall’intonazione melodica dei versi del Reamker e nel corso del tempo hanno inglobato anche le storie buddhiste Jataka. A seconda che si trattasse di Khol (mimo), Sbek Thom o Lekhaon Kaol i personaggi si muovono silenziosi accompagnati dai cantori e dai musicisti oppure si esprimono mediante grandi maschere in cuoio su uno sfondo traforato e illuminato con una voce narrante (sulla falsariga dei cantastorie) oppure danzano acrobaticamente imitando le battaglie dell’esercito di Hanuman contro Ravana.

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Questi repertori, che sono diventati oggi patrimonio dell’umanità, vengono messi in scena dal Balletto Reale sia in Cambogia, in particolare a inizio anno perché ritenuti propiziatori, sia in tutto il mondo con tournèe che toccano svariati paesi.

Rappresentato per la prima volta in Francia in occasione della visita dell’allora re Sisowath a inizio del Novecento il Lekhaon Kaol del Reamker affascinò l’Europa, ma è solo nel 2014 a Venezia che è stato rappresentato in Italia in una versione intitolata “Reamker - luci e ombre” le cui coreografie sono state curate dall’attuale principessa Norodom Buppha Devi.

Locandina dello spettacolo a Venezia, 2014 (39)

Pari interesse è suscitato dalla forma della narrazione popolare, ancora diffusa nelle campagne fino a qualche decennio fa, caduta poi in disuso in seguito a varie ragioni studiate dall’antropologo Ang Choulean, che ha contribuito al suo ritorno in auge. Sia la guerra che la dittatura degli Khmer Rossi ma anche le nuove forme di fruizione dei contenuti quali tv e internet hanno praticamente fatto sparire l’arte dei cantastorie ⑷. Nel 1968 il cantastorie Ta Krut portava in giro per le campagne la sua voce grazie anche all’aiuto del ricercatore francese Jacques Brunet che registrò oltre 6 ore di narrazione la quale, combinata ad alcune registrazioni fatte alla radio, rappresenta l’intera e unica

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versione vocale del Reamker. Oggi restaurata dal Bophana Center è composta da oltre 10 ore di racconto e costituisce una attrazione culturale di richiamo per la Cambogia ⑸.

Reamker nella letteratura

L’influenza del Ramayana nella cultura khmer si inizia a sentire a partire dal periodo d’oro delle dinastie di Angkor (IX – XIII sec.), se non ancora prima e da origine a una molteplicità di versioni di cui poche sono sopravvissute. Il Reamker come lo conosciamo oggi è ritenuto la versione classica o letteraria, ma oltre a questo ne esistono ancora sparute varianti ad uso teatrale fra cui quelle dei cantastorie e del balletto reale che sono tenute ben nascoste dai coreografi anche se non impossibili da reperire.

Il Reamker classico o letterario è formato da due composizioni separate, entrambe incomplete, scritte nell’arco di circa tre secoli da almeno tre autori diversi. La prima parte è stata composta da un primo autore anonimo del XVI secolo e copre l’inizio della storia di Rama (corrispondente a Balakanda e Ayodhyakanda), proseguita da un secondo autore nel XVII secolo fino alla battaglia di Lanka. Tutta la parte della morte di Ravana, della liberazione di Sita, la prova del fuoco e il ritorno trionfante in Ayodhya (finale della sezione Yuddhakanda) sono mancanti.

La seconda parte del Reamker, risale al XVIII secolo, ad opera presumibilmente di un solo autore, racconta a grandi linee l’Uttarakanda, ovvero la sezione più tarda del Ramayana stesso, con la storia conclusiva di Rama e Sita, il suo esilio, la nascita dei figli, il secondo incontro con Rama e la discesa di Sita alla terra che l’ha generata.

Il testo letterario ha la forma di un recitativo drammatico chiaramente inteso ad accompagnare il balletto mimato. Stati d’animo, situazioni e azioni erano recitati e sottolineati da movimenti del corpo e del volto in accordo con la musica. Le strofe invece erano tese a narrare pensieri ed eventi dei personaggi. Il testo si divide quindi in scene, spesso con metro diverso proprio a sottolineare il cambiamento di atmosfera, alcune delle quali molto lunghe, che lasciano intendere l’inglobamento successivo di materiali ulteriori e in cui accade che i personaggi riferiscano episodi già narrati o già accaduti ⑹.

Come in altre versioni del sud-est asiatico, i compositori del Reamker si trovarono di fronte a un enorme lavoro di riduzione dell’originale di Valmiki, lungo nella sola parte dei

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primi sei libri oltre 24000 sloka (strofe), il quale fu compresso, per così dire, in circa 5000 strofe.

L’edizione di Phnom Penh, a cura dell’Institute Bouddique, è basata su due manoscritti simili, è divisa in parti numerate dall’1 al 10 e 75-80 corrispondenti ai fascicoli originali su foglie di palma e non sulla divisione originale del Ramayana ⑺.

La traduzione attuale in inglese è stata curata da Judith Jacob con l’assistenza di Kuoch Haskrea: pubblicata nel 1986 è il primo lavoro critico completo in una lingua occidentale mai comparso, se si escludono alcuni passaggi tradotti in francese in epoca coloniale (a cura di Martini, pubblicati postumi) e la versione di Saveros Pou, grande e accurato lavoro sempre in francese.

