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A Bari due Abramo; forse quattro. Jacques Derrida e Patrik Fridlund; Teresa Ludovico ed Ermanno Bencivenga

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206

Annalisa Caputo

A Bari, due Abramo; forse quattro.

Jacques Derrida e Patrik Fridlund; Teresa Ludovico ed Ermanno Bencivenga

1) Filosofia, letteratura, teatro

Una settimana „abramitica‟ a Bari; due eventi diversi che si sono congiunti per chi ha potuto e voluto congiungerli. Lunedì ventisei ottobre, presso l‟Ateneo barese, Patrik Fridlund ha presentato una sua lettura del testo di Derrida La letteratura nel segreto, un piccolo, delizioso saggio del filosofo francese, che commenta a modo suo la storia biblica di Abramo. Dal ventidue ottobre al primo novembre, presso il Teatro Kismet, sempre a Bari, va in scena la „tragedia‟ scritta da Bencivenga, Abramo.

Vogliamo provare a dare una lettura incrociata (e critica) di questo chiasmo, ponendo agli estremi i due scritti (quello di Derrida su Abramo e la letteratura; e quello di Bencivenga su Abramo e la tragedia), e lasciando in mezzo i due interpreti: il professor Fridlund (dell‟Università di Lund, Svezia) e la regista Teresa Ludovico (direttrice artistica del Kismet).

Che cosa tiene insieme e che cosa distingue la lettura di Derrida e quella di Bencivenga? Intanto le tiene insieme la consapevolezza che Abramo è una figura letteraria. E che quindi l‟approccio-letteratura da un lato, e l‟approccio-teatro dall‟altro, sono il modo migliore per far emergere la complessità della figura e sprigionare i molteplici livelli della sua simbolica.

1) La letteratura nel segreto. Una filiazione impossibile (Derrida)

Il saggio di Derrida1 si apre con un‟enigmatica espressione, «Perdono di non voler

dire», che, da subito (posta quasi come sottotitolo), insieme al titolo va a creare una sorta

di triangolo concettuale: letteratura, segreto, perdono. Che cosa tiene insieme questi tre termini e perché per comprendere la loro connessione è necessario risalire ad Abramo?

Partiamo dal segreto. È noto in che cosa consista il segreto di Abramo in relazione al sacrificio di Isacco, suo figlio; un segreto duplice: in primo luogo nei confronti della moglie, del figlio, dei servi (nessuno sa che Abramo ha ricevuto da Dio l‟ordine di sacrificare Isacco); in secondo luogo (e primariamente) un segreto chiuso su se stesso (un «archi-segreto»2), perché lo stesso Abramo ignora il senso della richiesta di Dio.

Derrida in prima istanza segue e approfondisce quanto scritto da Sören Kierkegaard in

Timore e tremore3. Per Kierkegaard Abramo è il campione della fede perché è il campione del silenzio; e proprio per questo lo pseudonimo con cui Kierkegaard firma il suo testo è Johannes de Silentio. E qui a margine potremmo fare già una prima osservazione. Già in Kierkegaard, Abramo è un personaggio letterario, descritto da uno pseudonimo letterario. Già Kierkegaard, scrivendo di Abramo, fa innanzitutto letteratura.

Sappiamo, infatti, come inizia Timore e tremore: con quattro favole, quattro «c‟era una volta», quattro variazioni immaginative; che cosa sarebbe accaduto se…; che cosa sarebbe potuto accadere se Abramo non fosse stato il cavaliere della fede che è stato. Quattro movimenti di una sinfonia del tutto ipotetica, in cui Kierkegaard immagina, per esempio4,

1 Uscito in traduzione italiana in “Ars interpretandi”, XII, 2007, pp. 171-198.

2 Ivi, p. 177. Un segreto talmente originario e senza «la minima ragione»da creare «dissimetria assoluta» (ivi,

p. 180). Più in là, tornando sul tema Derrida dirà: «Dio si contrae e si contratta in tal mdo a rivenire su se stesso. Il contratto dissimetrico dell‟Alleanza sembra allora presuppore questo (…) ri-trarsi» (p. 190).

3 In S. Kierkegaard, Opere, a cura di C. Fabbro, Piemme, Casale Monferrato, 1995, vol. 1, pp. 181-297. 4 E Derrida lo ricorda, sottolineando i diversi „silenzi‟ in gioco in questi „movimenti‟ kierkegaardiani.

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207 che Abramo, mentre sta per uccidere Isacco, all‟improvviso decida di fingersi pazzo. Infatti, colta l‟assurdità dell‟ordine divino, pur di non far perdere la fede a suo figlio, preferisce farsi passare per un folle idolatra (primo movimento: «meglio che mi creda un mostro piuttosto che perda la fede in Te»5). Oppure (secondo movimento) Kierkegaard immagina che Abramo riesca a mantenere silenzio e saldezza con il figlio, ma non con se stesso. E, così, scendendo dal monte, Abramo perde la gioia, non riuscendo più a vivere con il suo Dio lo stesso legame di prima (è troppo assurdo, infatti, quanto è successo!). Oppure (quarto movimento) la storia sarebbe potuta finire in maniera ancora diversa: la fede avrebbe potuto perderla Isacco, vedendo la disperazione di Abramo nel momento dell‟estrazione del coltello. Oppure (terzo movimento, che abbiamo lasciato alla fine perché è quello da cui poi parte Derrida) ecco quel che sarebbe potuto accadere: Abramo

si buttò con la faccia per terra e pregò Dio di perdonargli il suo peccato, quello di aver voluto sacrificare Isacco, di aver dimenticato il suo dovere di padre verso il figlio. (…) Egli non riusciva a capire che fosse peccato l‟aver voluto sacrificare a Dio la cosa migliore ch‟egli aveva, ciò per cui avrebbe dato la propria vita molte volte; e se questo era un peccato, se egli non aveva amato Isacco a questo modo, non poteva allora comprendere ch‟esso gli potesse essere perdonato. Quale peccato infatti mai era più orribile?6

Una lunga ma doverosa citazione. Kierkegaard, infatti, tra i quattro nomi del nostro titolo, è il quinto nascosto, l‟inevitabile „quinto‟ (o forse il „primo‟) interprete filosofico della storia di Abramo. Come vedremo, infatti, anche Bencivenga ripartirà da Kierkegaard (ed in particolare da questo terzo movimento).

