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Academic year: 2021

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IL POTERE INVISIBILE Carlo Sini

1. Posizione del problema

Si suole opporre il potere visibile e sovrano delle istituzioni e il potere invisibile degli interessi e delle forze economiche, dei personaggi occulti ma influenti, delle eminenze grigie e così via. Certamente il potere sovrano ama esibirsi, seb-bene lo faccia in modi storicamente differenti: un tempo l’esibizione era carat-terizzata da manifestazioni di grande sfarzo e pompa, con tratti sacrali, etichet-te e comportamenti lontani dalla vita della genetichet-te comune e cioè dei sudditi; og-gi, in tempo di democrazia, il potere ama le esibizioni pubbliche dal vivo e sui mass-media, ma tende ad assumere comportamenti il più possibile comuni e disincantati, informali e senza pretese, quasi a dire: vedete cittadini, noi potenti siamo proprio come voi e cioè come tutti. Quanto al potere cosiddetto invisibi-le, esso è certamente sempre esistito, ma la sua reale natura non è di essere in-visibile in senso letterale; più che inin-visibile, lo definirei segreto e nascosto e pertanto difficile da vedere per i comuni mortali; non però invisibile di per sé. È il potere dei circoli e degli interessi privati, spesso inconfessabili, contrari o lontani rispetto a ciò che la legge comune stabilisce; quindi è il potere delle per-sone che ne fanno parte e la cui azione di certo condiziona il potere sovrano dall’interno.

Esiste però un potere realmente e letteralmente invisibile ed è di esso che vorrei parlare: impresa molto difficile, perché parlare di ciò che per sua na-tura non si dà a vedere e non si può vedere sembra un proposito abbastanza disperato. Cercherò di avvicinarmi alla cosa per via indiretta, essendomi preclu-sa quella diretta. Comincerò per esempio col ricordare la sostanziale e inevita-bile sconfitta alla quale tutti i poteri, sovrani o privati, visibili o segreti, da sem-pre vanno incontro. La cosa è tanto ovvia e diffusa in ogni tempo che non la si ritiene degna di giustificazione: le cose, si sa, vanno così. Ma perché vanno co-sì? Ogni progetto, pubblico o privato, anche quelli ai quali arride il più ampio successo, non reggono alla lunga la prova; prima o poi mostrano la corda e de-cadono. Programmi politici devono di continuo modificare il tiro, adattarsi a mediazioni o a vere e proprie smentite, devono rinunciare a parti sempre più rilevanti del progetto iniziale, sino a dissolversi del tutto. Questo è vero di un’impresa, di una politica, di uno Stato o di un impero, di un progetto indivi-duale, di uno stile di pensiero, di una regola artistica, di un’impresa produttiva e così via. Se osserviamo le cose sotto questa prospettiva, è facile concludere che tutti i poteri, manifesti o segreti, pubblici o privati, grandi o piccoli, esercitano all’inizio la loro potenza e la continuano con alterna fortuna; alla fine, però, tut-ti indistut-tintamente rivelano la loro sostanziale parzialità, il loro limite intrinseco, e perciò l’impossibilità di dominare le situazioni in cui via via si trovano e che spesso essi stessi hanno prodotto: devono necessariamente arretrare e infine, sia pure alla lunga, scomparire del tutto. Così finì la politica economica di Dio-cleziano, la moda dei sanculotti, la manifattura dei tabacchi che stava nella stda di fronte, la ferrea presidenza del consiglio dei condomini stda parte del ra-gionier Rossi e così via. Un fenomeno biologico, direbbe Spengler. Il che non di-ce ovviamente nulla: nota la decadenza della vita individuale entro la perennità, direbbero i Greci, della zoé e vi assimila la vita delle umane istituzioni politico-spirituali. Il come e il perché restano sconosciuti e impensati.

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Carlo Sini, Il potere invisibile

Proviamo a riflettere. Tutti i poteri, di ogni grado e natura, sono sem-pre parziali e in ultimo impotenti: le cose sfuggono loro di mano. In modo del tutto analogo, i saperi che interpretano i poteri e che li descrivono mostrano regolarmente di essere insufficienti e inadeguati (infatti cambiano di continuo). Le loro valutazioni, le loro previsioni, falliscono regolarmente lo scopo. Anche i saperi mostrano l’estrema fragilità, parzialità e fugacità del loro potere intellet-tuale, della loro forza ermeneutica. Ma che cosa sono le cose che sfuggono di mano e che rendono la vita umana, individuale e sociale, una continua avventu-ra, una perenne metamorfosi, una inarrestabile frana o fiumana, inframmezzata da vere e proprie catastrofi? Sono evidentemente queste cose a detenere quel potere invisibile che di continuo annoda le sue trame, penetra ogni pratica di vita, sconvolge i suoi intrecci, modifica i modi e i luoghi dei poteri visibili e co-stringe quelli invisibili o segreti che stanno loro dietro a modificare tattiche e strategie, maschere e accorgimenti. Dicevano gli antichi: è così che la Fortuna, con occhi bendati, governa misteriosamente e incomprensibilmente le sorti umane. È per questa consapevolezza che Scipione non può limitarsi a gioire nell’osservare le rovine fumanti di Cartagine: sa che un giorno toccherà anche a Roma. Ogni fortunato dovrebbe sempre ricordare che, in un modo o in un altro, il cadere in disgrazia e la sventura attendono al varco il suo destino. Perciò gli antichi giudicavano invidiabile colui che muore il giorno stesso del suo trionfo.

Più l’umana società si complica, più le previsioni divengono ardue e i-naffidabili, sia per l’uomo pubblico, sia per l’uomo privato. L’andamento dei mercati, il listino della borsa, il gusto e i favori del pubblico, le trasformazioni delle strategie e dei ruoli entro l’azienda o entro il partito politico: chi è in gra-do di orientarsi e di governarli per tempo? È questo allora il punto? La legge incalcolabile della complessità? Se è così, dobbiamo immaginare che il potere invisibile delle cose non sia altro che l’effetto, complicato e continuamente complicantesi, di ciò che tutti fanno (e che in loro e attraverso di loro si fa). Questo fare enormemente intrecciato produce di continuo effetti di ritorno e implicazioni che nessuno ha voluto e tanto meno previsto. L’arte di governare del politico e l’arte di vivere del privato cittadino ne sono di continuo affetti e spesso scon-volti. Hai conquistato Mosca e aspetti che l’imperatore chieda la pace; ma, in-credibilmente, non lo fa e tu ti trovi assediato, in una città deserta e incendiata, dal freddo e dalla fame, con un esercito destinato a trasformarsi in un’armata di spettri, annuncianti il segno inequivocabile della tua rovina. Così Colombo cer-cava l’Oriente e scoprì l’America; Otello regalò un prezioso fazzoletto ricamato alla nobile consorte e preparò, ignaro, la sua disgrazia e la sua morte.

Ma che cosa fanno questi tutti che fanno e che col loro fare fanno cadere imperi, modificano l’economia mondiale, cambiano la dieta degli Europei, de-stinano a morte gli innocenti e così via? Limitarsi a ricordare la complessità del-le conseguenze del fare continuo di tutti, ognuno cieco sul loro scranno di la-voro, ma tutti insieme efficaci al di là delle intenzioni, per l’interazione fra tutti e con tutto che ne deriva, è forse suggestivo, ma anche insufficiente. Si potreb-be aggiungere che, come risultato notturno di questo fare anonimo (un regno immenso e anonimo, diceva appunto l’ultimo Husserl), abbiamo il conformarsi al fare di un abito diurno; si potrebbe dire: ciò che ognuno è pronto a fare. Le conse-guenze del fare di tutti si ravvisano negli abiti di risposta, direbbe Peirce. Sono essi a segnalare che le cose cambiano; nel contempo, proprio queste risposte

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Carlo Sini, Il potere invisibile

modificano le cose. Quando ero ragazzo, l’autorità e il potere dei nostri inse-gnanti erano fuori discussione; oggi mi sembrano molto diminuiti. Quando Enzo Paci entrava in aula, ci si alzava tutti in piedi. Poi non lo si fece più: una conseguenza del ’68, si diceva. Ma che cosa era cambiato? Era il non alzarsi che aveva prodotto il cambiamento, o qualcos’altro aveva prodotto il non alzarsi? Di certo Paci non c’entrava per nulla: restava il professore molto ammirevole e molto ammirato che era prima. Oppure proprio il suo insegnamento aveva o-scuramente concorso al mutare dell’abito di risposta?

Insomma, il fare di tutti, ciò che tutti son pronti a fare: siamo ancora molto nel vago e del potere invisibile qui inseguito non sappiamo molto di più di quello che sapevamo prima.

Senza ulteriori indugi e nella speranza che quanto precede sia riuscito ad animare il problema che propongo all’attenzione, vengo a una possibile ri-sposta. Essa suona così: il potere invisibile di cui parlo è la cultura in quanto au-toma. Mi riferisco, nell’uso di questa parola, alle tesi che ho svolto in L’uomo, la macchina, l’automa (Bollati Boringhieri, Torino 2009), tesi che presuppongo al-meno in parte note. In altri termini: il potere invisibile è quello delle macchine.