Il manoscritto era talmente arcaizzante e obsoleto nel vocabolario e nella costruzione che si trattava di un lavoro incredibile persino per gli esperti locali di letteratura khmer.

Nella traduzione è stata mantenuta la numerazione originale e l’impaginazione segnalate da asterischi. Il cambio di metro nella prima parte indica, come già premesso, il cambio di atmosfera, mentre nella seconda parte il metro è unico.

Nella prima e più antica parte abbiamo una molteplicità di metri tradizionali (Bamnol, Brahmagiti, Kakagati ecc…) che ci indicano non solo i cambi di stato d’animo ma anche la stratificazione degli autori (uno solo a cui attribuire il primo quinto della composizione, piuttosto omogeneo) e del tempo. Nella seconda parte un unico metro corrisponde al periodo più recente e all’unico autore. Il metro in questione è Pad baky pram-muoy più verboso e prolisso ⑻⑼.

Le caratteristiche del Ramayana sono quasi interamente conservate con una eccezione importante: l’essenza divina di Rama è molto sottolineata nella prima parte ma completamente persa nella seconda parte, al contrario dell’originale dove la natura divina di Rama è enfatizzata nella parte finale.

Le scene sono costruite in modo da rendere una visione panoramica che richiama anche i bassorilievi di Angkor, con tutti i dettagli tipici: principi e attendenti, abiti, gioielli e acconciature spiegate nei minimi particolari.

Dal punto di vista linguistico ci sono, oltre ai cambi di metro, diversi stili dal colloquiale all’aulico. I personaggi sono definiti in maniera estremamente espressionista con frequenti

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cenni alla mimica estrema, lacrime che cadono fino al suolo, svenimenti, numerose iperboli quali “milioni e milioni di soldati” e altre quantità estremizzate ⑽⑾.

I cambi di registro sono frequentissimi e corrispondono proprio ai cambi di scena, si va dalle montagne di soldati che costruiscono il ponte di Lanka uno sull’altro fino alle orchesse che a un tratto passano dall’essere terrificanti al ridicolo più popolaresco, i personaggi del mondo del male vanno dal lanciare insulti al pestare i piedi sconfitti in un tripudio di esclamazioni onomatopeiche.

La vividezza del linguaggio esprime i sentimenti dei personaggi in contrasto alla postura spesso statica e fissa, bidimensionale, derivata dalla maschera di cuoio ritagliata delle origini tradizionali di questa rappresentazione.

Accanto alla grande importanza religiosa dei personaggi sopravvive la magicità dei poteri fino a metterne in rilievo l’ilarità intrinseca (episodio di Hanuman che lega i capelli di Ravana e della moglie lanciando un maleficio) utile a mantenere il tono farsesco all’interno della rappresentazione. Si ricorre spesso all’allusione e al taciuto, ben noto però al pubblico che conosce la storia di Rama, per mettere in evidenza la natura divina e religiosa degli eventi. In ogni caso le personalità sono fortemente stereotipate e cristallizzate: abbiamo sempre dei re “sereni” e fra questi possiamo però trovare un “re sereno in continua agonia mentale” oppure dei fratelli “molto amati” ma descritti anche in ben altra forma in cui si può “essere ostile al caro fratello” ⑿⒀.

E’ difficile rendere l’allitterazione costantemente presente dell’originale khmer, specialmente per quanto riguarda la descrizione della natura, parte in cui predomina la specificità del contesto cambogiano, con nomi di piante e fiori scelti proprio per l’allitterazione. Questa caratteristica si ha del resto anche nella poetica cambogiana e delle letterature sud-est asiatiche.

Altre caratteristiche tipiche della letteratura locale sono le ripetizioni o le imprecisioni, rispetto a quello che ci si potrebbe aspettare in un contesto occidentale, su dettagli di numero di una battaglia, dei suoi partecipanti o dello svolgimento dei fatti.

Nondimeno abbiamo passaggi di grande letteratura, resi anche in traduzione, in particolare le scene della battaglia, dell’incendio di Lanka o i frequenti litigi fra personaggi, nello specifico le coppie sposate ⒁.

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La seconda parte del Reamker può essere considerata come una storia a sé stante. Mentre nella prima parte dalla rappresentazione teatrale adattata si scivolava nell’epica e viceversa, nella seconda parte siamo di fronte a un vero e proprio romanzo tragico basato sugli episodi della parte finale del Ramayana, l’Uttarakanda, interpretato con una certa libertà di stile e di sensibilità derivante probabilmente dall’ambiente femminile della corte khmer. Viene data grande enfasi alle sofferenze patite dall’eroina Sita dovute alla vanagloria di Rama che proprio in questa parte passa dall’essere un nobile e divino rappresentante delle migliori qualità del dio-re di indiana memoria a un re tutto terreno che pecca spesso di egoismo e sospetto.

Molti degli aspetti della vita cambogiana si trovano anche qui nella flora e nella fauna, nei costumi e nelle acconciature, nella musica. L’uso tipico di portare i bambini sul fianco viene spesso menzionato così come le varie pratiche magiche che affondano le radici nella tradizione locale. Tutto il Reamker sembra essere non solo un’epica religiosa bensì eroica finalizzata alla dimostrazione che Rama non è un dio solo per la sua nobile origine indiana ma per l’essere il Buddha stesso.