Ma torniamo a Derrida. Provando a sintetizzare (e quindi inevitabilmente banalizzando) la complessa interpretazione derridiana, possiamo dire che – nella terza variazione immaginativa di Kierkegaard – viene in luce in maniera evidente il paradosso del perdono, che è il paradosso (della colpa) dell‟amore assoluto, di ogni amore assoluto7. Se ami Isacco più di Dio, sei colpevole. Ma, se ami Dio al punto di preferire Lui ad Isacco, al punto di poter pensare anche di uccidere Isacco, sei colpevole lo stesso8.

È il paradosso del legame tra colpa e perdono. Qualsiasi scelta fai, tu, Abramo, sei colpevole. Qualsiasi scelta farai, sarai colpevole9. Perché l‟uomo è colpevole, sempre (come mostreranno, con e oltre Kierkegaard, gli esistenzialisti). E allora di che cosa Abramo chiede perdono, di che cosa può chiedere perdono? Di niente. In ogni caso quello che farà sarà imperdonabile. Ma, forse (suggerisce enigmaticamente ed acutamente Derrida), non si può chiedere perdono che per l‟imperdonabile10.

Sospendendo qui la „scena‟ del perdono, Derrida (teatralmente, sapientemente) a questo punto fa entrare in gioco il „personaggio‟ Letteratura. E lo fa entrare attraverso un altro testo: Lettera al padre di Kakfa11. Anche in questo scritto kafkiano, infatti, come nello scritto kierkegaardiano, abbiamo un gioco di voci. Se Kierkegaard parla attraverso Johannes de Silentio, qui Kafka parla attraverso la voce del padre. Quasi come «un ventriloquo», Kafka squaderna un dialogo ipotetico tra sé e suo padre; un dialogo che non

5 Ivi, p. 190. 6 Ivi, p. 191.

7 Il „segreto‟ di Abramo è il segreto di ogni intenso legame (che aspira all‟unicità, all‟esclusività). Scrive

Derrida, la prova è «se Abramo è capace di mantenere un segreto. (…) Ti impegni a rispondere a me solo. (…) Il segreto non consiste nel nascondere qualche cosa, (…) ma nel rispettarne la singolarità assoluta»; J. Derrida, La letteratura nel segreto, cit., pp. 172-73.

8 Ivi, p. 175: «perdono per aver preferito il segreto che mi lega a te piuttosto che il segreto che mi lega

all‟atrlo, (…) perché un amore segreto mi lega all‟uno come all‟altro».

9 Ibid.: «il perdono non può che prolungare la colpa, donandole la sopravvivenza di una interminbile

agonia».

10 Ivi, p. 176.

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208 si è in fondo mai dato, un dialogo impossibile; di cui immagina anche le impossibili risposte12.

Perché Kafka? Non è solo la sua origine ebraica che giustifica la sua presenza sul palco derridiano, ma è proprio il gioco paradossale del rapporto padre/figlio. Lo „stesso‟ gioco del rapporto Abramo/Isacco? Sì e no. In ogni caso è lo stesso gioco delle colpe e dell‟impossibile perdono. Il padre accusa Kafka (o, meglio, Kafka si autoaccusa attraverso le parole fittizie del padre: parole da lui stesso immaginate). Qual è l‟accusa? Tu fai letteratura invece di lavorare. Sei un «parassita»13. Un po‟ come Kierkegaard scegli di non sposarti, di non rientrare nei canoni della „normalità‟, di non vivere la „generalità‟ della vita etica14. Tu dici „no‟ a tutti i comandi della voce „paterna‟ (voce della Norma?, voce del super-Io?, voce dei valori tradizionali?, voce della vita come „dovrebbe‟ essere?, della Morale?, della Verità? del Logos?).

Forzando la lettera del testo di Derrida, potremmo dire che Kafka uccide il Padre15. E la sua letteratura (e la sua vita) sono la scena di questo sacrificio: speculare e rovesciato rispetto a quello di Abramo.

Come termina, infatti, il sacrificio di Kafka? Anche in questo caso, paradossalmente, non con una „fine‟, ma con un nuovo inizio. L‟effetto di questa kafkiana-nietzscheana „morte di Dio‟, infatti, è la nascita della letteratura, così come la intendiamo nel Novecento. Ci piace ridirla così: è la nascita dei logoi (molteplici) dal Logos; la nascita dell‟infinito letterario, dell‟infinito del possibile; è la nascita dell‟interpretazione infinita.

Ma, allora, perché letteratura e segreto? E perché letteratura e perdono?

Torniamo al tema del perdono, riprendendolo lì dove lo avevamo lasciato; perché la questione del perdono è davvero enigmatica e decisiva, e non solo in Derrida; pensiamo anche a Ricoeur. E, in realtà, in qualche passaggio, veramente qui Derrida sembra civettare e dialogare con i testi ricoeuriani. E i due sembrano molto vicini, in particolare su un punto: il primo perdono va dato a se stessi.

Non è possibile perdonare un altro, se non si è capaci di perdonare se stessi. «Il perdono si chiede sempre, attraverso la ritrattazione, a se stesso come a un altro, a un altro se stesso»: sembra Sé come un altro di Ricoeur e invece è Derrida16. Anche quando perdoniamo un altro (o chiediamo perdono ad un altro) l‟altro è, per dirla con Ricoeur, la mediazione attraverso cui comprendiamo e perdoniamo noi stessi. E viceversa.

E qui Derrida gioca il suo ennesimo colpo da maestro. Infatti, cosa fa? Fa tornare la scena in Cielo. E inserisce la storia del perdono all‟interno stesso della storia di Dio.

«Il perdono è una storia di Dio, un affare tra Dio e Dio, difetto attraverso il quale noi, gli uomini, ci troviamo ad esistere (…). Non appena si dice o si intende „perdono‟ ebbene (…) Dio è della partita»17. Ma attenzione! Qui il problema è il perdono che Dio chiede a se stesso. E realmente la cosa appare ancora più paradossale. Se già appare „illogica‟ la

12 Ivi, p. 180: «Nelle ultime pagine di questa lettera, Kafka indirizza a se stesso, fittiziamente, più

fittiziamente che mai, la lettera che pensa che suo padre avrebbe voluto, avrebe dovuto, in ogni caso avrebbe

potuto indirizzargli in risposta» (p. 180).

13 Ivi, p. 183: «ha commesso la colpa di scrivere al posto di lavorare; si è accontentato di scrivere al posto di

sposarsi normalmente. Qui tutto accusa il parassitismo (…), nel nome del padre e del figlio che si parla nel nome del padre, nel nome del figlio che si denuncia nel nome del padre, senza spirito santo (a meno che la Letteratura qui non giochi il ruolo della Trinità)». E quindi è la letteratura stessa ad essere accusata di parassitismo (p. 184).

