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L'etimologia dei nomi divini: comparazione linguistica e religiosa nel De Iside di Plutarco

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INDICE

Introduzione 2

Parte prima: lingua, nome, allegoria 7

1. Lingua degli uomini, lingua degli dèi 8

2. Etimologia e allegoresi nell’antichità 18

3. Nomi greci, nomi barbarici 26

Parte seconda: etimologie divine 39

1. Iside 40

1.1 Il nome di Iside nella cultura greca 44

1.2 Iside nel De Iside et Osiride 50

2. Osiride 60

2.1 Osiride e Dioniso 67

2.2 Osiride platonico 76

3. Horos 88

3.1 Interpretazione fisica di Horos 90

3.2 Interpretazione platonica di Horos 95

Conclusioni 100

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INTRODUZIONE

Per un autore antico, l’importanza del nome di un dio andava ben oltre la semplice possibilità di invocare con esattezza l’entità associata a quella denominazione; nel nome, secondo la felice intuizione di Hermann Usener, si cristallizza in una «conclusione provvisoria»1 la storia della formazione di un concetto e questo era in buona misura presente ai pensatori greci, che negli appellativi degli dèi ricercavano un passaggio verso un’epoca remota della vita spirituale della loro civiltà, né si peritavano di mettere in campo lo strumento dell’indagine etimologica per raggiungere questo obiettivo.

Nel De Iside et Osiride di Plutarco, databile attorno agli ultimi anni di vita dell’autore2, dunque all’inizio del regno di Adriano, il ricorso alla spiegazione etimologica è sistematico, ciò che dovrebbe indurre a riflettere sulle implicazioni profonde derivanti dall’adozione di questo tipo di indagine in un contesto di comparazione religiosa. La religione isiaca viene presentata sotto forma di culto misterico, cui la destinataria dell’opera, la giovane Clea, sarebbe stata iniziata di recente. Questa chiave di lettura non solo corrisponde alla realtà storica, ma permette a Plutarco di riflettere sul rapporto tra conoscenza del divino, filosofia e preghiera. L’opera si apre proprio con una richiesta agli dèi di ottenere una conoscenza stabile attorno alla loro natura, entro i limiti dell’intelletto umano3

; è del tutto naturale che nel corso di questa indagine filosofica sulle radici del divino, condotta nei termini del rispetto devozionale, l’esplorazione dei numerosi teonimi ricopra un ruolo di primo piano, come nelle invocazioni rituali e nella letteratura religiosa in generale. Tuttavia, i principali commenti all’opera (Gwyn Griffiths 1970 e Hopfner 1991) considerano le etimologie proposte da Plutarco bizzarre, se non prive di significato.

1 Usener 2008, 45.

2 Jones 1966, 73, data l’opera al 115 d. C. circa, in virtù della giovane età della dedicataria, Clea, nipote

del contemporaneo e più o meno coetaneo di Plutarco Soclaro di Titora. Gwyn Griffiths 1970, 16-17, in base alla figura di Clea e ad alcuni dati storico-biografici contenuti nell’opera, ipotizza che si possa arrivare al massimo al 120 d. C., accettando questa come data di morte dell’autore, secondo la cronologia di Ziegler. L’articolata ricostruzione di Froidefond 1988, 14-23, non fa che spostare di qualche anno in avanti il terminus post quem per la composizione dell’opera, ponendolo al 120 e concedendo a Plutarco quattro o cinque anni di vita in più rispetto all’ipotesi di Ziegler. In ogni caso, tutti concordano sul fatto che il De Iside sia un’opera della vecchiaia dell’autore.

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De Is. et Os. 351 C: μάλιστα δὲ τῆς περὶ αὐτῶν ἐπιστήμης ὅσον ἐφικτόν ἐστιν ἀνθρώποις μετιόντες εὐχόμεθα τυγχάνειν παρ’ αὐτῶν ἐκείνων. Prendo senz’altro in considerazione la congettura dello Halm, εὐχώμεθα, che non trova riscontri nella tradizione del testo ma fornirebbe all’incipit maggiore incisività, oltre a coinvolgere direttamente l’interlocutrice Clea nel ragionamento.

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Vi sono invece almeno due ragioni evidenti che motivano il ricorso allo scavo onomastico da parte di Plutarco: da un lato la necessità di condurre la ricerca nell’insidioso territorio del mito, straniero per giunta, entro i limiti del metodo storico; dall’altro, la volontà di esplorare il valore simbolico dei nomi degli dèi per inserirli in una più ampia lettura allegorizzante di stampo platonico. L’interferenza tra mito e storia è costante in Plutarco, che riflette con particolare intensità su questo problema a proposito delle biografie di sovrani talmente antichi da appartenere alla leggenda: nella prefazione al Teseo egli dichiara la propria preoccupazione nel trattare una materia al confine tra la realtà documentabile e il mito e si augura dunque di far emergere da queste vicende elementi di verità, o almeno di verosimiglianza, grazie al vaglio critico della ragione4. Tale scrupolo si può ricondurre a una convinzione generale di Plutarco, che spesso sottolinea «the distance that separates us, as knowing subjects in the imperfect, sublunary world of time, from the truth»5. Anche nell’affrontare i misteriosi racconti della tradizione egizia, la cautela metodologica s’impone e il ricorso all’analisi dei nomi risente della necessità di un criterio oggettivo su cui fare affidamento nel corso dell’indagine. Lo scopo di questa tesi è cercare di dimostrare come il metodo etimologico influisca sul tipo di lettura delle tradizioni ellenica ed egizia che Plutarco attua nel De Iside et Osiride, e come insieme attesti una sensibilità metodologica profondamente mutata rispetto agli storiografi greci di età classica e ellenistica che pure si erano concentrati sulla religione d’Egitto.

La prima parte della tesi è volta a delineare i presupposti teologici e storici da cui Plutarco prende le mosse per il suo esame delle etimologie dei nomi degli dèi egiziani. In particolare, il primo capitolo offre una riflessione d’insieme sul problema della lingua e dell’attendibilità dei nomi divini, con particolare attenzione al rapporto tra Plutarco e l’imprescindibile modello platonico del Cratilo, cui egli si accosta con il rispetto del discepolo ma da cui deriva anche una pratica concreta di analisi ‘creativa’ dei nomi: Plutarco non esita ad esempio a distorcere le parole dello stesso Platone per adattarle ai propri fini argomentativi, esattamente come il maestro era capace di manipolare Omero per sostenere le proprie posizioni nel Cratilo6. Non si tratta però di un semplice

escamotage per conferire maggiore prestigio all’argomentazione: la ripresa di Platone

4 Plut. Thes. I, 5:εἴη μὲν οὖν ἡμῖν ἐκκαθαιρόμενον λόγῳ τὸ μυθῶδες ὑπακοῦσαι καὶ λαβεῖν ἱστορίας ὄψιν. 5 Lamberton 2001, 74-75. 6 Cfr. § 52 e sgg.

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risente di un metodo comune di lettura microscopica dei singoli elementi costitutivi della parola e delle alterazioni che essi possono avere subìto nel corso dei secoli. In un certo senso, il medio-platonismo riserva alla pratica etimologica il ruolo di esplorare i limiti della formazione della parola, alla ricerca di un antichissimo nucleo di verità impresso nel nome per via mimetica da alcuni nomoteti in un’epoca remota. Lamberton ha dimostrato come nell’allegorismo medio-platonico si realizzi una ricca interazione tra le forme interpretative tradizionali, etimologia compresa7; per questo, la trattazione è arricchita dal riferimento agli Stoici (cap. 2), che più risolutamente di Platone sposano la via del naturalismo onomastico, benché non sia possibile considerare neppure la loro filosofia come un monolito granitico e privo di sfumature8. La posizione di Plutarco parte da presupposti simili, nel senso che anch’egli crede che nei nomi si celi un certo grado di veridicità, ma il suo scetticismo rispetto alla capacità umana di afferrare la natura del divino lo spinge, come cercherò di dimostrare, a non accontentarsi delle evidenze nella lingua greca, che pure riveste per lui un ruolo particolarmente rilevante, ma a indagare le testimonianze dell’ispirazione divina anche in altre religioni e in altri idiomi, in particolare in quello egiziano. Il dato onomastico isolato non rispecchia di per sé l’essenza del divino, ma richiede una comparazione con altre manifestazioni del senso religioso umano, in contesti culturali differenti. Ai presupposti di questa indagine e a una succinta ricostruzione dei rapporti tra Grecia e Egitto è dedicato il terzo capitolo, ma il tema dei rapporti interculturali verrà approfondito anche nel corso della seconda parte.