Qui c’è l’essenza della visione khmer, non necessariamente estrapolabile dal testo, ma frutto di eventuali aggiunte tarde atte a giustificare l’uso di un’epica induista in una società ormai interamente buddhista. Nell’originale Rama è una incarnazione di Visnu e spesso è chiamato Narayana, attributo che sta per infinito e pervasivo, dio nelle sue molteplici forme nell’iconografia induista. Nel Reamker, accanto a Narayana, è chiamato anche Bodhisattva (attribuito di quel raro essere che ha realizzato lo stato di coscienza detto buddhità per aiutare altri esseri), oppure Buddha oppure Tathagata (nome che il Buddha da a se stesso nella tradizione storica dei sermoni).

Benché la filosofia buddhista sia leggibile solo in filigrana come un’aggiunta stratificata, in diversi passaggi si fa riferimento al Dharma nel senso buddhista del termine e al Nirvana come termine finale della sofferenza nonché alla costante ricerca della conoscenza come fine imprescindibile della vita di un essere umano ⒂.

Struttura, personaggi, episodi originali ⒃⒃⒃⒃

La struttura del Reamker è formata da due diverse composizioni, scritte in versi di diverso metro, entrambe incomplete. La prima parte, versi 1-10, narra la storia di Rama fino

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all'assedio di Lanka e alla disfatta di Ravana. A tutti gli effetti non si vede la prova del fuoco di Sita, il lieto fine dell'incoronazione e della riunione dei due sposi, ormai divini nelle loro nature.

In particolare abbiamo fra i più importanti:

Versi 1.5-10: adozione di Sita da parte del re Janaka e vincita di Rama della sfida dell'arco. Versi 1.17.31: matrimonio di Rama e Sita.

Versi 3.4-11: Surpanakha, sorella di Ravana tenta di sedurre Lakshman che la ferisce con la spada.

Versi 3.45-4.9: rapimento di Sita.

Versi 6.9-18: Rama invia Hanuman a scoprire dove si trova Sita. Versi 6.48-63: incendio di Lanka.

Versi 7.34-54: episodio della costruzione del ponte per Lanka con la rivolta del mondo sommerso che poi invece si allea con Hanuman.

Versi 10.3-47: battaglie finali dove muoiono i figli di Ravana e lui tenta di uccidere Sita. La prima parte si chiude con la richiesta di rinforzi da parte di Ravana, ormai perdente. Nessun cenno ci resta della prosecuzione con lieto fine classico.

La parte di versi 75-80 ricalca solo in parte l'Uttarakanda (“La sezione ulteriore” della versione sanscrita, assente anche in molte altre versioni indiane) e presenta nette peculiarità.

Versi 75.1-20: Sita esegue, su richiesta delle dame di corte fomentate dall'orchessa Atul, un ritratto di Ravana, in cui quest'ultima sparisce. Sita nasconde il ritratto sotto il letto di Rama, ma questi perde il sonno e quando Lakshman scopre il tutto lei è costretta a confessare.

Versi 75.20-42: Rama ordina al fratello Lakshman di portare via Sita nel bosco e ucciderla ma questi è rammaricato, avendo pietà del fatto che è in cinta ed essendo fiducioso nella sua buona fede. Inoltre, incitato da una Sita più che offesa e indignata, prova a colpirla ma la sua spada si tramuta in ghirlanda. A questo punto uccide un cervo e ne porta a Rama il fegato.

Versi 75.51-76.25: aiutata dagli dei discesi dal cielo Sita ha il primo figlio e lo lascia alle cure di un saggio di nome Vijjaprit che ne crea uno identico e istruisce poi i due ragazzi che vengono edotti sulla loro vera storia.

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A questo punto va detto che nell'originale, Rama, cosciente delle voci critiche del popolo nei confronti della sua decisione di avere ripreso con sé Sita, approfitta di un allontanamento volontario della stessa che voleva meditare nella foresta presso i ritiri dei Rishi e incarica Lakshman di portarla da Valmiki in persona e abbandonarla lì. Presso Valmiki Sita partorisce due gemelli, Kusa e Lava.

Versi 76.52-77.33: Hanuman tenta di catturare i due ragazzi che avevano rubato il cavallo inviato da Rama nella foresta ma non ci riesce, anzi viene da essi legato e deriso. Infine in seguito a una battaglia uno dei due viene catturato per essere giustiziato.

Versi 77.46-78.3: grazie al magico anello di Sita portato dal fratello libero, quello imprigionato riesce a liberarsi e fuggire.

Versi 78.23-53: Rama scopre che i due ragazzi sono i figli di Sita, cioè i suoi propri figli e appresa da Lakshman la verità si rallegra e si reca nel bosco sperando, con il tramite del saggio eremita, di convincere Sita a tornare indietro da lui, ma senza successo.

Versi 78.53-79.12: Sita è molto arrabbiata per il comportamento tenuto da Rama, nonostante la prova del fuoco passata (si intuisce il finale della prima parte, mancante) e quando Rama se ne torna via con i figli lei, pur triste, non si muove da lì.

Versi 80.1-35: istruiti da Rama i due giovani chiedono alla madre di tornare ma lei dice che tornerà solo se Rama muore, per il suo funerale. Rama così organizza un finto funerale per ingannare Sita e farla tornare ma quando questa scopre il trucco prega la Terra di aprirsi e accoglierla con i Naga.