14 Ivi, p. 181. Per Kierkegaard i tre pilastri della vita etica erano matrimonio, lavoro e amicizia. E

paradossalmente Kierkegaard pare averli „evitati tutti. Ma anche Kafka. Qui parassitismo è sinonimo di incapacità di assumersi responsabilità (ivi, p. 184).

15 Derrida parla di un processo al padre (ivi, p. 181). Usiamo il termine uccisione del Padre, in correlazione

con il tema nietzscheano della uccisione/morte di Dio.

16 J. Derrida, La letteratura nel segreto, cit., p. 190. 17 Ivi, p. 191.

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209 domanda Posso io perdonare veramente me stesso?18 figuriamoci la domanda Può Dio

perdonare se stesso? E per cosa? E davanti a chi?

Il filosofo francese insegue le pieghe del testo della Genesi alla ricerca di parole e termini che possano mostrare il paradosso: «Dio si pentì», «Dio rimpianse» di aver fatto questo. Sono espressioni che emergono con evidenza quando Dio decide di scatenare il diluvio universale, e sembra quasi pentirsi di aver creato l‟uomo («Iahvè vide che la malizia dell‟uomo sulla Terra era grande, (…) e si pentì di aver fatto l‟uomo sulla terra»19).

Ma sono espressioni evidenti anche al termine del diluvio, quando Dio, con Noè, rilancia l‟alleanza e la promessa: non ci sarà mai più uno sterminio simile. E questo sembra quasi un ulteriore pentimento di Dio. Anzi, fa notare Derrida, sembra quasi che Dio chieda perdono «a Noè, davanti a Noè», l‟unico giusto, forse «più giusto di Dio stesso»20. Perdono per aver mandato il diluvio. Perché, in fondo, chi era stato a creare gli uomini „finiti‟, fallibili, se non Dio stesso? Di chi la „vera‟ colpa?21

E se i teologi e la mistica potranno interrogarsi su questo paradosso dell‟Infinito che diviene e torna su se stesso, modificando se stesso in relazione all‟umano22, Derrida da filosofo torna alla filosofia e alla letteratura23. E si chiede, di nuovo: di che cosa mai potrà e dovrà chiedere perdono la letteratura? A chi? Perché?

Nella scena non più del Cielo ma dell‟abisso terreno, la Letteratura (logoi al posto del

Logos) pare chiedere perdono a se stessa, attraverso di noi. E in questo domandare

perdono svela il proprio segreto. La letteratura chiede perdono, come Kafka, per l‟uccisione del Padre, per l‟atto inevitabilmente desacralizzante che la costituisce, per il tradimento della sua origine abramitica24, per aver posto la sua verità (o meglio le sue molteplici verità/finzione) al posto della Verità Assoluta. Per aver chiuso per sempre ogni parola nel segreto (e, direbbe Nietzsche, dietro ogni segreto c‟è solo un altro segreto; dietro ogni caverna un‟altra caverna; dietro ogni opinione una maschera).

Andrebbero citate e commentate per esteso le due pagine finali del saggio, in cui Derrida elenca una serie di «considerato che…»; una serie di considerazioni che sembrano rimanere in sospeso, come domande rivolte a noi lettori. Domande aperte. O almeno a noi piace interpretarle così.

Ma la letteratura, nella misura in cui non dice il Vero, nella misura in cui dice (può dire) tutto e nascondere tutto, che rapporto ha con la democrazia?25

E un Autore, può realmente scrivere tutto e il contrario di tutto? Esiste una responsabilità della letteratura e di chi (la) scrive?26

18 Ivi, p. 187: «si può chiedere perdono a qualcun altro che non sia se stesso? Si può chiedere perdono a sé?». 19 Il brano biblico è citato in ivi, p. 192. Perché Dio si pente di aver fatto l‟uomo? – si chiede Derrida. Perché è

malvagio? Perché è desiderante? Perché si accoppia con le figlie degli uomini? (ibid.).

20 Ivi, pp. 191-192.

21 Ivi, p. 192: «Rimpianto per un male che in definitiva ha commesso lui stesso: aver creato degli uomini che

hanno il male nel cuore; (…) ed è stato lui a mettere negli uomini il desiderio».

22 Cfr. ivi, p. 189. Ma già p. 175: «Il Dio di Abramo, d‟Isacco e di Giacobbe, a differenza del dio dei filosofi e

dell‟onto-teologia, è un Dio che si ritrae e si ritratta (se rétracte)».

23 E ci sembra molto „bello‟ che il divino e la letteratura siano entrambi riletti, da Derrida, sotto forma

„meteorica‟ e in particolare sotto la forma dell‟arcobaleno. «Il segreto del meteorite: diviene luminoso entrando, come si dice, nell‟atmosfera, venuto da non si sa dove. (…) Breve, rapido, passeggero, furtivo, cioè nel suo passaggio lampo, (…) quanto un ladro. (…) Questione di tempo. Al limite di un istante. La vita di una meteorite sarà sempre stata troppo breve: il tempo di un lampo, di un colpo di fulmine, d‟un arcobaleno»: ivi, p. 185. E ancora, in relazione all‟alleanza post-diluviana: «che la promessa o la fede giurata di questa alleanza abbia preso la forma di un arcobaleno, cioè di un meteorite, ecco ciò che dovremmo ancora meditare» (p. 186).

24 Ivi, p. 179.

25 «Considerato che la letteratura (…) implica di principio il diritto di dire tutto e di nascondere tutto, cosa

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210 Esiste un „senso‟ della letteratura? E dove e come? Esiste ancora la possibilità di pensare il senso come (cor)rispondenza al reale? O fenomenologicamente la letteratura è solo „epochè‟ del reale, sua sospensione immaginativa?27

E, se è vero che non c‟è più una Legge, esiste ancora la possibilità di cogliere una legge interna alla stessa letteratura? Questa legge è forse la singolarità dell‟evento letterario, dell‟atto stesso dello scrivere?28

Ma, se è così, chiediamoci: cosa „fa‟ lo scrittore di letteratura? Non „fa‟ comunque un atto? Non genera comunque decisioni performative, che formano e modificano gli eventi? E, allora, lo scrittore è o non è chiamato a „rispondere‟ delle proprie azioni?29

Oppure, al contrario, chi scrive di letteratura non fa veramente un atto autonomo, perché in ogni caso è invischiato nell‟eteronomia dei «poteri non letterari»? Chi decide che cosa è letteratura e cosa no, che cosa è pubblicabile e che cosa no?30

«Considerato…» tutto questo, Derrida può solo concludere che

la letteratura è certamente erede di una storia santa nella quale il momento abramitico resta un segreto essenziale (…), ma essa rinnega anche questa storia, questa appartenenza, questa eredità. Rinnega questa filiazione. La tradisce nel doppio senso della parola: le è infedele, rompe con essa nel momento stesso in cui ne manifesta la „verità‟ e ne disvela il segreto. Vale a dire la sua filiazione impossibile: possibile impossibile. (…) Di questo doppio tradimento la letteratura non può che chiedere perdono. Non vi è affatto letteratura che non chieda perdono, fin dalla sua prima parola. In principio ci fu il perdono. Per niente. Per non voler dir niente31.

