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ROUSSEAU - CONTRATTO SOCIALE

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Academic year: 2021

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gnificato. I termini schiavitù e diritto sono contraddittori; si esclu-dono a vicenda. Sia da uomo a uomo, come da uomo a popolo, sarà sempre ugualmente privo di senso questo discorso: Faccio con te una

convenzione tutta a carico tuo e tutta a vantaggio mio, che io osserverò finché mi piacerà, e che tu osserverai finché piacerà a me.

CAPITOLO QUINTO

COME SI DEBBA SEMPRE RISALIRE A UNA PRIMA CONVENZIONE

Quand’anche concedessi tutto ciò che fin qui ho confutato, i fau-tori del dispotismo non ne risulterebbero avvantaggiati. Ci sarà sem-pre una gran differenza tra sottomettere una moltitudine e governa-re una società. Se degli uomini sparsi, quanto si voglia numerosi, vengono successivamente asserviti ad uno solo, io vedo, in questo ca-so, solo un padrone e degli schiavi; non ci vedo un popolo e il suo capo; si tratta, se vogliamo, d’un aggregato, non di un’associazione; non c’è in esso né bene pubblico né corpo politico. Quest’uomo, ab-bia pure asservito la metà del mondo, è sempre un privato; il suo in-teresse, separato da quello degli altri, è sempre un interesse privato. Se questo medesimo uomo viene a morire, il suo impero, dopo di lui, rimane sparso e senza legami, come una quercia si dissolve e cade in un mucchio di ceneri dopo che il fuoco l’ha consumata.

Un popolo, dice Grozio, può darsi a un re. Secondo Grozio un popolo è dunque un popolo prima di darsi a un re. Questo stesso dono è un atto civile, suppone una deliberazione pubblica. Pertan-to, prima di esaminare l’atto per il quale un popolo elegge un re, sa-rebbe bene esaminare l’atto per il quale un popolo è un popolo. Perché quest’atto, essendo necessariamente anteriore all’altro, è il vero fondamento della società.

In effetti, se non ci fosse una convenzione anteriore, in che sta-rebbe, a meno di un’elezione unanime, l’obbligo per la minoranza di sottomettersi alla scelta della maggioranza? e in base a che cen-to individui che vogliono un padrone hanno diritcen-to di votare per dieci che non lo vogliono? La stessa legge della maggioranza dei suffragi è una norma stabilita per convenzione e suppone almeno una volta l’unanimità.

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CAPITOLO SESTO

DEL PATTO SOCIALE

Suppongo che gli uomini siano arrivati a quel punto in cui gli ostacoli che si oppongono alla loro conservazione nello stato di na-tura prendono con la loro resistenza il sopravvento sulle forze che ogni individuo può impiegare per mantenersi in tale stato. Allora questo stato primitivo non può più sussistere e il genere umano pe-rirebbe se non cambiasse il suo modo di essere.

Ora, poiché gli uomini non possono generare nuove forze, ma solo unire e dirigere quelle esistenti, non hanno più altro mezzo per conservarsi se non quello di formare per aggregazione una somma di forze che possa vincere la resistenza, mettendole in moto me-diante un solo impulso e accordandole nell’azione.

Questa somma di forze può nascere solo dal concorso di pa-recchi uomini; ma, essendo la forza e la libertà di ciascun uomo i primi strumenti della sua conservazione, come potrà impegnarli senza nuocersi o senza trascurare le cure che deve a se stesso? Tale difficoltà, riportata al mio argomento, si può enunciare nei seguenti termini:

«Trovare una forma di associazione che protegga e difenda con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, me-diante la quale ognuno unendosi a tutti non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti libero come prima». Ecco il problema fondamen-tale di cui il contratto sociale dà la soluzione.

Le clausole di tale contratto sono talmente determinate dalla natura dell’atto che la minima modificazione le renderebbe vane e senza effetto; dimodoché, quantunque, forse, non siano mai state enunciate formalmente, son dappertutto uguali, dappertutto taci-tamente ammesse e riconosciute; fino a che, essendo stato violato il patto sociale, ciascuno non rientra nei suoi primitivi diritti e ri-prende la sua libertà naturale perdendo la libertà convenzionale con cui l’aveva barattata.

