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Le pitture murali della camera della Castellana a Palazzo Davanzati.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA` DEGLI STUDI DI PISA

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di laurea in Storia e Forme delle Arti Visive

dello Spettacolo e dei Nuovi Media

TESI DI LAUREA

Le pitture murali della Camera

della Castellana a Palazzo Davanzati

RELATORE CORRELATORE

Prof. Marco Collareta Prof. Christian Rivoletti

Candidato

Paolo Santagata

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I giorni di pioggia non portano brutte notizie, così come quelli di sole non né portano di buone 7\11\20

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INDICE

INTRODUZIONE………pag. 5

1.Le origini della tesi………pag. 5 2.La struttura della tesi……….pag. 6

CAPITOLO I……….pag. 8

1. La questione delle immagini nell’arte cristiana………....pag. 8 2. Tra scrittura e immagini………...pag. 13 3. L’immagine sacra nel contesto ecclesiastico e in quello laico ………...pag. 18 4. Dalla letteratura all’arte profana ………pag. 22 5. L’arte del palazzo. Il caso di Firenze nel XIV secolo………pag. 26

CAPITOLO II………...pag. 38

1. La storia dell’edificio………...pag. 38 2. Il palazzo nello stato attuale: una descrizione……….pag. 44 3. La Camera della Castellana……….pag. 47 4. Il ciclo pittorico della Camera della Castellana..………pag. 49 5. I restauri………...pag. 51 6. Le condizioni delle pitture murali oggi in una nota sul restauro della camera della Castellana………pag. 55 7. Confronto delle fotografie Alinari con le fotografie odierne del ciclo pittorico della Camera della Castellana………..pag. 57 8. I motivi principali del ciclo narrativo………..pag. 59 9. Questioni di attribuzione………pag. 63

CAPITOLO III……….pag. 75

1. La Châtelaine de Vergy………pag. 75 2. La Châtelaine in Italia………..pag. 80

3. Cantari e canterini………...pag. 80

4. Le edizioni del cantare italiano………....pag. 83

5. Le differenze sostanziali tra la Châtelaine e La Dama del Vergiù ……….pag. 88

6. La datazione interna………... .pag. 92 7. Domenico De Robertis e i manoscritti……….pag. 93

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8. Conclusioni sul versante italiano per la datazione………...pag. 94 9. Esempi della fortuna del testo francese………...pag. 94 10. Una versione cinquecentesca della Castellana: la novella Sesta della Quarta parte delle Novelle di Matteo Bandello……….pag. 95

CAPITOLO IV……….pag. 98

1. Un breve riepilogo………...pag. 98 2. Scene del ciclo e parti del testo………...pag. 99 3. Gli elementi che avvicinano il ciclo al cantare italiano………..pag. 110 4. Tematiche particolari: il gioco degli scacchi……….pag. 112 5. Tematiche particolari: il suicidio.………...pag. 116

CONCLUSIONI……….pag. 128 1.Alla luce di quanto scritto………...pag. 128

2. Conclusioni sulla parte letteraria………..,pag. 128 3. Conclusioni sulla parte storico artistica………pag. 129

APPENDICE………..pag. 132 APPENDICE………..pag. 149 BIBLIOGRAFIA……… …....…...pag. 170 SITOGRAFIA………pag. 178 SITOGRAFIA DELLE FOTOGRAFIE……….pag. 179

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INTRODUZIONE

(1. Le origini della tesi p. 5; 2. La struttura della tesi p. 6)

1. Le origini della tesi

Gentile professore Collareta,

Le scrivo questa email da Ratisbona, università presso la quale sto facendo la mia esperienza di studio all'estero. Le scrivo riguardo al mio progetto di tesi magistrale; durante questo periodo di studi ho avuto modi di incontrare il professor Christian Rivoletti, docente presso l'università di Erlangen per la cattedra dell'istituto di Romanistica. Parlando insieme della mia esperienza universitaria e della tesi triennale sugli affreschi di palazzo Davanzati, il professore ha esposto il suo interesse per il lavoro da me svolto e mi ha incoraggiato a continuare sulla stessa linea di ricerca. Nello stesso tempo si è offerto come correlatore per questa eventuale tesi. Già verso la fine del mio lavoro mi era venuto in mente di portare avanti la ricerca triennale e soffermami sulla ricezione del testo della Castellana di Vergy in altri reperti storico-artistici, ai quali mi ero limitato a far cenno durante il lavoro precedente (il pettine del Bargello, un ciclo di cofanetti in avorio). Se accogliessimo la proposta di Rivoletti, potrei continuare a sviluppare una tipo di ricerca che vedrebbe andare in parallelo l’analisi testuale (con le sue varianti) e quella storico-artistica. Il lavoro sarebbe valorizzato dalla supervisione del professor Rivoletti per l'aspetto letterario.

Ringraziandola in anticipo per la pazienza e scusandomi per la lunghezza dell’email.

Un cordiale saluto

Paolo Santagata

(email del 16\06\19 da P. Santagata a M. Collareta)

Con questa email ha avuto inizio il progetto di questa tesi magistrale. Sebbene la cotutela con l’università di Erlangen non si sia mai realizzata, la mia ricerca è proceduta nella direzione che ci eravamo prefissati e ha cercato di approfondire alcuni aspetti che non erano stati sufficientemente trattati nell’elaborato triennale. Maggior respiro è stato dato alla parte riguardante la storia del palazzo e la storia degli interventi di restauro.

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Nello stesso tempo, grazie alla proficua collaborazione con il professor Rivoletti, la parte letteraria ha beneficiato di un notevole sviluppo, soprattutto per quanto riguarda la tradizione manoscritta e a stampa.

2. La struttura della tesi

La tesi è composta da una introduzione, quattro capitoli, due appendici e le conclusioni. Ciascun capitolo affronta temi generali, all’interno dei quali i paragrafi trattano aspetti specifici. Le immagini sono collocate alla fine di ogni capitolo.

Il primo capitolo descrive sinteticamente alcuni aspetti della lunga storia del rapporto che intercorre tra immagini dipinte e testo scritto. Mi è sembrato utile, infatti, fare un veloce excursus sulla concezione delle immagini nell’epoca medievale, cioè nel periodo a cui risalgono le pitture murali di Palazzo Davanzati da un lato, i testi narrativi con i quali essi si confrontano dall’altro. Il capitolo illustra il processo di accettazione e inquadramento dell’uso delle immagini nel culto cristiano e, successivamente, nel contesto culturale laico, partendo dai primi scritti dei padri della Chiesa in epoca paleocristiana fino alla Vita nova di Dante Alighieri. Passi tratti da opere letterarie, miniature e frammenti di affreschi guidano il lettore in questo primo capitolo, che disegna un percorso che inizia con la lettera pontificia di Gregorio Magno per arrivare all’interno della camera della Castellana a Palazzo Davanzati a Firenze.

Il secondo capitolo è focalizzato sul Palazzo Davanzati e in particolare sulla camera matrimoniale che ospita il ciclo, sulle vicende storiche che hanno interessato il palazzo e sulla storia delle famiglie che lo hanno abitato: la famiglia Davizzi e successivamente quella Davanzati. Una descrizione generale del palazzo fornisce alcuni dati essenziali di ambito architettonico e guida velocemente il lettore al nucleo della tesi: le pitture della camera. Infine la storia dei restauri che coinvolsero il palazzo agli inizi del Novecento fornisce una panoramica sia degli interventi che hanno riguardato il ciclo sia delle criticità della sua lettura dovuta proprio ai primi interventi novecenteschi.

Il terzo capitolo, di carattere letterario, delinea il percorso del racconto che è all’origine del ciclo pittorico: dal pometto francese La Châtelaine de Vergy, fino al cantare italiano

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anche l’evoluzione del genere del cantare e la fortuna del volgarizzamento italiano nella tradizione manoscritta e a stampa.

Per quanto riguarda il cantare, si avanzano ipotesi circa la datazione. Nuova invece è la discussione intorno a una possibile attribuzione del cantare ad Antonio Pucci, avanzata di recente da uno studio di Alessio Ricci1. Fra le possibili fonti per alcune scene che sono presenti nel cantare ma non nel poemetto francese della Châtelaine, vengono presi in considerazione il romanzo arturiano di Tristano e la sua redazione italiana ovvero il

Tristano riccardiano.

Il capitolo quarto descrive dettagliatamente il ciclo pittorico. Sulla parete il racconto figurato non è unitario, ma continuamente intervallato da una struttura ad archi ad esso sovrapposta che, a volte, impedisce di isolare le singole scene. Il primo compito, dunque, è stato quello di identificare le scene, mettendole a confronto con i passi corrispondenti del racconto scritto. Dal confronto sono emerse sia le strategie tecniche che il pittore ha utilizzato per adattare la storia del cantare alla rappresentazione visiva, sia le differenze tra il testo e il ciclo. In alcuni casi l’analisi ha consentito di modificare o di mettere in discussione le descrizioni del ciclo che erano state precedentemente fatte2.