2) La chiamata e la responsabilità (Fridlund e Derrida)

E certo molteplici sono i fili che intesse Derrida in questo breve ma intensissimo saggio. E il lettore, al termine del testo, non può non avvertire il „classico‟ senso di spaesamento che si prova davanti alle pagine del teorico della decostruzione.

Non è certo qui il caso di provare nemmeno lontanamente ad aprire il capitolo delle possibili interpretazioni della decostruzione e di Derrida. Possiamo, però, per lo meno ricordare che (in linea molto generale) gli studiosi tendono o a sottolineare l‟aspetto più „disseminante‟ e „critico‟ dell‟atteggiamento decostruttivo, oppure ad evidenziare il fine più propriamente „etico‟ della decostruzione, che emergerebbe soprattutto negli ultimi testi di Derrida.

Ci sembra che Patrik Fridlund si muova più in questa seconda scia. Egli, infatti, nel seminario tenuto presso l‟Università di Bari (Derrida, Secrecy, Responsibility, and the

Call), dopo aver ricorato lo scenario biblico e kierkegaardiano del testo di Derrida, ha

messo soprattutto in evidenza quello che potremmo chiamare il dilemma della responsabilità.

Abramo è solo davanti alla scelta. Non ha un sistema di norme morali, un codice a cui potersi aggrappare per giustificare la propria decisione. Abramo realmente qui è figura del

26 «Considerato che la supposta struttura fittizia di ogni opera esonera il firmatario in quanto alla

responsabilità (…), pur aggravando in ugual misura, fino all‟infinito, la sua responsabilità per l‟evento singolare che ogni opera costituisce…» (ibid).

27 «Considerato che i segreti incripitati in un tale evento letterario non devono rispondere o corrispondere a

qualche senso o realtà del mondo e che, a tal riguardo, chiamano a una sospensione di questi ultimi…» (ibid)

28 «Considerato che la letteratura è il luogo di tutti questi segreti senza segreto, di tutte queste cripte senza

profondità, senza altro fondo che l‟abisso dell‟appello o dell‟indirizzarsi, senz‟altra legge che la singolartà dell‟evento» (ivi, p. 197).

29 «Considerato che questo diritto letterario alla finzione presuppone una storia che istituisce

un‟autorizzazione (…) alla decisione performativa di produrre degli eventi che in quanto atti linguistici sono altrettanti modi di indirizzarsi e di rispondere» (ibid.)

30 «Considerato che l‟avvento di questo diritto implica l‟alleanza indissolubile tra un‟autonomia estrema (la

libertà democratica di tutti e di ciascuno) e una estrema eteronomia (…), a partire dai poteri non letterari…»

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211 soggetto etico. Diviene soggetto (diventa se stesso) diventando responsabile: assumendosi il peso della responsabilità della scelta.

Ma non è e non diventa un individuo isolato! La chiamata di un tu lo precede (qui Lévinas, secondo Fridlund, ci aiuta a comprendere la provocazione di Derrida).

Eccomi! - significa io sono; io sono qui, convocato da te. E che questo Tu sia con

l‟iniziale maiuscola (come nel brano biblico) o con l‟iniziale minuscola (come in ogni relazione interpersonale), questo non muta la struttura chiamata/risposta/responsabilità.

È evidente che qui in questione non è la fede o la non fede, ma il gioco delle possibilità, che si aprono in ogni domanda e in ogni risposta.

Persino nella storia di Abramo, la chiamata di Dio, in quanto chiamata, non può essere obbligo. Abramo poteva dire no. Più importante di quello che di fatto abbia risposto è il dato: che è stato reso soggetto responsabile, nel suo poter dire sì „o‟ no.

E, però – anche in questo caso concludendo senza concludere, con una domanda aperta – Fridlund si è chiesto: ma Abramo poteva realmente rispondere in qualunque maniera? All‟appello del tu, che ci chiama a rispondere (e a farci responsabili), possiamo realmente dire di no? Esiste un obbligo (etico) alla risposta, alla responsabilità? L‟appello etico è autonomo o eteronomo?

«In questo istante, ma da questo solo istante, l‟autonomia e l‟eteronomia non fanno più che Uno, sì, più d‟Uno»32 ― risponde enigmaticamente Derrida (il Derrida di Friedlund).

3) Abramo. Tragedia in tre atti (Bencivenga)

Spostiamoci adesso sul linguaggio teatrale. È quello che sceglie Bencivenga per il suo libricino Abramo. Tragedia in tre atti33.

La prima cosa che vorremmo sottolineare è come il testo si ponga in qualche maniera sulla scia degli incipit letterari di Timore e tremore di Kierkegaard. E questo è evidente già dal sottotitolo. Non si tratta di una rievocazione del testo biblico, ma della messa in scena di una tragedia: una tragedia che di quelle „classiche‟ ha persino lo schema tripartito. Ma che non ha un Deus ex machina. E quindi non ha un finale di salvezza. Proprio come i quattro movimenti immaginati da Kierkegaard.

In un luogo senza spazio e senza tempo, alcuni „personaggi‟ che portano il nome di Abramo, Sara, Isacco, Eleazar (come quelli biblici) e altri personaggi senza nome (tre viandanti, due servi) mostrano dunque l‟accadere di una storia sempre antica e sempre nuova. La storia del rapporto tra l‟umano e il Divino; e, ancora più precisamente, la storia del rapporto tra fede e ragione. Una questione tutta filosofica, questa; e però molto diversa dalla questione filosofica derridiana. Se Derrida si muove nell‟ambito della secolarizzazione del testo sacro, Bencivenga si muove sul crinale che separa sacrum e

saeculum, fede e non fede, ragione e non ragione.