Versi 80.35-48: Rama, disperato, scocca una freccia con il suo messaggio di richiamo a Sita nel mondo sotterraneo dei Naga, dove ella ormai vive.

Qui si chiude la storia ed è facile individuare le differenze con l'originale.

I due gemelli Kusa e Lava infatti sono presenti al grande sacrificio del cavallo, l'ashvameda, recitando il Ramayana sotto la supervisione di Valmiki stesso. Rama li riconosce e manda a chiamare Sita, pronto a riaccoglierla. Giunta nell'area sacrificale Sita, insieme a Valmiki, dichiara la sua castità e fedeltà e lamenta le calunnie e l'abbandono subìto, chiamata poi a testimone la dea della terra Dharani discende nel mondo sotterraneo su un trono appositamente creato per essa.

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Sebbene affranto, Rama regnerà ancora per migliaia di anni, ormai essere divino, celebrato dai canti dei suoi figli e assunto ai cieli in un'apoteosi universale in seguito a varie vicissitudini del regno.

E' quindi evidente che nella vulgata khmer Rama sia molto più che umano, sia un personaggio che addirittura ricorre all'inganno per riprendersi la sua sposa, mentre nella versione classica mantiene sempre un regale distacco e la mancanza della sposa, ormai fattasi essere divino, inglobata dalla terra, non gli impedisce di regnare ancora saggiamente, rassicurato da Brahma che ritroverà poi Sita nello Svarga.

Nel Reamker tutta l'azione non ruota intorno alla missione divina ed epica di Rama ma alle contingenze e agli eventi materiali, ai difetti e alle virtù dei personaggi, agli intrighi di corte. L'accento viene posto sulla gloria di Rama (in Ream-ker, “ker” è proprio il sostantivo gloria) nel senso di costanza degli ideali di giustizia e verità. Realismo e razionalità si impongono sugli aspetti mistici e sublimi.

Abbiamo visto i protagonisti più importanti vivere episodi assenti nell'originale ed essi stessi hanno caratteristiche peculiari a partire dai nomi:

Rama : Phreah Ream Sita: Neang Seda Ravana: Krong Reap Lakshman: Praeh Leak Hanuman: Hanuman

Sovanna Maccha o Neang Maccha, la principessa delle sirene che ama Hanuman: personaggio del Reamker che trae il nome dal sanscrito Suvarnamatsya ovvero “pesce dorato”.

Di quest'ultimo personaggio, vista la sua popolarità ancora oggi giorno, vale la pena approfondire la storia: nella versione del Reamker che abbiamo preso in esame non viene affatto enfatizzato il suo ruolo, che invece è appannaggio del teatro tradizionale e della narrazione orale.

Il balletto Robam Sovanna Macha è la nostra fonte principale per tratteggiare i fatti. Nel balletto viene eseguito con vivaci scene lo svolgersi della storia. Mentre Hanuman e le sue truppe posano le pietre per costruire il ponte per Lanka le creature del mare disturbate da questo le rimuovono e così i lavori sembrano non finire mai. Hanuman scopre la

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responsabile di tutto ciò: la bellissima sirena Sovanna Macha e nel tentativo di catturarla si accorge di esserne innamorato. Nel corteggiarla scopre che è la figlia marina di Ravana ed è questo il motivo per cui sta sabotando la costruzione. A questo punto Hanuman dichiara il nobile motivo della costruzione del ponte alle sirene tutte, ovvero liberare la povera Sita ed è così che Sovanna Macha, colpita da tutto ciò ricambia non solo il suo amore ma da anche l'aiuto per finire il ponte, che viene così completato celermente. I due si amano e, seppur destinati a separarsi, hanno anche un figlio che viene chiamato Machanu ⒄.

Ancora al giorno d'oggi è, forse più di tutto il resto, proprio questo episodio ad avere una sua dignità autonoma e ad essere entrato nel cuore della gente che ha scorporato la sirena dorata dal suo contesto rendendola un'icona amata e popolare.

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4. Gli altri Ramayana nel sud-est asiatico

Abbiamo visto che il Reamker khmer è fra le più importanti e amate versioni del Ramayana in area indocinese, tuttavia ve ne sono moltissime altre che sono popolari nella letteratura, nella rappresentazione teatrale, nella danza ma soprattutto nel folklore di ciascun paese ⑴.

Thailandia: Ramakien

Accanto al Reamker, con cui condivide molti temi, episodi e iconografie peculiari, il Ramakien è il Ramayana nella sua versione thai. L'intera cultura thailandese è permeata da questo mito e abbiamo raffigurazioni già nel tardo I° millennio su bassorilievi di templi del nordest del paese. Inoltre, le cronache del XIII secolo sono già piene di riferimenti alla leggenda del Ramayana in forma di rappresentazione tatrale, con marionette e ombre. Il primo vero e proprio Ramakien fu composto nel XVIII secolo, nel periodo del regno di Ayutthaya come racconto moralizzante teso ad evidenziare la lotta fra bene e male e le doti morali che legittimano un buon re e il suo regno sull'esempio di Rama.

