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La poetica della “seconda volta narrativa” di Erri De Luca: le forme dell’appartenenza.

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Academic year: 2021

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(1)

APPENDICE


Dialogo
con
Erri
De
Luca


L’intervista
 che
 segue
 nelle
 prossime
 pagine
 è
 più
 che
 altro
 un
 monologo
 guidato
 da
 spunti
 di
 conversazione,
 un
 tentativo
 di
 chiarire
 alcuni
punti
della
poetica
di
Erri
De
Luca,
sia
quelli
resi
noti
dalle
letture
 critiche,
sia
quelli
che
si
sono
ipotizzati.
Vengono
riproposte
le
opinioni
di
 Erri
 De
 Luca
 su
 temi
 come
 la
 “seconda
 volta”
 narrativa,
 la
 ricerca
 di
 un’appartenenza,
 la
 scrittura,
 la
 lettura,
 l’autobiografia,
 il
 ’68
 e
 gli
 anni
 della
lotta
politica,
la
città
di
Napoli,
il
rapporto
con
la
lingua
italiana

e
 con
 il
 passato,
 la
 letteratura
 del
 Novecento
 e
 quella
 attuale,
 fornendo
 spunti
di
riflessione
sulle
sue
opere,
vecchie
e
nuove.


L’incontro
 con
 l’autore
 è
 avvenuto
 a
 Cesano
 di
 Roma
 il
 25
 settembre
2009.



Ha
 detto
 spesso
 che
 nei
 suoi
 romanzi
 non
 riproduce
 i
 fatti
 come
 in
 un
 verbale,
 ma
 ricostruisce
 invece
 il
 passato
 come
 una
 “seconda
 possibilità”.
 Che
valore
ha
dare
alle
storie
una
“seconda
volta”?


Nessun
valore
di
scambio,
cioè
nessun
valore
buono
per
gli
altri,
ma
solo
 un
valore
d’uso
per
me.
Siccome
dimentico,
quando
mi
ricordo
qualcosa,
 qualche
dettaglio,
qualche
persona,
allora
riesco
a
stare
di
nuovo
insieme
 a
 quella
 persona
 e
 a
 quel
 pezzo
 del
 passato.
 Scrivere
 in
 questo
 modo
 è
 tenermi
 compagnia,
 dare
 a
 un
 pezzo
 di
 vita
 svolta
 una
 seconda
 possibilità,
 che
 è
 quella
 della
 scrittura.
 La
 scrittura
 fa
 avvenire
 la
 storia
 una
seconda
volta,
ma
certamente
non
con
l’andatura
della
prima
volta.
 Sceglie,
 condensa:
 le
 persone
 che
 si
 rincontrano
 in
 una
 storia
 una


(2)

seconda
volta
riducono
all’essenziale
il
loro
scambio,
nel
bene
e
nel
male.
 Si
 amano,
 si
 colpiscono,
 si
 feriscono
 nella
 maniera
 più
 immediata
 possibile,
 levando
 di
 mezzo
 il
 tempo
 che
 c’è
 stato
 e
 nel
 quale
 uno
 non
 sapeva
cosa
era
importante
e
cosa
non
lo
era.



Lasciare
Napoli
ha
rappresentato
una
frattura
con
le
origini,
l’acquisizione
 dello
status
di
“napolide”.
E’
possibile
lo
smaltimento
dell’esilio
dall’origine,
 sviluppare
 una
 nuova
 appartenenza
 al
 luogo
 abbandonato
 o
 a
 un
 altro
 luogo?


No.
Staccarsi
dall’origine
è
una
rinuncia
che,
se
non
forzata
come
è
stata
 invece
per
il
Novecento
(un
secolo
che
ha
sradicato
comunità
intere
e
le
 ha
 sparpagliate
 altrove,
 lontano),
 se
 non
 dipende
 da
 questa
 necessità
 della
storia
maggiore
ma
si
tratta
solo
di
storia
minore,
allora
il
distacco
è
 avvenuto
 già
 da
 prima:
 c’è
 stata
 una
 rinuncia
 all’appartenenza.
 Per
 uno
 che
viene
da
Napoli,
poi,
credo
che
la
possibilità
di
attecchire
altrove
sia
 impossibile,
ovvero
la
stessa
possibilità
che
può
avere
un
dente
estratto
 da
 una
 mascella
 di
 infilarsi
 dentro
 un’altra
 mascella,
 con
 le
 sue
 radici.
 Non
ce
la
fa,
non
c’è
un’altra
mascella,
quindi
chi
se
ne
va
di
lì
se
ne
va
in
 giro
 con
 le
 sue
 radici
 ballonzolanti,
 che
 lo
 fanno
 traballare
 e
 non
 si
 impiantano
più
in
nessun
posto.