Un punto fondamentale è, come si vedrà, la contrapposizione a Erodoto, non il primo ma senz’altro il più autorevole ‘mediatore’ tra la religione egizia e quella greca. Lo storico di Alicarnasso aveva sostenuto la priorità cronologica dei nomi degli dèi egiziani rispetto a quelli greci, che sarebbero stati una mera derivazione dei primi; oltre a risentire di un approccio post hoc ergo propter hoc, la mentalità di Erodoto paga un tributo alla difficoltà dei primi storiografi a costruire una ἀρχαιολογία convincente per l’origine del popolo greco e dei suoi vicini, libera da elementi favolistici e leggendari, con il rischio di sostituire al mito un altro mito. Nella mia tesi intendo sostenere che Plutarco opera una significativa inversione di tendenza rispetto al precedente erodoteo, se non altro per la mutata sensibilità metodologica e la ben diversa temperie culturale, che lo spingono a raffrontare dati più precisi sulla civiltà egiziana e lo portano,

7 Si vedano le pagine dedicate a Filone e Numenio in Lamberton 1986, 44-82. 8 Cfr. Struck 2004, 123-141.

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attraverso il ricorso all’analisi etimologica, a porre in una posizione subordinata l’Egitto rispetto alla Grecia. Un’operazione di questo tipo è ovviamente figlia di secoli di dominazione greca sulla terra del Nilo, benché il rapporto tra Plutarco e alcuni autori di epoca tolemaica sia tutt’altro che di adesione incondizionata. Ad esempio, il tentativo di sintesi tra cultura greca e egiziana operato da Evemero di Messene viene respinto con durezza da Plutarco, che non può accettare l’idea, evidentemente influenzata dalla visione egiziana9, che gli dèi dell’Olimpo si possano considerare uomini divinizzati per i loro meriti. Con altri autori, come Ecateo di Abdera, si possono invece riscontrare punti di contatto, poiché lo storiografo, che è probabilmente alla base di parte del I libro di Diodoro Siculo, si era preoccupato di offrire una ricostruzione storicamente attendibile dei culti egiziani, fornendo talvolta analisi etimologiche dei nomi degli dèi nilotici. Plutarco scrive in un’epoca in cui la munificenza di imperatori illuminati come Traiano e, soprattutto, Adriano, ha garantito nuova dignità e numerosi finanziamenti alla cultura greca, nel contesto di un impero universale in cui convivono culti molto diversi tra loro10. La diffusione dei culti orientali nelle province dell’Impero, spesso in forma di misteri, pone il problema centrale del rapporto tra filosofia e religioni; il platonismo si dimostra in quest’epoca la scuola maggiormente in grado di intercettare le spinte ‘irrazionali’ provenienti dalle credenze straniere11

e non è un caso che uno dei più importanti autori del medio-platonismo, ovvero Plutarco, dedichi un trattato alla religione egiziana, nel tentativo di ricondurla nell’alveo della dottrina platonica attraverso un metodo interpretativo, l’analisi etimologica, che si può considerare platonico per eccellenza.

La seconda parte della tesi prende in esame le tre divinità principali del pantheon egizio ai tempi di Plutarco, ovvero Iside, Osiride e Horos, e illustra come Plutarco cerchi di ricondurre la loro natura, attraverso ipotesi di analisi dei loro nomi, a principi del cosmo platonico. Plutarco mescola diverse metodologie di analisi, ma la più importante risulta l’indagine etimologica, che porta alla luce legami nascosti tra gli dèi egiziani e greci e ha l’ambizione di identificare nella sostanza dei nomi il livello di lettura autentico, il più vicino alla volontà divina, che coincide con un disvelamento della realtà più intima del cosmo. L’analisi puntuale delle etimologie dei nomi di queste tre divinità cercherà di

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Stephens 2003, 36-39.

10 Cfr. Liebeschütz 1992, 267-281.

11 Si ricordi, ad es., il fr. 8 Des Places di Numenio: Τί γάρ ἐστι Πλάτων ἢ Μωσῆς ἀττικίζων. Per una

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mettere in luce i limiti dell’interpretatio Graeca tradizionalmente intesa: contrariamente a Erodoto, Plutarco non si accontenta di stabilire parallelismi tra il pantheon egiziano e quello greco, ma recupera i dati delle due tradizioni religiose nell’ottica dell’interpretazione platonica del cosmo. Plutarco mette in campo diverse interpretazioni (mitica, fisica, demonologica), ma è lo strumento etimologico a garantire la veridicità della lettura allegorica platonica: esso consente di superare i confini del mito, di lavare via le incrostazioni di secoli di racconti e leggende e di farne emergere il carattere puramente simbolico, ciò che gli permette di inserire le figure divine in una cosmologia coerente, dopo averle sottoposte a un processo di intellettualizzazione. La comparazione religiosa, condotta con rigore metodologico e coscienza dei documenti, lascia il campo a una ricostruzione allegorica che si può ricondurre alla cultura greca in quanto cultura platonica, dove trovano spazio alcuni aspetti della religione egiziana depurati dagli elementi locali.

La tesi intende dunque dimostrare il valore dell’etimologia come strumento di lettura della tradizione religiosa, corrispondente all’esigenza di chiarezza, di comprensione profonda del pensiero arcaico che trova nell’antichità una vasta gamma di risposte possibili, dall’allegoria all’evemerismo, ma che Plutarco intende affrontare con il rigore dello storico e la profondità del filosofo platonico. La pratica etimologica nel De Iside tiene insieme le due componenti fondamentali dell’ermeneutica, la comprensione razionale e l’interpretazione del mito12

; essa è in grado di riconoscere e isolare ciò che è autentico e veritiero all’interno del sistema simbolico che, secondo Plutarco, caratterizza il pensiero arcaico13; dalla natura dei nomi degli dèi, è possibile comprendere quale principio dell’ordine cosmico essi ipostatizzino. La risposta di Plutarco è naturalmente condizionata dalla sua fede personale nel dio di Delfi, che lo porta a riconoscere in ogni manifestazione terrena del divino il simbolo del Bene che regge l’universo.

12 Cfr. Todorov 1984, 40.

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8 1. Lingua degli uomini, lingua degli dèi

Nella complessa speculazione teologica di Plutarco di Cheronea si incontrano numerose riflessioni sul linguaggio impiegato dagli uomini per parlare degli dèi. Una lunga tradizione di pensiero, che si può far risalire almeno a Eschilo1, si era interrogata sugli appellativi più adatti a stabilire un contatto proficuo con la divinità. Questo atteggiamento di dubbio ha radici antiche e presuppone, nella cultura greca, la consapevolezza di una lontananza incolmabile tra la terra e l’Olimpo. Omero per primo insiste sulla distanza, anche lessicale, tra il mondo soprannaturale e la realtà umana, offrendo nomi alternativi per luoghi, fiumi, personaggi e entità varie, a seconda che il rapporto con il nominatum riguardi gli dèi o gli uomini. Romano Lazzeroni ha individuato quattro passi iliadici in cui il poeta marca esplicitamente l’opposizione tra nome umano e nome divino2; in due momenti dell’Odissea viene chiamato in causa il solo termine divino, a proposito della misteriosa erba μῶλυ e delle rupi Πλαγκταί3. A fronte di una doppia denominazione, il glottologo evidenzia il valore religioso di questa scelta stilistica: attraverso locuzioni tabuistiche, il poeta si concentra «sull’espressione delle qualità divine di un oggetto»4, che agli uomini rimangono irrimediabilmente precluse; questa lettura si applica a maggior ragione agli elementi soprannaturali menzionati nell’Odissea, che solo gli dèi conoscono e denominano5

. In altre sezioni del secondo poema omerico si incontra una formulazione esplicita della esistenza di due sfere linguistiche differenti: l’epiteto αὐδήεσσα, che viene riferito a Circe6 e a Calipso7, indica precisamente la capacità, da parte di un dio, di utilizzare la lingua dei mortali per interagire con loro. La comunicazione è unidirezionale, dal divino all’umano.

I pensatori “presocratici” ridimensionano ulteriormente la possibilità di un confronto diretto tra uomini e dèi per mezzo della lingua; la religione omerica viene sottoposta a critica o riletta in base a una sensibilità ormai radicalmente mutata. I primi filosofi

1 È celebre lo scrupolo del coro nell’Agamennone, vv. 160-162: Ζεὺς ὅστις ποτ’ ἐστίν, εἰ τόδ’ αὐ-/τῶι

φίλον κεκλημένωι,/τοῦτό νιν προσεννέπω. La prima notazione sistematica di queste formule risale a Eduard Norden, che propone una puntuale analisi stilistica delle invocazioni rituali nella sezione Hellenica di Agnostos Theos (Norden 2002, 261-296). Per una più profonda comprensione dei versi eschilei rimane fondamentale il commento di Eduard Fränkel, che indica anche gli sviluppi successivi della riflessione sull’identità del dio in rapporto alla lingua umana che lo denomina (Platone, Euripide).

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Lazzeroni 1997, 209-210. I passi in questione sono A 403, B 813, U 74 e X 290.