Macchina viene dal greco mechanáo: macchino, diviso, escogito, disegno, preparo, ordisco, tramo. Donde mechané (dor. machaná): macchina, ordigno, mezzo, espediente, artificio, congegno, industria, astuzia, raggiro, malizia, stra-tagemma. E dor. machánasis: apparecchio. In latino machina: ordigno, congegno (da guerra). Per es. Lucrezio (5,96): «ruet moles et machina mundi», «crollerà l’immenso edificio del mondo»; poi inganno, insidia; infine palco su cui si ven-devano gli schiavi (Cicerone) o su cui lavoravano i muratori e gli artigiani, ca-valletto dei pittori (Plinio). La macchina, insomma, come un insieme di elemen-ti che assolvono un determinato scopo, incarnando in sé il fine e quindi il mez-zo (se c’è un fine c’è un mezmez-zo e viceversa).

L’immenso edificio del mondo: forse questa espressione ci aiuta a non frain-tendere. Non stiamo dicendo che il potere invisibile delle macchine sia quello immaginato dai film di fantascienza con Boris Karloff a fare da mummia al servizio dello scienziato cattivo che vuole sostituire le macchine all’umano. Stiamo dicendo che le macchine sono l’umano, cioè che letteralmente coincido-no con la cultura (la cultura è un automa, dicemmo appunto in altra sede); ov-vero ciò che, per così dire, ci distingue dalla nuda vita, di cui tanto, a proposito e a sproposito, oggi si parla.

In una recente intervista anche Telmo Pievani osservava che il motore della evoluzione umana è la cultura: un fattore al quale Darwin aveva prestato attenzione, senza peraltro poter ancora «inglobare l’evoluzione culturale in

quella naturale»1. Come si vedrà più avanti, noi saremmo più propensi a dire il

contrario (o anche il contrario), ma il punto è che Pievani contesta qui la tesi di David Attenborough, secondo la quale da diecimila anni in qua l’evoluzione dell’uomo starebbe rallentando. Non l’eredità genetica, infatti, ma l’evoluzione culturale è ciò che decide oggi della sopravvivenza. Questo modo di ragionare, dice Pievani, è semplicistico, in quanto ritiene che l’evoluzione coincida con la sola selezione naturale. Attenborough «non tiene conto di altri fattori, come la cultura. L’evoluzione non si è fermata, bensì procede con altri mezzi, in parte

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Carlo Sini, Il potere invisibile

diversi da quelli descritti da Darwin nell’Ottocento». Infatti, continua Pievani, i cambiamenti agiscono a tre livelli: quello microscopico dei geni; quello inter-medio degli organismi nel loro adattarsi plasticamente all’ambente; infine il li-vello macroscopico che ora avanza assai più velocemente degli altri due e che esercita una pressione impetuosa sulle specie e gli ecosistemi del pianeta. «La cultura è proprio questo: trasmissione non genetica di informazioni. Si tratta di uno strumento formidabile, con cui le specie acquistano flessibilità e si adatta-no agli ambienti più diversi. […] Mentre i ritmi dell’evoluzione naturale soadatta-no generalmente molto lenti, Homo sapiens sta cambiando le regole del gioco di questo pianeta a un ritmo sostenutissimo. […] Oggi il cambiamento corre così rapidamente da non lasciare alla biosfera il tempo di recuperare. Questi pro-blemi erano ancora marginali all’epoca vittoriana di Darwin». Al termine dell’intervista la domanda dell’intervistatrice è se ci siano passaggi della nostra storia che l’evoluzione non riesce a spiegare e Pievani così risponde: «Uno so-prattutto: l’intelligenza. L’esplosione delle capacità del nostro cervello è qualsa che la teoria dell’evoluzione al momento non qualsa spiegare. Non qualsappiamo co-sa sia successo». E qui si rende per noi necesco-saria una lunga digressione. 2. L’origine del comportamento simbolico

È questo il titolo del penultimo capitolo di un libro testé apparso, un libro di ammirevole chiarezza, attualità e sostanza scientifica al quale ora ci riferiremo

per un tratto di cammino2. Il suo autore concorda con l’osservazione di

Pieva-ni: come abbia avuto luogo l’intelligenza simbolica umana non è ancora scienti-ficamente spiegabile. Ma procediamo con ordine.

Il problema da chiarire, dice Tattersall, è come si passa in natura da una modalità di vita non simbolica e non linguistica alla modalità simbolica e lingui-stica (p. 227). La domanda sembra e suona più che legittima; nondimeno dob-biamo subito intervenire con un commento a margine (lo faremo spesso, esclu-sivamente per i nostri fini): è davvero straordinario come il procedere scientifi-co non si sogni mai di mettere in questione anche il punto di osservazione che nel procedimento è assunto. Si direbbe che questa mancanza non sia qualcosa di causale, ma anzi una necessità strutturale del metodo scientifico stesso, una sorta di regola del gioco: si fa scienza se non si fa questione del punto di osser-vazione assunto; questo è il prezzo da pagare per attingere il punto di vista dell’oggettività scientifica.

Si badi: la domanda concerne la nascita dell’intelligenza simbolica e del linguaggio. È evidente che la domanda non chiede da altrove, da un di fuori che osservi dall’esterno o dall’alto il passaggio cercato; la domanda chiede palese-mente dall’interno della già nata e da gran tempo acquisita intelligenza simboli-ca, nonché delle parole del linguaggio, ma lo fa come se il suo domandare non fosse già parte e conseguenza del problema. La domanda cerca un oggetto reale in sé e indipendente dalla domanda (è appunto il sottinteso del metodo, il suo indiscu-tibile presupposto) e non prende in alcuna considerazione l’aspetto paradossale e problematico di questo abito del domandare, che frequenta con serena inno-cenza. Ma ora procediamo.

2 Cfr. I. Tattersall, I signori del pianeta. La ricerca delle origini dell’uomo (2012), trad. it. di A. Panini,

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Carlo Sini, Il potere invisibile

Come può essersi verificato questo «balzo» (questo improvviso passag-gio di soglia, potremmo dire)? Il fatto è che si è verificato, dice Tattersall. Dob-biamo fermarci ancora. Che cosa in realtà si è verificato? Risposta: ma quel passaggio, dal non linguistico al linguistico ecc. Allora propriamente si è verifi-cato questo fatto: che abbiamo così descritto il passaggio e poiché è questo che si è descritto, è un fatto che lo si è descritto. Siamo in una situazione piuttosto lapa-lissiana (non quella che ci si immaginava di avere di fronte, almeno se la coe-renza e se appunto la fedeltà ai fatti ha ancora un senso). Ma come, non la vedi la differenza tra l’uomo e gli animali? Hai mai visto un cane recitare la Divina Commedia? Già, è appunto il fatto che la vedo a stabilirla. Questo fatto è una differenza interna del mio modo di vedere, coltivato tra l’altro da cose o macchine come la Divina commedia. Vuoi dire allora che la differenza non è vera e che non è reale? Assolutamente il contrario! Voglio proprio dire che lo è, in quanto funzione ed esito del vederla. Voglio dire altresì che la differenza non è però indipendente dal mio vederla, dal mio modo di vederla e di vedere, ma atten-zione: con questo non sto affatto dicendo che sia prodotta dal mio vedere e che perciò essa, fuori dal mio vedere, non esista e non sia niente. Ma di questo più avanti.

Tattersall parla, a proposito dell’intelligenza simbolica, di un «balzo qualitativo» che non ha parallelo nella storia (mi si consenta di aggiungere: sto-ria raccontata dal balzo, o dagli effetti del balzo, e dai suoi simboli). Ora, que-sto balzo «sembra che sia avvenuto dopo l’acquisizione della forma biologica moderna che caratterizza la nostra specie». Quindi non come sua diretta conse-guenza (ecco il problema, in quanto il balzo si smarca da un troppo superficiale riduzionismo biologico: luogo nel quale lo scienziato si muove però a suo agio, senza misteri e soprattutto senza dubbi). Dopo di che Tattersall ricostruisce quei dati che potrebbero testimoniare delle prime avvisaglie di una sensibilità sim-bolica (che cosa si intenda per «simbolico» non è mai invero chiarito o precisa-to). Qui il suo lavoro rivela tutta la straordinaria e preziosa capacità analitica e descrittiva di cui è fornito. Siamo ricondotti alla scoperta delle conchiglie di ol-tre 100.000 anni fa, dotate di un buco che forse testimonia di un loro uso in forma di collana. Analoga funzione avrebbero svolto i colori per agghindare il corpo. Le conchiglie ricompaiono 76.000 anni fa in altri luoghi, spesso lontani dai luoghi d’origine delle conchiglie ritrovate, sicché è ovvio pensare a un commercio e allo scambio, e così via. È dunque plausibile che «alcune popola-zioni del Paleolitico medio africano abbiano cominciato a decorare i propri corpi poco meno di 100.000 anni fa» (p. 228). Aggiungiamo alle conchiglie le uova di struzzo e le placche di ocra incise con misteriosi segni geometrici (che

invero ricordano lo script di cui ha parlato Marija Gimbutas)3.