 
 I
suoi
romanzi
sono
improntati
dall’autobiografia.
L’autobiografia
aiuta
a
 conoscersi?

 Non
lo
so.
Può
anche
aiutare
a
camuffarsi,
a
imbrogliare
le
carte.
Diffido
 delle
autobiografie,
ma
mi
piace
che
ci
sia
un
“io”
narrante
nella
storia.
Io
 scrivo
solo
storie
che
hanno
un
“io”
narrante,
quell’“io”che
racconta
per


(3)

me
 è
 più
 credibile.
 Quando
 leggo
 nei
 romanzi
 la
 terza
 persona,
 espressioni
come
“egli
pensò”,
mi
domando
sempre
come
fa
lo
scrittore
a
 sapere
 quell’
 “egli”
 che
 pensò.
 Sarebbe
 un
 “egli”
 inconsistente,
 un
 burattino
mosso
da
un
puparo.
La
terza
persona
è
fastidiosa
per
me,
mi
 distrae.



La
 scrittura
 offre
 la
 possibilità
 di
 dare
 una
 “seconda
 volta”
 alla
 vita,
 alle
 storie.
E’
un
tentativo
di
ricercare
un
nuovo
radicamento
nella
realtà,
oltre
 la
realtà
stessa?


No.
E’
la
felicità
di
ricordarsi
una
cosa,
e
un
modo
per
tenersi
compagnia.
 E’
vero
che
quando
uno
scrive
una
storia
accaduta,
anche
da
un
punto
di
 vista
 unilaterale,
 con
 un
 “io”
 narrante
 che
 la
 sta
 raccontando,
 quella
 storia
 ha
 la
 pretesa
 di
 essere
 la
 versione
 definitiva
 dell’accaduto.
 La
 scrittura
ha
questa
prepotenza,
da
cui
io
mi
difendo.
So
che
quello
che
ho
 scritto
è
una
versione
che
poteva
essere
raccontata
in
maniera
diversa
e
 opposta
da
un’altra
persona
che
era
coinvolta
nella
stessa
storia.


Questa
 “seconda
 volta”
 narrativa
 è
 espressione
 della
 nostalgia,
 che
 caratterizza

parte
della
letteratura
italiana
del
tardo
Novecento?


No.
Nella
scrittura
sento
la
vita
una
seconda
volta,
ho
la
fortuna
di
avere
 un
 pezzetto
 restituito
 dal
 passato.
 Ma
 non
 ho
 nostalgia,
 non
 vorrei
 tornare
in
nessuna
delle
stazioni
passate,
nemmeno
nell’innocenza.



La
 “comunità
 aperta”
 dei
 lettori,
 commentatori
 e
 studiosi
 delle
 Sacre
 Scritture
rappresenta
per
lei
una
seconda
appartenenza?


(4)

Non
 posso
 usare
 la
 parola
 “appartenenza”
 per
 quella
 comunità.
 Non
 mi
 sento
 di
 appartenere
 a
 una
 comunità,
 ma
 piuttosto
 a
 quelle
 scritture,
 a
 quel
 libro.
 Leggo
 con
 molto
 piacere
 le
 storie
 sacre,
 rinnovo
 questo
 piacere
 a
 ogni
 risveglio
 e
 ricevo
 da
 quella
 lettura
 molto
 più
 amore
 di
 quanto
 possa
 restituire
 o
 testimoniare.
 Ho
 studiato
 l’ebraico
 antico
 e
 questo
mi
ha
permesso
di
avvicinarmi,
brancolando,
a
una
lingua
madre
 del
sacro.
Provo
un
attaccamento
molto
forte
a
quella
lingua,
al
punto
di
 volerla
 tradurre
 nel
 modo
 più
 utile
 al
 ricalco.
 Quella
 lingua
 contiene
 la
 forza
di
una
volontà
di
imposizione,
oltre
che
di
trasporto,
di
rivelazione,
 consegna
di
compiti,
affetto,
anche
amore.
Lei
si
è
interessato
alla
scrittura
sacra
dichiarandosi
uno
studioso
dei
testi
 biblici
e
non
un
fedele.
Cosa
pensa
della
Bibbia
non
come
testo
religioso,
ma
 come
“romanzo”?