Purtroppo molte delle copie di questo periodo andarono distrutte durante l'invasione birmana di Ayutthaya, nel 1767 ma la versione curata dal re Rama I poco più tardi ripristinò in parte le conoscenze del Ramakien inglobando elementi buddhisti e locali della cultura thai con il risultato di un testo di oltre 80000 stanze che supera in lunghezza persino l'originale. Sempre a Rama I si deve la costruzione del Palazzo Reale decorato dal ciclo di affreschi del Ramakien che ispirò poi quello del Palazzo Reale di Phnom Penh in Cambogia.

La trama ricalca quasi del tutto l'originale aggiungendo però elementi caratteristici e dettagli che arricchiscono alcuni personaggi.

I nomi dei personaggi sono i seguenti: Rama: Phra Ram

Sita: Naang Sida Lakshman: Phra Lak Ravana: Totsakan

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Si nota anche qui che il nome di Hanuman non cambia e che è presente la figura della sirena che si chiama Naang Suphannamacha.

Di Ravana vengono menzionati più dettagli biografici, come ad esempio la vita coniugale con la consorte di nome Montho mentre di Hanuman, vero e proprio eroe di questa epica, che nell'originale è un casto personaggio devoto solo a Rama, viene riferita la storia d'amore con la sirena Suphannamacha (episodio comune al Reamker) di fatto, un tema che gira in tutto il sostrato culturale sud-est asiatico.

Suphannamacha, figlia marina di Totsakan (Ravana) viene da questi incaricata di sabotare, con l'aiuto delle creature del mare, la costruzione che Hanuman stava portando avanti del ponte per Lanka. Quando però Hanuman scopre cosa succede cattura la sirena che in preda al panico chiede perdono. Affascinato dalla sua bellezza Hanuman si innamora di lei e non solo la lascia libera ma la prende per moglie e fa costruire dai pesci il ponte per Lanka. Suphannamacha da un figlio ad Hanuman, ma temendo l'ira del padre lo rilascia su una spiaggia, il piccolo, chiamato Machanu, ha il corpo di scimmia e la coda di pesce. La sirena è considerata tutt'oggi simbolo di buona fortuna e compare nell'iconografia e nel folklore del paese ma tutto il Ramakien è praticamente l'epica dell'intero paese e viene ancora con successo rappresentato in varie forme artistiche.

Giava: Kakawin ⑵⑵⑵⑵

Un'altra variante interessante nel panorama del sud-est asiatico è il Kakawin Ramayana. Composto intorno al IX secolo d.C. durante il regno Medang deve il suo nome al particolare tipo di metro giavanese, il kakawin, praticamente l'adattamento della poesia in versi sanscrita.

E' conservato in un gran numero di manoscritti originali caratterizzati dalla lunghezza che ne attestano la diffusione e la popolarità, si tratta infatti della più importante opera letteraria del periodo indo-buddhista di Giava. I ricercatori sostengono che la fonte del Kakawin potrebbe essere il poema sanscrito Ravanavadha (detto anche Bhattikavya, del poeta indiano Bhatti, VI-VII d.C.) la prima metà del poema infatti sembra esserne un calco preciso ed è anche la parte più simile all'originale.

La differenza più evidente si nota nella narrazione della seconda parte del testo, che peraltro è anche la più nota e amata dal pubblico, dove l'intero svolgersi dei fatti è

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pressoché irriconoscibile e compaiono personaggi assenti nell'originale. Uno di questi è la divinità (dhayana) guardiana di nome Semar e i suoi figli adottivi Gareng, Petruk e Bagong che compongono, tutti insieme, il gruppo dei cosiddetti Punokawan o clown serventi dell'eroe nel teatro delle ombre di Giava, il Wayang. Questi personaggi, amatissimi dal pubblico compaiono sulla scena anticipati da applausi e risa e sono caratterizzati da tipicità fisiche peculiari.

I Punokawn (48)

Malesia: Hikayat Seri Rama

In questa versione malesiana, esistente sia in forma orale che scritta, la storia del Ramayana è prima di tutto adattata alla realtà locale. L'intento era di supportare e dare un fondamento all'idea della monarchia e della politica malesiana; la storia fu portata probabilmente dai giavanesi sulla via dei loro viaggi commerciali.

Anche in questo ambiente l'epica è rappresentata attraverso il teatro delle marionette e delle ombre (il Wayang), ma viene estremamente influenzata dalla religione prevalente dell'area: l'Islam. I marionettisti (detti kelantan dalangs) erano infatti quasi tutti musulmani e particolarmente conservatori.

La storia subisce molte variazioni prima di tutto nell'organizzazione della struttura. Gli episodi sono divisi in due categorie: fondamentali e non, questi ultimi contenenti avventure di minor rilievo di Rama e degli altri personaggi.

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Anche in questa versione è presente, come nel Reamker, l'episodio del ritratto di Ravana, ma qui, invece di ordinare al fratello Lakshman di portare via e uccidere Sita, Rama infuriato la picchia quasi a morte salvo poi chiederne di nuovo l'avvicinamento che lei accetta solo in seguito a una serie di richieste a cui lui sottosta.

Adattandosi all'ambiente islamico, la divinità dei personaggi non è per nulla presente a favore invece di un messaggio di giustizia, lealtà e rettitudine a cui tutti i personaggi devono presto o tardi conformarsi.

Inoltre, nella letteratura malese intorno al Ramayana, la figura di Lakshman ha una grande importanza e spesso oltrepassa quella dello stesso Rama.