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Lazzeroni 1997, 210. I brani si trovano in κ 305 e μ 61.

4 Lazzeroni 1997, 217. 5 Lazzeroni 1997, 219. 6 κ 136, λ 8, μ 150. 7 μ 449.

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accentuano il contrasto tra la conoscenza certa e chiara posseduta dagli dèi e il ragionamento per congettura, che è proprio degli uomini. Questo discrimine non ha ricadute negative sulla capacità gnoseologica dei mortali, ma tende piuttosto a riconoscere a questi ultimi un ambito specifico di indagine, che si muove nella sfera dell’opinione8

. Alcmeone e Senofane sono i maggiori rappresentanti di questa tendenza ottimistica; entrambi escludono che l’uomo possa mai attingere a una qualche certezza (σαφήνειαν, τὸ σαφές) sulle cose invisibili, ma credono nella sua capacità di «produrre opinioni che, se non assolutamente certe, sono “somiglianti” e insieme “appropriate” (ἐοικότα) alla realtà che intendono descrivere»9. Appare chiara la frattura tra intelligenza umana e realtà divina: la prima non potrà mai penetrare la seconda, ma al massimo offrirne una ricostruzione credibile secondo i parametri umani. L’ignoranza umana è prima di tutto ignoranza del divino. La cesura si fa insanabile con l’avvento della Sofistica: Protagora, nel fr. B4 DK, riconosce l’inadeguatezza dei mortali a comprendere la natura degli dèi10. Questa sfiducia ha delle conseguenze significative sulla riflessione onomastica: l’uomo greco arriva a dubitare dell’esattezza dei termini che egli riferisce alla sfera soprannaturale. La nuova sensibilità è portata a maturazione dal grande revisore della cultura greca: nel Cratilo, Platone affronta la tradizionale distinzione tra i nomi impiegati dagli uomini e quelli impiegati dagli dèi; al centro del dibattito tra Socrate e Ermogene stanno proprio i versi di Omero (Crat. 391d-392b):

ΕΡΜ. Καὶ τί λέγει, ὦ Σώκρατες, Ὅμηρος περὶ ὀνομάτων, καὶ ποῦ; ΣΩ. Πολλαχοῦ· μέγιστα δὲ καὶ κάλλιστα ἐν οἷς διορίζει ἐπὶ τοῖς αὐτοῖς ἅ τε οἱ ἄνθρωποι ὀνόματα καλοῦσι καὶ οἱ θεοί. ἢ οὐκ οἴει αὐτὸν μέγα τι καὶ θαυμάσιον λέγειν ἐν τούτοις περὶ ὀνομάτων ὀρθότητος; δῆλον γὰρ δὴ ὅτι οἵ γε θεοὶ αὐτὰ καλοῦσιν πρὸς ὀρθότητα ἅπερ ἔστι φύσει ὀνόματα· ἢ σὺ οὐκ οἴει; ΕΡΜ. Εὖ οἶδα μὲν οὖν ἔγωγε, εἴπερ καλοῦσιν, ὅτι ὀρθῶς καλοῦσιν. ἀλλὰ ποῖα ταῦτα λέγεις; ΣΩ. Οὐκ οἶσθα ὅτι περὶ τοῦ ποταμοῦ τοῦ ἐν τῇ Τροίᾳ, ὃς ἐμονομάχει τῷ Ἡφαίστῳ, “ὃν Ξάνθον,” φησί, “καλέουσι θεοί, ἄνδρες δὲ Σκάμανδρον;” 8 Cfr. Sassi 2009, 205-214. 9

Sassi 2009, 213. I termini greci citati provengono, nell’ordine, da Alcmeone, fr. 1, e Senofane, fr. 34 e fr. 35.

10 Prot. 80 B4 DK: περὶ μὲν θεῶν οὐκ ἔχω εἰδέναι, οὔθ’ ὡς εἰσὶν οὔθ’ ὡς οὐκ εἰσὶν οὔθ’ ὁποῖοί τινες

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10 ΕΡΜ. Ἔγωγε. ΣΩ. Τί οὖν δή; οὐκ οἴει τοῦτο σεμνόν τι εἶναι γνῶναι, ὅπῃ ποτὲ ὀρθῶς ἔχει ἐκεῖνον τὸν ποταμὸν Ξάνθον καλεῖν μᾶλλον ἢ Σκάμανδρον; εἰ δὲ βούλει, περὶ τῆς ὄρνιθος ἣν λέγει ὅτι χαλκίδα κικλῄσκουσι θεοί, ἄνδρες δὲ κύμινδιν, φαῦλον ἡγῇ τὸ μάθημα ὅσῳ ὀρθότερόν ἐστι καλεῖσθαι χαλκὶς κυμίνδιδος τῷ αὐτῷ ὀρνέῳ; ἢ τὴν Βατίειάν τε καὶ Μυρίνην,καὶ ἄλλα πολλὰ καὶ τούτου τοῦ ποιητοῦ καὶ ἄλλων;11

Omero è il punto di partenza obbligato per qualsiasi considerazione: l’analisi dei brani poetici è introdotta dalla solenne affermazioneπαρ’ Ὁμήρου χρὴ μανθάνειν καὶ παρὰ τῶν ἄλλων ποιητῶν. Socrate istituisce, sulla base dei suoi versi, una serie di opposizioni, più o meno forzate12, per cercare un principio valido e oggettivo di giudizio sulla veridicità dei nomi, senza riuscirvi per il momento. Egli opera una serie di distinzioni molto precise per annettere maggiore o minore validità ai nomi; si tratta di tentativi, ma essi non vengono completamente smentiti nel corso del dialogo. Per questa ragione non mi sembra condivisibile l’interpretazione offerta dal più recente commentatore del Cratilo, il quale rileva nel «tono pomposo» del riferimento a Omero un indizio della potenzialmente inesauribile ironia socratica13. L’estesa trattazione dei versi omerici e l’impegno con cui essi vengono affrontati escludono un atteggiamento sarcastico da parte di Socrate, che ha invece liquidato in poche battute il nuovo sapere

11 Plat. Crat. 391d-392b: «ER. E che cosa, Socrate, dice Omero de’ nomi, e dove? SO. In molti luoghi,

ma tra questi i più notevoli e belli son quelli in cui, a proposito de’medesimi oggetti, distingue i nomi con cui li chiamano gli uomini e gli dei. O non credi ch’egli dica lì qualcosa di grande e mirabile sulla giustezza de’ nomi? Giacché evidentemente gli dei quanto a giustezza li chiamano con quei nomi che son tali da natura. O tu non credi? ER. Lo so bene anch’io che, se li chiamano, li chiamano col nome giusto. Ma di quali tu vuoi parlare? SO. Non sai che del fiume lì nella Troade, di quello che duellò con Efesto, egli dice: “che Xanthos noman gl’iddii, ma i mortali Skamandros”? ER. Io sì. SO. Ebbene, non credi tu che sia qualcosa di solenne sapere perché mai sia giusto chiamare quel fiume Xanthos anziché Skamandros? E se vuoi, dell’uccello di cui dice che “chalkis lo chiaman gl’iddii, ma i mortali kymindis”, ti pare di poco interesse l’imparare quanto sia più giusto dare l’un nome piuttosto che l’altro al medesimo uccello? E lo stesso non è di Baiteia e di Myrine e di tante altre cose così di questo poeta come di altri?» (la traduzione adottata per il Cratilo è da qui in poi quella di Emidio Martini, salvo diversa indicazione).

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Del tutto arbitraria è l’opposizione tra nomi utilizzati dagli uomini e nomi utilizzati dalle donne a proposito di Astianatte/Scamandrio (Crat. 392d).

13 Ademollo 2011, 151: «the pompous tone of Socrates’ appeal to Homer […] strongly suggests that he is

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propugnato dai Sofisti14. L’interpretazione di Omero deve essere presa sul serio, se non altro per l’antichità e il prestigio della tradizione che a lui fa capo: lo stesso Ademollo riporta una serie di passi che dimostrano la diffusione dell’esegesi omerica già nel V sec.15 , senza contare che «Plato’s reference to the Homeric distinction between human and divine names was taken very seriously by the Neoplatonics (Procl. LXVIII, 29.6-12; LXXI, 33.7)»16. Ciò che emerge dall’analisi platonica è piuttosto una sospensione del giudizio rispetto ai nomi indicati come “divini”: nessun uomo è in grado di verificarne la veridicità, né di stabilire se gli dèi utilizzino una lingua di qualche tipo17. La posizione di Plutarco su questi temi è condizionata, ancor più che dall’ufficio sacerdotale presso il tempio di Apollo a Delfi, dalla sua formazione di filosofo platonico18: il Cratilo è ben presente alle sue riflessioni, come testimoniano gli espliciti riferimenti a quest’opera nel De Iside et Osiride19

. Per inquadrare con maggiore precisione l’atteggiamento di Plutarco bisogna però fondarsi su un altro dialogo platonico, il Timeo, forse il più letto e commentato dai pensatori medio-platonici. In quest’opera, il problema del rapporto tra verità e credenza è paragonato a quello che intercorre tra essere e divenire; per gli uomini, è impossibile spingersi, nella speculazione sulla divinità, oltre la verisimiglianza, τὸν εἰκότα μῦθον20. Plutarco radicalizza l’opinione del maestro21

, manifestando una particolare sfiducia verso la lingua degli uomini quando questa si accinga a descrivere la natura del divino. Agli uomini non è data un’intimità con il dio, se non dopo la morte; per chi vive, la sua bellezza è ineffabile e inesplicabile22. Un saggio della fallacia delle parole mortali è

14 Neppure in questo caso si può dire che Platone affronti con leggerezza le questioni poste dai

professionisti del logos: le tesi di Protagora vengono ampiamente discusse nel Cratilo, nel Teeteto e nel dialogo che dal sofista di Abdera prende il nome.