È importante ricordare che l’emergere di questa sensibilità e attività simbolica si innesta in una fitta trama di capacità operative. Da 164.000 anni a 70.000 anni fa i nostri antenati, diretti e indiretti, pur senza il possesso di un pensiero simbolico, sono capaci di costruire strumenti altamente complessi ed efficienti: la loro produzione implica lunghe catene di passaggi, evidentemente immaginati secondo una logica di causa ed effetto. È qui all’opera una memoria operativa che potrebbe già testimoniare di un «ragionamento simbolico nascen-te» (p. 230). Pertanto «abbiamo sempre più prove e testimonianze che nella

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Carlo Sini, Il potere invisibile

se intermedia e finale del paleolitico medio africano qualcosa di molto impor-tante si agitava in Africa» (p. 231). Ovunque sia comparsa la popolazione ante-nata di tutti noi (la cui esistenza è testimoniata anche dagli antropologi moleco-lari: «gli esseri umani che hanno finito per conquistare il mondo derivano da una popolazione dell’Africa occidentale, di dimensioni piuttosto piccole…»), possiamo dire di sapere «che gli esseri umani cognitivamente moderni hanno fatto la loro comparsa in Europa al massimo 60.000 anni fa (50.000 in Austra-lia)». I Cro-Magnon, per esempio, con i loro simboli geometrici e le loro mera-vigliose figure di animali, sono del tutto uguali a noi: essi hanno raggiunto una «coscienza del tutto moderna» (p. 234). Ma come questo raggiungimento è po-tuto accadere?

Secondo Tattersall l’unica ipotesi plausibile è che la creatività dei Cro-Magnon, cioè dei nostri diretti antenati, dipenda da un cambiamento a livello genetico. In caso contrario, sarebbe qualcosa di inspiegabile. Per esempio po-trebbe essersi verificato un nuovo modo di elaborare l’informazione neurale: qualcosa che non si può leggere o testimoniare a livello di ossa fossili, scatole craniche, dentature e simili, ma che è successo (e del resto è plausibile, aggiun-ge Tattersall, che il pensiero simbolico sia emerso nella storia umana molto prima dei Cro-Magnon).

Un’altra pausa di riflessione si impone. In questi ultimi ragionamenti abbiamo l’esempio chiarissimo dello scambio costante operato dal modo di pensare, che si considera scientifico, tra ciò che fa e ciò che pensa e dice di fa-re. Ciò che fa è perseguire l’idea e l’ipotesi di un processo evolutivo attraverso i segni che ne testimonino il passaggio (e lo fa con ammirevole e anzi straordina-rio ingegno analitico-ricostruttivo). Usa questi segni facendoli emergere nell’analisi raffinatissima di scheletri, denti, molecole, geni, manufatti, oggetti simbolici ecc.: ecco le tracce evidenti del processo. Ma a questo punto avviene il capovolgimento o lo scambio: sono questi segni, o per dire meglio alcuni di es-si come le piccole variazioni ereditarie ecc., la causa del processo. Se es-siamo di fronte a tracce di un’attività simbolica, dobbiamo trovarne la causa a livello ge-netico; in ultima analisi devono essere i neuroni a produrre l’attività simbolica. E la riprova è che, se monitorate a livello cerebrale una qualche attività simbo-lica (come oggi è possibile fare), vedrete il coinvolgimento di qualche specifica area neurale. L’indagine cerebrale passa dal reperimento di segni indicatori e orientativi allo stabilimento di supposte cause efficienti.

Ricordando un antico argomento, sarebbe come dire che sono le gam-be, diceva Socrate, ad avermi portato in carcere; così accade uno scambio tra la giusta constatazione che, senza gambe, nessuno può andare in luogo alcuno, alla sciocchezza che fa delle gambe, non un mezzo, ma un fine in sé. Certo, So-crate si risolveva il problema con l’anima, e qui lo scienziato ha tutte le ragioni di dichiararsi insoddisfatto, perché l’anima non lascia segni e la sua azione, se mai esiste, è inverificabile. Senza il corpo, quindi, nessuna azione è ragione-volmente concepibile, ma che ciò che accade a un corpo e di un corpo sia an-cora semplicemente… un corpo, questo è un palese non senso. Le gambe non pensano a dove andare e i neuroni non producono idee intelligenti, anche se è più che plausibile cercare nei neuroni una traccia del fatto che un pensiero

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in-Carlo Sini, Il potere invisibile

telligente ha pensato qualcosa. Come se ne viene fuori? Per ora limitiamoci alla pars destruens delle nostre osservazioni4.

Torniamo a Tattersall. La nascita di Homo sapiens con la sua anatomia moderna, egli dice, precede di circa 100.000 anni le perline bucate (p. 235). In termini biologici si tratta di un evento straordinario, perché Homo sapiens è deci-samente diverso dagli altri ominidi; è difficile o impossibile assegnargli dei pre-cedenti. Pare infatti che il nostro fisico e il nostro intelletto attuali non siano il risultato di tempi lunghi e di un percorso graduale. In particolare, le variazioni climatiche della fine del Pleistocene potrebbero aver fornito l’occasione per il verificarsi di un salto evolutivo, conclusosi con la capacità di «manipolare sim-bolicamente l’informazione». Di sicuro non si tratta però del semplice aumento della massa cerebrale (il cervello dei Cro-Magnon pare addirittura rimpicciolito rispetto a quello dei Neanderthal, dei quali non si conosce attività sicuramente simbolica). E perciò Tattersall ribadisce: l’unica ipotesi possibile è un cambia-mento nella organizzazione interna dei circuiti cerebrali; è per questo che «la nostra specie possiede un pensiero simbolico ed è capace di elaborare l’informazione in forme del tutto rivoluzionarie e mai viste prima» (p. 237, ma viste da chi?). Addirittura alcuni scienziati pensano che tutto sia accaduto grazie a «un gene della capacità simbolica» (grazie al quale, dunque, anche questo brillante pensiero sarebbe formulato: un gene-dio aristotelico che non solo pensa, ma pensa anche se stesso). Tattersall trova che la cosa sia piuttosto illusoria: «Al momento non abbiamo alcun dato genetico che si possa considerare la causa responsabile della nostra unicità in termini cognitivi» (p. 238). Al momento; ma ha senso immaginare che la genetica trovi nel suo ambito cause responsabili? Non è questo modo di parlare del tutto irresponsabile? E cioè irrazionale e non degno di essere considerato scientifico?

Tattersall propone un’altra via, indubbiamente più interessante. Detto in sintesi: non abbiamo ancora idee precise su quale riorganizzazione genetica abbia dato origine all’anatomia esclusiva di Homo sapiens, ma è possibile che la nostra capacità cognitiva sia stata acquisita come un prodotto secondario del cambiamento genetico, casuale e ramificato, che ha avuto come risultato la comparsa di Homo sapiens come essere distinto. Si fa fatica a non osservare che questa ipotesi sarebbe allora, a sua volta, un prodotto secondario, ma proce-diamo. Alla riorganizzazione genetica generale si sarebbe dunque aggiunto un ingrediente neurale che avrebbe predisposto la nostra specie al pensiero simbo-lico: una conseguenza che Tattersall definisce «passiva» (prima aveva detto «se-condaria») di quella riorganizzazione dello sviluppo che ha dato origine, circa 200.000 anni fa, all’Homo sapiens anatomicamente riconoscibile. In proposito Tattersall utilizza (immagino senza saperlo) la brillante formula inventata da Chauncey Wright, l’amico e collaboratore di Darwin, per chiarire la nascita

del-la intelligenza umana: un nuovo uso di antiche funzioni5. Si tratta, dice

Tatter-sall, delle innovazioni genetiche casuali, che non conseguono a uno stile di vita (non sono ad-attamenti) ma lo anticipano (ex-attamenti): caratteri che acquisi-scono una nuova funzione a posteriori (p. 239). Si pensi al comparire delle

4 Per una critica dell’argomento socratico e in generale per tutta la questione qui sollevata cfr.

C. Sini, L’origine del significato, in Transito Verità, vol. V delle Opere, a cura di F. Cambria, Jaca Book, Milano 2012, pp. 231ss.

5 Cfr. C. Sini, Darwin e la psicozoologia, in Incontri. Vie dell’errore, vie della verità, Jaca Book, Milano

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Carlo Sini, Il potere invisibile

penne molti milioni di anni prima di divenire componenti essenziali per il volo, oppure alle zampe emerse in animali ancora acquatici. Così accadrebbe per l’intelligenza simbolica. I neuroni, del tutto casualmente, si erano già inconscia-mente attrezzati; tutto era lì pronto per pensare, e poi ecco che una novità evo-lutiva avrebbe fornito l’occasione per scoprire questa possibilità nascosta, sino ad allora non riconosciuta.

