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Il Ramayana dove non te lo aspetti: la letteratura italiana contemporanea e l’archeologia del mistero

Sulla scia dell’interesse destato dalle scoperte linguistiche che avevano messo in luce la comunanza fra le lingue indoeuropee, tutto ciò che riguardava la letteratura sanscrita assunta a nuovo ruolo di grande “lingua madre” divenne di attualità e oggetto di ferventi studi nella seconda metà dell’Ottocento in tutta Europa e in particolare nell’area di lingua germanica.

Già negli anni venti dell’ottocento era stata fatta una traduzione dal sanscrito al latino, con commento e note, del Ramayana, a cura dell’accademico Schlegel ma anche in Italia penetrò l’interesse per questa lingua e per la sua letteratura che si era scoperta ancora più antica e per giunta progenitrice di greco e latino ⑴.

Infatti, la maggior parte del materiale a disposizione per gli studi risale al tardo ottocento fino a minimo oltre cinquant’anni fa e non è difficile imbattersi, durante le ricerche anche in opere inaspettate e piacevoli scoperte.

Fra i primi a introdurre agli europei il Ramayana è proprio un italiano, un carmelitano, Clemente Pejano, che così definisce questo grande testo epico: “Celeberrima malabarum poemata, ubi fabulosa bella describuntur propter raptum Sida (Sita) habita inter Sriramen (Rama) et Ravanen (Ravana) regem isulae Ceylon Lenga dictae”. Il lavoro dei missionari è stato spesso indispensabile alla scoperta presso gli studiosi europei delle fonti dirette dei loro studi ⑵.

Uno dei primi manoscritti giunti nelle mani degli studiosi italiani risale tuttavia al 1857 e fu acquistato da Francesco Bonaini direttamente da un viaggiatore. A fine secolo scorso tale manoscritto si trovava all’Archivio di Stato di Firenze ed era scritto in caratteri bengalesi neri (non inciso) su foglie di palma di borasso. Questo prezioso reperto fu oggetto degli studi di Emilio Teza che lo comparò all’allora versione più nota, studiata e tradotta da Gorresio, conservata all’Archivio di Pisa e che sarà poi il caposaldo su cui lavoreranno illustri studiosi fra cui Oscar Botto, patrocinatore della traduzione italiana a cura di Saverio Sani e altri sanscritisti, al momento inedita⑶.

Una “Crestomazia del Ramayana” a cura dello studioso Paolo Emilio Pavolini compare già nel 1895 ma l’eco di questa narrazione non era confinata fra gli accademici, la storia

aveva già un suo seguito in studi e riadattamenti consoni al gusto dell’epoca fin dalla seconda metà dell’ottocento.

Del 1886 un riadattamento poetico in versi italiani di un episodio che coinvolge Hanuman “Il lamento del Vanaro Hanumat” viene pubblicato in onore delle “auspicatissime nozze della nobile signorina Matilde Ravà col giovine Giulio Orefice” a cura di Felice Ambrosi; ma ancor più sorprendente la versione teatrale (di cui però non ci è dato sapere quale fortuna ebbe, se mai ne ebbe, sulle scene) di Ettore Ovazza. In pieni anni ’30 del Novecento scrive “Sita: poemetto indiano, un prologo e tre atti” un testo per il teatro di grande suggestione completamente variato rispetto all’originale ma di grande impatto nella costruzione degli scenari, musicata da Perigozzo e illustrata con due xilografie di Bramanti dove Sita appare in un’inaspettata aura di stile liberty.

Sita sogna il pastore Dialor (57)

In questa versione abbiamo Narado, re dei Vindi e padre di Sita che darebbe volentieri in sposa sua figlia a Koila, principe di lei innamorato (una sorta di Ravana?) se non fosse che Sita lo rifiuta in quanto illuminata da un sogno dove Dialor (Rama?), un pastore in tutto

rassomigliante al dio Krishna la chiama a sé. Dopo una serie di avventure e disavventure, fughe in paesaggi bucolici e boschi incantati il lieto fine è assicurato ⑷.

Di poco più tarda, 1940, la tesi di Giovanni Stano “Riflessi dall’India antica con episodi del Ramayana e del Mahabharata tradotti dal testo sanscrito”. La premessa qui è data proprio dall’interesse linguistico, visto anche con occhio antropologico, sul perché la letteratura indiana sanscrita fosse rimasta sepolta e ignota e su come la sua scoperta abbia gettato nuova luce sui movimenti dei popoli e l’origine della grande famiglia indoeuropea, intesa non solo in senso linguistico ma anche di popoli. Fra i passi tradotti dal Ramayana l’episodio di Dasaratha che uccide per sbaglio l’asceta provocando la disgrazia generale per la famiglia del morto e per se stesso mentre dal Mahabharata il passo che richiama agli Asvin focalizzando sulla fortuna che questo ebbe nella poesia, primo fra tutti il Carducci con la sua ”Ode all’aurora”.

L’autore accomuna poi l’Italia all’India in una narrazione di estrema enfasi retorica sia per la grande e maestosa antichità sia per la forma e le bellezze geografiche ⑸.