La
 Bibbia
 non
 è
 letteratura,
 nel
 senso
 che
 la
 letteratura
 vuole
 sempre
 conquistarsi
il
suo
lettore,
tirarlo
dentro.
Quel
libro
invece
no,
ignora
di
 avere
un
lettore,
è
una
storia
chiusa
in
se
stessa,
molto
intensa
e
violenta.
 Quella
divinità
impianta
il
suo
monoteismo
in
una
terra
(il
Mediterraneo)
 infestata
dal
politeismo,
riesce
ad
espiantare
la
moltitudine
di
credenze
e
 culti.
E’
un
culto
sovrapposto,
e
il
termine
“sincretismo”
indica
i
limiti
che
 non
è
riuscito
a
valicare,
è
una
sorta
di
compromesso.

 Ma
quelle
storie
non
sono
letteratura,
da
un
punto
di
vista
letterario
sono
 illeggibili,
 e
 se
 uno
 le
 vuole
 per
 godimento
 non
 ne
 ricava
 niente.
 Sono
 storie
 che
 prevedono
 una
 condizione
 desertica
 in
 chi
 le
 incontra,
 la
 scrittura
sacra
non
è
un
libro
per
quieti,
ma
è
un
libro
“senza
tetto”.


 


(5)

Lei
 ha
 tradotto
 i
 testi
 biblici
 dall’ebraico.
 Alcuni
 sostengono
 che
 la
 sua
 scrittura,
priva
degli
stilemi
tipici
della
narrativa
italiana,
abbia
un’affinità
 con
la
solennità
della
Scrittura
Sacra.
Cosa
ne
pensa?


Escludo
 la
 contaminazione
 e
 soprattutto
 il
 paragone
 con
 il
 testo
 sacro.
 Scrivere
è
un
modo
per
tenermi
compagnia.
Quando
scrivo
sento
le
voci
 di
chi
parla,
e
i
toni
di
voce,
o
meglio
le
voci
narranti,
cambiano
sempre.
 Dipende
 dalla
 componente
 fisica
 e
 biologica
 dell’io
 narrante,
 da
 quello
 che
 ha
 vissuto.
 In
 Tre
 cavalli
 
 a
 parlare
 è
 un
 uomo
 di
 cinquant’anni,
 in
 Montedidio
un
bambino
di
tredici.
Ospito
la
voce
di
questi
personaggi,

e
 questo
 determina
 l’acustica
 che
 governa
 la
 mia
 scrittura.
 E’
 a
 forza
 di
 scrivere
 che
 mi
 è
 uscita
 questa
 scrittura,
 non
 saprei
 dire
 se
 è
 uno
 stile,
 per
me
è
una
specie
di
stenografia
della
vita,
un
resto
della
vita
che
si
è
 svolta.



Il
 movimento
 del
 ’68
 hanno
 rappresentato
 una
 rottura
 epocale
 con
 la
 generazione
 precedente,
 e
 anche
 questo
 può
 essere
 considerato
 un
 “distacco
dalle
origini”:
l’adesione
all’ideologia
politica
e
alla
militanza
ha
 rappresentato,
almeno
per
un
breve
periodo,
una
“nuova
appartenenza”?

 Sì.
Io
ho
trovato
appartenenza
in
una
generazione
politica
di
insorti,
nella
 quale
mi
sono
trovato
coinvolto,
essendo
loro
contemporaneo,
dal
1968
 fino
al
1980.
A
quella
ho
appartenuto,
mi
ha
dato
appartenenza
e
diritto,
 mi
 ha
 fornito
 ricordi.
 Ho
 conosciuto
 quella
 generazione
 in
 lungo
 e
 in
 largo,
 eravamo
 molto
 numerosi,
 il
 più
 numeroso
 dei
 pronomi
 “noi”
 che
 sono
 stati
 usati
 dalle
 nostre
 parti.
 Quella
 generazione
 mi
 ha
 dato
 appartenenza
 e
 quando
 si
 è
 dissolta
 mi
 ha
 fornito
 un
 esilio.
 Io
 sono
 in
 esilio
dal
disgregamento
di
quella
generazione.



