APPENDICE
Dialogo con Erri De Luca
L’intervista che segue nelle prossime pagine è più che altro un monologo guidato da spunti di conversazione, un tentativo di chiarire alcuni punti della poetica di Erri De Luca, sia quelli resi noti dalle letture critiche, sia quelli che si sono ipotizzati. Vengono riproposte le opinioni di Erri De Luca su temi come la “seconda volta” narrativa, la ricerca di un’appartenenza, la scrittura, la lettura, l’autobiografia, il ’68 e gli anni della lotta politica, la città di Napoli, il rapporto con la lingua italiana e con il passato, la letteratura del Novecento e quella attuale, fornendo spunti di riflessione sulle sue opere, vecchie e nuove.
L’incontro con l’autore è avvenuto a Cesano di Roma il 25 settembre 2009.
Ha detto spesso che nei suoi romanzi non riproduce i fatti come in un verbale, ma ricostruisce invece il passato come una “seconda possibilità”. Che valore ha dare alle storie una “seconda volta”?
Nessun valore di scambio, cioè nessun valore buono per gli altri, ma solo un valore d’uso per me. Siccome dimentico, quando mi ricordo qualcosa, qualche dettaglio, qualche persona, allora riesco a stare di nuovo insieme a quella persona e a quel pezzo del passato. Scrivere in questo modo è tenermi compagnia, dare a un pezzo di vita svolta una seconda possibilità, che è quella della scrittura. La scrittura fa avvenire la storia una seconda volta, ma certamente non con l’andatura della prima volta. Sceglie, condensa: le persone che si rincontrano in una storia una
seconda volta riducono all’essenziale il loro scambio, nel bene e nel male. Si amano, si colpiscono, si feriscono nella maniera più immediata possibile, levando di mezzo il tempo che c’è stato e nel quale uno non sapeva cosa era importante e cosa non lo era.
Lasciare Napoli ha rappresentato una frattura con le origini, l’acquisizione dello status di “napolide”. E’ possibile lo smaltimento dell’esilio dall’origine, sviluppare una nuova appartenenza al luogo abbandonato o a un altro luogo?
No. Staccarsi dall’origine è una rinuncia che, se non forzata come è stata invece per il Novecento (un secolo che ha sradicato comunità intere e le ha sparpagliate altrove, lontano), se non dipende da questa necessità della storia maggiore ma si tratta solo di storia minore, allora il distacco è avvenuto già da prima: c’è stata una rinuncia all’appartenenza. Per uno che viene da Napoli, poi, credo che la possibilità di attecchire altrove sia impossibile, ovvero la stessa possibilità che può avere un dente estratto da una mascella di infilarsi dentro un’altra mascella, con le sue radici. Non ce la fa, non c’è un’altra mascella, quindi chi se ne va di lì se ne va in giro con le sue radici ballonzolanti, che lo fanno traballare e non si impiantano più in nessun posto. I suoi romanzi sono improntati dall’autobiografia. L’autobiografia aiuta a conoscersi? Non lo so. Può anche aiutare a camuffarsi, a imbrogliare le carte. Diffido delle autobiografie, ma mi piace che ci sia un “io” narrante nella storia. Io scrivo solo storie che hanno un “io” narrante, quell’“io”che racconta per
me è più credibile. Quando leggo nei romanzi la terza persona, espressioni come “egli pensò”, mi domando sempre come fa lo scrittore a sapere quell’ “egli” che pensò. Sarebbe un “egli” inconsistente, un burattino mosso da un puparo. La terza persona è fastidiosa per me, mi distrae.
La scrittura offre la possibilità di dare una “seconda volta” alla vita, alle storie. E’ un tentativo di ricercare un nuovo radicamento nella realtà, oltre la realtà stessa?
No. E’ la felicità di ricordarsi una cosa, e un modo per tenersi compagnia. E’ vero che quando uno scrive una storia accaduta, anche da un punto di vista unilaterale, con un “io” narrante che la sta raccontando, quella storia ha la pretesa di essere la versione definitiva dell’accaduto. La scrittura ha questa prepotenza, da cui io mi difendo. So che quello che ho scritto è una versione che poteva essere raccontata in maniera diversa e opposta da un’altra persona che era coinvolta nella stessa storia.