Due scene del ciclo, la partita a scacchi tra il cavaliere e la duchessa e il suicidio con la spada dei due amanti, sono state analizzate in rapporto con la tradizione letteraria italiana e francese.

Due appendici completano la tesi. La prima dedicata alla produzione dei cofanetti in avorio, che riportano la storia del pometto francese. Questa appendice, di carattere compilativo generale, contiene la descrizione dei cofanetti e la storia della placchetta del Museo Nazionale del Bargello; punto di contatto con le nostre pitture a Palazzo Davanzati.

Per utilità del lettore la seconda appendice contiene il testo della Dama del Vergiù secondo la recente edizione di Roberta Manetti3.

1 A. Ricci, “La Dama del Verzù”: un altro cantare di Antonio Pucci?, in “Studi di filologia italiana”, 74,

2017.

2 Si veda W. Bombe, La Cha telaine de Vergy en Italie, “Gazette des Beaux-arts”, 5, 15, 1927 e B. Teodori, Palazzo Davanzati e Firenze, Edifir, Firenze, 2017.

3 R. Manetti, La Dama del Verzù, in Cantari Novellistici: dal Tre al Cinquecento, Volume I, a cura di E.

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CAPITOLO

I

Testi e immagini

(1. La questione delle immagini nell’arte cristiana p. 8, 2. Tra scrittura e immagini, p. 13, 3. L’immagine sacra nel contesto ecclesiastico e in quello laico p. 18, 4. Dalla

letteratura all’arte profana p. 22, 5. L’arte del palazzo. Il caso di Firenze nel XIV secolo

p. 26)

1. La questione delle immagini nell’arte cristiana

Fin dalle origini, nella religione giudaica il divieto veterotestamentario che proibiva la rappresentazione di Dio in qualsiasi forma aveva determinato una tradizione artistica aniconica. Lo scopo del comandamento era di impedire che gli ebrei facessero uso di idoli, e che quindi cadessero nell’idolatria, praticata invece dalle popolazioni con le quali il popolo giudaico veniva in contatto. Nella sua introduzione Fides ex visu? La questione

delle immagini visive nella storia cristiana, in La Chiesa e le immagini4, Daniele Menozzi afferma che il popolo ebraico, nella sua lunga storia, ha applicato la norma con discontinuità, perché solo nei periodi in cui il pericolo dell’idolatria era effettivo veniva posta l’interdizione assoluta, mentre in altri momenti vigeva una certa libertà: il che potrebbe giustificare la presenza di immagini, raffiguranti animali e figure umane, in alcune sinagoghe (come quella di Cafarnao o Dura Europos) in determinati momenti della storia ebraica. Sempre secondo Menozzi, resta tuttavia aperta la questione se queste immagini avessero solo uno scopo puramente ornamentale o se invece avessero una funzione cultuale. Sicuramente il cristianesimo, che ha origini dall’ebraismo, aveva ereditato una simile ambiguità nell’uso delle immagini.

Già nei primi secoli i cristiani manifestarono una netta opposizione alle immagini utilizzate a scopo di culto. Anche in questo caso si trattava di marcare la differenza tra la nuova religione e quella pagana che ammetteva invece pratiche idolatriche, come quella di adorare la statua dell’imperatore. Nell’Ottavio di Minucio Felice, un’opera redatta agli inizi del III secolo, si trova una delle più nette prese di posizione a favore della totale

4 D. Menozzi, La Chiesa e le immagini. I testi fondamentali sulle arti figurative dalle origini ai nostri giorni, San Paolo, Milano, 1995.

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spiritualizzazione del culto, ritenuta un fattore di superiorità del popolo cristiano su quello pagano. L’autore si scaglia in particolare modo contro le statue, simbolo della religione pagana:

Chi non sa che i plebei pregano e adorano pubblicamente quelle consacrate immagini [degli dei], perché il loro grosso cervello è ingannato dalla eleganza della linea artistica, colpito dallo sfolgorio dell’oro, è trasecolato dal candore dell’avorio? Che penserebbero invece se immaginassero tutte le traversie e lavorazioni per cui ogni immagine deve passare? Si vergognerebbero di prostrarsi davanti ad un blocco di materia inerte, a cui l’artefice ha saputo dare la forma di un Dio. Il Dio di legno, forse fatto saltar fuori dagli avanzi di un rogo o da un tronco avanzato in precedenza, vien sospeso, segato, sgrossato, piallato; se il Dio è fatto d’oro o d’argento, vien ricavato a volte perfino da un vaso di ignobile uso, come usava spessissimo un re egiziano, viene liquefatto, battuto per bene dai martelli e foggiato all’incudine [Erodoto, II, 172]; se di pietra, vien prima scavato, tagliato, scolpito e magari condotto a termine dall’ultimo degli scalpellini; e il Dio non sente l’onta di una tale origine, come poi non sente il culto della vostra adorazione, a men che non divenga un Dio dopo essere stato un sasso o un pezzo di legno o un blocco di argento. Nasce infatti dalla fusione, dalla foggiatura sotto colpi di scalpello; ma non è ancora un Dio; e allora viene impiombato al piedistallo, rifinito, montato, ma non è ancora un Dio; perciò viene abbellito, consacrato al culto e adorato: ora finalmente lo chiamano Dio, per volontà degli uomini che l’hanno dedicato [Teofilo d’Antiochia, Ad Autolycum, II, 2]. […]

(Ottavio, III, Marco Minucio Felice)5 Questa condanna non comportò tuttavia il ripudio totale delle immagini per fini non cultuali. Anche in opere di carattere iconoclasta come l’Ottavio vengono ammesse alcune figure a cui i cristiani possono ricorrere nei loro sigilli: la colomba, il pesce, la nave, l’ancora e anche il pescatore, unico simbolo antropomorfo e quindi giustificato con un rinvio al testo evangelico (Mc 1,17). Successivamente, a partire dal III secolo, cominciarono a comparire nelle catacombe cristiane delle rappresentazioni di scene bibliche, tratte dal Nuovo e dal Vecchio Testamento. Immagini che testimoniavano in

5 M. Minucio Felice, Octavius, a cura di C. Halm, Vienna, 1867, 33-34 e 45-46; trad. it. Ottavio, a cura di

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genere la speranza di salvezza. Sembra dunque che il cristianesimo primitivo facesse uso di immagini sia per raccontare episodi narrati nelle Scritture, sia per esprimere attraverso raffigurazioni simboliche quelle verità di fede che sarebbero risultate difficili da comprendere ai fedeli senza un rimando al mondo naturale. Ma già nel IV secolo iniziarono a comparire delle testimonianze di un qualche mutamento riguardo al culto delle immagini. Nel concilio di Elvira (306 d.C.) venne redatto il canone 36, che vietava la rappresentazione sui pavimenti delle chiese di ciò che poteva essere oggetto di venerazione. Dalla lettera di Eusebio all’imperatrice Costanza, datata tra il 313-24 d.C., veniamo a conoscenza che il popolo manifestava una pietà alimentata da immagini antropomorfiche di Cristo. Queste immagini sono da un lato svincolate dalla narrazione storica di un episodio evangelico, dall’altro non sono simboli che rimandano alla figura del Salvatore (come il pescatore o il buon pastore), ma veri e propri ritratti di Cristo. Eusebio, ovviamente, condanna questa pratica. Si legge nella lettera:

Mi hai scritto anche di una certa immagine, che dovrebbe rappresentare Cristo, e mi hai chiesto di inviartela; ma quale immagine intendi e cosa chiami immagine di Cristo? Non so cosa ti ha indotto ad ordinare di fare una immagine del nostro Salvatore. Quale immagine di Cristo desideri mai? Quella vera ed immutabile, che porta i caratteri della natura sostanziale o quella che egli assunse a causa nostra, indossando la forma del servo?