Il lettore, però, non comprende subito che cosa è in gioco, perché l‟avvio del primo atto pare del tutto „consonante‟ con il testo biblico. Tre viandanti si recano dal «Padre Abramo». E chi ha dimestichezza con il testo della Genesi ricorda subito il passo in cui tre viandanti vengono accolti da Abramo alle quercie di Mamre: e i tre viandanti sono Dio stesso.

È facile dunque intuire che, pure nella rilettura di Bencivenga, i tre viandanti sono la voce di Dio stesso, che torna a visitare Abramo. E però tra le righe del testo immediatamente inizia anche lo scavo interpretativo.

Innanzitutto vediamo l‟emergere della figura di Sara (del tutto assente dal brano biblico del sacrificio di Isacco e decisiva, invece, nel testo di Bencivenga) e poi la figura di Isacco (che non è solo un ragazzo, ma un giovane: «la sua figura e il suo comportamento

32 Ivi, p. 197.

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212 esprimono un robusto vigore giovanile e un‟insofferenza mal controllata dall‟atteggiamento rispettoso di un buon figlio»34). E subito in scena entrano dunque l‟eterno conflitto padre/figlio e l‟eterna contrapposizione maschile/femminile.

Con Derrida potremmo dire che Abramo incarna la logica maschile della ragione autocentrata (fallologocentrismo). Un giudizio da subito duro sulla bocca di Sara: «un uomo incomprensibile, impossibile. O forse soltanto un uomo. La sua sicurezza, la sua intransigenza, il suo decidersi in modo così fulmineo e irrevocabile. (…) Ed eppure ha sempre avuto ragione lui (corsivi nostri)». Abramo appare inizialmente come la ragione/forza/decisione maschile, a cui pare contrapporsi l‟incapacità tutta femminile di comprendere, di dominare cose e situazioni, di vivere di logiche e di ragioni35. Così pare36.

Ecco dunque che, su questa scena antropologica primaria, compaiono i tre viandanti e annunciano ad Abramo che il Signore vuole metterlo alla prova. Il fatto che noi lettori già sappiamo che la prova sia il sacrificio di Isacco ci depista. E ad una prima lettura (che diventa una prima „visione‟ nella rappresentazione teatrale) possiamo non accorgerci di alcune spie che Bencivenga inserisce nel testo, incuneando già lo stravolgimento letterario dell‟episodio biblico.

«Tutti i membri della mia famiglia piegheranno con me le ginocchia e confesseranno la loro miseria, la loro colpa originaria. Supplicheremo tutti disperatamente il suo perdono, il suo conforto»37. Il riferimento sembra simile a quello di Derrida. In un mondo di uomini sempre tutti colpevoli, il massimo che si può fare è chiedere perdono, anche se non si sa bene per cosa e per-ché.

«Ho sempre saputo che avrei fatto qualsiasi cosa il Signore mi avesse chiesto, per assurdo che fosse, che credevo in Lui perché era assurdo. (…) Ora il Signore mi dà l‟opportunità di (…) compiere davvero un gesto assurdo, che sigilli il carattere assurdo, quasi sovrumano, del mio impegno»38. E qui il riferimento è chiaramente Kierkegaard. La fede è sempre un credere nell‟assurdo. Abramo, per questo, è il campione, il cavaliere della fede. Perché credette nell‟assurdo. E, però, anche in questo caso, l‟incudine di Bencivenga scava tra le pieghe kierkegaardiane. Comprendiamo Timore e tremore se lo poniamo „contro‟ Hegel, contro l‟idea che tutto sia razionale e comprensibile, perfino Dio. Ma siamo realmente sicuri che la fede sia „solo‟ un credere nell‟assurdo? E cosa significa credere? E cosa significa assurdo?

Ma il lettore/spettatore ignaro ancora non comprende che cosa è in gioco. E segue il testo, come se fosse ancora solo un‟amplificazione del noto passo biblico.

Atto secondo. Come in una tragedia greca, un sogno premonitore mette in allarme Sara. E, ancora „classicamente‟ il dialogo tra un servo ed Eleazar, anticipano l‟arrivo di Abramo e raccontano l‟accaduto. Tutto ruota intorno all‟espressione del servo: «Padre… padre … Non c‟è più padre; non c‟è più figlio»39. A differenza di quanto accade nel testo biblico, nella tragedia di Bencivenga, Abramo uccide di fatto Isacco.

E, con Derrida, di nuovo, possiamo dire che la morte del figlio diventa quella del padre, e viceversa. «Il padre ha ucciso il figlio; ha ucciso il padre, che non è più padre». «Spiegati,

34 Ivi, p. 11.

35 Non manca un riferimento al primo tradimento di Abramo (tradimento nell‟ottica di Sara): quando

Abramo giace con Agar (la serva) per avere quel figlio che la moglie già sterile non riesce a dargli. Anche in questo caso pare che Abramo abbia seguito la ragione e che Sara abbia invece continuato a pensare con le viscere. Non vedendo di buon occhio Ismaele, già dal primo momento. E quindi cacciandolo di casa con Agar. Ismaele sarà evocato di nuovo nel finale della tragedia.

36 La cosa torna ancora, più in là, pp. 20 e seguenti, quando Sara discute con Isacco e dice «rinuncio a capire.

(…) Ora posso solo dire che mi sembra irragionevole; (…) è dura la condizione di una donna, sbattuta qua e là da decisioni inspiegabili». E, ancora, pensiamo al giudizio che sia Sara che Isacco danno di Abramo: «autoritario anche quando abbandona la sua autorità!».

37 Ivi, p. 14 38 Ivi, pp. 16-17. 39 Ivi, p. 30.

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213 tutto questo è assurdo»40. E, sì, è proprio „questo‟ l‟assurdo. Non l‟Assurdo kierkegaardiano, ma la tragedia dell‟assurdo consumata nella perdita del Padre, nella perdita del rapporto Padre/figlio. E qui in numerosi passaggi Bencivenga sembra rievocare il noto aforisma 125 della Gaia scienza nietzscheana, quello dell‟Uomo folle, che annuncia la morte di Dio. «Esiste ancora un alto e un basso? (…) Che mai facemmo a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? (…) Dov‟è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli?». «Cielo e terra sembrano sfuggiti dal loro asse; vibrano e sussultano come se stessero per esplodere»41.

Solo che qui non è il figlio ad uccidere il Padre, ma il padre ad uccidere il Figlio. È questa la finzione narrativa messa in scena da Bencivenga. Nessun angelo viene a fermare la mano di Abramo mentre sta per sacrificare Isacco. Non c‟è un ariete sgozzato al posto del figlio.