Confesso l’assoluta incapacità di raccapezzarmi. Dunque, c’erano delle configurazioni neurali lì pronte per pensare, ma che non pensavano (restavano mute, passive, chissà cosa facevano). Poi, grazie a un cambiamento delle circo-stanze, ecco che gli esseri umani scoprono di averle e cominciano a pensare. Ma sono le circostanze, gli esseri umani o i neuroni che pensano? I neuroni, si è detto. Ma allora com’è che prima non pensavano e poi pensavano, agendo come causa del pensare? Non riesco a raffigurarmi la cosa in modo comprensi-bile e invero si deve dire lo stesso anche di Tattersall, che a questo esatto punto scrive: la capacità simbolica viene rilasciata «grazie a un stimolo che deve per forza essere stato di tipo culturale: la parte biologica infatti esisteva già» (p. 239). Ma che razza di ragionamento è questo? Una novità evolutiva capace di elaborare pensiero simbolico, cioè cultura, si sveglia e comincia a funzionare grazie a uno stimolo simbolico, cioè culturale? Forse il soffio di Dio nel naso o nella bocca di Adamo?

Certo, la cosa è assai complessa e non è il caso di fare dello spirito (che ci fosse già o no). Tattersall avanza l’ultimo tentativo, di sicuro il più interes-sante. Dapprima ricorda la tesi secondo la quale lo stimolo alla nascita del pen-siero simbolico sarebbe fornito dalla sempre più stretta e complessa vita sociale dei gruppi umani, raccolti la notte intorno ai loro focolari, intenti a collaborare nella caccia, nella costruzione di ripari ecc.; poi avanza la tesi a suo avviso (e, in certo modo, anche nostro) più plausibile, tesi riferita alla nascita e all’uso del linguaggio: uso che portò a suddividere il mondo che ci circonda in un vasto vocabolario (p. 243). Fu il linguaggio a generare «un nuovo modo di vedere e di inventare il mondo». Fu questo stimolo a farci superare la soglia della capacità simbolica, sino a sostituire i suoni con i segni (p. 245). Qui dovremmo fermarci di nuovo, per l’impossibilità di aderire a così superficiali e astratte formulazioni relativamente a che cosa sia opportuno intendere per linguaggio (soprattutto nella sua fase aurorale), simbolo e segno. Ce lo risparmiamo, avendone trattato ampiamente in molti nostri scritti, e veniamo invece alle ultime considerazioni del nostro autore.

Il problema, egli scrive, è di conoscere esattamente la differenza tra pro-cessi mentali e propro-cessi che procedono senza parole. Se questo è il problema, di sicuro è irresolubile, perché non potremmo conoscere esattamente alcunché senza fare uso delle parole, cioè di quel vocabolario cui Tattersall aveva brillan-temente accennato sopra. Quindi senza già frequentare quella differenza che vorremmo confrontare con il suo esterno, il suo diverso o il suo altro. Forse Tattersall immagina che sarebbe una soluzione poter mostrare all’opera, nei due casi, certe parti specifiche del cervello. Vedere questo è sì una conoscenza, così formulabile (e già la neurologia ne sa appunto abbastanza): quando pensi senza parole si accende qui; quando usi le parole si accende in quest’altro luo-go. Salvo che tutto questo non puoi né dirlo né vederlo (né farlo accadere) sen-za parole, e che un pensiero sensen-za parole è per di più una nozione quanto mai vaga e somigliante a un ferro ligneo. È pur sempre un pensiero che parla a cercar di

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Carlo Sini, Il potere invisibile

capire un pensiero che non parla, come il pensiero che parla pensa e dice, sup-ponendo (beato lui) di star cercando una cosa reale e consistente.

Indubbiamente un pensiero senza parole si può immaginare all’opera nei diversi processi che hanno mirabilmente dotato gli ominidi di tecnologie, cioè da quando, dice Tattersall, il primo produttore di strumenti ha battuto due

rocce insieme (p. 253)6. Un cammino sempre più complesso, che procedette di

sicuro a tappe: le ultime sono comprese, dice Tattersall, tra 90.000 e 50.000 an-ni fa. Un cammino che ha al centro una sorta di crescente «memoria operati-va»: la possiamo supporre già così sviluppata ed efficiente nell’Homo sapiens, che viene da pensare che l’acquisizione del linguaggio non sia stata originariamente in relazione diretta o essenziale con quelle che, con parole sin tropo attuali, gli antropologi chiamano «capacità cognitive». Un’ipotesi affascinante che anche Tattersall ha il merito di avanzare e proprio qui lo lasciamo, non senza avverti-re il bisogno di esprimeavverti-re viva gratitudine per tutto ciò che il suo libro straor-dinario ci ha insegnato.

3. La macchina

Torniamo alle nostre macchine. Ogni macchina, come qui la intendiamo, è una installazione (Heidegger forse penserebbe al Gestell, che significa, tra l’altro, pie-distallo, scaffale, ossatura e cavalletto). La macchina si installa tra l’organismo e l’ambiente e funziona come uno strumento esosomatico (come dicono gli antro-pologi), ma la cosa esige un chiarimento. Non possiamo infatti separare il soma dal suo ambiente (per farlo avremmo infatti bisogno di una macchina). Corpo vivente organico (soma) e ambiente (il suo ambiente) fanno uno: la rondine ha il suo cielo e la margherita il suo prato. Quando e come da questa indisgiungibile relazione qualcosa si stacca estraniandosi? Come possiamo concepire tale even-to? Possiamo forse pensare a un nuovo uso di vecchie funzioni, come usare l’acqua per spegnere l’incendio o il ramo per farne un bastone? Qualcosa viene sottratto alla relazione immediatamente con-costitutiva di organismo e ambien-te e viene impiegato come mezzo o strumento: esso consenambien-te all’organismo di modificare la sua relazione originaria organismo-ambiente (di fatto comincian-do a diventare appunto un organismo che ha un ambiente e non che è il suo ambiente, che è uno con esso). Possiamo immaginare una sorta di prolunga-mento del corpo, del soma, al di là delle funzioni che erano spontaneamente emerse nella relazione originaria con l’ambiente. Il bastone potenzia ed estende il braccio ecc. Ecco una prima soglia di emergenza di azioni propriamente intel-ligenti (non iscritte già nell’eredità genetica e in ciò che si suole chiamare istin-to).

Ovviamente questa novità operativa rimbalza sul soma e innesca nuove relazioni e con-costituzioni tra organismo e ambiente: l’intelligenza animale è in cammino attraverso una vicenda metamorfica, una storia di corpi che cercano, trovano o non trovano l’adattamento (la loro azione concorre alla trasformazione dello stesso ambiente ecc.). In questo cammino e alla luce del nostro problema lo stacco linguistico si rivela decisivo; è esso a produrre la macchina culturale: una tipica produzione arti-ficiale. E del resto la macchina linguistica esibisce un esosomatismo perfetto: la voce, così come ogni segno e traccia di scrittura, si

6 Per questa brillante osservazione rinvio anche alle analisi da me svolte in L’uomo, la macchina,

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stacca dal corpo e risuona significativamente nello spazio per tutti (per innescare la risposta di tutti, compreso l’autore del gesto vocale); oppure vi permane, esi-bendo durevolmente nel tempo i suoi segni.

In quanto la macchina linguistica esibisce lo stimolo alla risposta co-mune (questo suono significa per tutti: c’è una preda; questo colore sul viso in-dica a tutti: siamo in guerra ecc.), allora il linguaggio muove i corpi in modo conforme e in questo senso è appunto un automa (la causa autonoma del mo-vimento collettivo). E così la macchina linguistica si installa dentro i corpi in a-zione nella loro relaa-zione comunitaria (in comune) e nella relaa-zione all’ambiente, modificando gli uni e l’altro: il cammino della civiltà è cominciato. Infatti la macchina linguistica fa anche di più: inserisce nella relazione degli umani col mondo e tra loro nuove entità originali (per esempio il vocabolario di cui parlava Tattersall), come tipici prodotti del lavoro linguistico. Intendiamo infatti per lavoro ciò che produce resti disponibili. Non l’occasionale uso di un ramo per catturare termiti, ma la raccolta di strumenti appositamente conserva-ti e messi da parte per la lavorazione: quesconserva-ti conserva-tipi di roccia, queste schegge affila-te ecc. Il lavoro ominide diviene propriamenaffila-te lavoro umano quando la produ-zione di parole (suoni-segni-gesti-colori-azioni-ritmi ecc.) genera conoscenza con-sapevole: non solo saper fare, ma sapere che cosa (ecco la parola) si fa. Non instal-lazioni meramente operative, ma instalinstal-lazioni potenzialmente concettuali, in cammino attraverso i segni della pratica linguistica volta a volta così e così de-terminata. (È ancora ciò che in questo momento stiamo facendo).