15 Democrito (68 A33 DK), lo stesso Protagora; ancora prima di questi, bisogna ricordare Teagene di

Reggio, iniziatore dell’allegoresi omerica (VI sec. a.C.).

16 Ademollo 2011, 151 n. 17. Già Aristotele dà credito a queste distinzioni, come ricorda sempre

Ademollo, rimandando il lettore a Arist. HA 519a18-20.

17

Ademollo rimanda molto opportunamente a Euthphr. 8e: καὶ ἄνθρωποι καὶ θεοί, εἴπερ ἀμφισβητοῦσιν θεοί.

18 Ferrari 2000, 113: «Tatsächlich sind philosophische Theologie und traditionelle Religion in seinen

Augen keine Widersprüche, sondern stellen zwei komplementäre Aspekte dar, die das Verhältnis des Menschen zur Gottheit bestimmen».

19 Per esempio, Plut. De Is. et Os. 362 D cita Plat. Cr. 403a-404a ; le singole occorrenze verranno

discusse approfonditamente in seguito.

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Plat. Tim. 29d. Cfr. anche Tim. 28c.

21 Cfr. De sera num. vind. 549 E-F: οἷον ἀτέχνους τεχνιτῶν διάνοιαν ἀπὸ δόξης καὶ ὑπονοίας κατὰ τὸ

εἰκὸς μετιόντας.

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offerto dal discorso di Ammonio nel De E apud Delphos: il mondo è preda del divenire e in esso nulla conosce stabilità, poiché tutto è soggetto al tempo (κατὰ τὴν πρὸς τὸν χρόνον συννέμησιν23

). La continua trasformazione (μεταβολή) di ogni cosa in un’altra coinvolge anche i nostri stati mentali e le parole che utilizziamo abitualmente24. Esse si dimostrano inadatte a comprendere la realtà divina, che è una e stabile, ingenerata e immortale. κινητὸν γάρ τι καὶ κινουμένῃ συμφανταζόμενον ὕλῃ καὶ ῥέον ἀεὶ καὶ μὴ στέγον, ὥσπερ ἀγγεῖον φθορᾶς καὶ γενέσεως, ὁ χρόνος· οὗ γε δὴ τὸ μέν ‘ἔπειτα’ καὶ τό ‘πρότερον’ καὶ τό ‘ἔσται’ λεγόμενον καὶ τό ‘γέγονεν’ αὐτόθεν ἐξομολόγησίς ἐστι τοῦ μὴ ὄντος· τὸ γὰρ ἐν τῷ εἶναι μηδέπω γεγονὸς ἢ πεπαυμένον ἤδη τοῦ εἶναι λέγειν ὡς ἔστιν, εὔηθες καὶ ἄτοπον. ᾧ δὲ μάλιστα τὴν νόησιν ἐπερείδοντες τοῦ χρόνου τό ‘ἐνέστηκε’ καὶ τό ‘πάρεστι’ καὶ τό ‘νῦν’ φθεγγόμεθα, τοῦτ’ αὖ πάλιν ἄγαν ἐνδυόμενος ὁ λόγος ἀπόλλυσιν25 . [...] ὅθεν οὐδ’ ὅσιόν ἐστιν ἐπὶ τοῦ ὄντος λέγειν, ὡς ἦν ἢ ἔσται· ταῦτα γὰρ ἐγκλίσεις τινές εἰσι καὶπαραλλάξεις τοῦ μένειν ἐν τῷ εἶναι μὴ πεφυκότος.26

Quando si parla del divino, è addirittura blasfemo servirsi di parole coinvolte nel mutamento del tempo; il loro trascorrere assieme alla realtà che designano le rende del tutto inadeguate a descrivere la dimensione eterna in cui il dio risiede. Allo scetticismo di fronte alla facoltà noetica dell’uomo si affianca l’esigenza pratica di individuare una formula accettabile per l’invocazione al dio27

. La soluzione è un ragionamento di tipo analogico, che investe le parole dei mortali di un significato enigmatico, aperto alla dimensione trascendente. Ammonio spiega che al dio bisogna rivolgersi con un’affermazione precisa, che indica la sua esistenza al di là del tempo: ‘εἶ’ χρὴ φάναι. Il suo essere non va inteso in senso temporale: la natura del dio prescinde da qualunque

23 De E ap. Delph. 393 A.

24 De E ap. Delph. 392 D: ἄλλοις δὲ χρώμεθα λόγοις ἄλλοις πάθεσιν. 25 Si noti l’evidente gioco di parole che richiama il nome del dio Apollo. 26

De E ap. Delph. 392 E-F: «Il tempo, infatti, è una realtà mobile, che si manifesta insieme alla materia in movimento, e sempre scorre e niente trattiene, come un recipiente di corruzione e generazione. Per cui il ‘poi’ e il ‘prima’ e il ‘sarà’ e l’ ‘è stato’ sono parole che costituiscono di per sé un’ammissione del non essere, perché dire che sia quello che non è stato ancora trovato nell’essere o che ha già cessato di essere, è cosa stolta e assurda. E quella realtà su cui soprattutto noi basiamo la nozione del tempo, vale a dire l’ ‘esiste’ e l’ ‘ora’, la ragione l’incalza fin troppo da presso, ma poi la perde [...]. Per cui non è cosa pia nemmeno dire, a proposito di ciò che veramente è, che esso era o sarà, perché questi sono come degli spostamenti o delle deviazioni tipiche di quella sostanza che per sua natura non può rimanere nell’essere» (tr. Moreschini).

27 Il problema è evidenziato al paragrafo 393 B: οὕτως οὖν αὐτὸ δεῖ σεβομένους ἀσπάζεσθαι [καὶ]

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stato nel tempo, è ingenerata e immota28; essa semplicemente ‘è’. La validità di questa formula è confermata dal suo uso già antico: ὡς ἔνιοι τῶν παλαιῶν, ‘εἶ ἕν’29. La misteriosa ‘E’ delfica indicherebbe l’unità e l’eternità del dio, come era ben chiaro ai sapienti del passato; non a caso, essi avrebbero posto come corollario l’altra celebre massima, “conosci te stesso”, quale ὑπόμνησις della natura debole e mortale dell’uomo30

.

La parola non possiede un valore gnoseologico assoluto, ma è soggetta al tempo e alle sue modificazioni. Non di meno, se correttamente interpretata, essa consente un’approssimazione al vero per via analogica e intuitiva. Nel De Pythiae oraculis Plutarco affronta il problema della lingua oracolare: ai contemporanei di Plutarco sembra che la qualità poetica dell’oracolo delfico sia notevolmente peggiorata rispetto all’antichità, quando i responsi della Pizia erano composti in metro, mentre ora sono espressi in prosa. Teone, uno degli interlocutori del dialogo, invita a non assolutizzare il valore della lingua umana; dal punto di vista del dio, essa è soggetta alla consuetudine e si modifica seguendo lo scorrere del tempo.

Οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ τὸ τοῦ θεοῦ καὶ τῆς προνοίας σκοποῦντες ὀψόμεθα πρὸς τὸ βέλτιον γεγενημένην τὴν μεταβολήν. ἀμοιβῇ γὰρ ἔοικε νομίσματος ἡ τοῦ λόγου χρεία, καὶ δόκιμον καὶ αὐτοῦ τὸ σύνηθές ἐστι καὶ γνώριμον, ἄλλην ἐν ἄλλοις χρόνοις ἰσχὺν λαμβάνοντος.31

L’uso linguistico dei mortali è simile al valore di scambio della moneta nel commercio: esso muta secondo i tempi e una comunicazione efficace deve tenere conto dell’instabilità intrinseca del mezzo. La provvidenza divina trova una valida espressione negli oracoli in prosa perché essi corrispondono alla sensibilità linguistica contemporanea; il contenuto di verità non ne risulta in alcun modo inficiato. Lo

28 De E ap. Delph. 393 A-B: ἔστι κατ’οὐδένα χρόνον ἀλλὰ κατὰ τὸν αἰῶνα τὸν ἀκίνητον καὶ ἄχρονον καὶ

ἀνέγκλιτον καὶ οὗ πρότερον οὐδέν ἐστιν οὐδ’ὕστερον οὐδὲ μέλλον οὐδὲ παρῳχημένον οὐδὲ πρεσβύτερον οὐδὲ νεώτερον· ἀλλ’ εἷς ὢν ἑνὶ τῷ νῦν τὸ ἀεὶ πεπλήρωκε,καὶ μόνον ἐστὶ τὸ κατὰ τοῦτ’ ὄντως ὄν, οὐ γεγονὸς οὐδ’ ἐσόμενον οὐδ’ ἀρξάμενον οὐδὲ παυσόμενον. οὕτως οὖν αὐτὸ ἐσόμενον οὐδ’ ἀρξάμενον οὐδὲ παυσόμενον. Moreschini 1997, 143 ricorda un detto di Biante, attestatoci da Diogene Laerzio (I, 88) e Stobeo (III, 1, 172 Hense): περὶ θεῶν λέγε ὡς εἰσίν, «per cui Plutarco, unendo la sapienza delfica al platonismo, avrebbe detto che l’essere degli dèi deve essere inteso in senso pieno».

29 De E ap. Delph. 393 B. 30 De E ap. Delph. 394 C. 31

De Pyth. or. 406 B: «Tuttavia, prendendo in considerazione l’opera del dio e della provvidenza, vedremo che il mutamento è avvenuto in meglio. Infatti l’uso del discorso assomiglia allo scambio di moneta; e l’uso abituale rende accettabile e ben noto anche il discorso, che cambia valore col tempo» (tr. Valgiglio).

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sviluppo di una lingua semplice e diretta, propria della filosofia, rappresenta addirittura un progresso verso il vero, rispetto all’oscura lingua dei poeti32

. La divinità sembra adattarsi ai cambiamenti e agli sviluppi che si verificano nel tempo umano: quando la fede degli uomini subisce una radicale trasformazione, il dio abbandona il linguaggio fiorito della poesia, la metafore ardite, la grandiosità e l’indeterminatezza (ἀσάφειαν) delle immagini; per soddisfare la nuova esigenza di razionalità, egli detta alla Pizia pronunciamenti chiari, nello stile asciutto delle leggi e dei maestri di scuola33. Il dio sembra esprimere e rivelare la sua volontà seguendo da vicino le forme in cui si manifesta la fede degli uomini: la chiarezza subentra infatti agli enigmi quando invece di una religione che venera ciò che è incomprensibile, e dunque non familiare e divino, gli uomini praticano una religione associata alla speculazione razionale. L’aspetto formale è condizionato dalle circostanze storiche più che da una precisa volontà divina: esso è il contenitore in cui il messaggio oracolare si adagia per essere trasmesso agli uomini. Non si può postulare una relazione di causalità immediata; tuttavia, se l'aspirazione umana a comunicare con una sfera superiore nasce dai suoi condizionamenti terreni e temporali, i disegni della divinità sembrano tenerne conto. Non vi è una connessione diretta tra forma e contenuto, ma la facies poetica testimonia una fase più antica nei rapporti tra uomo e dio. Dal momento che per l’uomo, imprigionato nel corpo, οὐκ ἔστι μετουσία τοῦ θεοῦ, ma vi è al più un’oscura visione della verità attingibile attraverso la filosofia34, il difficoltoso processo conoscitivo deve avvalersi di un intreccio tra il λόγος, un discorso che procede in maniera dubbiosa e dunque è incline a mescolarsi a un mito depurato degli aspetti più irrazionali, secondo la tipica tendenza del pensiero greco, e il νόμος, l’uso antico35, che per la sua vetustà è considerato più vicino al vero. Plutarco sintetizza così le componenti della ricerca teologica: λύσεις ἐπιζητεῖν τὴν δ’ εὐσεβῆ καὶ πάτριον μὴ προΐεσθαι πίστιν36; la speculazione razionale non deve prescindere dalla base tradizionale costituita dal culto e dalla ricca letteratura in materia religiosa. Il fine è un’esplorazione della sfera divina; questa sfiora talvolta l’intelletto umano, ma vi lascia tracce contraddittorie e non immediatamente riconoscibili. Si tratta di quella sapienza «celata nei racconti»37 che si

32 De Pyth. or. 406 E. 33 De Pyth. or. 406 E-F. 34

De Is. et Os. 382 E-F.

35

Burkert fa risalire questa concezione al Platone delle Leggi, 890 d: τῷ παλαιῷ νόμῳ ἐπίκουρον γίγνεσθαι λόγῳ. Burkert 1996, 22.

36 De Pyth. or. 402 E. 37 De Is. et Os. 354 B.

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può reperire nell’antichissima cultura egizia, il cui simbolo per eccellenza sono le sfingi collocate fuori dai templi di quel popolo38.

L’oscura lingua della tradizione poetica trova un chiarimento e un’esegesi nella pratica filosofica: i filosofi estrapolano il senso morale dai miti dei poeti e li rendono comprensibili, organizzandoli in un discorso razionale39. La lingua filosofica è l’unico livello della comunicazione umana in grado di rendere intellegibile ciò che è espresso in termini enigmatici. Alberto Bernabé ha analizzato il valore di αἴνιγμα in Plutarco e ha notato che il termine non esaurisce la sua portata entro i limiti della lingua, ma che è tendenzialmente connesso con «hablantes prestigiosos» e con manifestazioni numinose: dèi, poeti, sogni e saggezza popolare40, ciò che Plutarco chiama πάτριος καὶ παλαιὰ πίστις41

. In tutti questi casi, l’impulso iniziale viene dal dio, che decide di incontrare l’uomo per via diretta; la veste linguistica è una rielaborazione imposta dalla limitatezza dei sensi e dell’intelletto umano, che si serve di quella forma per rappresentare il contenuto del pensiero. I sogni sono il terreno privilegiato per l’incontro tra la sfera dell’eterno e quella mortale; in questa dimensione non esistono suoni e voci (καθ’ ὕπνον οὐκ ἔστι φωνή), ma la percezione di apparenze di discorsi dà l’idea che qualcuno pronunci delle parole42. Il De genio Socratis conduce una riflessione sull’invasamento divino e si sofferma in particolare sul così detto “demone” che avrebbe guidato il sapiente per eccellenza, Socrate: il demone non si serviva della voce, ma imprimeva direttamente nella mente di Socrate il significato del suo messaggio.

τὸ δὲ προσπῖπτον οὐ φθόγγον ἀλλὰ λόγον ἄν τις εἰκάσειε δαίμονος ἄνευ φωνῆς ἐφαπτόμενον αὐτῷ τῷ δηλουμένῳ τοῦ νοοῦντος.43

38 Cfr. Bernabé 1999, 195: «La alusión de las esfinges nos indica también que el αἴνιγμα no sólo es

susceptible de expresarse en mensajes lingüísticos, sino también iconográficos», come conferma il riscontro con De Is. et Os. 355 B.

39

Cfr. De aud. poe. 36.

40 Bernabé 1999, 198: «En terminos lingüísticos, αἴνιγμα exige del receptor del mensaje un conocimiento

añadido que no es el del código de la lengua. Por ello suele ir asociado mayoritariamente a hablantes prestigiosos: en primer término, los dioses, los poetas, que son inspirados por ellos, manifestaciones numinosas, como el sueño, o la sabiduría popular, acumulada en la historia».

41 Amat. 756 B. 42

De genio Socratis 588 D: καὶ καθ’ ὕπνον οὐκ ἔστι φωνή, λόγων δέ τινων δόξας καὶ νοήσεις λαμβάνοντες οἴονται φθεγγομένων ἀκούειν.

43 De genio Socratis 588 E: «L’oggetto di questa percezione non era un suono, ma lo si potrebbe definire

il discorso senza voce di un demone, che aderiva alla sua mente con il solo significato» (tr. Aloni-Guidorizzi).

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Il termine ἐφαπτόμενον, di ascendenza platonica, esprime «the mere touch by the thought»44, il rapporto diretto tra l’anima del sapiente e la sfera superiore. Plutarco marca la differenza tra la comunicazione ordinaria, inevitabilmente fallace, e il privilegio che tocca a pochi uomini, detti “demonici”, di poter andare oltre il mero scambio verbale. Nella realtà di ogni giorno, ci serviamo della voce per esprimere agli altri i nostri pensieri, ma è come se brancolassimo nel buio (ὑπὸ σκότῳ). I demoni comunicano invece con i loro eletti senza ricorrere ai nomi e ai verbi, ma permettendo loro di entrare in contatto con il pensiero in sé.