Infatti il Verbo di Dio, che è Dio, ha assunto la forma del servo e ha condannato, come dice l’apostolo divino, il peccato in una carne somigliante a quella del peccato [Rm 8,3]. Così ci ha redenti e liberati col suo prezioso sangue della precedente amarezza e servitù del demonio. Dal momento che due forme gli sono congiuntamente proprie; ritengo che tu non cerchi affatto la sua forma divina: infatti egli ti ha una volta per tutte insegnato che nessuno conosce il Padre eccetto il Figlio e nessuno conosce degnamente il Figlio se

non il Padre che lo ha generato [Mt11,27].[…]

(Lettera a Costanza, Eusebio di Cesarea)6

Secondo Eusebio, Cristo è irrappresentabile in qualsiasi sua forma, perché la presenza nel suo stesso corpo della natura divina e di quella umana rende inadeguata ogni sua

6 Lettera di Eusebio di Cesarea all’imperatrice Costanza, in “Textus byzantinos ad iconomachiam

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raffigurazione. Per Eusebio esiste un solo oggetto nel quale vada ricercata la vera immagine di Cristo, e cioè il libro delle Sacre Scritture. Essendo Dio anche Verbo, solo nel Libro la sua reale immagine può rifulgere. Recita il passo:

Anzi, quando confessiamo Dio il Signore, nostro Salvatore, ci prepariamo a vederlo in quanto Dio, purificando con ogni attenzione i nostri animi, per poterlo vedere tutti i modi: “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio” [Mt 5,8]. Se poi prima della futura visione faccia a faccia e della presenza del nostro Salvatore, vuoi fartene una somma immagine, quale migliore pittore avrai mai dello stesso Verbo di Dio [la Scrittura]?

(Lettera all’imperatrice Costanza, Eusebio di Cesarea)7

Sempre nel IV secolo si trovano invece in alcuni testi di padri della Chiesa in Cappadocia passi che mostrano non solo che si stava ormai affermando un parallelo tra Parola ed Immagini, ma anche un apprezzamento di quest’ultime, considerate utili strumenti di istruzione ed edificazione. Il vescovo Gregorio di Nissa affermava, ad esempio, che le immagini erano un positivo effetto di una pura spinta emozionale all’esperienza religiosa. Basilio invece sosteneva che “l’onore reso all’immagine passa al prototipo”8, cioè al modello reale, ma la sua affermazione non aveva alcun rapporto con

le immagini religiose; essa sarà comunque sfruttata, dato il peso dell’autore, per sostenere l’uso cultuale delle immagini. Solo con il pontefice Gregorio I si ebbe una compiuta sistemazione di tale ideologia, agli inizi del VII secolo. Il pontefice infatti scrisse una lettera al vescovo di Marsiglia Sereno, che aveva fatto togliere dalle chiese le immagini. In essa si legge:

[…] Ci fu riferito che tu, preso da inconsiderato zelo, hai infranto le immagini dei Santi con la scusa che non si dovevano adorare. E in verità ti loddamo senza riserve che abbia vietato di adorarle, ma ti riprendiamo che le abbia infrante.

Dimmi, fratello, quando mai si è udito che un sacerdote abbia fatto ciò che tu hai fatto? Se non altro, almeno non dovresti pensare che, disprezzati gli altri fratelli, tu solo ti credesti un santo e sapiente sacerdote?

Altra cosa è adorare una pittura, altra cosa è imparare per mezzo della pittura storica

7 Menozzi, op. cit., pp. 74-76.

8 G. Damasceno, Difesa delle immagini sacre. Discorsi apologetici contro coloro che calunniano le sante immagini, a cura di V. Fazzo, Città Nuova Editrice, Roma, 1983, in Menozzi, op. cit., pp. 92-96.

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ciò che si deve adorare. Poiché la pittura insegna agli illetterati ciò che la scrittura insegna ai letterati: infatti gli ignoranti vedono nella pittura ciò che devono operare, in essa leggono coloro che non conoscono la lettura; quindi la pittura supplisce per i pagani la lettura. Ciò doveva stare bene a cuore a te, che abiti in mezzo ai pagani, perché mentre ti lasci accendere incautamente da un giusto zelo, non deve recarsi scandalo ai fieri animi.

Perciò non si doveva infrangere ciò che fu collocato nelle chiese, non a scopo di adorazione, ma semplicemente per istruire le menti degli ignoranti.

E poiché la tradizione ammise non senza ragione di dipingere le storie dei Santi nei luoghi sacri, se avessi condito lo zelo con la discrezione, certamente avresti ottenuto ciò che salutarmente ti proponevi e non avresti disperso il gregge riunito, ma piuttosto avresti congregato il gregge disperso, affinché in te splendesse a buon diritto il nome di pastore, e non si verificasse la colpa di dissipatore.

Poiché, invece, questo facesti con animo troppo incautamente eccitato, mostri di avere scandalizzato i tuoi figli, cosicché una grandissima parte di loro si alienasse dalla tua comunione. Quanto adunque ricondurrai all’ovile del Signore le pecorelle erranti se non puoi conservare quelle che hai?

Perciò ti esortiamo, perché almeno ora cerchi sollecito di scuoterti da questa tua presunzione e ti affretti con ogni sforzo e ogni studio a richiamare con dolcezza paterna gli animi di quelli che riconosci di aver allontanato dal tuo seno.

Si devono quindi convocare i figli della Chiesa e ad essi si deve mostrare con l’autorità della Sacra Scrittura, che non è lecito di adorare alcun manufatto, perché sta scritto: “Adorerai il Signore Dio tuo e servirai a lui solo [Es 20,5]. E quindi occorre soggiungere che ti eri lasciato trasportare a comandare che si infrangessero quelle immagini, stimando che si adorassero mentre erano state fatte a edificazione della comunità affinché gli illetterati imparassero la storia sacra. Darai dunque questa istruzione: se voi desiderate avere nella chiesa le immagini anticamente ammesse, io permetto assolutamente che in qualsiasi modo si facciano e si espongano. Inoltre spiega che non dispiacque a te la visione della storia, che con la pittura era significata, ma l’adorazione che a quelle pitture era stata erroneamente esibita. E con queste parole illuminando soavemente la loro mente riconducili alla tua unione.

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E se qualcuno vorrà fare immagini, non lo proibirai affatto, ma in ogni modo impedisci che si adorino le immagini. […]

(Lettera a Sereno, San Gregorio I)9

Questa lettera è molto importante perché, per la prima volta, il pontefice di Roma difende la piena legittimità delle immagini nei luoghi di culto, sostenendo che esse, lungi dal favorire l’idolatria, servono a fissare nella memoria la storia cristiana e a suscitare quel sentimento di pentimento che induce il fedele all’adorazione, non dell’immagine, ma della stessa divinità. Insomma, le immagini sono un aiuto concreto perché guidano il fedele nel cammino dell’adorazione; senza di esse, il fedele si sentirebbe perso. Questo aiuto è dato dal fatto che le immagini svolgono una funzione di “traduzione visiva” o costituiscono una lettura alternativa del testo: “infatti gli ignoranti vedono nella pittura ciò che devono operare, in essa leggono coloro che non conoscono la lettura; quindi la pittura supplisce per i pagani la lettura”. Importante nella lettera risulta quindi l’insistenza del pontefice sulle immagini come strumento di insegnamento delle Sacre Scritture agli illetterati. In questo modo San Gregorio I non solo giustifica la loro presenza, ma stabilisce anche una equivalenza tra Scrittura, riservata ai dotti, e pittura, destinata agli incolti, che risultò cruciale per lo sviluppo dell’arte nel mondo cristiano occidentale.

2. Tra scrittura e immagini

È opportuno a questo punto parlare del primo oggetto liturgico che venne munito di immagini: il Libro.

Nel medioevo cristiano il libro era una testimonianza materiale della promessa salvifica; Dio infatti era inteso come Verbo e quindi la sua originaria natura non poteva che essere contenuta nel libro stesso: la Bibbia. In questo modo l’oggetto libro assumeva un’aura sacra perché si istituiva una equivalenza tra libro e Libro Sacro. Il cristianesimo delle origini, infatti, non distingueva il libro come mezzo di comunicazione dal messaggio divino in esso contenuto. Il libro era la forma tangibile della promessa di salvezza: non conteneva il testo del Vangelo, ma era il Vangelo. Si deve aggiungere che la principale

9 G. Magno, Epistola, in “MGH, Epistolae, II, X”, Berlin, 1957, 269-72; trad. it. C. Costantini, La legislazione ecclesiastica sull’arte, in “Fede ed arte 5”, 1957, in Menozzi, op. cit., pp. 79-81.