Detto questo in generale, proviamo a scendere più in dettaglio. La mac-china dunque modifica la disponibilità, l’abito dell’agente, in quanto gli affida e gli offre una progettualità mediata, trasferita in un terzo installato fra intenzione e riempimento. La progettualità immediata è agita, non è vista, non è rappresenta-ta, e in questo senso non è saputa (sa fare, si è detto, ma non sa che cosa fa). Prendiamo l’esempio di Tattersall: la percussione di due sassi per ottenere una lamina. L’agente ha già usato sassi, occasionalmente idonei, per percuotere e per raschiare: già queste azioni sono macchine, quanto meno potenziali o in miniatura. (Si ricordino i significati di «macchina» a suo tempo elencati: mezzo, espediente, disegno, artificio, ordigno, congegno, raggiro, astuzia, industria ecc.) Il sasso fa da mediatore e diviene criterio e misura per ordinare e analizza-re l’ambiente: a suo modo incarna un primordiale algoritmo. Inoltanalizza-re l’esempio mostra già come una macchina (percuotere con un sasso) ne generi un’altra (ot-tenere da un sasso una lamina). Questo è un aspetto fondamentale ed essenzia-le: le macchine, in certo modo, si muovono da sole (sono appunto automi), so-no sempre più autogenerative e autoevolutive. E così la situazione si capovol-ge. Dicevamo che la macchina è il medio che consente all’organismo di agire in modo lavorativo sull’ambiente; ma ora comprendiamo che l’azione della macchi-na, acculturando il corpo, fa proprio del corpo il medio dell’azione. La macchina si rigenera nel corpo in azione; essa non ha vita (se non potenzialmente come macchina biologica: il grande orizzonte del nostro futuro) e tuttavia suscita e governa l’azione del corpo vivente acculturato (macchinato).

Vedere la potenziale presenza di una lamina in un sasso opportunamen-te percosso da un altro sasso: questo vedere innesca un’attività surrettizia, so-vra-naturale. Essa non modifica in modo appariscente la struttura superficiale del bios (della biosfera), anche se certamente modifica alla lunga la postura e poi

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la struttura di occhi, mani e relative connessioni cerebrali (così noi siamo oggi in grado di vedere e di dire, beninteso con le nostre macchine e grazie a esse). La capacità di usare una macchina non sembra essere ereditaria; nemmeno la ca-pacità linguistica lo è: si esige uno stimolo macchinico, cioè culturale (come aveva intuito, ma poi mal compreso, Tattersall). Per questo non ha senso dire che so-no i neuroni la causa; si tratta invece di una relazione complessa e riflessa cor-po-mondo, che lascia tracce nel corpo, ma esige di nuovo la relazione al mon-do e agli altri corpi per attivarsi. Il monmon-do fa il corpo tramite la relazione di o-gni corpo con gli altri corpi e con l’ambiente. La macchina fa, nel corpo, la mente strumentale (l’astrazione simbolica o l’informazione cognitiva, come di-ce Tattersall in base alle sue macchine e in quanto detto dalle sue macchine). La macchina presuppone il corpo vivente per renderlo conoscente e lavorativo. Per la stessa via può arrivare anche a produrre il corpo vivente, ma sempre a par-tire dal vivente e per il vivente.

Il possesso di uno strumento genera conseguenze molteplici. Un conto è l’abito di risposta al fuoco (per esempio scappare di fronte all’incendio della foresta; l’attore non vede propriamente né foresta né fuoco: vede che deve scap-pare); un altro è usare il fuoco, per esempio una fiaccola: l’attore domina tecni-camente la cosa, mostrando ed esercitando l’arte consapevole e produttiva che consente di conoscere il fuoco (cioè la cosa e la parola, nella loro nascita con-temporanea). Ogni strumento modifica la vita del gruppo umano. Si avvia così il cammino sterminato di una idealmente infinita catena di macchine, la cui in-terazione progressiva dà luogo a esiti imprevedibili e assai più complessi della loro semplice somma aritmetica. Il corpo vivente e il corpo del mondo ne sono profondamente modificati; non è più solo il mondo che modella il corpo vi-vente, ma è anche il corpo lavorativo che modella il mondo. Non è una sempli-ce combinatoria di casuali forze naturali che ha scatenato l’insempli-cendio, ma il con-sapevole progetto umano di far terra bruciata intorno all’invasore. Uso in-naturale di forze naturali.

Forse ora si comincia a comprendere che il corpo umano è gettato nel progetto delle macchine, nella catena degli automi. Può volere e perseguire solo ciò che esse mostrano, aprono e consentono, ma la visibilità aperta dalle mac-chine è nel contempo la libertà dell’essere umano. Se, al contrario, si legge qui una servitù (come spesso erroneamente si fa), è perché si concepisce l’essere umano secondo le superficiali e superstiziose convinzioni ideologiche del co-siddetto senso comune, che pensa l’agente come un soggetto e un attore asso-luti (cioè sciolti dalla relazione al mondo e alle macchine, che l’hanno invero prodotto). La libertà dell’essere umano coincide interamente con il concreto lavoro delle sue pratiche, reso possibile e reale dalle sue macchine; lavoro che è condizione e strumento del progresso materiale, intellettuale e morale delle sue azioni. Nel contempo, l’incremento quantitativo delle possibilità accresce i ri-schi per la vita degli individui e dell’ambiente, come tutti sappiamo, sia perché l’azione lavorativa delle macchine è innaturale, ma non può fare a meno di tran-sitare, come si è detto, grazie ai e nei corpi naturali; sia perché questo incre-mento è imparagonabilmente più veloce delle metamorfosi naturali e delle no-stre possibilità di adeguata previsione e comprensione (il suo potere invisibile è incalcolabile: Heidegger avrebbe detto che è, o è diventato, «gigantesco»).

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La nostra difficoltà di comprendere e di governare intellettualmente l’incremento dei prodotti delle macchine e le loro conseguenze impreviste e in-desiderate ci riconduce di nuovo al linguaggio: lo strumento più pervasivo di ogni altro negli effetti retroflessi che produce. Macchina antica quanto il cosid-detto Homo sapiens, il linguaggio, in quanto caratterizzato dalla sua scrittura ide-ologica e ideografica, si rivela come l’organon per eccellenza. La sua macchina nasce in contesti specifici e tende per sua natura alla generalizzazione. Le mac-chine, dicevamo sopra, si innescano le une con le altre, ma entro limiti deter-minati dalla loro specificità naturale e materiale. Un bastone nato per allungare la portata dell’azione del braccio, può suggerire ulteriori usi e innescare mac-chine più complesse, oppure può inserirsi in esse dando vita a una specifica meccanica; c’è però un limite di efficienza, determinato appunto dalla sua natura: non si abbattono con un bastone le mosche o le zanzare. Il linguaggio invece, macchina eminentemente pervasiva e astraente, si estende a tutto, ricopre tutto (ogni cosa). Si inserisce in ogni altra macchina e la riassorbe in sé.

Peraltro il linguaggio è sempre una macchina complessa (non isolata o semplice, neppure nella riduzione ai lemmi del dizionario); si tratta di una mac-china che agisce all’interno di intrecci di pratiche molto differenti (da sola non agisce mai: l’autismo è infatti la sua interna e puntuale negazione). Ma gli in-trecci che così capitano al linguaggio sono essenziali e decisivi per le figure del sapere: tutta la cultura è di fatto una cultura parlata, che non può mai fare a me-no del linguaggio. E così la visibilità della quale godiamo e di cui siamo capaci è governata dalla dicibilità che ci rappresenta: questa dicibilità la applichiamo a tutto e dappertutto. Non solo al presente (per dire le cose che sono attuali nella nostra esperienza), ma anche per dire il passato e il futuro. Tattersall non dubi-ta nemmeno per un isdubi-tante che applicare al tempo del paleolitico il linguaggio biologico e antropologico della sua scienza ultranovecentesca sia assolutamente legittimo (a cominciare appunto dal termine «paleolitico», come parola che si riferirebbe a una cosa o situazione a suo tempo «reale»). Naturalmente, anche quando noi diciamo che questa dicibilità è una macchina, la figura culturale di un automa, il nostro stesso tratto espressivo è un dire che dice e disdice. Per certi versi non può che dire così, mosso com’è dal cammino necessario delle mac-chine che quel dire suggeriscono e partoriscono; per altri versi non può assu-mere questo dire con la medesima ingenuità e fiducia del dire scientifico, come se fosse la traduzione e il rispecchiamento di cose reali ora finalmente ravvisate e dette per quello che sono.