Questa “seconda volta” narrativa è espressione della nostalgia, che caratterizza parte della letteratura italiana del tardo Novecento?
No. Nella scrittura sento la vita una seconda volta, ho la fortuna di avere un pezzetto restituito dal passato. Ma non ho nostalgia, non vorrei tornare in nessuna delle stazioni passate, nemmeno nell’innocenza.
La “comunità aperta” dei lettori, commentatori e studiosi delle Sacre Scritture rappresenta per lei una seconda appartenenza?
Non posso usare la parola “appartenenza” per quella comunità. Non mi sento di appartenere a una comunità, ma piuttosto a quelle scritture, a quel libro. Leggo con molto piacere le storie sacre, rinnovo questo piacere a ogni risveglio e ricevo da quella lettura molto più amore di quanto possa restituire o testimoniare. Ho studiato l’ebraico antico e questo mi ha permesso di avvicinarmi, brancolando, a una lingua madre del sacro. Provo un attaccamento molto forte a quella lingua, al punto di volerla tradurre nel modo più utile al ricalco. Quella lingua contiene la forza di una volontà di imposizione, oltre che di trasporto, di rivelazione, consegna di compiti, affetto, anche amore. Lei si è interessato alla scrittura sacra dichiarandosi uno studioso dei testi biblici e non un fedele. Cosa pensa della Bibbia non come testo religioso, ma come “romanzo”?
La Bibbia non è letteratura, nel senso che la letteratura vuole sempre conquistarsi il suo lettore, tirarlo dentro. Quel libro invece no, ignora di avere un lettore, è una storia chiusa in se stessa, molto intensa e violenta. Quella divinità impianta il suo monoteismo in una terra (il Mediterraneo) infestata dal politeismo, riesce ad espiantare la moltitudine di credenze e culti. E’ un culto sovrapposto, e il termine “sincretismo” indica i limiti che non è riuscito a valicare, è una sorta di compromesso. Ma quelle storie non sono letteratura, da un punto di vista letterario sono illeggibili, e se uno le vuole per godimento non ne ricava niente. Sono storie che prevedono una condizione desertica in chi le incontra, la scrittura sacra non è un libro per quieti, ma è un libro “senza tetto”.
Lei ha tradotto i testi biblici dall’ebraico. Alcuni sostengono che la sua scrittura, priva degli stilemi tipici della narrativa italiana, abbia un’affinità con la solennità della Scrittura Sacra. Cosa ne pensa?
Escludo la contaminazione e soprattutto il paragone con il testo sacro. Scrivere è un modo per tenermi compagnia. Quando scrivo sento le voci di chi parla, e i toni di voce, o meglio le voci narranti, cambiano sempre. Dipende dalla componente fisica e biologica dell’io narrante, da quello che ha vissuto. In Tre cavalli a parlare è un uomo di cinquant’anni, in Montedidio un bambino di tredici. Ospito la voce di questi personaggi, e questo determina l’acustica che governa la mia scrittura. E’ a forza di scrivere che mi è uscita questa scrittura, non saprei dire se è uno stile, per me è una specie di stenografia della vita, un resto della vita che si è svolta.
Il movimento del ’68 hanno rappresentato una rottura epocale con la generazione precedente, e anche questo può essere considerato un “distacco dalle origini”: l’adesione all’ideologia politica e alla militanza ha rappresentato, almeno per un breve periodo, una “nuova appartenenza”? Sì. Io ho trovato appartenenza in una generazione politica di insorti, nella quale mi sono trovato coinvolto, essendo loro contemporaneo, dal 1968 fino al 1980. A quella ho appartenuto, mi ha dato appartenenza e diritto, mi ha fornito ricordi. Ho conosciuto quella generazione in lungo e in largo, eravamo molto numerosi, il più numeroso dei pronomi “noi” che sono stati usati dalle nostre parti. Quella generazione mi ha dato appartenenza e quando si è dissolta mi ha fornito un esilio. Io sono in esilio dal disgregamento di quella generazione.
La sua generazione è cresciuta con un’esigenza di risposte per la vicinanza cronologica alla guerra più disastrosa della Storia, appresa dalla vecchia generazione attraverso i racconti. La militanza è stata una sorta di reazione a una catastrofe che la vecchia generazione avrebbe invece voluto rimuovere, un farsi carico delle “colpe dei padri”?