τῷ γὰρ ὄντι τὰς μὲν ἀλλήλων νοήσεις οἷον ὑπὸ σκότῳ διὰ φωνῆς ψηλαφῶντες γνωρίζομεν· αἱ δὲ τῶν δαιμόνων φέγγος ἔχουσαι τοῖς δυναμένοις <ἰδεῖν> ἐλλάμπουσιν, οὐ δεόμεναι ῥημάτων οὐδ’ ὀνομάτων,οἷς χρώμενοι πρὸς ἀλλήλους οἱ ἄνθρωποι συμβόλοις εἴδωλα τῶν νοουμένων καὶ εἰκόνας ὁρῶσιν, αὐτὰ δ’ οὐ γιγνώσκουσι πλὴν οἷς ἔπεστιν ἴδιόν τι καὶ δαιμόνιον ὥσπερ εἴρηται φέγγος.45

Gli uomini ordinari si servono delle parole come di immagini simboliche per esprimere il contenuto del loro pensiero; chi possiede una scintilla di demonico può invece conoscere per se ciò che pensa. Lo scarto tra realtà e simbolo è lo stesso che distanzia il linguaggio dal pensiero che vuole esprimere: soltanto gli dèi e le potenze superiori possono comunicare per via d’ispirazione, prescindendo dalla traduzione ‘simbolica’ del pensiero. Per questo, il dio non avrebbe necessità di servirsi di una lingua divina diversa da quella umana, se egli può raggiungere il destinatario delle sue indicazioni senza emettere suoni e voce, solo con il pensiero. Vi sono casi in cui anche il discorso del demone si articola in suoni, plasmando l’aria; il suo messaggio è disponibile a tutti, ma solo chi si trova in determinate condizioni spirituali può percepirlo con chiarezza e trasmetterlo agli altri; ciò avviene non solo in sogno, ma anche in stato di veglia: vi è

44 Schröder 2010, 162. Cfr. anche Timotin 2012, 248, che ravvisa in alcuni passi del Timeo la radice di

questo atteggiamento: «D’autre part, la représentation de l’inspiration démonique sous la forme d’un contact immatériel semble inspirée par un autre idée platonicienne, celle de la réducibilité de tous le sens au toucher (Timée 45b-d), idée fondée sur la conception selon laquelle les cinq sens reposent sur un contact direct entre deux matières, à savoir l’air et les différentes parties du corps. Parce que la vue est ainsi conçue sous la forme d’un toucher subtil, l’intellection peut être considérée, par extrapolation, comme une espèce particulière de « toucher ». Ce qui explique pourquoi un lexique relevant du registre du toucher a pu être employé pour caractériser une communication purement intellective».

45 De genio Socratis 589 B-C: «Nella realtà infatti acquistiamo conoscenza gli uni dei pensieri degli altri

attraverso la voce, come se brancolassimo nelle tenebre. Ma i pensieri che ricevono luce dai demoni rilucono agli uomini demonici, senza bisogno né dei verbi né dei nomi, che tra di loro usano gli uomini come simboli per vedere immagini e raffigurazioni astratte delle cose pensate. Queste invero essi non le possono conoscere in sé, a eccezione di quegli uomini - come si è detto - cui appartiene qualcosa di particolare e demonico» (tr. Aloni-Guidorizzi).

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una categoria di uomini quasi divini che sono liberi dalle passioni e per questo possono ricevere il messaggio “di colui che pensa” in tutta la sua purezza46.

καίτοι τὸ περὶ τὴν φωνὴν γιγνόμενον ἔστιν ᾗ παραμυθεῖται τοὺς ἀπιστοῦντας· ὁ γὰρ ἀὴρ φθόγγοις ἐνάρθροις τυπωθεὶς καὶ γενόμενος δι’ ὅλου λόγος καὶ φωνὴ πρὸς τὴν ψυχὴν τοῦ ἀκροωμένου περαίνει τὴν νόησιν. ὥστε θαυμάζειν <οὐκ> ἄξιον, εἰ καὶ κατὰ [τοῦτο] τὸ νοηθὲν ὑπὸ τῶν δαι<μόνων> ὁ ἀὴρ τρεπόμενος δι’ εὐπάθειαν ἐνσημαίνεται τοῖς θείοις καὶ περιττοῖς ἀνδράσι τὸν τοῦ νοήσαντος λόγον.47

Il De genio Socratis individua in Socrate il prototipo dell’uomo “demonico”, capace di tradurre in parole chiare la scintilla divina che alberga nella sua anima48. I discorsi dei filosofi, come i miti dei poeti, hanno bisogno di un’interpretazione, ma i primi sono composti secondo criteri di limpidezza e esattezza, mentre i secondi mantengono l’aura enigmatica propria di un’età remota. Miti, ragionamenti e νόμοι stanno alla base della fede tradizionale49; il filosofo è l’unico in grado di affrontare questa variegata tradizione per distinguere il simbolo dal vero, la leggenda dal significato autentico: «le philosophe est donc capable, plus que quiconque, d’interpréter et de célébrer le culte religieux, parce qu’il en comprend la signification profonde»50

. La filosofia di Plutarco non prescinde mai da una forte attenzione per la dimensione linguistica: la lingua, benché poco affidabile, è tuttavia l’unico strumento di comunicazione a disposizione dell’uomo. Per secoli, essa è servita a descrivere e plasmare il rapporto con gli dèi; è compito del filosofo risalire al contenuto di verità che risiede nelle testimonianze di

46 Cfr. Moreschini 2013, 115: «Les hommes, dans leur matérialité, entendent uniquement la voix

matérielle, comme elle est décrite par les stoïciens, mais pour les êtres supérieurs le simple contact avec la pensée est suffisant car l’âme des êtres supérieurs se prête naturellement á cette communication».

47

De genio Socratis 589 C: «Del resto il fenomeno della parola può recare conforto a chi è in dubbio. L’aria modellata dai suoni articolati, e completamente trasformata in ragionamento e voce, eccita la capacità d’intendere nell’animo di chi ascolta. Cosicché [non] bisogna stupirsi se, grazie alla sua fluidità, l’aria prende una certa conformazione in rapporto a ciò che viene pensato dai demoni, e comunica agli uomini divini ed eccezionali il pensiero di colui che ha pensato» (tr. Aloni-Guidorizzi).

48 Timotin 2012, 254, evidenzia il tentativo di Plutarco di definire una teoria generale del demone senza

per questo ridimensionare l’eccezionalità della figura di Socrate: «[...] Plutarque semble en effet chercher une voie moyenne entre les théories professées dans le discours de Simmias (le νοῦς démonique différent du νοῦς individuel) et dans le mythe de Timarque (un seul νοῦς à la fois démonique et humain), en élaborant, à partir des données platoniciennes, une conception synthétique du daimon personnel assimilé au νοῦς individuel et, en même temps, extérieur à l’âme à laquelle il envoie des « signes » que l’âme ne peut reconnaître et suivre qu’à condition de mener un certain « genre de vie », à savoir de pratiquer la philosophie». 49 Amat. 763 B-C: ὅσα μὴ δι’ αἰσθήσεως ἡμῖν εἰς ἔννοιαν ἥκει, τὰ μὲν μύθῳ τὰ δὲ νόμῳτὰ δὲ λόγῳ πίστιν ἐξ ἀρχῆς ἔσχηκε· τῆς δ’ οὖν περὶ θεῶν δόξης καὶ παντάπασιν ἡγεμόνες καὶ διδάσκαλοι γεγόνασιν ἡμῖν οἵ τε ποιηταὶ καὶ οἱ νομοθέται καὶ τρίτον οἱ φιλόσοφοι. 50 Zambon 2002, 60.

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questo dialogo ininterrotto. Da questo punto di vista, i nomi delle entità soprannaturali, tramandati da tempi remoti, costituiscono un appiglio sicuro per il filosofo, che può trovare nel metodo etimologico una garanzia di verità.