(6)

La
sua
generazione
è
cresciuta
con
un’esigenza
di
risposte
per
la
vicinanza
 cronologica
 alla
 guerra
 più
 disastrosa
 della
 Storia,
 appresa
 dalla
 vecchia
 generazione
 attraverso
 i
 racconti.
 La
 militanza
 è
 stata
 una
 sorta
 di
 reazione
a
una
catastrofe
che
la
vecchia
generazione
avrebbe
invece
voluto
 rimuovere,
un
farsi
carico
delle
“colpe
dei
padri”?


Il
 Novecento
 è
 stato
 un
 secolo
 che
 ha
 spostato
 i
 rapporti
 di
 forza
 tra
 oppressori
 e
 oppressi
 con
 le
 rivoluzioni.
 E’
 andata
 così,
 e
 in
 quella
 seconda
 metà
 del
 Novecento
 in
 cui
 ho
 vissuto,
 il
 mondo
 era
 pieno
 di
 rivoluzioni
 e
 la
 parola
 rivoluzione
 era
 all’ordine
 del
 giorno.
 Con
 le
 rivoluzioni
 si
 liberavano
 e
 si
 ribellavano
 popoli
 a
 imperi
 coloniali
 e
 ai
 fascisti.
 Noi
 non
 siamo
 stati
 contemporanei
 di
 questo,
 ma
 abbiamo
 semplicemente
 obbedito
 alla
 parola
 d’ordine
 del
 Novecento.
 E’
 stata
 un’accettazione
 di
 eredità,
 oggi
 ampiamente
 scaduta,
 ma
 noi
 l’abbiamo
 accettata.



Anche
a
queste
lotte
si
può
dare
una
“seconda
volta”?


Si
può
sempre
dare
una
seconda
volta.
Io
lo
faccio,
nelle
mie
storie
ci
sono
 passaggi
 e
 momenti
 di
 quel
 tempo
 (tredici
 anni,
 tutta
 la
 giovinezza
 e
 anche
qualcosa
di
più).
Ne
parla
anche
il
cinema,
in
maniera
per
me
molto
 goffa
 e
 dall’esterno:
 tutti
 i
 cinematografari
 e
 gli
 scrittori
 che
 si
 sono
 avviati
 in
 quest’impresa
 o
 hanno
 fatto
 testimonianza
 perché
 erano
 interni,
o
hanno
fatto
“ricotta”.



In
Alzaia
ha
detto
che
la
sua
patria
è
la
lingua
italiana,
perché
è
una
lingua
 “raggiunta”.
D’altronde
lei
si
definisce
non
uno
“scrittore
italiano”
ma
uno
 “scrittore
in
italiano”.
Dunque
la
patria
non
è
un
luogo
fisico,
ma
più
che


(7)

altro
 una
 condizione
 interiore
 che
 deve
 essere
 appunto
 raggiunta,
 conquistata?


Da
 noi
 durante
 l’emigrazione
 si
 diceva
 “la
 patria
 è
 quella
 che
 ti
 dà
 da
 mangiare”.
 Non
 è
 semplicemente
 una
 formula
 per
 dire
 “vado
 dove
 mi
 conviene”,
è
invece
una
precisa
denuncia
di
una
patria
che
non
ti
dà
da
 mangiare
né
il
diritto
di
lavorare
per
conquistare
il
necessario
per
vivere,
 e
che
dunque
patria
non
è.
Per
questo
gli
emigranti,
non
appena
sbarcati
 in
 nuovi
 territori,
 hanno
 immediatamente
 abbracciato
 le
 nuove
 lingue
 che
 c’erano,
 e
 quando
 hanno
 cresciuto
 i
 loro
 figli
 li
 hanno
 cresciuti
 con
 quella
lingua
locale.
La
patria
nel
Novecento
è
stata
una
patria
mobile.