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funzione svolta dal libro, specialmente in epoca medievale, era la diffusione del Vangelo e quindi la conversione dei popoli pagani. L’Evangelario diventò in tal modo una reliquia, un oggetto di culto. Otto Pächt10sottolinea come questo fenomeno si verificò soprattutto nei territori che non appartenevano al mondo classico e quindi privi di tradizione letteraria. Il librò portò all’interno di questi popoli cristianizzati nel primo medioevo il marchio di una cultura superiore. L’essere un oggetto di venerazione indusse i paesi del Nord a decorarlo artisticamente; nei paesi mediterranei, invece, l’arte della miniatura non ebbe mai un ruolo determinante. Quando si usa il termine libro non si può non menzionare l’importante trasformazione, che si ebbe proprio durante l’epoca Tardoantica, che comportò il passaggio dal rotulo papiraceo al codex in pergamena. Nell’Antichità il papiro era il supporto materiale per la scrittura; molto economico e di facile produzione, aveva lo svantaggio di essere soggetto ad un veloce processo di deperimento. Il formato del papiro era quello del rotolo: era facile da trasportare, poco ingombrante, ma permetteva una lettura continua solo dall’alto verso il basso. Il libro, invece, che comparve sempre in epoca romana, assunse subito la forma del codice. A causa dell’ingombro che la sua forma comportava e per il minor spazio di scrittura che offriva a paragone del rotolo, i romani preferirono quest’ultimo per la redazione dei loro testi. Insieme al formato del codice, comparve anche la pergamena, cioè un supporto di scrittura ottenuto con l’essiccazione e l’assottigliamento delle pelli animali; la pergamena aveva un lento processo di produzione ed alti costi, data la preziosità del materiale. Nello stesso tempo però garantiva, rispetto al papiro, una maggior durata della pagina. Fin dal II secolo le prime comunità cristiane decisero di utilizzare il formato del codice, spesso con supporto papiraceo, come simbolo di protesta e distinzione dalla religione pagana e da quella ebraica, che continuavano ad utilizzare il rotolo. I libri della letteratura cristiana che venivano decorati erano soprattutto quelli liturgici, ossia quei libri soggetti a una fruizione prevalentemente pubblica: il Sacramentario, l’Evangelario, l’Evangelistario, il Salterio, il Pontificale, il Benedizionale, i Corali ed ovviamente la Bibbia. Il corredo decorativo cambiava di tipologia a seconda del testo miniato. Nell’Evangelario, per esempio, una costante decorativa era il ritratto dell’Evangelista, spesso immerso nel suo

scriptorium, con accanto il simbolo a lui connesso. Nella Bibbia, invece, essa era

costituita dalle scene narrative del Nuovo e del Vecchio Testamento, fino ad arrivare al

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Salterio, dove le immagini rispondevano all’interpretazione letterale dei Salmi in esso scritti.

L’arte che riguardava la decorazione dei libri era la miniatura. Il termine miniatura, dal quale deriva il verbo miniare, ha ovviamente una radice latina. Non si deve però cadere nell’errore di far derivare il sostantivo dal verbo latino diminuere, e quindi da un’arte connessa a una decorazione di piccole dimensioni. La parola deriva, invece, da

minium, cioè da un pigmento di colore rosso molto usato in questa forma d’arte. Risulta

quindi interessante notare che è la preziosità di uno dei colori impiegati - i colori avevano infatti alti costi di produzione in epoca medievale- a conferire il nome a questo tipo di arte. A differenza dei testi classici, nei quali le immagini occupavano un loro spazio all’interno del papiro, ma erano scisse dal testo scritto, nella miniatura, che potrebbe definirsi il simbolo dell’epoca medievale, la contaminazione tra testo scritto e immagine è intrinseca. Come emblema di questo intreccio scrittura-immagine può essere citata l’iniziale medievale. Iniziale zoomorfa, caleidoscopica, figurata, abitata; questi sono gli elementi caratteristici del mondo medievale, che mostrano la contaminazione tra scrittura e immagine.

Prescindendo dalle lettere, la miniatura poteva occupare sulla pagina un suo spazio autonomo che rispondeva a funzioni diverse, come per esempio, una funzione di riempitivo (gli intrecci barbarici o le pagine tappetto sempre nelle Bibbie nordiche); un valore didascalico del testo; un valore decorativo- cultuale.

I codici didattici presentano la seconda tipologia di corredo, cioè quella didascalica. In questi codici si cercava con l’ausilio delle immagini di rappresentare visivamente temi teologici o cosmologici, la cui comprensione risultava complicata alla semplice lettura. Mentre nella Bibbia o in altri testi religiosi la decorazione, pur avendo lo stesso scopo didascalico, accompagnava temi di più facile comprensione (se non si considera la questione del simbolismo cristiano), viceversa i codici didascalici trattavano argomenti più difficili da comprendere. Prendiamo come esempio il manoscritto di Ratisbona del XII secolo, realizzato a Prüferning, dove vi si trova spiegato e dipinto il microcosmo (fig. I.1). Il manoscritto affronta motivi di antica tradizione: il corpo umano come specchio, in versioni ridotte, dell’universo e l’influsso delle costellazioni sulla vita dell’uomo. La pagina è occupata da un disegno che illustra le corrispondenze tra parti del corpo umano e parti del macrocosmo (l’universo); l’immagine al centro mostra un uomo nudo. Da varie

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parti del suo corpo si irradiano dei raggi con all’interno delle didascalie; questi raggi colpiscono sezioni della pagina, nelle quali sono rappresentati punti del macrocosmo. Ad esempio gli angoli della pagina sono occupati dal sole, dalla luna, dall’acqua e dalla terra che risultano collegati dai raggi alle mani e alle spalle dell’uomo. In questa miniatura, scrittura e immagini costituiscono un tutt’uno; le parti scritte hanno come scopo principale quello esplicativo-didascalico ma svolgono anche una funzione di riempitivo. In questo caso il rapporto immagine / testo è rovesciato, perché è la scrittura a fungere da riempitivo e non l’immagine.

Diverso è il caso della miniatura che illustra il Clavis physicae di Onorio di Autun, del XII secolo, che si trova nel monastero di Michelsberg, vicino a Bamberga (fig. I.2). Il trattato illustra la visione del mondo platonico del pensatore Giovanni Scoto Eriugena. La miniatura è divisa in quattro registri, che simboleggiano le quattro nature della creazione. Il primo in alto, a forma di lunetta, contiene primordiales causae, ossia i princìpi creatori e increati di tutte le cose, ovviamente in forma allegorica. Al centro della lunetta si vede un uomo incoronato, allegoria della Bonitas, circondato da sette damigelle:

Iustitia, Virtus, Ratio, Veritas, Essentia, Vita e Sapientia. Nella sezione più in basso si

vedono gli effectus causarum, realtà create e creatrici, racchiuse in tre medaglioni: a sinistra il Tempo, a destra lo Spazio ed al centro un vortice con quattro teste, rappresentante la Materia Informe. Ancora più sotto si trova, sotto quattro archi, la natura

creata: gli angeli, gli uccelli, i pesci, le piante, gli animali e gli uomini. La lunetta in

fondo, che chiude l’immagine, contiene il busto aureolato della divinità, nell’atto di tenere con le mani i fili dell’universo. L’iscrizione finis allude alle parole di Onorio di Autun, secondo il quale la parola di Dio è contenitrice dell’inizio e della fine di tutte le cose. Questo diagramma fa uso di simboli e personificazioni per rappresentare una complicata visione teologica; in questo caso, però, la scrittura non ha valore di riempitivo ma solo una funzione didascalica.

Non tutti i codici definiti didattici avevano un repertorio di didascalie. Il codice di Ildegarda di Bingen, intitolato Scivias (XII secolo), presenta un repertorio di miniature senza l’ausilio di didascalie. Il testo non è un testo filosofico, ma una visione. Le idee dell’autrice non derivano da dottrine teologiche, ma da una illuminazione spontanea. Nello studio sulla visione del mondo di Ildegarda, Liebeschütz afferma che in essa “il sovrasensibile non viene indagato nella sua natura dialettica (…) ma viene presentato

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intuitivamente attraverso un’immagine definita e circoscritta”11. Si potrebbe dire che il

testo di Ildegarda sia una rivelazione spirituale, espressa per immagini. Quindi in questo caso l’immagine letteraria non è un sussidio esplicativo, ma invece, data la natura visionaria del testo, la forma della visione stessa. Nello stesso tempo l’immagine dipinta diventa un mezzo per rendere accessibile all’occhio la rivelazione interiore. Mediante simboli e un costante rimando testo-immagine, il lettore può leggere l’opera. Osserviamo la miniatura che rappresenta la visione cosmica di Ildegarda (fig. I.3). Sembra necessario un confronto diretto col testo per capire l’immagine; ad esempio il grande ovale dal bordo di fuoco simboleggia la forza divina, “che tortura vendicatrice i non credenti, e manda invece ai credenti il fuoco della consolazione e della purificazione”12. La stella, invece,

che si vede in alto in questo contorno di fuoco, significa Cristo e il suo amore ardente e le tre stelle sopra questa la Trinità; i venti, che soffiano su questo fuoco ardente, l’annuncio di Dio attraverso la predicazione. Osservando la miniatura con maggiore attenzione, si può vedere, all’interno dell’ovale infuocato, un fuoco azzurro, simbolo del fuoco demoniaco e al centro una sfera luminosa e stellata, simbolo della fede. La miniatura è ricca di molte altre allegorie, la cui sottigliezza sembra essere una sorta di sfida all’intelligenza del lettore. Quello che appare chiaro è che il testo di Ildegarda è impregnato di un linguaggio onirico, che illustra un’esperienza religiosa; per tale motivo il miniaturista ha cercato di riprodurre su pergamena le visioni della santa, sostituendo agli elementi non visibili altri puramente evocativi. L’insieme testo-immagine è di carattere allegorico; le miniature appaiono come immagini belle da osservare ma difficili da interpretare da un incolto lettore.