Queste clausole, beninteso, si riducono tutte a una sola, cioè al-l’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tut-ta la comunità: infatti, in primo luogo, dando ognuno tutto se stes-so, la condizione è uguale per tutti, e la condizione essendo uguale per tutti, nessuno ha interesse a renderla gravosa per gli altri.

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Inoltre, la mancanza di riserve nell’alienazione conferisce all’u-nione la maggior perfezione possibile e nessun associato ha più nul-la da recnul-lamare. Infatti, se i privati conservassero qualche diritto, poiché non vi sarebbe un superiore comune per far da arbitro nei loro contrasti con la comunità, ciascuno, essendo su qualche pun-to il proprio giudice, pretenderebbe ben prespun-to di esserlo su tutti, lo stato di natura continuerebbe a sussistere e l’associazione diven-terebbe necessariamente tirannica o vana.

Infine, ciascuno dandosi a tutti non si dà a nessuno, e poiché su ogni associato, nessuno escluso, si acquista lo stesso diritto che gli si cede su noi stessi, si guadagna l’equivalente di tutto ciò che si per-de e un aumento di forza per conservare ciò che si ha.

Se dunque si esclude dal patto sociale ciò che non rientra nella sua essenza, vedremo che si riduce ai seguenti termini: Ciascuno di

noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere sotto la su-prema direzione della volontà generale; e noi, come corpo, riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto.

Istantaneamente, quest’atto di associazione produce, al posto delle persone private dei singoli contraenti, un corpo morale e col-lettivo, composto di tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea, che trae dal medesimo atto la sua unità, il suo io comune, la sua vi-ta e la sua volontà. Quesvi-ta persona pubblica, così formavi-ta dall’u-nione di tutte le altre, prendeva un tempo il nome di città3, e pren-de oggi quello di repubblica o di corpo politico, pren-detto dai suoi mem-bri Stato, quand’è passivo, Sovrano, quand’è attivo, Potenza, quando lo si considera in rapporto con altre simili unità politiche. Quanto agli associati, prendono collettivamente il nome di popolo, mentre, in particolare, si chiamano cittadini, in quanto partecipano dell’au-torità sovrana, e sudditi, in quanto soggetti alle leggi dello stato. Ma questi termini spesso si confondono e vengono scambiati; basta sa-perli distinguere quando sono usati in tutta la loro esattezza.

CAPITOLO SETTIMO

DEL SOVRANO

Si vede da questa formula che l’atto di associazione racchiude un reciproco impegno tra collettività e privati e che ciascun individuo,

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contrattando, per così dire, con se stesso, si trova impegnato sotto un duplice rapporto: come membro del sovrano verso i privati, e co-me co-membro dello Stato verso il sovrano. Ma qui non si può appli-care la massima del diritto civile per cui nessuno è tenuto a osserva-re gl’impegni assunti con se stesso; impegnarsi con se stesso, infatti, è cosa ben diversa dall’impegnarsi con un tutto di cui si fa parte.

Va anche notato che la deliberazione pubblica da cui tutti i sud-diti possono essere obbligati verso il sovrano, a cagione dei due di-versi rapporti sotto cui ciascuno di essi è considerato, non può, per il motivo opposto, obbligare il sovrano verso se stesso, e quindi è contrario alla natura del corpo politico che il Sovrano s’imponga una legge che non può violare. Non potendo considerarsi che sot-to un solo e medesimo rapporsot-to, egli si viene allora a trovare nel ca-so di un privato che contratti con se stesca-so; di qui si vede come non vi sia e non possa esservi nessuna specie di legge fondamentale ob-bligatoria per il corpo del popolo, nemmeno il contratto sociale. Il che non significa che tale corpo non possa benissimo impegnarsi verso altri, in ciò che non deroga da questo contratto; infatti, nei ri-guardi dello straniero, diventa un essere semplice, un individuo.