 


Rispetto
ai
suoi
romanzi
iniziali,
negli
ultimi
c’è
un
distacco
dall’esperienza
 vissuta
 a
 favore
 di
 un
 maggiore
 esercizio
 della
 fantasia,
 come
 avviene
 in
 Montedidio
e
Il
giorno
prima
della
felicità.
Come
mai
questo
cambiamento?


Comunque
 non
 invento
 mondi.
 Mi
 sento
 autorizzato
 a
 usare
 la
 fantasia,
 però
dà
più
responsabilità,
non
è
che
può
succedere
qualunque
cosa
nei
 libri.
In
Montedidio
però
avviene
un
miracolo,
uno
di
quei
tanti
miracoli
 che
succedono.



Inoltre
nei
suoi
romanzi
iniziali
la
città
di
Napoli,
sfondo
di
molte
delle
sue
 storie,
 era
 sempre
 allusa
 e
 mai
 citata
 esplicitamente.
 Nei
 suoi
 ultimi
 romanzi,
invece,
lo
sfondo
napoletano
si
è
fatto
più
diretto.
Come
mai?


Quando
si
tratta
di
Napoli,
Napoli
non
è
uno
sfondo
ma
è
la
protagonista
 della
 storia.
 Il
 luogo
 è
 il
 protagonista
 della
 storia,
 e
 quella
 città
 è
 leggendaria
 e
 schiacciante.
 Se
 ci
 metti
 una
 storia
 dentro,
 quella


(8)

s’impregna
 dell’anima
 della
 città.
 La
 storia
 è
 un’appendice
 del
 luogo,
 Napoli
 comporta
 un
 grande
 protagonismo,
 e
 non
 credo
 ce
 ne
 sia
 meno
 nelle
storie
che
riguardano
questa
città.
C’è
sicuramente
meno
Napoli
ne
 “Il
peso
della
farfalla”,
che
uscirà
a
novembre
e
che
racconta
di
un
vecchio
 bracconiere
che
incontra
un
vecchio
camoscio.
E’
una
storia
che
si
svolge
 in
montagna.


 
 Napoli
è
una
“merce
che
si
vende
assai
bene”,
come
ha
detto
Onofri?


Napoli
 è
 una
 città
 leggendaria,
 e
 dunque
 chiunque
 la
 nomini
 ha
 una
 garanzia
 di
 ascolto.
 Chi
 nomina
 Napoli
 ha
 sicuramente
 un
 vantaggio
 di
 partenza.
 Se
 ne
 può
 parlare
 bene
 o
 male,
 ma
 alla
 fine
 Napoli
 rimane
 indifferente
al
grasso
delle
dicerie.



Come
mai
nei
suoi
romanzi
usa
il
solo
tempo
presente?


In
Tre
cavalli
è
più
marcato
il
tempo
presente
perché
lì
c’è
un
passato
che
 non
 riesce
 a
 passare,
 il
 protagonista
 non
 riesce
 neanche
 a
 nominare
 i
 verbi
al
passato.
In
“Tre
cavalli”
è
ossessivo,
altrove
non
mi
sembra
tanto.
 Comunque,
quando
racconto
una
storia
la
racconto
non
al
passato
ma
al
 presente,
o
meglio,
è
il
passato
che
si
sta
raccontando
al
presente.

 
 
 Cosa
indica
esattamente
il
“Sud
dell’anima”?


Una
 regione
 meridionale
 di
 questo
 composto
 che
 dovrebbe
 stare
 in
 ognuno
 di
 noi,
 c’è
 chi
 lo
 intende
 come
 immortalità,
 c’è
 chi,
 come
 me,
 lo
 intende
 come
 respiro,
 come
 prodotto
 della
 respirazione.
 In
 ebraico
 non


(9)

esiste
la
parola
“spirito”,
pneuma,
ruah
e
neshama
sono
tutti
termini
che
 rimandano
 al
 respiro,
 indicano
 soffio,
 respirazione,
 vento.
 Dunque,
 nel
 libro
più
spirituale
dell’Antico
Testamento
non
c’è
fisicamente
la
parola
 “anima”.



Nei
 suoi
 romanzi
 il
 sud
 può
 essere
 identificato
 come
 l’immagine
 del
 passato,
dell’origine
perduta?