Se consideriamo invece il formato rotolo, che continuò a utilizzarsi anche in epoca medievale, notiamo come in esso le immagini e il testo scritto mantengano una divisione fra testo e immagine come nei testi classici. Il rotolo dell’Exultet13 ci mostra un chiaro

esempio di questa ripartizione. Il rotolo prende il nome dalla prima parola del canto liturgico. Questo tipo di canto liturgico veniva intonato dal diacono nel corso della cerimonia del Sabato Santo. Il canto aveva lo scopo di annunciare ai fedeli il mistero della Resurrezione e di celebrare il rito dell’offerta del cero pasquale. I rituali della vigilia del

11 H. Liebeschütz, Das allegorische Weltbild der heiligen Hildegard von Bingen, Teubner, Leipzig, 1930,

in Pächt, op. cit., p. 163.

12 Liebeschütz, op. cit. p. 163.

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Sabato Santo sono molto antichi; essi prendono origine dall’usanza di compiere una veglia la sera del giorno della Resurrezione. Il canto era il culmine di una serie di cerimonie, dal valore simbolico, che si svolgevano durante la veglia: il rito della benedizione del fuoco nuovo per il cero pasquale, il rito dell’accensione del cero pasquale e, infine, la cerimonia del Lumen Christi. Il testo del rotolo discende da una redazione duecentesca dell’Exultet fissata dal papa Innocenzo III; a sua volta questa redazione si fonda su una tradizione più antica, rimasta quasi invariata nel corso dei secoli, ma regolarmente variata nella parte finale del testo che conteneva le commemorazioni liturgiche, cioè formule di intercessione per i fedeli, il clero, i papi, i sovrani o altre autorità locali. Visto che nel corso degli anni si potevano avere una serie di diverse reggenze, era compito del diacono ricordarsi di leggere il nome dell’autorità del momento, che per questo motivo veniva appuntata sul rotolo con note mnemoniche. Il canto era corredato da un ciclo iconografico, che recuperava una invenzione iconografica del X secolo e che conteneva di volta in volta temi legati al canto o alla liturgia pasquale: la storia sacra, le cerimonie liturgiche e i ritratti dei contemporanei. L’esecuzione del canto veniva fatta dal diacono, spesso dal pulpito. É interessante notare che la direzione delle immagini era opposta a quella del testo; in questo modo, mentre il diacono leggeva il canto, facendo scorrere tra le mani il lungo rotolo, le immagini potevano essere viste nel giusto senso dai fedeli. L’insieme dell’esecuzione (lettura cantata, visione del rotolo) si fondava su un diretto collegamento tra immagini e canto, utile a guidare il fedele durante l’ascolto.

Il legame che si creò fin dagli albori della decorazione cristiana tra testo e immagini perdurerà non solo per tutto il Medioevo, ma anche nei secoli seguenti.

3. L’immagine sacra nel contesto ecclesiastico e in quello laico

In questo rapporto tra testo sacro e immagini, di cui si è parlato nel paragrafo precedente, si devono ricordare diversi fenomeni che trasformarono la società medievale dell’Europa e che interessarono oggetti di produzione artistica diversi dal Libro. Il primo, databile tra il X e XI secolo, è il passaggio dalle forme tradizionali dei reliquiari a quelle delle statue-reliquiario, che diventarono oggetti di venerazione ai quali si attribuivano miracoli. Questo fenomeno creò un nuovo sentimento religioso, che vide la statua al centro di un nuovo culto devozionale. Nel passo seguente, Bernardo d’Angers nel suo

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Liber miraculorum sanctae Fidis del XI secolo, racconta una sua visita alla

statua-reliquiario di santa Fede a Conques:

[…] Tre giorni dopo arrivammo infine a santa Fede. A quanti stavano per entrare nel monastero forse per caso accadde che quel luogo segreto in cui si conserva la venerabile immagine era stato aperto. Là dunque, in un ambiente assai angusto, ci fermammo in piedi, davanti alla moltitudine di quanti si prosternavano al suolo, e non potemmo avanzare. Risultandomi tutto questo fastidioso, mentre sto in piedi, guardo l’immagine e pronuncio parole supplichevoli esattamente in questo modo: “O santa Fede, una parte del cui corpo riposa nel presente simulacro, soccorrimi nel giorno del giudizio”. Di nuovo guardo ammiccando verso il mio allievo Bernerio e sorrido, ritenendo che fosse vano e molto lontano da ogni comportamento ragionevole che uomini dotati di ragione rivolgano suppliche ad una cosa muta ed insensata. Ma questo vaniloquio o superficiale ragionamento non procedeva da retto sentire, dal momento che avevo spregevolmente chiamato simulacro, come se si trattasse di Venere o Diana, una sacra immagine cui non si chiedevano oracoli con sacrifici, come ad un idolo, ma che, per memoria della santa martire, era riverita in onore del sommo Dio. […]

(Liber miraculorum sanctae Fidis, Bernard d’Angers)14

Dal testo si deduce che Bernard era scettico nei riguardi del culto delle immagini; la venerazione di esse e in particolare delle statue, costituiva un culto superstizioso e simile all’idolatria pagana agli occhi della Chiesa franca. Bernard, però, ascoltando il racconto dei miracoli che erano stati compiuti da Santa Fede, proprio grazie alla statua, cambiò parere e accettò l’idea, pur con qualche incertezza, che il culto delle statue-reliquiari svolgesse una funzione intercessoria perfettamente compatibile con la fede cristiana e che la raffigurazione della santa fosse dotata di poteri taumaturgici. L’affermarsi del culto delle statue è un sintomo della trasformazione che intervenne nella mentalità cristiana occidentale: le immagini, di natura religiosa, diventarono simboli dell’identità sociale di gruppi e di istituzioni, identità proclamata pubblicamente nelle devozioni e nei miracoli.

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Nel corso del XII-XIII secolo, infatti, a seguito del frazionamento delle macro entità monarchiche in micro autorità feudali, si affermò una pluralità di centri di potere sia laici che ecclesiastici. Entrambi questi poteri ricorsero alle immagini, che già avevano una forte presa sulla popolazione, per farne dei simboli delle loro identità sociali. La città di Firenze può essere vista come il simbolo di questa trasformazione politica e sociale. A Firenze infatti il nuovo ceto mercantile-bancario poté affermare la sua potenza in un contesto politico di maggior respiro pluralista, perché rispetto al regime monarchico, in cui solo in rare occasioni il singolo aveva la possibilità di ascesa sociale, il regime comunale consentiva l’ascesa di interi strati sociali; in campo economico lo stesso certo emergente poteva partecipare a un commercio di respiro internazionale, incoraggiato anche da strumenti di recente invenzione (come la lettera di cambio e l’affermazione del fiorino come moneta ufficiale del commercio). La successiva “rivoluzione giottesca” promosse il fenomeno della committenza grazie alla sua resa realistica e sentimentale delle immagini e, di conseguenza, alla maggior attrattività di esse per il pubblico. Statue, affreschi, reliquiari ed altri oggetti che affollarono città e chiese divennero dei pubblici manifesti della pietà e del prestigio sociale del committente. Le stesse immagini vennero impiegate dai nuovi ordini mendicanti, per favorire la diffusione di una religiosità comunitaria e ancora più aperta agli strati inferiori della società. Accanto alla vasta produzione sempre di carattere religioso nel corso del Trecento fiorisce anche una vasta pittura secolare connessa sia alla politica che alla letteratura. Si vedano le varie rappresentazioni del Buono e del Cattivo Governo, come il celeberrimo ciclo ad affresco di Ambrogio Lorenzetti nel palazzo comunale di Siena (1338). In particolare nel contesto fiorentino sappiamo che Giotto, o uno dei allievi, dipinse un affresco nel salone del palazzo del Podestà rappresentante Il Comune Rubato, cioè il cattivo governo. Di questo affresco non vi è traccia, ma è testimoniato da un sonetto di Antonio Pucci. Risulta fin da ora interessante notare lo stretto rapporto che unisce pittura profana, politica e letteratura, legame esplicito nell’uso della pittura, così detta, infamante. Questa era una pratica utilizzata dall’istituzione comunale per colpire quei personaggi che si erano sottratti alla giustizia cittadina. Le immagini svolgevano due funzioni: quella di messa alla berlina del colpevole e allo stesso tempo quella didattica per gli osservatori. La pittura infamante era accompagnata spesso da narrazione in versi (le rime d’infamia), che rientrano nell’ambito