Perché non c‟è nessun Padre, nessun Dio in grado di fermare Abramo? Il testo non lo dice. Abramo sacrifica Isacco. Questo solo sappiamo. E questa è la tragedia, l‟assurdo, l‟incubo.

Al centro di questo secondo atto, c‟è il dialogo tra Sara e Abramo (in realtà si tratta di un non-dialogo, dell‟insieme di due monologhi). La madre che chiede ragione di questa sragione. E il padre si difende nascondendosi dietro il nome di Dio.

Ancora una volta la donna appare paradossalmente, nei suoi dubbi, più ragionevole dell‟uomo. «Chi ti ha trasformato in un assassino? (…) Come puoi sapere che fosse la Sua volontà, che quei messaggeri fossero i suoi messaggeri? (…) Perché quel che raccontavano avrebbe dovuto essere la verità? Come puoi saperlo tu?»42.

Anche qui sotto traccia pare comparire Kierkegaard. Kierkegaard che ci ricorda come sia sottile la linea che distingue il divino dal demoniaco. E il testo di Bencivenga pare dirci così: quella voce non poteva essere quella del divino, ma solo la voce del demoniaco. Perché solo il demoniaco può comandare di uccidere, e di uccidere un figlio.

Sara: «tu credi quel che ti pare e lo rendi vero credendoci, e in nome di questa fede tagli la gola di tuo figlio? (…) Non ti rendi conto che è una follia, che per credere ci vogliono dei motivi?»43.

Abramo: «se ci fossero dei motivi, non sarebbe fede». È questa l‟abissale distanza da Kierkegaard. Infatti il testo di Bencivenga, con Sara, prende la strada del dubbio „con‟ la fede, della ricerca dei motivi che non possono non sostenere la fede (se si vuole evitare che divenga idolatria).

Sara: «Dio, certo, se è Dio, non può aver bisogno del sangue che facciamo scorrere per lui. (…) Se siamo le sue creature, (…) non dovrebbe amarci tutti come una madre, un padre amerebbe i suoi figli? Avrei mai potuto, io, volermi vendicare di Isacco?»44.

Una lettura femminile di Dio pare qui in gioco contro la lettura classica, metafisica del Divino. Pare.

Infatti, atto terzo, tornano i viandanti. E sembrano dare ragione a questa interpretazione anti-metafisica, anti-terroristica di Dio.

«Pensi forse, Abramo, che esitare sia un colpa? Abramo: Certo, a un comando di Dio si obbedisce, punto e basta. Terzo viandante: Purché si capisca che comando sia, e tu hai appena detto che non capisci…»45.

Una fede senza dubbio e senza ragionevolezza è un‟autocontraddizione performativa. Ogni comando, come abbiamo detto con Fridlund, è apertura di possibilità: che implica la

40 Ibid. 41 Ivi, p. 66. 42 Ivi, pp. 35-35. 43 Ivi, p. 36. 44 Ivi, p. 40-41. 45 Ivi, p. 51.

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214 possibilità del sì e del no; e dunque appella la responsabilità e la decisione. Altrimenti non sarebbe un comando. «Anche la fede ha davanti a sé una scelta»46.

L‟interpretazione di Bencivenga è chiara. «Le parole dei tre pellegrini ti chiedono di sottoporti ad una prova. E ti chiedono anche di offrire tuo figlio Isacco in olocausto»47. La prova non era il sacrificio di Isacco, la prova era la ragionevolezza del discernimento.

«Dovevi scegliere se credere alle parole che ti sono state dette, all‟assurdo comandamento che ti è stato imposto o se invece credere che Dio non avrebbe potuto comandarti nulla del genere. (…) La prova era avere abbastanza fede in Dio da sapere (…) che queste parole non potevano venire da Lui»48.

E Abramo ha fallito la prova. Come tanti dopo di lui. Uno dei viandanti evoca questa scena che diventa storia: «massacri, torture, sventramenti, decapitazioni, (…) in nome di Dio». Tante prove fallite49.

Abramo diventa dunque il simbolo di questa umanità fallita. E si chiude, nel suo tacere. Non è il silenzio dell‟Abramo kierkegaardiano, ma quello del suo alter-ego sempre possibile: il mutismo del demoniaco. Come un‟anti-eroe: accecato; abbandonato; morto a se stesso.

E lo stesso accade a Sara; che non regge tutto questo dolore. E anche lei, quasi figura shakespeariana, sprofonda nella follia. Sia che si interpreti „follia‟ il suo dialogare con il fantasma del figlio (di cui non accetta la morte), sia che si interpreti „follia‟ il finale, quando Isacco compare di nuovo sulla scena e viene istigato dalla madre. Infatti, l‟altro figlio di Abramo, Ismaele, è ancora vivo. Bisogna ucciderlo. Attaccarlo. È necessario eliminare ogni antagonista: «li passerai a fil di spada tutti, in nome del Signore, Dio degli eserciti».

E la storia si ripete: dal padre, al figlio. Di padre in figlio: storia di morte e di violenza. Eleazar: «Isacco (…) ha detto di raccogliere armi, e che domani un gruppo di noi andrà nel deserto a stanare i predoni. Scruta il cielo. Sarà una buona giornata per combattere».

4) La denuncia e la speranza (Teresa Ludovico su Ermanno Bencivenga)

Nell‟interpretazione della regista Ludovico, la scena si conclude in silenzio. Diventa difficile quasi anche applaudire. Vengono portati sul palco quelli che si intuiscono essere i resti di agnelli sgozzati, ancora bagnati di sangue. A coprire tutta la scena. Cala il sipario. Anch‟esso nero. La morte dei figli continua. Siamo tutti figli di Abramo – è l‟interpretazione del Kismet50. Ma alla fine della rappresentazione capiamo: con „Abramo‟ non si intende il patriarca biblico; non si vuole con questa espressione (siamo tutti figli di Abramo) ricordare che tutte le religioni monoteistiche riconoscono Abramo come Padre. No. Il senso è: siamo tutti figli di „questo‟ Abramo-omicida. Siamo tutti complici in una storia di distruzione, in cui di volta in volta le vittime diventano carnefici51.

E verrebbe di nuovo da dire, con Derrida (e anzi ancor più violentemente di quanto non dica Derrida), che allora l‟unico colpevole è Dio. Il Dio dei monoteismi che si trasformano in fondamentalismi e totalitarismi; il Dio nel nome di cui si uccide (ieri, oggi e sempre).