I nomi dei personaggi sono i seguenti: Rama: Seri Rama

Sita: Siti Dewi

Lakshman: Laksmana Ravana: Rawana

Si nota anche qui che il nome di Hanuman non cambia.

Nonostante sotto la pressione dei musulmani più conservatori le tradizioni folkloristiche legate alle tradizioni hindu e buddhiste, al teatro e alle danze, siano cadute più recentemente in disuso si segnala che in onore di Rama, nel 1989, fu costruito un tempio al confine della Thailandia, nello stato del Perak, decorato con ben 1001 sculture recanti episodi dell'Hikayat Seri Rama.

Laos: Phra Lak Phra Lam

Conosciuta anche come Phralak Phralam la versione laotiana prende molto da quella malesiana appena citata soprattutto nella perdita del legame con l'induismo e della divinizzazione dei personaggi più importanti. E' infatti conosciuta come una storia delle vite precedenti del Buddha (i Jataka) e si crede che fosse recitata dal Buddha stesso ai suoi monaci.

Probabilmente introdotta in Laos dalle dinastie provenienti da Angkor la storia del Ramayana classico trovò già un retroterra culturale in parte influenzato dalla cultura indiana che si era fatta strada nella zona nei secoli a cavallo fra II a.C. e II d.C.

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Abbiamo resti di templi hindu decorati sia con scene del Ramayana che del Mahabharata: Vat Phou a Champassak ne è un esempio.

La storia dei due fratelli eroi Lak (Lakshman) e Lam (Rama) può essere stata più vicina all'originale nei primi tempi della sua diffusione ma già nel XIV-XV secolo il Phra Lak Phra Lam si configurava come una storia del tutto influenzata sia dalla cultura del Laos che dalla religione buddhista nella sua versione Theravada. Le doti dei due eroi (l'importanza di Lak è infatti preminente) sono quelle del dharma: onestà, etica, rifiuto del proprio sé contrapposte ai difetti incarnati da Hapmanasouane (Ravana), che in questa versione è il cugino di Lam, propri di chi conduce una vita improntata alla soddisfazione dei desideri più sfrenati e quindi all'attaccamento al proprio sé.

La storia si svolge sulle rive del fiume Mekong, che è la personificazione di uno spirito femminile ancestrale e chiama in causa anche i Naga che consigliano il padre di Ram di spostare la capitale dal luogo che oggi è la moderna Ning Khai in Thailandia proprio a Vientiane, attuale capitale del Laos. La trama è simile a quella originale e si conclude col lieto fine. Come in tutta l'area sud-est asiatica, la fortuna di questa storia si è mantenuta grazie alle arti sceniche, la danza e il teatro, pittoriche e al folklore dei miti e delle leggende che le ruotano attorno.

I nomi dei personaggi sono i seguenti: Rama: Phra Lam

Sita: Nang Sida Lakshman: Phra Lak Ravana: Hapmanasouane Hanuman: Hanoumane

Al giorno d'oggi esistono solo due versioni a stampa, risalenti agli anni '70 dello scorso secolo, in quanto gli originali antichi erano tutti su materiale organico come foglie di palma e sono deperiti, anche se vengono talvolta fatti dei ritrovamenti di versioni originali antiche nei templi del paese.

Della storia si conoscono altre versioni similari, in particolare il Kuay Toraphi e il Langka Noy, tipiche del popolo Tai Lu, dove la figura di Sita è vista come Sujata, la moglie di Indra, che rapita da Ravana rinasce poi come sua figlia On Hi Slap.

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Attualmente, in modo analogo alla Cambogia, il Phra Lak Phra Lam è messo in scena presso il palazzo reale di Luang Prabang con successo dalla locale compagnia di ballo.

Birmania: Yama Zatdaw

Il nome di questa versione si riferisce alla storia di Yama (Rama) intesa come azione e parte di una Jataka. Si nota dunque come anche in Birmania, dove l'epica entrò inizialmente nella sola versione orale durante il regno di Anawratha, il buddhismo ne abbia influenzato il messaggio.

La versione più conosciuta risale al 1775 composta da U Aung Phyo e derivata dall'influenza del Ramakien thailandese, penetrato nella letteratura birmana durante il periodo del regno di Ayutthaya.

Esiste inoltre una versione scritta nel 1834 dal monaco Uttama, appartenente all'etnia Mon, che fonde caratteristiche di varie veriosni sud-est asiatiche.

L'intreccio della storia comincia analogamente alla sezione Balakanda di Valmiki e termina con i fatti narrati nella sezione Yuddhakanda.

I nomi dei personaggi sono i seguenti: Rama: Yama

Sita: Thida

Lakshman: Lakhana

Ravana: Yawana o Datha Giri

Anche in questo caso Hanuman mantiene il suo nome originale ma anche gli altri personaggi non lo cambiano in modo sensibile se non a causa del fatto che nell'alfabeto birmano la traslitterazione dal sanscrito comporta certe piccole varianti.

La fortuna dello Yama Zatdaw si è mantenuta grazie alle arti performative, alla pittura, alla scultura e alla musica classica. Attualmente si hanno resti, nella mura della città di Bagan, di sculture che raffigurano Rama.

Molte altre versioni costellano l'area sud-est asiatica dall'isola di Sumatra con il suo Ramayana Swarnadwipa fino a luoghi più impensabili come le Filippine con il Maharadia Lawana. In tutti i casi, sebbene i fatti restino sempre più o meno gli stessi, è forte l'influenza del costume locale ed evidente la perdita del legame con l'induismo da cui è scaturita la

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storia originale a favore delle religioni prevalenti sul posto, nella maggior parte dei casi il buddhismo ma anche l'islam, nel caso della Malesia.