Ma il corpo politico o il sovrano, traendo il proprio essere solo dalla santità del contratto, non può mai obbligarsi, neppure verso altri, a niente che deroghi a quest’atto primitivo, come l’alienare qualche parte di se stesso o il sottomettersi a un altro sovrano. Vio-lare l’atto per cui esiste vorrebbe dire annientarsi, e ciò che è nulla non produce nulla.

Non appena questa moltitudine si trova così riunita in un po, non si può offendere uno dei suoi membri senza attaccare il cor-po; e meno ancora offendere il corpo senza che le parti ne risenta-no. Così il dovere e l’interesse obbligano ugualmente le due parti contraenti al reciproco aiuto; e gli stessi uomini devono cercare di riunire sotto questo doppio rapporto tutti i vantaggi che ne dipen-dono.

Ora, il sovrano, essendo formato solo dei privati che lo com-pongono, non ha né può avere interessi contrari ai loro, e quindi il potere sovrano non ha nessun bisogno di garanzie verso i sudditi, perché è impossibile che il corpo voglia nuocere a tutti i suoi mem-bri, e, come presto vedremo, non può nuocere ad alcuno in partico-lare. Il Sovrano, per il solo fatto di essere, è sempre tutto ciò che deve essere.

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Ma non si può dir lo stesso dei sudditi di fronte al sovrano, a cui, nonostante l’interesse comune, niente garantirebbe la loro adempienza agli obblighi se egli non trovasse il modo di assicurar-si la loro fedeltà.

In effetti ogni individuo può, in quanto uomo, avere una vo-lontà particolare contraria o diversa dalla vovo-lontà generale che ha come cittadino. Il suo interesse particolare può parlargli in modo molto diverso dall’interesse comune; la sua esistenza assoluta, na-turalmente indipendente, può indurlo a guardar ciò che deve alla causa comune come un contributo gratuito, la cui perdita nuo-cerebbe agli altri meno di quanto il pagarlo non costi a lui, e guar-dando la persona morale che costituisce lo Stato come un ente di ragione perché non è un uomo, godrebbe dei diritti del cittadino senza voler adempiere ai doveri di suddito: ingiustizia il cui diffon-dersi determinerebbe la rovina del corpo politico.

Pertanto il patto sociale, per non ridursi a un complesso di for-mule vane, include tacitamente il solo impegno capace di dar forza a tutti gli altri, e cioè che chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale vi sarà costretto dall’intero corpo; ciò significa solo che sarà costretto ad essere libero; tale infatti è la condizione che, dando ogni cittadino alla patria, lo garantisce da ogni dipendenza personale; condizione a cui si riconduce il meccanismo e il giuoco della mac-china politica e che sola rende legittimi gli obblighi civili, che senza di essa sarebbero assurdi, tirannici e soggetti ai più sfrenati abusi.

CAPITOLO OTTAVO

DELLO STATO CIVILE

Tale passaggio dallo stato di natura allo stato civile produce nel-l’uomo un mutamento molto notevole, sostituendo nella sua con-dotta la giustizia all’istinto e conferendo alle sue azioni la moralità di cui prima mancavano. Solo a questo punto, succedendo la voce del dovere all’impulso fisico e il diritto all’appetito, l’uomo che fin qui aveva guardato a se stesso e basta, si vede costretto ad agire in base ad altri princìpi e a consultare la ragione prima di ascoltare le inclinazioni. Ma, pur privandosi in questo nuovo stato di molti van-taggi che la natura gli accorda, ne ottiene in compenso di tanto

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LIBRO SECONDO

CAPITOLO PRIMO

LA SOVRANITÀ È INALIENABILE

La prima e più importante conseguenza dei princìpi stabiliti più sopra è che solo la volontà generale può dirigere le forze dello Stato secondo il fine della sua istituzione, che è il bene comune; in-fatti, se è stato il contrasto degl’interessi privati a render necessaria l’istituzione della società, è stato l’accordo dei medesimi interessi a renderla possibile. Il legame sociale risulta da ciò che in questi in-teressi differenti c’è di comune, e, se non ci fosse qualche punto su cui tutti gl’interessi si accordano, la società non potrebbe esistere. Ora, la società deve essere governata unicamente sulla base di que-sto interesse comune.