Nel
sud
in
cui
sono
nato
io,
Napoli
era
una
città
del
sud,
non
solo
d’Italia
 ma
 anche
 del
 mondo,
 perché
 aveva
 la
 mortalità
 infantile
 più
 alta
 d’Europa,
 aveva
 milioni
 di
 emigranti
 sparpagliati
 in
 tutti
 il
 mondo
 e
 ne
 partivano
 continuamente,
 aveva
 una
 flotta
 degli
 Stati
 Uniti
 piantata
 nel
 golfo.
Era
perciò
il
più
grande
bordello
del
Mediterraneo,
poiché
l’indotto
 di
un
esercito
straniero
sono
la
droga,
la
prostituzione.
Oggi
è
una
città
 completamente
cambiata.
Diciamo
che
è
una
sfumatura
del
nord:
non
c’è
 quella
 mortalità
 infantile,
 non
 c’è
 lo
 sfruttamento
 della
 prostituzione
 come
fonte
di
reddito
principale,
non
c’è
tutta
quella
emigrazione
(anzi,
 c’è
un’immigrazione).
Dunque
è
una
città
del
nord
del
mondo,
e
quando
 parlo
 di
 quel
 sud
 parlo
 di
 un
 sud
 datato,
 piantato
 lì.
 Oggi
 non
 la
 posso
 nominare
 come
 città
 del
 sud,
 non
 esiste
 una
 questione
 meridionale
 da
 noi,
esiste
una
questione
meridionale
nel
mondo.
Oggi
il
sud
arriva
fino
a
 Lampedusa,
Napoli
è
completamente
nord.

 
 Che
cos’è
il
libro
per
lei?

 Per
me
era
un
oggetto
abituale,
sono
cresciuto
in
una
casa,
o
meglio,
in
 una
 stanza
 piena
 di
 libri.
 Ci
 ho
 vissuto,
 ci
 ho
 dormito,
 ci
 sono
 cresciuto


(10)

prima
ancora
di
sapere
che
cosa
fosse
quel
prodotto.
Sapevo
che
era
un
 materiale
isolante:
teneva
più
caldo
e
più
zitto
l’ambiente,
quindi
era
un
 oggetto
 affettuoso.
 Quando
 ho
 avuto
 l’età
 di
 sfogliarlo,
 ho
 approfittato
 abbondantemente
 della
 biblioteca
 di
 mio
 padre,
 dove
 non
 c’era
 nessun
 libro
per
l’infanzia
o
per
ragazzi.
Mio
padre
era
contento
che
il
figlioletto
 si
 appassionasse
 della
 sua
 stessa
 fissazione.
 Dunque
 il
 libro
 è
 stato
 per
 me
un
oggetto
di
arredamento
dell’infanzia.



Oggi
il
libro
è
diventato
un
oggetto
comune,
ma
ce
ne
ha
messo
di
tempo
 per
 diventarlo.
 Prima
 se
 uno
 aveva
 un
 libro
 non
 lo
 mostrava
 in
 giro,
 la
 città
era
piena
di
analfabeti
e
passeggiare
con
un
libro
voleva
dire
darsi
 delle
arie.
Il
libro
in
sé
è
comunque
uno
strumento
di
élite.



E
la
memoria?


Non
 è
 un
 deposito
 di
 cui
 io
 posseggo
 la
 chiave,
 non
 ne
 sono
 il
 proprietario.
Me
la
immagino
come
un
ghiacciaio
che
trattiene
dei
pezzi
 del
passato
e
ogni
tanto,
ritirandosi,
rilascia
delle
reliquie.
Mi
è
piaciuta
la
 storia,
vera
tra
l’altro,
del
ghiacciaio
che
ha
restituito
intatta
la
salma
di
 un
 ragazzo
 che
 vi
 si
 era
 disperso
 ormai
 da
 sessant’anni.
 Questi
 era
 fidanzato
con
una
signorina,
che
quando
la
salma
è
stata
ritrovata
aveva
 ormai
 raggiunto
 gli
 ottant’anni.
 Così
 lei
 ha
 potuto
 rincontrare
 il
 suo
 fidanzato,
 rivederlo
 quando
 aveva
 vent’anni.
 Così
 fa
 la
 memoria:
 ti
 permette
di
rivedere
dei
cadaveri
ben
conservati.