46 Ivi, p. 53. 47 Ivi, p. 52 48 Ivi, p. 55.

49 Iv, p. 58: «non si può fare la volontà del Signore muovendosi come sonnambuli, evitando di pensare. Il

Signore ci chiede attenzione ed eroismo: attenzione al senso delle sue parole, non soltanto al loro suono, allo

spirito e non solo alla lettera, ed eroismo nel sostenere quel senso, quello spirito, a dispetto di tutto, anche

del loro stesso suono». Non a caso i viandanti avevano detto ad Abramo (p.17): «tu dovresti sapere che cosa ci si aspetta da te. Se hai saputo ascoltare, il tuo compito dovrebbe esserti chiaro». Ma, evidentemente, Abramo non ha saputo ascoltare.

50http://www.teatrokismet.org/view_stagione.php?id=212

51 Ivi, p. 63: «nessuno potrà mai raccontare la mia storia. Non ci sono parole per dirla. E per questo non si

potrà che riviverla, ogni giorno, per ogni dove. (…) Vedere gli innocenti e le vittime trasformarsi a loro volta in carnefici».

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215 Abramo è l‟uomo che «vedere il mondo intero diventare la perfetta espressione di questo male ripugnante, del suo miserabile Dio, e rimane in silenzio»52.

Ma, se (questo) Dio è morto, allora la questione nuovamente si rovescia. Perché, allora, l‟unico colpevole non è Dio, ma l‟uomo. L‟uomo che si fa «un Dio a sua immagine e somiglianza». «Questo Dio posticcio e gratuito mi riflette ora, come in uno specchio, tutta la mia malvagità. (…) Ho scelto il mio Dio, ho scelto me stesso»53 – dice l‟Abramo di Bencivenga. Richiamandoci di nuovo alla nostra scelta e responsabilità.

E ci sembra che, nel testo dell‟Autore emerga molto di più questo secondo aspetto. Emerga molto di più rispetto all‟interpretazione/riduzione teatrale. Un aspetto che è anche, a nostro avviso, la possibilità di una lettura „altra‟: rispetto ad Abramo stesso.

E, certo, ogni lettura è interpretazione. E il teatro lo è inevitabilmente. Ed è acuta e intelligente l‟interpretazione della Ludovico, che sposta nell‟attualità la scena senza tempo del testo di Bencivenga.

Che cosa accade, infatti, al Kismet? Da subito lo spettatore si trova in una casa moderna, davanti a personaggi che vestono abiti contemporanei. Isacco è un giovane dei nostri giorni, che canta e danza come un adolescente televisivo. I tre viandanti sono angeli/galline, e questo già da subito ci dice la dis/sacrazione, l‟interpretazione secolarizzante del testo. Lo spettatore già da subito capisce che quei tre non sono, non possono essere voci del Sacro (e infatti cantano, chiocciano, bevono, ridono, sarcastici).

Lo sfondo scelto dalla Ludovico è volutamente nero, scarno come la scena. Dietro appaiono enormi finestre/persiane (in realtà scurini, verrebbe da dire); che si aprono solo per lasciar entrare e sparire i personaggi. Una situazione realmente kafkiana, in cui la luce filtra appena; e quando qualcosa „appare‟ genera solo rumore e confusione. I suoni – quasi boati decisamente amplificati (alle volte vere e proprie pietre che cadono…) – e tutto il contesto fa pensare di essere ancora nel diluvio. E che da „questo‟ non sia possibile uscire. È realmente lo scenario dell‟orrore del Novecento, della morte di Dio.

Questo ci sembra l‟aspetto più evidente e interessante dell‟interpretazione teatrale della Ludovico.

Prima di concludere, ci piace però tornare al testo di Bencivenga e, tra le diverse differenze tra il testo visto/ascoltato a teatro e il testo scritto „originale‟, ci piace sottolinearne una54.

Ci piace tornare sul rapporto maschile/femminile. Ci piace tornare su Sara. Non sulla Sara del finale, quando la madre, per dirla con lo stesso Bencivenga, «entra in un suo mondo privato. (…) Ed è insieme più serena e più rigida, come se l‟atteggiamento di Abramo l‟avesse contagiata, come se gli fosse (…) diventata simile»55. Non la Sara che impazzisce ad immagine dell‟impazzito Abramo, e che finisce per assomigliarli, incitando il figlio ad uccidere nel nome di Dio, nel nome del potere, nel nome del comando. Ma la Sara che, ancora lucida, discute con Abramo, per mostrargli la sua follia. Quella che forse si intravvede (ma si intravvede soltanto) nella sua ultima battuta: «di che ordini vai cianciando? Io non comando nulla. Tu sei il capo di questa casa!».

Ci piace tornare sulla Sara che si fa simbolo del potere, del comando, del non-uccidere; simbolo della vita stessa: come dono.

52 Ivi, p. 63. 53 Ivi, p. 62.

54 A livello di „inserzioni‟, emerge l‟uso che la Ludovico fa del testo biblico: da Bencivenga mai citato

direttamente, e invece continuamente e letteralmente spesso richiamato nell‟interpretazione del Kismet: sia il libro della Genesi, sia il Cantico dei cantici («forte come la morte è l‟amore; tenace come gli inferi la gelosia»). Invece numerosissimi sono i tagli. Ovviamente il testo originale è fortemente filosofico, e quindi ricco di passaggi che possono sembrare meno dinamici nella messa in scena. Proprio su alcune di queste parti „tagliate‟ vorremmo soffermarci nel finale.

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216 In particolare nelle pagine 20-23 del testo (omesse nella versione teatrale), ci sembra di poter leggere un‟altra interpretazione possibile; un‟altra storia possibile.

Sara (questa Sara) è la vera alternativa ad Abramo. La storia della metafisica (e dei Fondamentalismi) in quanto storia del Padre Assoluto, dei padri-padrone è la storia dell‟olocausto dell‟umano.

E non finirà qui. Ci saranno ancora padri che scanneranno i figli e li bruceranno. Ci saranno chiodi che trapassano i corpi degli innocenti, corde che li snodano, coltelli che li sventrano e aguzzini che ne danno in pasto le budella ai cani. Questo olocausto sarà ripetuto all‟infinito, e sarà l‟uomo a compierlo, il padre56.

E questa è la storia che, nel suo stesso accadere, cade nel non senso. Una storia in cui «manca il senso, manca la risposta al perché», direbbe Nietzsche.