È evidente che dobbiamo farci carico di questa ambiguità e chiarire in che senso essa si possa condividere e accogliere, ma anzitutto accenniamo alla necessità che sembra muovere dal profondo questo dire delle macchine (per quanto almeno tale necessità si rende visibile). Il nostro tempo (si potrebbe os-servare) è massimamente impegnato a produrre la macchina che parla, cioè la totale estroflessione della mente, prodotta essa stessa dalle avventure del

lin-guaggio, per esempio a partire dalla sua estroflessione alfabetica7. Questo

pro-getto, che procede senza un sapere all’altezza del suo evento, esige appunto un sapere conforme, un sapere all’altezza di quel che si fa di noi, in noi e attraverso noi. Naturalmente anche questo sapere è dominato oscuramente dal suo

7 Il primo rifermento alla mente così intesa risuonò chiaramente nel poema di Parmenide. Cfr.

C. Sini, Semata: i sentieri dell’essere, in Incontri, cit., pp. 13-21; cfr. anche Id., Il metodo e la via, Mime-sis, Milano 2013.

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chinismo e dal suo meccanismo profondo (forse avviatosi con la fotografia, i raggi X, il cinema, la robotica del video ecc.: nuovi supporti per la trasmissione e l’elaborazione del messaggio, ma forse anche con tutt’altro): il prodotto del stro sapere si produce all’interno delle macchine invisibili che governano la no-stra cultura, il nostro lavoro; letteralmente vi nasce dentro. Nel contempo questo sapere autoriflessivo provvede a raffigurare quel potere invisibile delle macchi-ne cui ci riferiamo, provvede a esibirlo e in un certo senso a replicarlo e a rilan-ciarlo.

Questa operazione, consistente nel tentare di mostrare le macchine o-peranti nel nostro passato e nel nostro presente, è un’operazione che si po-trebbe definire altrettanto bene sia come ironica sia come tragica. Infatti ha qual-cosa del teatro e dell’hypokrites: nessuno può più credere ingenuamente nella sua verità assoluta, sciolta dalla rappresentazione e dal suo modo; nondimeno ognu-no può vedervisi iscritto e rispecchiato. Macchina (ricordo le sue definizioni) come astuzia e arte dell’inganno; inganno tragico però, non magico, cioè non su-perstizioso. Arte eminentemente visionaria, arte che racconta la storia della cultura come storia delle macchine e che vede nelle macchine la realizzazione del rap-porto fra struttura e sovrastruttura: è l’economia delle macchine a riflettersi nella nostra cultura mentale e nelle nostre sovrastrutture ideologiche e ideografiche. Il nostro macchinismo vi si configura come una sorta di teatro antropologico o di antro-pologia trascendentale (senza illusioni fondative ultime); storia etnologica ed etologica vissuta ironicamente come una sorta di turismo culturale (avrebbe detto Nie-tzsche) e tragicamente come il dramma della verità cui siamo assegnati.

4. Il gioco delle pratiche

Gli intrecci che capitano al linguaggio e il linguaggio medesimo trovano

un’espressione eminente e tipica nel «pensiero delle pratiche»8. Ne richiamiamo

qui alcuni tratti essenziali, conformi alla presente argomentazione. Il pensiero delle pratiche insegna che oggetti e soggetti si stagliano sempre all’interno di un intreccio di pratiche, i cui confini sfumano in un limite indefinibile, cioè in un rinvio che continuamente si riapre, idealmente all’infinito. Quindi non abbiamo mai a che fare con soggetti e oggetti assoluti, cioè sciolti dall’intreccio di pratiche che li costituisce e li supporta.

Prendiamo il nostro Tattersall in quanto antropologo: noi possiamo ri-ferirci alla sua attività professionale rianimando il contesto nel quale essa oggi si sviluppa, compresa la storia della sua scienza, la cui esposizione e rianimazione costituisce a sua volta l’oggetto di una complessa pratica della quale Tattersall, come tutti, è solo parzialmente consapevole. Un antropologo al lavoro è l’emergenza interna di un fare antropologico al quale il soggetto in questione ap-partiene. Come ogni fare, anche questo fare rinvia a una catena sterminata di macchine, se solo ci riflettiamo (senza dire che anche un’ulteriore pratica rifles-siva così atteggiata esigerebbe a sua volta specifiche catene di macchine, incluso il linguaggio e la natura mutevole dei suoi racconti). Da quando i primi ricerca-tori della «Società degli osservaricerca-tori dell’uomo», nata ai primi dell’800 in Francia, «si prepararono a effettuare una proficua spedizione tra i selvaggi delle terre au-strali, individui appartenenti a quell’umanità naturale che si estende dall’Antico

8 Cfr. C. Sini, Opere, a cura di F. Cambria, cit., vol. IV, tomi I (Spinoza o l’archivio del sapere) e II

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al Nuovo Mondo come un grande corpo “morale” tenuto in stato di

ignoran-za»9, una nuova forma di sapere si mise in cammino. Era la scuola degli

Idéolo-gues a ispirarla, della quale faceva parte il citato Degérando, autore dei 4 volumi del Des signes (1800), il primo moderno trattato di semiologia. Negli innumere-voli viaggi esplorativi fra i popoli allo stato di natura, dice Marina Sanlorenzo, il trattato di Degérando avrebbe ben figurato nel bagaglio dei ricercatori e ancor più vi trovarono forse posto le Considération sur les diverses methodes à suivre dan l’observation des peuples sauvages (1800), sempre di Degérando. Chissà se Tattersall ha memoria di questi primordi della storia della sua disciplina. Ovviamente questa nascita non ha la sua occasione e circostanza se non in altre storie del sapere e non soltanto del sapere, ma anche del fare economico, tecnico, politi-co, giuridipoliti-co, morale e religioso. Analogamente c’è un’appartenenza ovvia quanto oscura di Tattersall agli strumenti attuali della sua disciplina (così lonta-na dalle cose e dai pensieri di un ricercatore della «Società degli osservatori dell’uomo» dell’800), assieme a una declinazione personale del modo di fare scienza antropologica che rappresenta lo specifico contributo del professor Tattersall.

Ora, come nasce questa novità? (Come muta e in generale si rinnova la scienza antropologica?) La novità non deriva per linea diretta e deduttiva dal sapere istituzionale del quale fa parte, ovvero vi deriva solo parzialmente. Qui all’antropologo Tattersall bisogna aggiungere l’uomo della vita corrente, con tutto il bagaglio di installazioni, di istituzioni e di macchine che caratterizza lui e insieme tutti noi come esseri umani del nostro tempo e dei nostri luoghi, pla-smati da poteri oscuri e invisibili che reggono le fila del nostro fare e del nostro immaginare, desiderare e volere, far parte e disputare, imparare e inventare, e così via. Le condizioni superficiali e apparenti di queste nostre vite sono certo descrivibili, in base agli strumenti, cioè alle macchine, delle quali disponiamo; ma di condizioni ve ne sono poi di più profonde e inavvertite, condizioni che potrebbero trovarsi quanto meno evocate in generale se noi chiediamo: ma come accade un vivere così e così, proprio questo vivere (e anche in generale il vivere degli umani)? E come accade entro questo vivere il fare dell’antropologo così e così, e poi come accadono in parallelo tutte le figure sociali, istituzionali, affettive, morali che un individuo incarna nel corso dei suoi anni? Non si tratta affatto di uno slittamento verso domande e questioni di tipo psicologico o sociolo-gico (nel senso istituzionale pubblico di questi saperi): si porrebbe qui il mede-simo rinvio evocato nei confronti delle macchine del sapere antropologico; ec-co altri intrecci di macchine ec-con il loro abisso insondato, nel momento stesso in cui quel sapere psicologico o sociologico diviene oggetto di altre macchine, per esempio storiografiche, filosofiche ecc. Ciò che invece comincia a traspari-re, se il senso delle domande sollevate viene correttamente inteso, è una falda di vita che non saprei definire se non come «materiale»: là dove ha luogo e si esercita appunto quel potere invisibile, quel lavoro anonimo e irresolubilmente intrecciato del quale si fa qui questione.

È in quanto la grande, sterminata macchina del lavoro che diciamo so-ciale e personale, composta da miliardi di altre macchine presenti e passate in continuo movimento e influenza reciproca, ci abita silenziosamente in ogni fare

9 Cfr. M. Sanlorenzo, Introduzione a J.-M. Degérando, I segni e l’arte di pensare, trad. it., Spirali,

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del nostro vivere (nel nostro alzarci come nell’andare a dormire, nel nostro viaggiare e guidare automobili, nel nostro mangiare e lavorare, nel nostro sva-garci, leggere, ascoltare, discutere, guardare, litigare, amoreggiare e così via), che ci accade di essere come siamo, di pensare e credere quello che crediamo, di condividere e di respingere nei modi in cui prendiamo partito o ci disinteres-siamo, collaboriamo o confliggiamo. E poi, stupefacentemente, in un tempo successivo di non esserlo più, di essere diventati altri da come eravamo, senza potercene fornire ragioni sufficienti: pensavamo e agivamo in un certo modo, che ora ci sembra non più condivisibile, persino quasi incomprensibile (come potevamo pensare così?); dell’attuale mutamento forniremmo anche certe ra-gioni, quelle che ci caratterizzano appunto oggi; ma com’è avvenuta la meta-morfosi? Che cosa ha veicolato il mutamento, la nuova sensibilità, le nuove e-videnze, le nuove adesioni e certezze?