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della poesia satirica15. Anche i manoscritti di opere profane, come quelli religiosi, potevano essere illustrati con miniature. A parte le numerose illustrazioni della commedia, si possono ricordare quelle della Nuova Cronica di Giovanni Villani, illustrata alla fine del Trecento con scene di storia fiorentina: episodi bellici, esempi di costumi contemporanei ed architetture16. Sappiamo che la Cronica di Villani ebbe diffusione anche attraverso forme più popolari come la versificazione in terza rima di Antonio Pucci, uno dei tanti esempi di rapporto tra pittura e letteratura nell’ambito della divulgazione popolare. Il fenomeno di una simile privatizzazione ebbe un effetto sull’arte di ordine religioso. Infatti si assiste ad un intensificarsi del ricorso a raffigurazioni visive per consentire al fruitore un rapido accesso all’esperienza religiosa. L’immagine diventò così di tipo devozionale e la sua localizzazione si spostò dalle chiese, luogo di concentrazione delle immagini, verso le case private, quindi verso una fruizione di tipo laicale. Nei

Ricordi di Giovanni di Pagolo Morelli, del 1407, si legge:

[…] E dette ch’i’ebbi le sopra iscritte orazioni, rendendo molte laude a Dio e ai suoi benedetti Santi, con gran conforto, parendomi dovere essere asaudito, moltissime volte, tenendo nelle braccia la tavola, basciai il Crocifisso e la figura della sua Madre e dello Evangelista, e di poi dissi il Taddeo. E fatto riverenza alla sante merite [immagini sante], mi parti’ per andare a riposare il corpo; e così lieto e piano di buona isperanza e di gran conforto me n’entrai nel mio letto, e fattomi il segno della croce m’acconciai per dormire.

(Ricordi, Giovanni di Pagolo Morelli)17

L’immagine ormai si era affermata anche in contesti privati laici come la camera da letto. Questo insieme di fattori determinò lo sviluppo in Occidente di una pietà cristiana che, svolgendosi largamente davanti alle raffigurazioni, identificò l’immagine come mezzo di preghiera, depositaria di poteri miracolosi. La mentalità comune attribuì a tutte

15 Cfr. F. Antal, La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento,

Einaudi, Torino, 1960, pp. 367-384

16 Mi riferisco al manoscritto Chigiano L VIII 296, conservato presso la Biblioteca Vaticana. Caso analogo

per Le Croniche trecentesche di Giovanni Sercambi lucchese, anch’esse accompagnate da un ricco apparato iconografico (archivio di stato di Lucca), cfr. G. Sercambi, Le Croniche di Giovanni Sercambi lucchese.

Dal volgare all’italiano, a cura di G. Tori, Accademia lucchese di scienze, lettere e arti, Lucca, 2015. 17 G. di Pagolo Morelli, Ricordi, in Mercanti scrittori, a cura di V. Branca, Rusconi, Milano, 1986, p. 311.

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le immagini un carattere sacro e si sviluppò un rapporto molto più diretto con l’immagine stessa, un rapporto quasi corporale.

4. Dalla letteratura all’arte profana

[…] non sarebbe da consigliare la lettura di queste fole a persone adulte e sagge; ma in quella guisa che le immagini dipinte servono all’intelletto del contadino che non sa leggere, il senso di tali favole può essere penetrato dai giovani che non sanno comprendere pensieri profondi. Splendidi modelli di saggezza, di valore, di virtù saranno agli occhi loro Carlo Magno, Alessandro. Artù, Tristano, Galvano e gli altri cavalieri della Tavola Rotonda. Solo si guarderanno dall’imitare il malvagio Key; però il suo esempio varrà a insegnare loro come debbano guardarsi dal male. Le donne apprendano onore e virtù da Penelope, Andromaca, Enida, Enone, Galiana, Biancofiore, Sordamore: e sia loro di utile ammonimento l’esempio di Elena, cui la bellezza non ornata di virtù trasse in rovina.

(Der welsche Gast, Tommasino di Cerclaria)18

Il passo sopra citato è tratto dall’opera Der welsche Gast di Tommasino di Cerclaria, uno scrittore e poeta germanofono di origini friulane dei primi del Duecento. L’opera di Tommasino è un manuale volto all’istruzione della nobiltà tedesca. Nel passo l’autore sostiene che la letteratura cavalleresca e quella arturiana possano avere un valore educativo-esemplare presso le giovani generazioni. Sembra quindi che l’autore non consideri l’aspetto di piacevole evasione, che era da tempo attribuito ai romanzi cavallereschi. È interessante, inoltre, che l’autore paragoni la funzione educativa di questi modelli cavallereschi a quella svolta dalle immagini per il contadino illetterato; paragone che sembra ricalcare la concezione didascalica delle immagini nella lettera di Gregorio Magno. Non deve sorprendere che personaggi storici come Carlo Magno e Alessandro, personaggi epici come Andromaca ed Elena, e personaggi epico-cavallereschi come Artù e Tristano siano inseriti nello stesso elenco. Il pensiero medievale, infatti, non riconosceva la natura esclusivamente letteraria di alcuni di questi personaggi; l’uomo

18 T. di Cerclaria, Il “Wälscher Gast”di Tommasino di Cerclaria e la poesia didattica del secolo XII, in

“Studi medievali”, vol 1, a cura di l. Torretta,1905, in M. L. Meneghetti, Storie al muro. Temi e personaggi

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medievale era convinto che tutti i personaggi dell’elenco di Tommasino, da Penelope a Biancofiore, avessero una loro storicità, per il fatto stesso che dei manoscritti raccontassero le loro gesta e riportassero i loro nomi. La cultura medievale era una cultura del sovrasenso, e in particolare del sensus moralis. Ciò comportava che personaggi totalmente estranei all’ottica cristiana o all’educazione cavalleresco-cortese (come Ettore, Andromaca, Alessandro etc..) venissero visti come modelli morali o, viceversa, immorali. Non deve comunque sorprendere, sempre nello stesso testo, l’omologazione di pittura e letteratura. All’inizio del XII secolo nell’Elucidarium Onorio d’Autun scriveva infatti: “pictura…est laicorum litteratura”, intendendo per laicus l’illetterato o, addirittura, l’analfabeta. Stupisce senz’altro di più la sovrapponibilità funzionale, secondo Tommasino, fra personaggi dipinti e protagonisti di storie letterarie. Sembra quasi che l’autore collocasse mentalmente questi personaggi storico-letterari non in una dimensione di storie scritte, ma piuttosto in una di raffigurazioni artistiche, come se nelle loro immagini fossero già condensate le loro gesta. Anche nei casi in cui i personaggi fossero rappresentati in azione, le loro imprese potevano essere ridotte a poche immagini evocative di interi episodi. Ne consegue che i personaggi delle grandi storie erano destinati a essere dipinti sulle pareti, in particolare quelli epico-cavallereschi del Medioevo occidentale. Maria Luisa Meneghetti nel libro Storie al muro. Temi e

personaggi della letteratura profana nell’arte medievale ricorda come sia necessario

tener presente che possono presentarsi due situazioni opposte per la rappresentazione iconica di un testo letterario: in presentia, quando le immagini accompagnano il testo; in

absentia, quando non accompagnate da apparato testuale. Tuttavia, in questa seconda

evenienza, succede spesso che l’assenza del testo sia compensata da tituli, cartigli o brevi iscrizioni. Da notare che, per ciò che riguarda l’illustrazione epica, che copre un arco cronologico dal XII al XVI secolo, e tenendo conto che la percentuale di persone alfabetizzate non cambia molto in questo arco cronologico, si hanno due fasi: la prima (XII e XIII secolo) in cui le immagini in absentia o con laconiche didascalie sono più numerose; la seconda in cui per contro trionfano quelle in presentia. Bisogna comunque precisare che, tanto per i letterati quanto per gli illetterati, la fruizione di una immagine

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Per ciò che concerne la committenza, rappresentata da individui singoli o istituzioni religiose, essa risulta strettamente correlata alle intenzioni, che possono essere di tipo morale, anagogico e storico19.