Il Novecento è stato un secolo che ha spostato i rapporti di forza tra oppressori e oppressi con le rivoluzioni. E’ andata così, e in quella seconda metà del Novecento in cui ho vissuto, il mondo era pieno di rivoluzioni e la parola rivoluzione era all’ordine del giorno. Con le rivoluzioni si liberavano e si ribellavano popoli a imperi coloniali e ai fascisti. Noi non siamo stati contemporanei di questo, ma abbiamo semplicemente obbedito alla parola d’ordine del Novecento. E’ stata un’accettazione di eredità, oggi ampiamente scaduta, ma noi l’abbiamo accettata.
Anche a queste lotte si può dare una “seconda volta”?
Si può sempre dare una seconda volta. Io lo faccio, nelle mie storie ci sono passaggi e momenti di quel tempo (tredici anni, tutta la giovinezza e anche qualcosa di più). Ne parla anche il cinema, in maniera per me molto goffa e dall’esterno: tutti i cinematografari e gli scrittori che si sono avviati in quest’impresa o hanno fatto testimonianza perché erano interni, o hanno fatto “ricotta”.
In Alzaia ha detto che la sua patria è la lingua italiana, perché è una lingua “raggiunta”. D’altronde lei si definisce non uno “scrittore italiano” ma uno “scrittore in italiano”. Dunque la patria non è un luogo fisico, ma più che
altro una condizione interiore che deve essere appunto raggiunta, conquistata?
Da noi durante l’emigrazione si diceva “la patria è quella che ti dà da mangiare”. Non è semplicemente una formula per dire “vado dove mi conviene”, è invece una precisa denuncia di una patria che non ti dà da mangiare né il diritto di lavorare per conquistare il necessario per vivere, e che dunque patria non è. Per questo gli emigranti, non appena sbarcati in nuovi territori, hanno immediatamente abbracciato le nuove lingue che c’erano, e quando hanno cresciuto i loro figli li hanno cresciuti con quella lingua locale. La patria nel Novecento è stata una patria mobile.
Rispetto ai suoi romanzi iniziali, negli ultimi c’è un distacco dall’esperienza vissuta a favore di un maggiore esercizio della fantasia, come avviene in Montedidio e Il giorno prima della felicità. Come mai questo cambiamento?
Comunque non invento mondi. Mi sento autorizzato a usare la fantasia, però dà più responsabilità, non è che può succedere qualunque cosa nei libri. In Montedidio però avviene un miracolo, uno di quei tanti miracoli che succedono.
Inoltre nei suoi romanzi iniziali la città di Napoli, sfondo di molte delle sue storie, era sempre allusa e mai citata esplicitamente. Nei suoi ultimi romanzi, invece, lo sfondo napoletano si è fatto più diretto. Come mai?
Quando si tratta di Napoli, Napoli non è uno sfondo ma è la protagonista della storia. Il luogo è il protagonista della storia, e quella città è leggendaria e schiacciante. Se ci metti una storia dentro, quella
s’impregna dell’anima della città. La storia è un’appendice del luogo, Napoli comporta un grande protagonismo, e non credo ce ne sia meno nelle storie che riguardano questa città. C’è sicuramente meno Napoli ne “Il peso della farfalla”, che uscirà a novembre e che racconta di un vecchio bracconiere che incontra un vecchio camoscio. E’ una storia che si svolge in montagna. Napoli è una “merce che si vende assai bene”, come ha detto Onofri?
Napoli è una città leggendaria, e dunque chiunque la nomini ha una garanzia di ascolto. Chi nomina Napoli ha sicuramente un vantaggio di partenza. Se ne può parlare bene o male, ma alla fine Napoli rimane indifferente al grasso delle dicerie.
Come mai nei suoi romanzi usa il solo tempo presente?
In Tre cavalli è più marcato il tempo presente perché lì c’è un passato che non riesce a passare, il protagonista non riesce neanche a nominare i verbi al passato. In “Tre cavalli” è ossessivo, altrove non mi sembra tanto. Comunque, quando racconto una storia la racconto non al passato ma al presente, o meglio, è il passato che si sta raccontando al presente. Cosa indica esattamente il “Sud dell’anima”?