2. Etimologia e allegoresi nell’antichità

L’origine del termine “etimologia” giustifica di per sé l’impiego di questa pratica in ambito letterario e filosofico: esso è un composto di ἔτυμος, «vero», un aggettivo di origine ionica51. Ben prima di una sua codificazione teorica52, il metodo etimologico venne applicato dai più antichi poeti e pensatori per ricercare «una specie di garanzia del significato delle parole»53 e della loro veridicità attraverso il confronto di un nome con altri termini a esso affini: per gli antichi, i nomi e i verbi erano infatti i costituenti fondamentali del fatto linguistico54. L’etimologia antica poco o nulla ha in comune con il metodo storico di ricerca delle radici verbali sviluppatosi in età moderna; i linguisti hanno spesso faticato a prendere sul serio le estrose derivazioni lessicali ipotizzate dagli antichi; la pratica etimologica era tuttavia diffusissima sia in Grecia che a Roma e veniva applicata da poeti, prosatori e filosofi. Essa non ricercava una radice a cui ricondurre storicamente parole tra loro imparentate, ma procedeva all’accostamento di vocaboli anche molto lontani tra loro per significato in base alla somiglianza fonica. Il fine era quello di ampliare lo spettro semantico di un lemma, ricavando un nuovo concetto da un termine già noto. Graziano Arrighetti ha messo in luce una duplice tendenza di sviluppo per l’etimologia, dopo la fase iniziale omerico-esiodea: «quella di un sempre maggiore approfondimento in quanto strumento usato per affrontare anche grandi problemi ontologici e quella dell’artificio o abbellimento letterario»55

. La seconda via conosce grande fortuna in epoca ellenistica, in ambiente sia greco sia romano56, nella forma del gioco di parole, del Witz concettoso e sorprendente. Per quanto riguarda l’uso dell’etimologia a fini interpretativi, esso è riscontrabile già tra i

51 Reitzenstein 1907, 807: «ἔτυμος fehlt im Attischen». Le prime occorrenze di questa parola si

addensano nelle opere di Omero e Esiodo; essa diviene comune nel lessico poetico del V sec., come dimostra il suo largo utilizzo nelle tragedie di Euripide.

52 Il lemma ἐτυμολογία non si riscontra prima dell’età ellenistica, quando designerà precisamente l’analisi

dei nomi e della loro corrispondenza con la realtà; cfr. Chantraine 1999 s. v. ἔτυμος. La stessa funzione può essere ricoperta dall’aggettivo sostantivato τὸ ἔτυμον, come nel caso di Plut. Aetia Rom. et Gr. 278 C: ἔστι δὲ τοῦ ὀνόματος τὸ ἔτυμον ‘ὑστερημένη νοῦ’.

53

Arrighetti 1987, 33.

54

Arrighetti 1987, 33: «la tradizione identificava la lingua con i nomi e i verbi».

55 Arrighetti 1987, 36.

56 Tra gli autori greci, si ricordi almeno Callimaco; tra i latini vanno menzionati almeno Ennio, Orazio,

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primi esegeti omerici e soprattutto nel Cratilo di Platone; l’autorevolezza di questo testo ha fatto sì che esso venisse in seguito considerato il primo esempio di tecnica etimologica57. Secondo Platone i nomi sarebbero in origine delle imitazioni: il tentativo operato da Socrate nel dialogo è quello di stabilire la correttezza delle parole attraverso un processo di approssimazione tra “nome convenzionale” e natura della realtà. Il nome sarebbe capace di chiarire ciò che ogni ente è (δηλοῦν οἷον ἕκαστόν ἐστι τῶν ὄντων)58 perché al momento della sua imposizione alle cose esso aveva un carattere imitativo. Esso avrebbe subito nel corso del tempo alcune alterazioni formali, ma la sua fedeltà all’oggetto si può inferire a posteriori: «although names may mislead, the very fact that they ever succeeded in becoming names guarantees that they display some degree of resemblance to their objects»59. La maggiore verosimiglianza andrebbe riconosciuta ai nomi che si riferiscono a entità di natura eterna, quali sono gli dèi.

εἰκὸς δὲ μάλιστα ἡμᾶς εὑρεῖν τὰ ὀρθῶς κείμενα περὶ τὰ ἀεὶ ὄντα καὶ πεφυκότα. ἐσπουδάσθαι γὰρ ἐνταῦθα μάλιστα πρέπει τὴν θέσιν τῶν ὀνομάτων· ἴσως δ’ ἔνια αὐτῶν καὶ ὑπὸ θειοτέρας δυνάμεως ἢ τῆς τῶν ἀνθρώπων ἐτέθη.60

Socrate non dimostra particolare fiducia nel rapporto naturale tra realtà e nome, ma insiste, nel corso del dialogo, sull’esistenza di un antico νομοθέτης che avrebbe saputo conciliare in maniera opportuna ὄνομα e φύσις61. Nel caso dei nomi degli dèi, l’operazione sarebbe stata condotta con particolare impegno e serietà (ἐσπουδάσθαι). Una parte sostanziosa del Cratilo è dunque dedicata a esaminare la categoria dei nomi

57 D. H. De comp. verb. XVI 20-22 Radermacher: περὶ ὧν εἴρηται πολλὰ τοῖς πρὸ ἡμῶν, τὰ κράτιστα δ’

ὡς πρώτῳ τὸν ὑπὲρ ἐτυμολογίας εἰσαγαγόντι λόγον, Πλάτωνι τῷ Σωκρατικῷ, πολλαχῇ μὲν καὶ ἄλλῃ μάλιστα δ’ ἐν τῷ Κρατύλῳ. Cfr. anche Reitzenstein 1907, 808: «Der Dialog ist für hellenistische Zeit das einzige und immer fortwirkende Denkmal dieser Bestrebungen».

58 Plat. Crat. 422 d2. 59 Sedley 2003, 153.

60 Plat. Crat. 397b 6-8: «Credibile invece è che nomi posti giustamente noi li troviamo soprattutto in

quegli enti che di loro natura sono eterni, poiché convien credere che qui soprattutto l’apposizione dei nomi sia stata oggetto di gran cura. E forse alcuni di essi furon anche posti da un più divino potere che non sia l’umano».

61 Anceschi 2007, 55: «Auf diese Weise wird der Grundgedanke der naturalistischen Sprachtheorie, die

an die Möglichkeit glaubt, vom Namen auf die Sache schließen zu können, zerstört und damit auch die Grundlage jener von Sokrates an dem ganzen griechischen Wortschatz angewandten Wortuntersuchung, die vorgibt, damit die Wahrheit zu enthüllen, denn durch die Analyse der Götternamen erfährt man nur die Meinung derjenigen, die den Göttern ihre Namen gaben». La questione appare decisamente semplificata in Alc. Did. VI.10: Τὰ δὲ ἐν τῷ Κρατύλῳ τοιοῦτον ἔχει νοῦν· ζητεῖ γάρ, πότερον φύσει τὰ ὀνόματά ἐστιν ἢ θέσει, ἀρέσκει δὲ αὐτῷ, θέσει ὑπάρχειν τὴν ὀρθότητα τῶν ὀνομάτων, οὐ μὴν ἁπλῶς οὐδὲ ὡς ἔτυχεν, ἀλλὰ ὥστε τὴν θέσιν γενέσθαι ἀκόλουθον τῇ τοῦ πράγματος φύσει· μὴ γὰρ ἄλλο τὴν ὀρθότητα εἶναι τοῦ ὀνόματος ἢ τὴν σύμφωνον τῇ φύσει τοῦ πράγματος θέσιν.

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degli dèi attraverso il metodo etimologico. Socrate organizza con grande precisione il discorso attorno all’origine di questi ὀνόματα62

; il presupposto è che, in mancanza di una possibilità di verifica diretta, qualunque considerazione sui nomi degli dèi debba poggiare sui dati certi della tradizione.

ΣΩ. Ναὶ μὰ Δία ἡμεῖς γε, ὦ Ἑρμόγενες, εἴπερ γε νοῦν ἔχοιμεν, ἕνα μὲν τὸν κάλλιστον τρόπον, ὅτι περὶ θεῶν οὐδὲν ἴσμεν, οὔτε περὶ αὐτῶν οὔτε περὶ τῶν ὀνομάτων, ἅττα ποτὲ ἑαυτοὺς καλοῦσιν· δῆλον γὰρ ὅτι ἐκεῖνοί γε τἀληθῆ καλοῦσι. δεύτερος δ’ αὖ τρόπος ὀρθότητος, ὥσπερ ἐν ταῖς εὐχαῖς νόμος ἐστὶν ἡμῖν εὔχεσθαι, οἵτινές τε καὶ ὁπόθεν χαίρουσιν ὀνομαζόμενοι, ταῦτα καὶ ἡμᾶς αὐτοὺς καλεῖν, ὡς ἄλλο μηδὲν εἰδότας· καλῶς γὰρ δὴ ἔμοιγε δοκεῖ νενομίσθαι. εἰ οὖν βούλει, σκοπῶμεν ὥσπερ προειπόντες τοῖς θεοῖς ὅτι περὶ αὐτῶν οὐδὲν ἡμεῖς σκεψόμεθα— οὐ γὰρ ἀξιοῦμεν οἷοί τ’ ἂν εἶναι σκοπεῖν—ἀλλὰ περὶ τῶν ἀνθρώπων, ἥν ποτέ τινα δόξαν ἔχοντες ἐτίθεντο αὐτοῖς τὰ ὀνόματα· τοῦτο γὰρ ἀνεμέσητον.63