L’intenzione morale riguarda soprattutto la committenza religiosa di epoca più antica. Prendiamo come esempio l’ordine cluniacense. La sua concezione ideologico-estetica aveva dato un grande peso al radicamento della prassi iconografica di soggetto epico: le chiese dell’ordine, costruite nelle città e sulle vie di pellegrinaggio, si proponevano, proprio al fine di invogliare all’entrata i fedeli, una ricca decorazione. Tale decorazione integrava l’iconografia di carattere epico con quella religiosa nel programma decorativo di un edificio di culto. Lo scopo di queste iconografie era quello di costruire uno speculum

morale: episodi o personaggi sacri ed episodi o personaggi profani si mescolano e si

riflettono gli uni negli altri per fornire un insegnamento morale. Questa concezione, che sopravvisse anche dopo il crollo dell’ordine cluniacense, è visibile sulla facciata della basilica di San Zeno Maggiore a Verona. La facciata presenta due prodotti artistici coevi (1138-39): i bassorilievi che affiancano il protiro della chiesa e le due statue di guerrieri che ornano il portale. Queste opere sono state attribuite a due artisti, il maestro Guglielmo e il maestro Niccolò. I bassorilievi, opera del maestro Guglielmo (fig. I.4) mostrano due combattimenti, uno a piedi e l’altro a cavallo tra due cavalieri. Gli studiosi Lejeune e Stiennon20 hanno identificato i protagonisti rispettivamente in Rolando e Ferragut, sebbene la proposta non abbia suscitato consensi unanimi Questi occupano la base del dittico, sempre a rilievo, che contiene le raffigurazioni delle storie di Cristo. Analizzando la scansione del secondo dittico sulla medesima parete, opera invece del maestro Nicolò, (fig. I.5), si vedono la Genesi (dalla Creazione ad Adamo ed Eva al lavoro) e la leggenda della Caccia infernale del re Teodorico. Questi due temi, pur appartenendo rispettivamente alla storia sacra e alla leggenda, sono fra loro collegati: alla drammatica parabola della cacciata dei due progenitori dal Paradiso terrestre per il loro desiderio di acquisire la conoscenza del bene e del male, fa riscontro la tragica avventura del re goto, condotto alla dannazione eterna dalla brama di uccidere la più bella preda che avesse mai visto. Per quanto riguarda invece il dittico costituito dai bassorilievi dei due guerrieri e dalle scene della vita di Cristo, si riscontra una corrispondenza tematica, come nel primo

19 Meneghetti, op. cit., p. 81.

20 R. Lejeune e J. Stiennon, La lègend de Roland dans l’art du Moyen Âge, Arcade, Bruxelles, 1966, voll.

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dittico. In questo caso l’enfasi delle immagini sarebbe sul mistero dell’incarnazione e sull’itinerario Uomo-Dio, un fondamento della religione cristiana. Il duello fra Orlando e Ferragut è narrato nell’Entrée d’Espagne.,un poema cavalleresco scritto in franco-veneto. In essa i due guerrieri, mentre combattono, intraprendono anche una vera e propria disputa teologica, nel corso della quale il pagano Ferragut tenta di mettere in discussione il fondamento dell’esistenza terrena di Dio:

Allora il gigante cominciò a squadrare Rolando e a fargli domande: “Come ti chiami?” “Mi chiamo Rolando”, rispose l’altro. “A che stirpe appartieni, tu chi mi combatti con tanto valore?” “Appartengo alla stirpe dei Francesi”, rispose Rolando. E Ferragut disse: “Di che religione sono i Francesi?” e Rolando: “Per Grazia di Dio, siamo di religione cristiana, e ci sottomettiamo alla legge di Cristo e combattiamo, per quanto possibile, per la sua fede”. Sentito il nome di Cristo, il pagano esclamò: “Chi è questo Cristo nel quale credi?” E Rolando: “È il figlio di Dio padre, che nasce dalla Vergine, patisce sulla croce, viene sepolto nel sepolcro, e resuscita il terzo giorno dagli Inferi, e ritorna poi nei cieli, alla destra del Padre”. Allora Ferragut disse: “Noi crediamo che il creatore del cielo e della terra è un solo Dio: non ha figlio e nemmeno padre. E così come non è generato da nessuno, così non generò nessuno. Dunque, è un Dio unico, non trino”

(L’Entrée d’Espagne)21

La morte di Ferragut per mano di Rolando, che qui si presenta anche come vero

defensor fidei, può dunque essere letta come il giusto castigo per chi rifiuta il dogma

dell’incarnazione, esplicitato nelle scene superiori. Sembra quindi che le storie della vita di Cristo siano quell’evidenza dogmatica la cui negazione sarà fatale a Ferragut. Un rimando che ovviamente poteva essere letto ed interpretato solo da coloro che conoscevano la storia del duello.

Passando alle statue del portale che rappresentano due guerrieri armati di spada e scudo (fig. I.6 e I.7), sulla lama del guerriero di sinistra si osserva un’incisione, che reca il nome di Durindarda, cioè della spada di Rolando: questo ha spinto la maggior parte degli studiosi a identificare nell’altro soldato Olivieri, il compagno di Rolando. Ma risulta

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plausibile anche l’ipotesi che queste due statue rappresentino, invece, dei santi guerrieri. La comunità veronese medievale adorava infatti due coppie di santi guerrieri: Fermo e Rustico e Sergio e Bacco. É probabile che i due santi guerrieri abbiano finito per identificarsi con i due guerrieri carolingi e che l’iscrizione sulla spada sia da intendersi come il risultato finale di questo mutamento di identità 22.

5. L’arte del palazzo. Il caso di Firenze nel XIV secolo

[…] Allora dico che io poggiai la mia persona simulatamente ad una pittura la quale cirucundava questa magione […]

(Vita Nova, Dante)23

In questo passo della Vita Nova Dante ci informa che a Firenze si usava ornare con affreschi e pitture le stanze dei palazzi signorili. L’usanza si diffuse anche nel secolo successivo; Boccaccio, nel descrivere il palazzo dove si rifugia la lieta brigata, scrive che esso era fornito di logge, sale e camere: “tutte, ciascuna verso di se bellissima, e di liete pitture ragguardevole et ornata”24. E, sempre nel Decameron (VIII, 9), si legge che il

pittore Bruno aveva eseguito dei dipinti nella casa del medico Maestro Simone:

Bruno, parendogli star bene, acciò che ingrato non paresse di questo onor fattogli dal medico, gli aveva dipinta nella sala sua la Quaresima e uno Agnusdei all’entrata della camera e sopra l’uscio della via, uno orinale, acciò che coloro che avessero del suo consiglio bisogno il sapessero riconoscere dagli altri; e in una sua loggetta gli aveva dipinto la battaglia de’ topi e delle gatte, la quale troppo bella cosa pareva al medico […]

(Decameron, Boccaccio, nov. 9 giorn.8)25

22 G. Bussetto, Tracce iconografiche della prima diffusione dell’epopea carolingia in Italia, in Sulle orme di Orlando. Leggende e luoghi carolingi in Italia, a cura di A.I. Galletti e R. Roda, Interbooks, Padova,

1987.

23 D. Alighieri, Vita Nova, a cura di G. Petrocchio, Rizzoli, Milano, 1984.

24 G. Boccaccio, Decameron, a cura di A. Quondam, M. Fiorilla e G. Alfano, Rizzoli, Milano, 2013, p. 189. 25 Boccaccio, Decameron, cit., p. 1313.

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Grazie alle demolizioni intraprese durante i lavori di ricostruzione del centro storico di Firenze durante l’Ottocento, numerose pitture murali sono venute alla luce, ma poi sono state sfortunatamente demolite; i loro frammenti vennero posti nel Museo di San Marco. Nello studio sulle decorazioni delle case fiorentine medievali26 Attilio Schiaparelli cataloga nel seguente modo le pitture delle case signorili: a motivi geometrici, a mano libera, a figure isolate e a scene e storie di molti personaggi.

Per quanto riguarda la prima categoria, cioè quella dell’ornamento a base di motivi geometrici, lo studioso elenca quattro tipologie: un primo a motivi a fasce di spinapesce verdi e violette alternate, un secondo a fasce violette di spinapesce con ordini di losanghe azzurre e un terzo a linee curve intrecciate. L’ultimo motivo elencato, cioè il quarto, è quello “a riquadri ottenuti dall’incrocio di strisce oppostamente diagonali, oppure perpendicolari e orizzontali”27; spesso al centro del riquadro è presente una rosetta.

Queste quattro tipologie hanno i loro relativi reperti archeologici, conservati nel Museo San Marco a Firenze.

Nella seconda categoria, caratterizzata dalla dominante tecnica a mano libera, si individuano tre tipologie di decorazione che possono essere inscritte in cornici geometriche o meno: i fogliami inseriti in riquadri e fasce; le stelle e i gigli d’oro su campo azzurro (motivo molto usato sulle volte); le armi gentilizie. Questi motivi non sono conservati nel Museo di San Marco, ma sono tutti riprodotti in opere pittoriche come le formelle delle storie di San Francesco di Taddeo Gaddi sull’Armadio di Santa Croce nel Museo dell’Accademia (fig. I.8). Il tipo di decorazione maggiormente riprodotta è quello a stemmi, forse perché questo tipo di decorazione serviva a mostrare i legami che le famiglie fiorentine avevano con altre famiglie locali e non, e la loro appartenenza politica al partito guelfo fiorentino (l’aquila rossa che atterra il drago) o a quello ghibellino fiorentino (Sansone che smascella il leone).