Una regione meridionale di questo composto che dovrebbe stare in ognuno di noi, c’è chi lo intende come immortalità, c’è chi, come me, lo intende come respiro, come prodotto della respirazione. In ebraico non
esiste la parola “spirito”, pneuma, ruah e neshama sono tutti termini che rimandano al respiro, indicano soffio, respirazione, vento. Dunque, nel libro più spirituale dell’Antico Testamento non c’è fisicamente la parola “anima”.
Nei suoi romanzi il sud può essere identificato come l’immagine del passato, dell’origine perduta?
Nel sud in cui sono nato io, Napoli era una città del sud, non solo d’Italia ma anche del mondo, perché aveva la mortalità infantile più alta d’Europa, aveva milioni di emigranti sparpagliati in tutti il mondo e ne partivano continuamente, aveva una flotta degli Stati Uniti piantata nel golfo. Era perciò il più grande bordello del Mediterraneo, poiché l’indotto di un esercito straniero sono la droga, la prostituzione. Oggi è una città completamente cambiata. Diciamo che è una sfumatura del nord: non c’è quella mortalità infantile, non c’è lo sfruttamento della prostituzione come fonte di reddito principale, non c’è tutta quella emigrazione (anzi, c’è un’immigrazione). Dunque è una città del nord del mondo, e quando parlo di quel sud parlo di un sud datato, piantato lì. Oggi non la posso nominare come città del sud, non esiste una questione meridionale da noi, esiste una questione meridionale nel mondo. Oggi il sud arriva fino a Lampedusa, Napoli è completamente nord. Che cos’è il libro per lei? Per me era un oggetto abituale, sono cresciuto in una casa, o meglio, in una stanza piena di libri. Ci ho vissuto, ci ho dormito, ci sono cresciuto
prima ancora di sapere che cosa fosse quel prodotto. Sapevo che era un materiale isolante: teneva più caldo e più zitto l’ambiente, quindi era un oggetto affettuoso. Quando ho avuto l’età di sfogliarlo, ho approfittato abbondantemente della biblioteca di mio padre, dove non c’era nessun libro per l’infanzia o per ragazzi. Mio padre era contento che il figlioletto si appassionasse della sua stessa fissazione. Dunque il libro è stato per me un oggetto di arredamento dell’infanzia.
Oggi il libro è diventato un oggetto comune, ma ce ne ha messo di tempo per diventarlo. Prima se uno aveva un libro non lo mostrava in giro, la città era piena di analfabeti e passeggiare con un libro voleva dire darsi delle arie. Il libro in sé è comunque uno strumento di élite.
E la memoria?
Non è un deposito di cui io posseggo la chiave, non ne sono il proprietario. Me la immagino come un ghiacciaio che trattiene dei pezzi del passato e ogni tanto, ritirandosi, rilascia delle reliquie. Mi è piaciuta la storia, vera tra l’altro, del ghiacciaio che ha restituito intatta la salma di un ragazzo che vi si era disperso ormai da sessant’anni. Questi era fidanzato con una signorina, che quando la salma è stata ritrovata aveva ormai raggiunto gli ottant’anni. Così lei ha potuto rincontrare il suo fidanzato, rivederlo quando aveva vent’anni. Così fa la memoria: ti permette di rivedere dei cadaveri ben conservati.
E’ attraverso il rapporto con l’alterità che è possibile comprendere la propria identità o tramite la ricerca interiore?
C’entra il tempo che si sta attraversando. Nel mio tempo, quello in cui io sono stato giovane, la mia generazione ha conosciuto se stessa sia in blocco che individualmente, è stata una fonte di conoscenza generale. Ho avuto il privilegio di appartenere a una comunità irriducibile, intrattabile, che aveva moltissime regole e moltissime avversità e avversioni. Una generazione molto odiata approfondisce la tua identità, noi siamo stati la generazione più imprigionata per motivi politici di tutta storia dell’Italia moderna, molto di più di quella imprigionata sotto il fascismo, per intenderci. Quella comunità e quella socialità ci hanno cambiato i connotati, io vengo da quell’esperienza, cosa succede oggi non lo so. A cosa servono le storie? A tenermi compagnia. Una volta serviva anche a trasmettere l’esperienza. Per esempio, le favole sono delle dosi omeopatiche di terrore. I bambini nascono gremiti di terrori, e la funzione delle favole è quella di sbriciolare questi terrori, renderli una materia masticabile e smaltibile. In una prigione, invece, le storie servono a guardare lontano.