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4. Il Ramayana dove non te lo aspetti: la letteratura italiana contemporanea e l’archeologia del mistero

Sulla scia dell’interesse destato dalle scoperte linguistiche che avevano messo in luce la comunanza fra le lingue indoeuropee, tutto ciò che riguardava la letteratura sanscrita assunta a nuovo ruolo di grande “lingua madre” divenne di attualità e oggetto di ferventi studi nella seconda metà dell’Ottocento in tutta Europa e in particolare nell’area di lingua germanica.

Già negli anni venti dell’ottocento era stata fatta una traduzione dal sanscrito al latino, con commento e note, del Ramayana, a cura dell’accademico Schlegel ma anche in Italia penetrò l’interesse per questa lingua e per la sua letteratura che si era scoperta ancora più antica e per giunta progenitrice di greco e latino ⑴.

Infatti, la maggior parte del materiale a disposizione per gli studi risale al tardo ottocento fino a minimo oltre cinquant’anni fa e non è difficile imbattersi, durante le ricerche anche in opere inaspettate e piacevoli scoperte.

Fra i primi a introdurre agli europei il Ramayana è proprio un italiano, un carmelitano, Clemente Pejano, che così definisce questo grande testo epico: “Celeberrima malabarum poemata, ubi fabulosa bella describuntur propter raptum Sida (Sita) habita inter Sriramen (Rama) et Ravanen (Ravana) regem isulae Ceylon Lenga dictae”. Il lavoro dei missionari è stato spesso indispensabile alla scoperta presso gli studiosi europei delle fonti dirette dei loro studi ⑵.

Uno dei primi manoscritti giunti nelle mani degli studiosi italiani risale tuttavia al 1857 e fu acquistato da Francesco Bonaini direttamente da un viaggiatore. A fine secolo scorso tale manoscritto si trovava all’Archivio di Stato di Firenze ed era scritto in caratteri bengalesi neri (non inciso) su foglie di palma di borasso. Questo prezioso reperto fu oggetto degli studi di Emilio Teza che lo comparò all’allora versione più nota, studiata e tradotta da Gorresio, conservata all’Archivio di Pisa e che sarà poi il caposaldo su cui lavoreranno illustri studiosi fra cui Oscar Botto, patrocinatore della traduzione italiana a cura di Saverio Sani e altri sanscritisti, al momento inedita⑶.

Una “Crestomazia del Ramayana” a cura dello studioso Paolo Emilio Pavolini compare già nel 1895 ma l’eco di questa narrazione non era confinata fra gli accademici, la storia

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aveva già un suo seguito in studi e riadattamenti consoni al gusto dell’epoca fin dalla seconda metà dell’ottocento.

Del 1886 un riadattamento poetico in versi italiani di un episodio che coinvolge Hanuman “Il lamento del Vanaro Hanumat” viene pubblicato in onore delle “auspicatissime nozze della nobile signorina Matilde Ravà col giovine Giulio Orefice” a cura di Felice Ambrosi; ma ancor più sorprendente la versione teatrale (di cui però non ci è dato sapere quale fortuna ebbe, se mai ne ebbe, sulle scene) di Ettore Ovazza. In pieni anni ’30 del Novecento scrive “Sita: poemetto indiano, un prologo e tre atti” un testo per il teatro di grande suggestione completamente variato rispetto all’originale ma di grande impatto nella costruzione degli scenari, musicata da Perigozzo e illustrata con due xilografie di Bramanti dove Sita appare in un’inaspettata aura di stile liberty.

Sita sogna il pastore Dialor (57)

In questa versione abbiamo Narado, re dei Vindi e padre di Sita che darebbe volentieri in sposa sua figlia a Koila, principe di lei innamorato (una sorta di Ravana?) se non fosse che Sita lo rifiuta in quanto illuminata da un sogno dove Dialor (Rama?), un pastore in tutto

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rassomigliante al dio Krishna la chiama a sé. Dopo una serie di avventure e disavventure, fughe in paesaggi bucolici e boschi incantati il lieto fine è assicurato ⑷.

Di poco più tarda, 1940, la tesi di Giovanni Stano “Riflessi dall’India antica con episodi del Ramayana e del Mahabharata tradotti dal testo sanscrito”. La premessa qui è data proprio dall’interesse linguistico, visto anche con occhio antropologico, sul perché la letteratura indiana sanscrita fosse rimasta sepolta e ignota e su come la sua scoperta abbia gettato nuova luce sui movimenti dei popoli e l’origine della grande famiglia indoeuropea, intesa non solo in senso linguistico ma anche di popoli. Fra i passi tradotti dal Ramayana l’episodio di Dasaratha che uccide per sbaglio l’asceta provocando la disgrazia generale per la famiglia del morto e per se stesso mentre dal Mahabharata il passo che richiama agli Asvin focalizzando sulla fortuna che questo ebbe nella poesia, primo fra tutti il Carducci con la sua ”Ode all’aurora”.

L’autore accomuna poi l’Italia all’India in una narrazione di estrema enfasi retorica sia per la grande e maestosa antichità sia per la forma e le bellezze geografiche ⑸.