Inutile sottolineare come le opere e gli studi di questo periodo indulgessero nell’esaltazione dell’India come madre del popolo ariano in virtù del suo essere culla d’elezione degli Arii, progenitori degli europei e stirpe nobile.

Qualche anno dopo ritroviamo il Ramayana, liberato dalla retorica ante guerra ed estremamente fedele all’originale nella versione per ragazzi di Gentucca “Le gesta meravigliose di Rama”. Il proposito dell’autrice è di offrire ai ragazzi una versione di una grande epica, dove la caratteristica di nobiltà stavolta viene incentrata non tanto sulla stirpe degli Arii ma sul suo essere estremamente saggia e antica. Fedele ma alleggerita dell’apparato filosofico differisce dall’originale solo in parte del finale dove Sita passa indenne la prova del fuoco e viene così acclamata regina ma senza discendere alla terra: nella semplificazione non viene persa tuttavia la chiave di lettura che è pilastro dell’insegnamento del Ramayana, ovvero che Sita deve provare la sua onestà perché la fedeltà della sposa di un grande re è il fondamento stesso della sua legittimità. Illustrato da Carlo Nicco mette al centro la figura di Hanuman con estrema simpatia ⑹.

Hanuman si ingigantisce per giungere a Lanka (59)

Influenzata dalle avventure di salgariana memoria è invece la versione per ragazzi di Pia Della Grazia, del 1965, “Sita, la principessina indiana” con vivaci illustrazioni e una storia del tutto riadattata e modernizzata in ambientazione coloniale.

Decisamente contemporaneo, 2002, il romanzo di avventure di C.A. Cappi “L’occhio sinistro di Rama” scritto in occasione del ventennale del personaggio Martin Mystere, in cui la saga di Rama fa da antefatto a una vicenda avventurosa con risvolti mistici e archeologici. Nel prologo si cita Rama come signore di Terra Madre mescolando elementi del Mahabharata come le armi e i veicoli volanti Vimana che tanto hanno interessato e ancora interessano gli studiosi di archeologia di frontiera per le loro caratteristiche moderne in un testo così antico.

“E i figli di Terra Madre avevano potenti alleati in Lanka e nelle altre terre da loro conquistate. E gli alleati volavano a bordo dei Vimana e disponevano di armi invincibili. […] E Ravana, il traditore, vendette la propria anima ai malvagi signori della Città dei Cinque Anelli. […] E Rama, il signore di Terra Madre, e Kala, signore della Città dei Cinque Anelli, continuarono a combattere […] e invano cercarono di rappacificarsi: la Prima Fine venne egualmente, dopo venti giri del Sole meno dieci” ⑺.

Non pochi studiosi, fra cui David Davenport ed Ettore Vincenti, hanno ipotizzato che Lanka non fosse l’isola di Sri Lanka, bensì la zona dove sono localizzate le rovine di Mohenjo Daro (attuale Pakistan meridionale), Lanka infatti è bagnata dall’Indo, definito più volte “oceano” e confina col regno di Rama ⑻.

Nel 1945 il ricercatore Sir Mortimer Wheeler intraprese un’esplorazione sistematica sulla scorta dei ritrovamenti dell’archeologo R.D. Banerjee di alcuni decenni prima. Sotto uno

stupa buddhista vennero alla luce rovine e in vari quartieri della città numerosi scheletri di cadaveri sparsi e scomposti come sorpresi da un potente attacco con armi di certo non ascrivibili agli arsenali del tempo.

La civiltà fiorita in questi luoghi è ancora per molti versi non decifrata, sappiamo solo che, nonostante la sua moderna struttura ed eccellente architettura (contava circa 30.000 abitanti e aveva un’ottima rete fognaria) fu cancellata da qualcosa di improvviso, come una catastrofe o una guerra messa in atto con armi potentissime e impensabili per l’epoca in cui si sono volute identificare quelle ad uso degli dei descritte nei testi sacri. In particolare l’attenzione degli studiosi è stata attratta dai veicoli volanti Vimana che sono stati oggetto di un famoso trattato, il Vymaanika-shaastra rivelato in forma medianica al Pandit Subbaraya Sastry nel 1875 in seguito a un’iniziazione dal Maharishi Bharadwaaja.

Il Pushpaka Vimana in una raffigurazione tradizionale (63)

Un Vimana volante in una ricostruzione (64)

L’Istituto di Cronologia indiano ha tentato la datazione delle battaglie dei Veda in base ai riferimenti astrologici contenuti in essi ed effettuando una comparazione sui reperti

archeologici di Mohenjo Daro gli studiosi già citati Davenport e Vincenti hanno rinvenuto oggetti vetrificati che solo l’utilizzo di armi all’Uranio avrebbero potuto rendere tali. Il Ramayana ci racconta dunque, secondo gli archeologi di frontiera, di un’antica guerra nucleare? Se le rovine di Mohenjo Daro sono ancora quasi interamente da scavare e interpretare tra le righe del Ramayana leggiamo le indicazioni di armi futuribili e veicoli volanti e indicazioni agli abitanti di scappare dal luogo dove sarebbero piovute ceneri per sette giorni (nel regno del cognato di Ravana, Danda). Scienza e mitologia si fondono e gli antichi testi confermano curiosamente le scoperte di oggi ⑼.

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