Dico dunque che la sovranità, non essendo che l’esercizio del-la volontà generale, non può mai alienarsi, e che il sovrano, essen-do solo un ente collettivo, non può essere rappresentato che da se stesso; il potere può, sì, essere trasmesso, ma non la volontà.

Infatti, se non è impossibile che una volontà privata si accordi su qualche punto con la volontà generale, è impossibile, per lo me-no, che questo accordo sia duraturo e costante, perché la volontà particolare tende per sua natura al privilegio, e la volontà generale all’uguaglianza. Ancor più decisamente impossibile che vi sia una garanzia di questo accordo; anche se esso dovesse verificarsi co-stantemente ciò non sarebbe frutto dell’arte, ma del caso. Il sovra-no può, sì, dire: «Io voglio attualmente ciò che vuole quel tale uo-mo, o almeno ciò che dice di volere»; ma non può dire: «Ciò che quest’uomo vorrà domani, io lo vorrò ancora», poiché è assurdo

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che la volontà si dia delle catene per l’avvenire, e poiché nessuna volontà può consentire a qualcosa che contrasti col bene di chi vuo-le. Se dunque il popolo promette semplicemente di obbedire, con quest’atto si dissolve e perde la propria qualità di popolo; non ap-pena c’è un padrone non c’è più un sovrano, e da quel momento il corpo politico è distrutto.

Ciò non vuol dire che gli ordini dei capi non possano passare per volontà generali, finché il sovrano, libero di farlo, non si oppo-ne. In questo caso, dal silenzio universale dobbiamo presumere il consenso del popolo. Questo punto verrà svolto più diffusamente.

CAPITOLO SECONDO

LA SOVRANITÀ È INDIVISIBILE

La sovranità, per la stessa ragione per cui è inalienabile, è anche indivisibile. Infatti la volontà o è generale5o non lo è; è la volontà del corpo popolare o solo di una parte. Nel primo caso questa vo-lontà dichiarata è un atto sovrano e fa legge; nel secondo è solo una volontà particolare, o un atto di magistrature; tutt’al più un decreto. Ma i nostri politici, non potendo dividere la sovranità nel suo principio, la dividono nel suo oggetto; la dividono in forza e vo-lontà; in potere legislativo ed esecutivo; in diritto d’imposta, di giu-stizia e di guerra; in amministrazione interna e in potere di trattare con lo straniero; ora confondono tutte queste parti, ore le separano; fanno del sovrano un essere fantastico costituito di pezzi giustap-posti, come se componessero l’uomo di più corpi, di cui uno aves-se gli occhi, un altro le braccia, un altro ancora i piedi, e nulla più. I ciarlatani del Giappone – si dice – fanno a pezzi un bambino sot-to gli occhi degli spettasot-tori, poi, gettando in aria tutte le sue mem-bra successivamente, fanno ricadere il bambino vivo e ricomposto nella sua unità. Tali sono press’a poco i giuochi di bussolotti dei no-stri politici; dopo aver smembrato il corpo sociale con un giuoco di prestigio da fiera, non si sa come, ne rimettono insieme i pezzi.

L’errore deriva dal fatto di non essersi formate delle esatte no-zioni sull’autorità sovrana, e dall’aver scambiato con parti della sua autorità quelle che erano soltanto sue emanazioni. Quindi, per esempio, si sono considerati atti di sovranità dichiarare la guerra e

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concludere la pace, il che non è esatto, perché ciascuno di questi atti non è una legge, ma solo un’applicazione della legge, un atto particolare che determina il caso della legge, come vedremo chia-ramente quando sarà fissata l’idea connessa con la parola legge.

Seguendo allo stesso modo le altre suddivisioni si capirebbe che ci s’inganna sempre se si crede di vedere la sovranità divisa in par-ti, che i diritti scambiati per parti di tale sovranità le sono tutti su-bordinati, e presuppongono sempre delle volontà supreme rispet-to a cui tali diritti hanno solo funzione esecutiva.