Inutile sottolineare come le opere e gli studi di questo periodo indulgessero nell’esaltazione dell’India come madre del popolo ariano in virtù del suo essere culla d’elezione degli Arii, progenitori degli europei e stirpe nobile.

Qualche anno dopo ritroviamo il Ramayana, liberato dalla retorica ante guerra ed estremamente fedele all’originale nella versione per ragazzi di Gentucca “Le gesta meravigliose di Rama”. Il proposito dell’autrice è di offrire ai ragazzi una versione di una grande epica, dove la caratteristica di nobiltà stavolta viene incentrata non tanto sulla stirpe degli Arii ma sul suo essere estremamente saggia e antica. Fedele ma alleggerita dell’apparato filosofico differisce dall’originale solo in parte del finale dove Sita passa indenne la prova del fuoco e viene così acclamata regina ma senza discendere alla terra: nella semplificazione non viene persa tuttavia la chiave di lettura che è pilastro dell’insegnamento del Ramayana, ovvero che Sita deve provare la sua onestà perché la fedeltà della sposa di un grande re è il fondamento stesso della sua legittimità. Illustrato da Carlo Nicco mette al centro la figura di Hanuman con estrema simpatia ⑹.

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Hanuman si ingigantisce per giungere a Lanka (59)

Influenzata dalle avventure di salgariana memoria è invece la versione per ragazzi di Pia Della Grazia, del 1965, “Sita, la principessina indiana” con vivaci illustrazioni e una storia del tutto riadattata e modernizzata in ambientazione coloniale.

Decisamente contemporaneo, 2002, il romanzo di avventure di C.A. Cappi “L’occhio sinistro di Rama” scritto in occasione del ventennale del personaggio Martin Mystere, in cui la saga di Rama fa da antefatto a una vicenda avventurosa con risvolti mistici e archeologici. Nel prologo si cita Rama come signore di Terra Madre mescolando elementi del Mahabharata come le armi e i veicoli volanti Vimana che tanto hanno interessato e ancora interessano gli studiosi di archeologia di frontiera per le loro caratteristiche moderne in un testo così antico.

“E i figli di Terra Madre avevano potenti alleati in Lanka e nelle altre terre da loro conquistate. E gli alleati volavano a bordo dei Vimana e disponevano di armi invincibili. […] E Ravana, il traditore, vendette la propria anima ai malvagi signori della Città dei Cinque Anelli. […] E Rama, il signore di Terra Madre, e Kala, signore della Città dei Cinque Anelli, continuarono a combattere […] e invano cercarono di rappacificarsi: la Prima Fine venne egualmente, dopo venti giri del Sole meno dieci” ⑺.

Non pochi studiosi, fra cui David Davenport ed Ettore Vincenti, hanno ipotizzato che Lanka non fosse l’isola di Sri Lanka, bensì la zona dove sono localizzate le rovine di Mohenjo Daro (attuale Pakistan meridionale), Lanka infatti è bagnata dall’Indo, definito più volte “oceano” e confina col regno di Rama ⑻.

Nel 1945 il ricercatore Sir Mortimer Wheeler intraprese un’esplorazione sistematica sulla scorta dei ritrovamenti dell’archeologo R.D. Banerjee di alcuni decenni prima. Sotto uno

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stupa buddhista vennero alla luce rovine e in vari quartieri della città numerosi scheletri di cadaveri sparsi e scomposti come sorpresi da un potente attacco con armi di certo non ascrivibili agli arsenali del tempo.

La civiltà fiorita in questi luoghi è ancora per molti versi non decifrata, sappiamo solo che, nonostante la sua moderna struttura ed eccellente architettura (contava circa 30.000 abitanti e aveva un’ottima rete fognaria) fu cancellata da qualcosa di improvviso, come una catastrofe o una guerra messa in atto con armi potentissime e impensabili per l’epoca in cui si sono volute identificare quelle ad uso degli dei descritte nei testi sacri. In particolare l’attenzione degli studiosi è stata attratta dai veicoli volanti Vimana che sono stati oggetto di un famoso trattato, il Vymaanika-shaastra rivelato in forma medianica al Pandit Subbaraya Sastry nel 1875 in seguito a un’iniziazione dal Maharishi Bharadwaaja.

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Il Pushpaka Vimana in una raffigurazione tradizionale (63)

Un Vimana volante in una ricostruzione (64)

L’Istituto di Cronologia indiano ha tentato la datazione delle battaglie dei Veda in base ai riferimenti astrologici contenuti in essi ed effettuando una comparazione sui reperti

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archeologici di Mohenjo Daro gli studiosi già citati Davenport e Vincenti hanno rinvenuto oggetti vetrificati che solo l’utilizzo di armi all’Uranio avrebbero potuto rendere tali. Il Ramayana ci racconta dunque, secondo gli archeologi di frontiera, di un’antica guerra nucleare? Se le rovine di Mohenjo Daro sono ancora quasi interamente da scavare e interpretare tra le righe del Ramayana leggiamo le indicazioni di armi futuribili e veicoli volanti e indicazioni agli abitanti di scappare dal luogo dove sarebbero piovute ceneri per sette giorni (nel regno del cognato di Ravana, Danda). Scienza e mitologia si fondono e gli antichi testi confermano curiosamente le scoperte di oggi ⑼.

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