L’inconoscibilità della lingua divina e delle sue parole di verità costringe Socrate a rivolgere l’attenzione a una seconda via di ricerca, quella dei nomi degli dèi consacrati nelle preghiere tradizionali. La matrice prettamente umana di queste invocazioni non sfugge agli interlocutori del dialogo: essi si volgono a esaminare i frutti della δόξα dei mortali riguardo a un argomento la cui comprensione profonda è preclusa all’intelletto. Alla tradizione viene riconosciuto un valore di attendibilità (καλῶς...νενομίσθαι) perché ciò che è più antico, in quanto più vicino cronologicamente all’epoca dei νομοθέται, è anche più autorevole. La verifica dell’ὀρθότηςτῶν ὀνομάτων in Platone è condizionata dal suo rispetto per l’assetto tradizionale della religione greca: parlando dell’affidabilità dei nomi cristallizzati nell’uso, egli pensa certamente all’ossessione degli innografi per

62 Ciò esclude qualsiasi artificio e intento ironico. Sedley 2003, 39: «If Plato was joking, the joke

flopped». Anche Ademollo considera credibile la ricerca etimologica condotta nel dialogo e fa riferimento alle testimonianze medio-platoniche in merito: «Apart from Proclus’ commentary, you can look up D. H. comp. 95-6, who refers to Plato as the first who introduced the discussion of etymology; Alcinous, Didask. 159.44-5, who says that Plato expounds the whole topic of etymology; Plu. De Is. et Os. 375CD, who - between his own etymologies of the names Ἶσις and Ὄσιρις - approves of the etymologies concerning flux» (Ademollo 2011, 239).

63 Plat. Crat. 400d-401a: «Ma sì, per Zeus, Ermogene, se avessimo giudizio, noi avremmo un modo,

bellissimo tra tutti, questo: che degli dei non sappiamo nulla né di loro in sé, né dei nomi con cui chiamino se stessi, poiché è sicuro che essi si chiamano coi nomi veri. Un secondo modo di riconoscerne la giustezza è invocarli com’è consuetudine che s’invochino nelle nostre preghiere; e con quei nomi, quali che sieno e onde che sieno, con cui piaccia loro d’essere chiamati, con questi chiamarli anche noi, da quegl’ignoranti che siamo d’ogni altra cosa, poiché la consuetudine mi pare eccellente. Se però vuoi, facciamone pure la disamina, ma dichiarando prima agli dei che questa disamina non la faremo punto su loro stessi - ché su loro non presumiamo per nulla d’essere in grado di farla - ma sugli uomini, quale opinione questi se ne fossero fatta, quando presero a dar loro de’ nomi, perché questo non è illecito».

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la corretta forma di invocazione agli dèi. Nella composizione delle preghiere l’esatta denominazione dell’entità soprannaturale giocava un ruolo centrale: essa costituiva la garanzia di un contatto fruttuoso con la dimensione superiore; per evitare errori, era frequente il ricorso a più nomi e epiteti che identificassero la stessa divinità64. Platone stesso manifesta a più riprese una preoccupazione filosofica nei riguardi di quelle che sono state efficacemente definite «precautionary formulae»65 e che si prestano particolarmente al ragionamento sull’appropriatezza dei nomi; essi vengono trattati da Platone alla stregua di descrizioni della realtà e su questa base è possibile verificarne l’attendibilità: «it is only on that basis that etymological explanations of the names of the gods can make any sense»66. Anche nel caso dei nomi degli dèi agisce la convinzione che, se pure la vera sostanza della divinità rimane misteriosa, «behind the names lies a partially hidden essence, which may or may not be truly captured in some name or set of names that we are trying to apply to it»67. Nel momento in cui la razionalità filosofica subentra alla fede incondizionata, il patrimonio di invocazioni e appellativi non viene dunque liquidato come frutto di rozze fantasticherie, ma subisce un processo di verifica che porta a una loro nuova interpretazione attraverso la tecnica etimologica.

Il metodo allegorico-etimologico, elaborato in ambiente stoico, dà particolare impulso all’interpretazione razionale del patrimonio mitologico greco. Gli Stoici, rifacendosi al

Cratilo, postulano un rapporto naturale tra nome e ente; esso sarebbe garantito dal

carattere mimetico del nome imposto alle cose da alcuni sapienti in un’epoca remota. I nomi originari sarebbero stati accolti dalla comunità come termini di riferimento,

64 Cfr. Furley-Bremer 2001, 52: «the precise naming of the god addressed was important both from the

point of view of politeness and courtesy, so as not to offend a sensitive power, and from the point of view of establishing the precise channel along which one wished divine succor to flow. The composers of Greek hymns often used more names than one to address and identify a god; their motive may have been partly to avoid the sin of omission, and partly to demonstrate technical proficiency to their divine and human listeners». L’adeguatezza degli appellativi divini poteva dipendere dalla connessione del dio con un luogo di culto determinato: questa pratica da un lato rinsaldava la fede dei partecipanti alla preghiera, che si convincevano della presenza del dio tra di loro, dall’altro rivolgeva un invito preciso al dio, chiamato a raggiungere gli oranti dalla sua sede prediletta (Furley-Bremer 2001, 55).

65 Osborne Rowett 2010, che analizza i seguenti passi platonici, in cui emerge chiaramente una forma di

angoscia a proposito del giusto appellativo per gli dèi: Crat. 400 d- 401 a6; Symp. 212 b; Phil. 12 b7-c6; Prot. 358 a. La seconda parte del saggio è dedicata a rintracciare lo stesso tipo di speculazione nel pensiero presocratico, in particolare in Eraclito.

66 Osborne Rowett 2010, 13. 67 Osborne Rowett 2010, 29.

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proprio per la loro stretta aderenza alla realtà68. A tali nomi, fondativi dell’identità ellenica, è possibile risalire attraverso l’etimologia, il cui utilizzo assolve anche la funzione di assicurare la genuinità di un termine greco69. Di conseguenza, qualunque nome si potrebbe spiegare razionalmente grazie all’analisi etimologica e allegorica: i nomi tramandati nei miti altro non sarebbero che personificazioni di fenomeni fisici e psichici (πάθη). L’etimologia è inserita nel più ampio sistema dell’allegoresi, che svolge la funzione primaria di discernere, nei testi poetici arcaici, ciò che è congruo e accettabile da ciò che è invece ἄτοπος70 a livello contenutistico. L’interesse etico è preponderante, come illustra l’uso corrente dei filologi alessandrini, degli scoliasti, degli esegeti omerici, nonché l’applicazione di questo metodo in ambito teologico da parte degli stessi filosofi stoici. L’analisi etimologica dei nomi e degli epiteti divini è rivolta in particolare a scoprire «the theological, philosophical, and scientific wisdom expressed in the fragments of ancient Greek mythology preserved by the poets»71. L’interpretazione stoica ricerca una connessione, sia a livello fonico che semantico, tra gli epiteti divini e le realtà naturali, nella convinzione che solo questa chiave di lettura renda pienamente accessibili le verità arcane, di interesse teologico, celate nei racconti apparentemente irrazionali della poesia epica72. Eraclito grammatico insiste sulla necessità di “salvare Omero” dalle accuse di blasfemia che le sue favole, se mal interpretate, potrebbero legittimare73; la sua opera, Allegoriae o Quaestiones homericae, si propone allora di fornire al lettore un ἀντιφάρμακον74 contro il rischio d’empietà cui una lettura scorretta del testo omerico potrebbe esporre; il suo tentativo di giustificare la moralità di Omero e la lettura poetica dei miti rimane in realtà un caso isolato

68 Cfr. Frede 1978, 69, e Most 1989, 2027: «[according to the Stoics] language was created on the basis of

a small number of elementary units, πρῶται φωναί or cunabula verborum, in which there was a relation of immediate imitation between phonic material and meaning or referent; according to Philo, these first units were imposed by ancient wise men».

69 Dawson 1992, 260 n18: «etymology was also a useful method of ensuring the Hellenicity of an

expression, for the original name givers were, of course, speakers of perfect Greek». Cfr. Frede 1978, 68-70, che rimanda a Sext. Emp. Adv. Math. I, 241: Τὰ δὲ αὐτὰ λεκτέον πρὸς αὐτοὺς καὶ ὅταν δι’ ἐτυμολογίας κρίνειν θέλωσι τὸν ἑλληνισμόν.

70 Cfr. Dawson 1992, 10. 71 Dawson 1992, 23.

72 Long ha persuasivamente sostenuto che l’allegoresi stoica, lungi dal voler riconoscerere nelle opere di

Omero e Esiodo concetti proto-stoici, fosse mossa da un autentico interesse storico-antropologico: «Their hermeneutic is fundamentally historicist. That is why it depends on etymology, the search for original meanings» (1996, 83).

73 Heracl. Alleg. Hom. I, 1: πάντα γὰρ ἠσέβησεν, εἰ μηδὲν ἠλληγόρησεν. 74 Heracl. Alleg. Hom. XXII, 1.

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