Quindi le storie hanno molte funzioni, ma deve passare a voce, non attraverso i documentari e i libri. I libri informano e documentano, ma la storia ha bisogno del tono di voce di quelli che l’hanno vissuta, del tono di voce che copre tutta la gamma di sentimenti, ha bisogno della collera, del rammarico, della commozione, della compassione, dei tutti i modi in cui si può raccontare una storia. La narrativa è una seconda vita, una seconda possibilità?
Sì. Nelle mie storie persone ed eventi accadono una seconda volta, la letteratura è la seconda possibilità che è data al mondo. Per chi legge i miei racconti le persone sono dei personaggi e gli eventi sono passaggi letterari, mentre per me è solo l’accaduto. Non posso fare andare le cose in maniera diversa, non si può cambiare la vita avvenuta ma si può correggerla, dare alle persone un’altra possibilità di dirsi quella parola, di scambiarsi un pezzo in più che la prima volta non sono riusciti a darsi perché intanto la vita scorreva.
La scrittura letteraria costituisce un rifugio, nel senso che accoglie gli “esuli”? Solo la narrativa propria, non quella degli altri. La scrittura sacra non è un rifugio, per sua intenzione vuole essere una guida per il cammino. La letteratura invece è un bene di rifugio. C’è un racconto scritto da un ebreo russo, Israil’ Metter, che si intitola Il quinto angolo e racconta di come un uomo, in un commissariato di polizia, viene picchiato dai gendarmi che gli ordinano di cercare il quinto angolo della stanza, che non c’è. Esiste però davvero un quinto angolo, il punto di riparo in cui non si sentono più le percosse, cioè i libri, la letteratura. Aver letto libri significa averli in testa anche in un posto dove non c’è niente, dove ti tolgono il sonno, la luce e le parole. La letteratura è la sporgenza sotto la quale proteggere la propria vita dai colpi. La letteratura di oggi in che direzione va? La nostra è una letteratura minore. La letteratura del dopoguerra, invece, era a ridosso del più bel cinema del mondo, che era il nostro. Era un cinema vivace, pieno di idee di produttori che rischiavano in proprio, di
una comunità che lavorava bene, di aritigiani capacissimi. E poi c’era un’Italia che voleva sentirsi raccontare, esausta di vent’anni di menzogne. L’Italia allora era molto curiosa, voleva sapere chi era, e quel cinema glielo raccontava. La letteratura del dopoguerra si è perciò buttata a capofitto a scrivere per il cinema, dunque è stata una letteratura “a rimorchio” del cinema.
Oggi sia il cinema che la letteratura sono minori, s’impicciano poco dei suoi (dei nostri) temi principali. Io credo che oggi la materia narrativa principale siano i viaggi dei migratori. Storie gigantesche, omeriche, procurate da circostanze di cui noi siamo un accidente in chiave. Non c’è chi racconta di quei viaggi colossali, la letteratura non approfitta di questa enorme materia.
La nostra letteratura ha comunque saltato i temi importanti, ad esempio non c’è un romanzo sulle leggi razziali, questo è un tema che è stato saltato. Il giardino dei FinziContini è una favoletta locale, borghese, è uno sfondo più che altro. Più belli sono i film di De Sica, che ha dato almeno il giusto contrappeso all’argomento. Non ci sono neanche racconti sulla resistenza: Fenoglio è cinema americano.
Quindi la nostra letteratura è minore, lo è stata anche quando c’erano delle vere storie da raccontare, e a maggior ragione lo è adesso. Credo che dovremo aspettare uno scrittore arrivato nella lingua italiana, che viene dall’esperienza della migrazione, magari di seconda generazione, il figlio o il nipote di un immigrato. Quindi si dovrà aspettare ancora un po’. Ci sono dei messaggi che vorrebbe inviare tramite la sua narrativa? No. Quando voglio mandare messaggi li mando, non nascondo niente da nessuna parte. I soli messaggi presenti nei libri sono quelli che uno si
prende, quelli che uno riesce a prendere da una storia, a combinarlo con la propria esperienza, con la propria vita.