Ogni postura, ogni risposta, ogni gesto o discorso hanno alla base e all’origine azioni concrete delle macchine (come noi le chiamiamo), azioni complesse e inavvertite nel loro accadere reciprocamente influenzantesi (non stiamo di-cendo: un agire inconscio, che è a sua volta un’altra macchina interpretativa), a-zioni che, con i loro prodotti, ci aprono orizzonti, suggeriscono, sollecitano, in-viano, motivano, distolgono, realizzano, distruggono, rendendoci conforme-mente visibile il mondo, le cose del mondo, e noi stessi.

Il riferimento a tutto ciò non può, per la natura stessa della cosa, diveni-re oggetto di un sapediveni-re: ogni sapediveni-re ha le sue macchine, dalle quali derivano e dipendono la visibilità e la comprensione che lo caratterizzano. Si tratta piutto-sto di abitare tale consapevolezza, si tratta di farne una presenza attiva nella valu-tazione del senso del sapere che volta a volta incarniamo e della assunzione di responsabilità e di libertà (come osservammo) che fatalmente ce ne deriva. Si trat-ta di preservare da un’oggettivazione indebitrat-ta quel potere invisibile che produce saperi, di renderne consapevole la presenza e il transito, senza immaginare su-perstiziosamente di poterlo ridurre a fondo manipolabile a piacere, a fine quanti-ficabile e programmabile in nostro potere. Senza ridurlo, direbbe Whitehead, a una concretizzazione mal posta.

Questo infatti è il punto: che Tattersall, come ognuno di noi, non ac-compagna il suo lavoro, il suo leggere e scrivere di antropologia, il suo mettere in opera gli strumenti straordinari della sua scienza, il suo sapere e insieme il suo saper vivere, con una veduta del tipo sopra succintamente evocato; egli non si vede affatto collocato in questo turbinio immenso di macchine e di po-teri invisibili che sono alla base del suo mondo di vita come del mondo di ogni altro; non si ravvisa come punta emergente di una sotterranea evoluzione tellu-rica (non quella che descrive con la sua scienza soltanto, ma anche ciò che ha reso possibile appunto questa sua macchina sapiente); si immagina o si sente invece di fronte a una supposta verità del mondo esterno da scandagliare e da scoprire, senza il minimo sospetto delle macchine superficiali e profonde che hanno reso possibile la sua immaginazione di scienziato realista (così come ha reso possibile il cosiddetto realismo del senso comune). Non gli è per nulla fa-miliare e accessibile il pensiero secondo il quale anche quella «natura oggettiva» alla quale silenziosamente si riferisce è di fatto una installazione del lavoro u-mano, un effetto della sua coltura e cultura, delle sue mani e del suo linguaggio, cioè delle infinite macchine che vi hanno luogo.

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Ecco che di natura si deve allora parlare in due sensi: la natura è sempre l’oggetto e il risultato del lavoro e delle pratiche umane, comprese le pratiche conoscitive. L’intera natura, in quanto lavorata dall’uomo, è una installazione in divenire: esattamente come lo è l’interno di una casa borghese, con il suo salot-to buono e i quadri alla parete che rievocano il paesaggio naturale (una moda che cominciò, per molte intrecciate ragioni, nell’Olanda del ’600). Ma nel con-tempo natura è anche l’evento di questa relazione stessa, messa in campo da questo operare e lavorare, qualcosa che si avvicina a ciò che oscuramente in-tende lo scienziato nei suoi sogni naturalistici (direbbe Husserl): non però l’oggetto interno di un sapere, ma proprio l’incircoscrivibile altro speculare del sapere che sempre nel fare del sapere e del saper vivere si manifesta in figura diveniente e metamorfica.

5. La trasformazione etica del pensiero delle pratiche

Ogni macchina è condizione e insieme specchio dell’azione. Il suo supporto attivo si offre, esibendosi, a una possibile lettura, sicché ogni macchina si rivela a se stessa (o può rivelarsi a se stessa, come la volontà in Schopenhauer, per e-sempio) attraversando la vita del vivente che sa, come diceva Parmenide. Cer-tamente questa autoriflessione si potenzia enormemente con la macchina, con l’automa del linguaggio. Indubbiamente già la pietra scheggiata, lavorata in forma di lamina, si offre all’attore come un criterio di classificazione e di analisi del mondo circostante immediatamente vissuto: differenza tra pietre più o me-no idonee, differenza tra materiali scalfibili e me-non scalfibili e così via: il lavoro ne viene indirizzato, ri-finalizzato, orientato a nuovi usi di vecchie funzioni. Ma questo saper fare si complica enormemente nel momento in cui la macchina del linguaggio, retroflettendosi sull’agente e rendendolo appunto un agente consapevole di esser tale, apre il lavoro al livello del sapere e del dire, a sé e agli altri, o agli altri e quindi a sé, che cosa si fa. Proprio il linguaggio costituisce quel-lo specchio dell’azione, personale e sociale, che traduce il fare in una distanza prevista, calcolata, ritmata, in una combinatoria analitica, quantitativa, algorit-mica. Questa macchina, che propriamente chiamiamo cultura, cambia la sostan-za della vita degli umani. La scala della sua evoluzione è milioni o miliardi di volte più veloce dei corpi che diciamo naturali e delle evoluzioni delle forme di vita sul pianeta. Il principio delle azioni e controazioni, degli intrecci che si ri-flettono secondo una combinatoria an-archica alla quale ci riferiamo con l’espressione potere invisibile è il medesimo, ma l’efficienza della sua espansione è incalcolabilmente più potente. Potremmo dire che i sistemi di idee che ne deri-vano sono come specie e varietà naturali, ma la loro evoluzione è incompara-bilmente più rapida.

In questa luce lo straordinario potenziamento del lavoro conoscitivo, la costruzione in cammino di un soggetto ideale del sapere e del fare di tipo uni-versale o generale (planetario), e così l’attivazione di inedite aperture circa ciò che si può fare nel mondo e del mondo, tutto ciò conduce a esiti che, aprendo delle libertà d’azione del tutto nuove, rischiano nondimeno di mettere in peri-colo il riprodursi dell’equilibrio della cosiddetta vita naturale, cioè l’azione di quella natura come evento che si è sopra richiamata. Il lavoro conoscitivo entra in rotta di collisione col suo stesso senso (il preteso e cosiddetto progresso etico e conoscitivo): un problema di senso che non esiste per i viventi non umani, una domanda che in loro non ha luogo e che tutt’al più potrebbe definirsi, nei loro

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confronti, come un destino. Nel momento in cui gli umani identificano il com-pito della conoscenza e la natura della verità con, direbbe Tattersall, il loro farsi signori del pianeta, allora proprio questa figura della verità rischia di apparire e di funzionare come il suo esatto contrario, come una totale menzogna rispetto al mondo e alla vita. In altri termini: se la conoscenza persegue l’autopromozione dell’umano come unico senso della vita del pianeta, se persegue semplicemente quella che Nietzsche chiamerebbe volontà di potenza, allora questa deriva della conoscenza diviene un lavoro autodistruttivo e incarna il paradossale perse-guimento di una non-verità, scambiata o fatta passare per verità assoluta.

Se queste considerazioni descrivono un’area di consenso possibile, allo-ra il pensiero delle pallo-ratiche è un modo per conferire loro una peculiare concre-tezza e sensaconcre-tezza. Sensaconcre-tezza interna alla macchina di questo discorso, la cui natura potrebbe forse definirsi retorica: invito a uno sguardo supposto meritevo-le di essere considerato «di maggior valore».

In realtà intorno al pensiero delle pratiche circolano da sempre perples-sità e incertezze. Per esempio si osserva che, se è vero che soggetti e oggetti, significati e sensi, emergono all’interno di intrecci di pratiche determinati da un peculiare lavoro di catene di macchine ecc., allora anche questo dire ricade nel medesimo ambito. Quindi una delle due: o è in grado infine di mostrare se stesso, di esibire il fondamento ultimo della sua verità, interrompendo un rin-vio infinito (che depotenzia evidentemente il significato del suo stesso dire); oppure, se non è in grado di farlo e anzi dichiara espressamente che il farlo non è nelle sue intenzioni, perché esigerlo sarebbe un compito insensato ecc., allora il pensiero delle pratiche, anche se intellettualmente condiviso, non sarebbe ul-teriormente in grado di suggerire alcunché, alcun lavoro, alcun fare, l’esercizio di alcuna ulteriore decisione. Si ripeterebbe vacuamente come una sorta di mantra, di avvertimento, di esortazione retorica senza conseguenze apprezzabili.