Nella terza categoria, quella delle decorazioni a figure, il motivo più diffuso era quello ad alberi e paramenti dipinti. Questo motivo è composto da coperte di vaio appese intorno alla stanza, dietro le quali si intravede un giardino con alberi da frutto e uccelli. Spesso gli alberi crescono sotto gli archi acuti di una loggetta. Al di sopra di essa può esserci un motivo a stemmi. Questa tipologia decorativa fu molto in voga a Firenze ma non solo,

26 A. Schiaparelli, La casa fiorentina e i suoi arredi nei secoli XIV e XV, Sansoni Editore, Firenze, 1908. 27 Schiaparelli, op. cit., p. 141.

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come ci testimoniano le camere nel castello della Manta a Saluzzo o nei palazzi Castiglioni in Castiglione Olona. L’origine di questo tipo di decorazione è da ricercarsi nel reale ornamento mobile sulle pareti delle case signorili. Le pareti delle stanze erano infatti provviste di ganci sui quali potevano essere agganciati i “capoletti” (tessuti imbottiti), sui quali venivano attaccati o cuoi o altri tessuti preziosi. Il motivo pittorico del tessuto di vaio potrebbe derivare da tale usanza; difficile è invece trovare una fonte per il motivo retrostante del giardino.

Per quanto riguarda l’ultima categoria, cioè quella di storie a più personaggi, spesso essa attinge al vasto patrimonio dei cicli cavallereschi, che avevano un largo pubblico di lettori. Questo genere letterario, che circolava tra i mercanti della città, diventava la fonte di molte decorazioni. Meneghetti segnala28 come a Palazzo Cerchi si possa vedere un esempio di decorazione di argomento cavalleresco. Il palazzo venne costruito tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo da alcune famiglie di guelfi bianchi rimaste in città anche dopo il bando imposto dagli avversari (i guelfi neri). Tutte queste famiglie si riunirono sotto il nome del capostipite da cui derivavano, cioè i Cerchi. La costruzione dell’edificio risultò quindi da un assembramento di case torri della consorteria dei Cerchi. Il palazzo conserva dei pezzi di un affresco situato nell’antica loggia (fig. I.9). L’affresco, molto frammentario e di conseguenza poco leggibile, raffigura un duello equestre tra due cavalieri: uno che esibisce delle insegne con i gigli d’oro monarchici francesi, e l’altro con armi ornate con i leopardi inglesi. Questi elementi renderebbero plausibile la datazione intorno al 1326-27, periodo in cui Firenze si era consegnata alla signoria di Carlo d’Angiò, discendente dei re di Francia. Lo scontro tra queste due monarchie appariva più che prevedibile, dato che la presenza di feudi inglesi sul territorio francese costituiva una vera spina nel fianco per l’emergente corona francese. Esso si sarebbe di lì a breve realizzato con la guerra dei Cent’anni (1337-1453). Presso il pubblico colto della Firenze del Trecento, che ben conosceva tanto le leggende carolinge quanto i romanzi arturiani, un duello tra due cavalieri con i gigli e i leopardi poteva essere letto come uno scontro tra paladini appartenenti a due generi narrativi concorrenti: quello di Carlo Magno e quello di re Artù. Appare dunque evidente che le fonti letterarie avessero una grossa influenza anche su cicli decorativi che, a un primo sguardo, sembrano slegati da esse. Non si deve però cercare sempre una fonte letteraria precisa, ma si deve tentare di

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circoscrivere un’area tematica, cui le immagini potrebbero alludere. Nel caso di palazzo Cerchi si potrebbero individuare due livelli di allusività: quello storico (lo scontro politico tra le due monarchie) e quello letterario (lo scontro tra i due cicli cavallereschi). Questa doppio livello di lettura non riguardava solo opere artistiche, ma poteva coinvolgere veri e propri eventi come i tornei-mascarades, nei quali i nobili sfilavano e combattevano indossando i costumi e le insegne dei grandi eroi carolingi o bretoni, nonché dei celeberrimi Nove Prodi29.

Un altro palazzo, sempre a Firenze, presentava un tema decorativo cavalleresco: la casa de’ Teri. Essa fu demolita durante i lavori di rinnovo del centro storico nell’ Ottocento, ma tre frammenti parietali di una camera vennero conservati e posti nel Museo di San Marco (fig. I.10). In essi la cornice entro la quale vengono disposti i singoli motivi ornamentali ha carattere geometrico e divide la parete nel senso orizzontale in zone alterne di comparti rossi ed azzurri. Nel centro dei rossi vi sono tondi con piccole targhe con stemmi e, al di sotto del tondo, escono quattro pennacchi in quattro diverse direzioni. Solamente il variare degli stemmi modifica l’uniformità della decorazione rossa. Diversa è invece la decorazione dei comparti azzurri, nei quali sono presenti tre zone. In ciascuno dei comparti della zona superiore è dipinto un quadrupede, difficilmente riconoscibile a causa dello stato rovinoso della pittura. Attilio Schiaparelli identifica questi animali con: un toro nel primo frammento, un cervo nel secondo, due orsi nel terzo. Nella zona mediana invece si osservano scene animate, anche queste in cattivo stato. Vi si scorgono: un gentiluomo e una dama a cavallo, una dama a cavallo con in pugno una bandiera e un gruppo di gentildonne intorno a un albero. Le scene sono state ricondotte al romanzo di Tristano. Nella zona bassa, invece, sono riprodotte varie specie di uccello, nelle quali Schiaparelli riconosce pellicani, fiamminghi, fagiani e uccelli acquatici30. Dagli elementi presenti si deduce che l’impianto decorativo era costituito da episodi del romanzo di Tristano e da una sorta di corso figurato di zoologia. Si vede che anche in questo caso poche ed essenziali scene dovevano essere ritenute più che sufficienti a evocare l’intera storia cavalleresca.

Una testimonianza particolarmente interessante della diffusione della letteratura arturiana e del romanzo di Tristano è contenuta nell’anonimo poemetto tardo duecentesco

29 Meneghetti, op. cit., p. 275. 30 Schiaparelli, op. cit., pp. 158-59.

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L’Intelligenza, nel quale si descrive un fantastico palazzo le cui stanze sono tutte decorate

con cicli di pitture e mosaici, rappresentanti storie di tradizione classica, biblica e romanzesca ed episodi del romanzo cortese:

Dall’altra parte del ricco palazzo intagliat’ è la Tavola Ritonda,

le giostr’ e ‘l torneare e ‘l gran sollazzo; ed èv Artù e Ginevra gioconda

per cui ‘l pro’ Lancillotto venne pazzo, March’ e Tristano ed Isotta la blonda, e sonv’i pini e sonvi le fontane,

le giostr’ e le schermaglie e le fiumane, forest’ e land’ erre di Trebisonda. Altra masnad’ adorna vidi assai, secondo ch’a tal donna si pertene, la qual molto veder mi dilettai. Per lo palazzo andando i’ vidi bene di nuove cose ch’io non vidi mai, sì come a grande corte si conviene; e audivi dolzi boci e concordanti, e nobili stormenti e ben sonanti che mi sembravan canti de Serene. (ott. 287 e 288)31

Parlando dei cicli decorativi basati su storie e leggende, Schiaparelli dà notizia del recente ritrovamento “in una stanza nel palazzo Davizzi” di “una delle solite decorazioni ad alberi e parati, nella quale, tra un albero e l’altro, si svolgono diverse scene di mezze figure, oggi molto guaste e annerite, che pare rappresentino i vari momenti di una cerimonia nuziale”32. In realtà, come verrà chiarito poco dopo, in seguito ai restauri

31 L’Intelligenza. Poemetto anonimo del secolo XII, a cura di M. Berisso, Guanda editore, Varese, 2000,

pp. 117-118.

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portati a termine nel 1910, il ciclo dipinto nella camera illustra la storia narrata nel poemetto francese La Châtelaine de Vergy e resa famosa in Italia dal cantare in ottava La

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Figura I.1-L’uomo come microcosmo. Salomone di Costanza, Glossario. Prüfening. 1165

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Figura 1.2-Le quattro nature della Creazione. Onorio di Autun, Clavis physicae. Regione della Mosa (?). Metà del XII secolo

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Figura I.3 - Visione cosmica con fasce anulari dell’atmosfera e dei pianeti. Sant’Ildegarda di Bingen, Scivas. Germania meridionale. 1165 ca.

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