E’
 attraverso
 il
 rapporto
 con
 l’alterità
 che
 è
 possibile
 comprendere
 la
 propria
identità
o
tramite
la
ricerca
interiore?


(11)

C’entra
il
tempo
che
si
sta
attraversando.
Nel
mio
tempo,
quello
in
cui
io
 sono
 stato
 giovane,
 la
 mia
 generazione
 ha
 conosciuto
 se
 stessa
 sia
 in
 blocco
che
individualmente,
è
stata
una
fonte
di
conoscenza
generale.
Ho
 avuto
il
privilegio
di
appartenere
a
una
comunità
irriducibile,
intrattabile,
 che
 aveva
 moltissime
 regole
 e
 moltissime
 avversità
 e
 avversioni.
 Una
 generazione
molto
odiata
approfondisce
la
tua
identità,
noi
siamo
stati
la
 generazione
più
imprigionata
per
motivi
politici
di
tutta
storia
dell’Italia
 moderna,
 molto
 di
 più
 di
 quella
 imprigionata
 sotto
 il
 fascismo,
 per
 intenderci.
 Quella
 comunità
 e
 quella
 socialità
 ci
 hanno
 cambiato
 i
 connotati,
io
vengo
da
quell’esperienza,
cosa
succede
oggi
non
lo
so.

 
 A
cosa
servono
le
storie?
 A
tenermi
compagnia.
Una
volta
serviva
anche
a
trasmettere
l’esperienza.
 Per
esempio,
le
favole
sono
delle
dosi
omeopatiche
di
terrore.
I
bambini
 nascono
gremiti
di
terrori,
e
la
funzione
delle
favole
è
quella
di
sbriciolare
 questi
 terrori,
 renderli
 una
 materia
 masticabile
 e
 smaltibile.
 In
 una
 prigione,
invece,
le
storie
servono
a
guardare
lontano.


Quindi
 le
 storie
 hanno
 molte
 funzioni,
 ma
 deve
 passare
 a
 voce,
 non
 attraverso
i
documentari
e
i
libri.
I
libri
informano
e
documentano,
ma
la
 storia
ha
bisogno
del
tono
di
voce
di
quelli
che
l’hanno
vissuta,
del
tono
di
 voce
che
copre
tutta
la
gamma
di
sentimenti,
ha
bisogno
della
collera,
del
 rammarico,
della
commozione,
della
compassione,
dei
tutti
i
modi
in
cui
 si
può
raccontare
una
storia.

 
 La
narrativa
è
una
seconda
vita,
una
seconda
possibilità?



(12)

Sì.
 Nelle
 mie
 storie
 persone
 ed
 eventi
 accadono
 una
 seconda
 volta,
 la
 letteratura
 è
 la
 seconda
 possibilità
 che
 è
 data
 al
 mondo.
 Per
 chi
 legge
 i
 miei
 racconti
 le
 persone
 sono
 dei
 personaggi
 e
 gli
 eventi
 sono
 passaggi
 letterari,
mentre
per
me
è
solo
l’accaduto.
Non
posso
fare
andare
le
cose
 in
 maniera
 diversa,
 non
 si
 può
 cambiare
 la
 vita
 avvenuta
 ma
 si
 può
 correggerla,
dare
alle
persone
un’altra
possibilità
di
dirsi
quella
parola,
di
 scambiarsi
 un
 pezzo
 in
 più
 che
 la
 prima
 volta
 non
 sono
 riusciti
 a
 darsi
 perché
intanto
la
vita
scorreva.



La
 scrittura
 letteraria
 costituisce
 un
 rifugio,
 nel
 senso
 che
 accoglie
 gli
 “esuli”?