Che a proposito del pensiero delle pratiche non si tratti di esibire quei materiali, quelle macchine al lavoro, quei poteri invisibili che lo renderebbero possi-bile, dovrebbe risultare chiaro dalla distinzione posta da quel pensiero tra le fi-gure della verità espresse nella forma del significato (la verità come documento si potrebbe dire) e la verità stessa intesa come evento (la verità come monumento, come installazione materiale intesa nel suo semplice accadere, nel suo potere invisi-bile già sempre presupposto). Pretendere o richiedere di esibire la verità del pensiero delle pratiche equivarrebbe allora a intenderla esclusivamente dalla parte del significato, cioè a tradurla in un documento: come pretendere di dise-gnare la mano che disegna, riducendo la verità del disegno e del disedise-gnare al si-gnificato grafico esibito, fallendo interamente la domanda di senso circa la pos-sibilità e l’effettualità del suo fare. Chi dunque solleva questa pretesa, prende il pensiero delle pratiche dalla parte del significato, lo pensa e non sa altrimenti pensarlo se non come un significato; ovvero non è uscito da quell’incantesimo dal quale proprio il pensiero delle pratiche intendeva liberarlo.

Ma una volta usciti, per ipotesi, dall’incantesimo, che fare allora? Non è ogni fare già inibito e paralizzato dal suo essere una figura strutturalmente in errore rispetto all’evenire della verità (come anche diciamo)? Ma l’evento della verità eviene nelle sue figure, non altrove, assicuriamo. Posti in questa prospet-tiva, tutte le figure della verità e il loro errare incarnano infatti il destino della ve-rità, il senso metamorfico del suo accadere e transitare. Questo dire, però, non

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Carlo Sini, Il potere invisibile

equivale infine a giustificare ogni figura dell’esistente, promuovendo o suggerendo una sorta di misticismo orientaleggiante, o di acquiescenza passiva, di rassegna-ta rinuncia a ogni decisione e a ogni fare?

Il pensiero delle pratiche è certamente una pratica di sospensione, in evi-dente continuità con taluni aspetti non secondari della tradizionale pratica filo-sofica. Abbiamo parlato, sopra, di pratica ironica. Praticare una pratica di so-spensione (un’etica della scrittura, anche diciamo) significa evidentemente fare qualcosa e si tratterà allora di intendere bene il senso di questo fare. Per altro verso, questo fare non ha ovviamente la pretesa di sostituirsi a ogni altro fare, di cancellarlo o di governarlo: Socrate può ben sollevare dubbi e domande per una notte intera, ma all’alba dovrà pure riscuotersi, tornare a casa, fare le sue abluzioni abituali, inviare la quotidiana preghiera agli Dei e così via. E poi: puoi ben sollevare domande ironiche sul tuo linguaggio, osservare che esso ti governa già nella domanda, ma questo non significa che allora tu debba rinunciare a parlare, che tu debba inibirti il linguaggio, figurandoti immaginarie soluzioni non linguistiche; significa piuttosto che devi cercare di frequentare il linguaggio e di abitarlo in un altro modo da come ti capitava di fare prima che una consa-pevolezza e una sospensione ironica l’avessero investito.

Nel caso del pensiero delle pratiche, direi che a colui che lo esercita de-riva, più specificamente, una sorta di visione che accompagna il fare comune, senza essere propriamente un fare comune. Si tratta dell’esercizio di uno sguardo che, nel fare comune orientato verso i suoi oggetti e le sue finalità, si rivolge parallelamente e piuttosto al soggetto del fare, alle sue macchine in esercizio, alle sue occasioni e circostanze, alle installazioni che vi si esprimono.

Questo esercizio ognuno può farlo in due modi. Può effettivamente mandarlo a effetto: allora l’esercizio diviene una pratica attiva che si rivolge a se stessa nei modi che più avanti cercheremo di accennare. Oppure l’esercizio è semplicemente quello, come abbiamo detto, dell’accompagnare, del tenersi de-sti e vigili, nell’ambito di una sorta di visione o di sapienza prevalentemente implicita e generica. Agisco come agisco, ma nel contempo vedo (o intravedo) e so che le ragioni, i fini, le giustificazioni, le possibilità di successo di questo mio agire non sono in mio potere reale; tengo presente, ai margini e contemporane-amente al fare, che il mio agire è piuttosto nelle mani di un potere invisibile che viene da altrove e da lontano, un potere del quale sono debitore circa i miei scopi, l’uso dei miei mezzi, il perseguimento dei miei desideri e delle mie previ-sioni, e infine di me stesso come attore specifico delle mie azioni e del mio te-ner presente. Se è così, chiedo: non è evidente che questo accompagnamento finirà fatalmente per modificare il senso e il modo del mio agire quotidiano e comu-ne, per esempio il mio modo di autorappresentarmelo, senza per questo inibir-lo o cancellarinibir-lo?

Forse il tempo è venuto, con le sue macchine e le sue ragioni, perché questo sguardo, questa consapevolezza più o meno avvertita chiaramente in forma esplicita, si consolidi e si accompagni entro il fare di molti, o almeno di alcuni. Accadrebbe allora, per fare un esempio comparativo, qualcosa di simile a ciò che accadeva del pensiero di un Dio creatore dell’universo nel vissuto di certe epoche del passato. I cristiani, e in particolare e per esempio i re cristiani, si amavano e si odiavano, si facevano guerra e si alleavano tra loro, si rimpro-veravano a vicenda sostenendo le proprie ragioni, si accusavano

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reciprocamen-Carlo Sini, Il potere invisibile

te di non essere dei buoni cristiani e così via, in un’atmosfera comune che non intendeva assolutamente mettere in dubbio la visione di un mondo creato per la presenza di un Dio creatore. Pressoché a nessuno veniva in mente di discu-tere questa credenza, questa visione complessiva e prioritaria delle cose; il con-trario era invece considerato incomprensibile e insensato, mostruoso e non umano: se mai qualcuno se ne macchiasse, era giusto sopprimerlo come peste della città. Questo sentire entrava nella vita quotidiana di ognuno, scandiva le sue pratiche religiose, lo sorreggeva nei momenti di sofferenza, di angoscia, di patimento per la sconcertante insensatezza e ingiustizia del vivere. Certo non gli impediva di agire e di reagire bene o male, ma accompagnava le azioni con la percezione sia pur vaga di un senso ultimo indiscutibile, sebbene impossibile da esibire (così come si mostrano i fatti comuni) e persino molto difficile da ga-rantire sul piano del ragionamento e delle sue certezze deduttive (il che non impediva che pratiche rivolte a questa finalità si sviluppassero sotto il nome di teologia e simili). Nessuno scandalo nasceva dal fatto che questo Dio-evento e senso del creato non si mostrasse come un fatto o una cosa: una pretesa che sarebbe stata insensata e incomprensiva di ciò che nel riferimento a Dio era in gioco. E così il ragionamento che intendeva avallare l’esistenza del Creatore era un rifornimento, più retorico che logico, di buone ragioni, senza l’assurda pretesa della riduzione della cosa alla ragione, perché la cosa in questione non era una cosa, non era l’oggetto di un giudizio logico, non era una ragione ultima riduci-bile a discorso, ma di tutto ciò era piuttosto il presupposto incircoscriviriduci-bile e la causa profonda. Una causa, diremmo ora noi, certamente messa in campo per l’efficacia di innumerevoli poteri invisibili, poteri che governavano dal profon-do la vita e i saperi di quei tempi.

Potremmo dire che analogamente il pensiero delle pratiche è l’esercizio di una trasformazione etica, di una nuova modalità o intonazione relativa al fre-quentare il mondo e al modo di comprenderlo, in base alla auto-evidenza eve-nemenziale di ragioni che non hanno una ragione ultima sulla quale appoggiarsi, né si sognano di pretenderla o di esibirla. Il riferimento di queste ragioni è pur sempre alla visibilità di ciò che nel pensiero delle pratiche si dice e si mostra: che c’è un potere invisibile che rende il mondo visibile e noi, nel mondo, vedenti, nel modo appunto in cui ci accade di esserlo.

6. L’etica della scrittura come esercizio pedagogico

Il pensiero delle pratiche può esercitarsi come un accompagnamento e insieme uno stimolo al senso delle azioni, abbiamo detto. Può risultare come un fattore che contribuisce a potenziare, a chiarire, a radicalizzare un sentimento già oggi assai diffuso, soprattutto in Occidente: il sentimento della impossibilità di con-tinuare a condividere verità che si presentino e si pretendano assolute, inamo-vibili, indiscutibili nei loro significati, frequentati attivamente e verbalmente e-spressi. Tutto ciò, infatti, suona ormai per molti come una superstizione, un fe-ticismo, una idolatria in palese contrasto con i fatti del nostro vissuto (ma non dimentichiamo che i fatti non vanno a loro volta intesi in modo superstizioso; vanno invece compresi come effetti del potere invisibile che continuamente accade e si rende visibile nelle nostre macchine culturali). Ma il pensiero delle pratiche, dicemmo, può anche ispirare esercizi peculiari, divenendo oggetto di specifica attuazione. Su come ciò si possa intendere avviamo qui una riflessione

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