Sarebbe difficile dire quanta oscurità questo difetto di esattez-za abbia gettato sulle decisioni degli autori in materia di diritto po-litico quando hanno voluto giudicare dei rispettivi diritti dei re e dei popoli in base ai princìpi che avevano stabilito. Ognuno può vede-re nei capitoli III e IV del primo libro di Grozio come quest’uomo dotto e il suo traduttore Barbeyrac si impappinino impigliandosi nei loro sofismi, per timore di dire troppo o troppo poco secondo le loro vedute e di urtare gl’interessi che avevano da conciliare. Grozio, rifugiato in Francia, scontento della sua patria, volendo fa-re la corte a Luigi XIII a cui il suo libro è dedicato, non risparmia nulla per spogliare il popolo di tutti i suoi diritti e per rivestirne i re con tutta l’arte possibile. Anche a Barbeyrac, che dedicava la sua traduzione al re d’Inghilterra Giorgio I, sarebbe piaciuto fare al-trettanto. Ma purtroppo l’espulsione di Giacomo II, che egli chia-ma abdicazione, lo forzava a tenersi prudente, a destreggiarsi, a ter-giversare, per non fare di Guglielmo un usurpatore. Se questi due scrittori avessero adottato i veri princìpi, tutte le difficoltà sarebbe-ro state eliminate ed essi avrebbesarebbe-ro mantenuto una costante coe-renza; ma avrebbero detto la squallida verità e avrebbero fatto la corte soltanto al popolo. Ora, la verità non porta alla fortuna, e il popolo non largisce né ambasciate, né cattedre, né pensioni.

CAPITOLO TERZO

SE LA VOLONTÀ GENERALE POSSA SBAGLIARE

Da quanto si è detto consegue che la volontà generale è sempre retta e tende sempre all’utilità pubblica; ma non che le delibera-zioni del popolo rivestano sempre la medesima rettitudine. Si

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vuo-le sempre il proprio bene, ma non sempre si capisce qual è; il po-polo non viene mai corrotto, ma spesso viene ingannato e allora sol-tanto sembra volere ciò che è male.

Spesso c’è una gran differenza fra la volontà di tutti e la volontà generale; questa guarda soltanto all’interesse comune, quella all’in-teresse privato e non è che una somma di volontà particolari; ma eliminate da queste medesime volontà il più e il meno che si elido-no6e come somma delle differenze resta la volontà generale.

Se, quando il popolo informato a sufficienza delibera, i cittadi-ni non avessero alcuna comucittadi-nicazione fra di loro, dal gran numero delle piccole differenze risulterebbe sempre la volontà generale e la deliberazione sarebbe sempre buona. Ma quando si formano delle consorterie, delle associazioni particolari alle spese di quella gran-de, la volontà di ciascuna di tali associazioni diviene generale in rapporto ai suoi membri e particolare rispetto allo Stato; si può di-re allora che non ci sono più tanti votanti quanti sono gli uomini, ma solo quante sono le associazioni. Le differenze si fanno meno numerose e il risultato ha carattere meno generale. Infine, quando una di queste associazioni è tanto grande da superare tutte le altre, non avete più come risultato una somma di piccole differenze, ma una differenza unica; allora non c’è più volontà generale e il pare-re che ppare-revale è solo un papare-repare-re particolapare-re.

Per avere la schietta enunciazione della volontà generale è dun-que importante che nello Stato non ci siano società parziali e che ogni cittadino pensi solo con la propria testa7. Tale fu l’unica e su-blime istituzione del grande Licurgo. Se poi vi sono società parzia-li bisogna moltipparzia-licarne il numero e prevenirne la disuguagparzia-lianza, come fecero Solone, Numa e Servio. Queste sono le sole precau-zioni valide perché la volontà generale sia sempre illuminata e per-ché il popolo non s’inganni.

CAPITOLO QUARTO

DEI LIMITI DEL POTERE SOVRANO

Se lo Stato o la Città non è che una persona morale la cui vita consiste nell’unione dei suoi membri, e se la più importante delle sue cure è quella della sua conservazione, ha bisogno di una forza

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