 Solo
la
narrativa
propria,
non
quella
degli
altri.
La
scrittura
sacra
non
è
 un
rifugio,
per
sua
intenzione
vuole
essere
una
guida
per
il
cammino.
La
 letteratura
invece
è
un
bene
di
rifugio.
C’è
un
racconto
scritto
da
un
ebreo
 russo,
Israil’
Metter,
che
si
intitola
Il
quinto
angolo
e
racconta
di
come
un
 uomo,
 in
 un
 commissariato
 di
 polizia,
 viene
 picchiato
 dai
 gendarmi
 che
 gli
 ordinano
 di
 cercare
 il
 quinto
 angolo
 della
 stanza,
 che
 non
 c’è.
 Esiste
 però
 davvero
 un
 quinto
 angolo,
 il
 punto
 di
 riparo
 in
 cui
 non
 si
 sentono
 più
le
percosse,
cioè
i
libri,
la
letteratura.
Aver
letto
libri
significa
averli
in
 testa
anche
in
un
posto
dove
non
c’è
niente,
dove
ti
tolgono
il
sonno,
la
 luce
e
le
parole.
La
letteratura
è
la
sporgenza
sotto
la
quale
proteggere
la
 propria
vita
dai
colpi.

 
 La
letteratura
di
oggi
in
che
direzione
va?
 La
nostra
è
una
letteratura
minore.
La
letteratura
del
dopoguerra,
invece,
 era
 a
 ridosso
 del
 più
 bel
 cinema
 del
 mondo,
 che
 era
 il
 nostro.
 Era
 un
 cinema
vivace,
pieno
di
idee
di
produttori
che
rischiavano
in
proprio,
di


(13)

una
 comunità
 che
 lavorava
 bene,
 di
 aritigiani
 capacissimi.
 E
 poi
 c’era
 un’Italia
che
voleva
sentirsi
raccontare,
esausta
di
vent’anni
di
menzogne.
 L’Italia
 allora
 era
 molto
 curiosa,
 voleva
 sapere
 chi
 era,
 e
 quel
 cinema
 glielo
 raccontava.
 La
 letteratura
 del
 dopoguerra
 si
 è
 perciò
 buttata
 a
 capofitto
 a
 scrivere
 per
 il
 cinema,
 dunque
 è
 stata
 una
 letteratura
 “a
 rimorchio”
del
cinema.



Oggi
 sia
 il
 cinema
 che
 la
 letteratura
 sono
 minori,
 s’impicciano
 poco
 dei
 suoi
 (dei
 nostri)
 temi
 principali.
 Io
 credo
 che
 oggi
 la
 materia
 narrativa
 principale
 siano
 i
 viaggi
 dei
 migratori.
 Storie
 gigantesche,
 omeriche,
 procurate
da
circostanze
di
cui
noi
siamo
un
accidente
in
chiave.
Non
c’è
 chi
 racconta
 di
 quei
 viaggi
 colossali,
 la
 letteratura
 non
 approfitta
 di
 questa
enorme
materia.



La
nostra
letteratura
ha
comunque
saltato
i
temi
importanti,
ad
esempio
 non
 c’è
 un
 romanzo
 sulle
 leggi
 razziali,
 questo
 è
 un
 tema
 che
 è
 stato
 saltato.
Il
giardino
dei
Finzi­Contini
è
una
favoletta
locale,
borghese,
è
uno
 sfondo
più
che
altro.
Più
belli
sono
i
film
di
De
Sica,
che
ha
dato
almeno
il
 giusto
 contrappeso
 all’argomento.
 Non
 ci
 sono
 neanche
 racconti
 sulla
 resistenza:
Fenoglio
è
cinema
americano.



Quindi
 la
 nostra
 letteratura
 è
 minore,
 lo
 è
 stata
 anche
 quando
 c’erano
 delle
vere
storie
da
raccontare,
e
a
maggior
ragione
lo
è
adesso.
Credo
che
 dovremo
aspettare
uno
scrittore
arrivato
nella
lingua
italiana,
che
viene
 dall’esperienza
della
migrazione,

magari
di
seconda
generazione,
il
figlio
 o
il
nipote
di
un
immigrato.
Quindi
si
dovrà
aspettare
ancora
un
po’.

 
 Ci
sono
dei
messaggi
che
vorrebbe
inviare
tramite
la
sua
narrativa?
 No.
Quando
voglio
mandare
messaggi
li
mando,
non
nascondo
niente
da
 nessuna
 parte.
 I
 soli
 messaggi
 presenti
 nei
 libri
 sono
 quelli
 che
 uno
 si


(14)

prende,
quelli
che
uno
riesce
a
prendere
da
una
storia,
a
combinarlo
con
 la
propria
esperienza,
con
la
propria
vita.



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