È possibile un‟altra storia? Forse la sua possibilità è quella che Sara racconta ad Abramo, per mostrargli il suo errore. Una madre lo sa: «crescere significa imparare ad ascoltare, a risuonare con le persone che le sono care, con le piccole vite che le germogliano in grembo; e poi si distaccano e camminano da sole (…), ma sono sempre una parte di te»57. Chi ragiona come Abramo, invece, «ragiona come un uomo» (della metafisica); e non si preoccupa di „lasciar crescere‟ cose, persone, relazioni.

Abramo è geloso di Isacco, nella storia di Bencivenga, così come nella storia della metafisica il soggetto è geloso di tutto ciò che lo circonda e che non è lui stesso.

Io Assoluto, padrone del mondo e della storia, non tollera che l‟altro sia altro; non tollera che non tutto rientri nei propri schemi mentali («per lui è sempre questione di tutto o niente» – dice Sara di Abramo). Il Soggetto metafisico è quello delle «certezze assolute»58, quello che deve piegare ogni altro ente, ogni altro evento a sé. Soggetto di dominio. E quando Qualcosa o Qualcuno non si piega, allora, non potendo ammettere la sconfitta, parla di miracolo, di divino, di straordinario59. E questo straordinario è solo un dio-tappabuchi, immagine di questo stesso Soggetto-di-dominio.

Per me, invece, – dice Sara –, per una donna, i miracoli accadono ogni giorno, ogni momento. Ogni momento ci porta una gioia o un dolore che può solo essere inteso come un dono, (...) perché mai possiamo dire che ce lo siamo meritato. (…) Come può una madre aver meritato un figlio, qualunque figlio? Come può aver meritato che soffra o che muoia? (…) Ma che non ti abbia meritato – dice Sara a Isacco – non vuol dire che tu non sia mio, e che tu sia stato un dono non mi crea alcun debito, perché ricevere doni, ogni dono, una giornata felice, il sorriso di uno sconosciuto, è parte della vita, è la vita stessa; perché siamo fatti di questi doni, che non ci rendono succubi ma ci danno invece, dovrebbero darci, forza e felicità60.

Prima ancora di essere una questione teologica, è una questione antropologica. È un altro modello di essere umano quello che Sara contrappone al modello di Abramo. Non il modello del dominio, ma quello del dono; non il modello del possesso, ma quello del lasciar andare (continuando a tenere in sé); non il modello delle colpe/debito, ma il modello della grata meraviglia del quotidiano. Non il modello „antropocentristico‟ («non c‟è mai stato che Abramo al centro delle tue preoccupazioni»61), ma il modello „generativo‟.

Abramo è l‟umano incapace di gratitudine62. Per Abramo, dice Sara, «accettare qualcosa è già insulto», perché crea dipendenza. Può accettare doni solo da Dio, e, se potesse, eviterebbe di accettarli anche da Dio: «così ragionano gli uomini» della metafisica63. 56 Ivi, pp. 42.; 58; 62. 57 Ivi, p. 21. 58 Ivi, p. 22. 59 Ibid. 60 Ivi, pp. 22-23. 61 Ivi, p. 39.

62 Torna continuamente nel testo l‟idea che Abramo è geloso di Isacco e incapace di accettare doni (pp. 17; 24;

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217 Sara, invece, è l‟umano che in ogni aspetto della vita sa cogliere il miracolo. E, se esiste un Dio, il Dio di Sara non può essere che la generazione di „questo‟ miracolo della vita. E dell‟amore.

La morte del Padre e dei Figli, allora, è la morte del Soggetto metafisico (e del Dio Metafisico); ed è l‟auspicio che, con questa morte, possano finire anche le violenze della volontà di dominio. La fine di Abramo «è solo la sua fine, la fine del controllo, del potere assoluto che aveva su tutti»64.

E, certo, nel testo di Bencivenga, come abbiamo detto, pare che anche Sara non superi la prova. Anche lei infatti nel soccombere. Impazzisce.

E però ci piace sottolinare l‟ultimo corsivo del testo. L‟ultima immagine. Che, nel testo, non è quella dei vitelli sgozzati, ma quella di Isacco che «scruta il cielo» (corsivo dell‟Autore).

Torna allora il tema della prova, dello sguardo che scruta ed è chiamato a discernere. Che cosa farà Isacco? Quale voce ascolterà? Supererà o no la „sua‟ prova? Darà dubbi alle sue certezze (alla sua fede e/o alla sua non fede)? Darà ragionevolezza alle sue obbedienze? Darà responsabilità alle sue scelte? Saprà distinguere il demoniaco dal divino, i fondamentalismi dall‟amore65, l‟olocausto dal dono, il miracolistico dallo stupore?

Ma queste domande, ovviamente, sottintendono già una quinta interpretazione di

Abramo, rispetto alle quattro indicate nel titolo66. La nostra. Ed è solo un‟interpretazione.

Siamo tutti figli di Abramo ‘e’ Sara. Siamo tutti Isacco.

63 Ivi, p. 23. 64 Ivi, p. 63

65 Indicativa di questa direzione per cui anche dal punto di vista della fede può esserci un‟alternativa al

fondamentalismo, è l‟immagine delle pp. 56-57 (non presente nella riduzione teatrale). Qui ci sembra nuovamente che Bencivenga assuma e rilanci, contro Kierkegaard, la sfida di Kierkegaard. Il cavaliere della fede non è quello che rinuncia all‟amata e crede che Dio gliela ridarà. Il cavaliere della fede è quello che convince l‟amata e se stesso che l‟amore non è olocausto. La vera prova per Abramo era una prova d‟amore (che egli ha perso). La vera prova della fede è quella della fiducia dell‟amante, e non quella dell‟abbandono cieco a comandi assurdi. Così spiega infatti il secondo viandante ad Abramo: «Pensa a quando una persona amata dice all‟amante: „Non ti amo più‟. Anche questa è una prova, ma quale? Quella di riuscire a vivere per sempre senza l‟amata, o piuttosto quella di trovare in se stessi la convinzione che l‟amata non può aver detto la verità, neanche se in quel momento fosse disposta a giurarlo. E di lottare per persuaderla, per farle capire quel che la sua mente non è in grado di accettare, quel che accetterà tra un attimo, quando questa lotta sarà stata vittoriosa e lei ritornerà la persona che era, che si era dimenticata di essere. Abramo: Devo pensare al mio rapporto con Dio come al passatempo licenzioso di due sciocchi, accecati dalla lussuria e dal vizio?

Secondo viandante: sbagli, Abramo, a metterla così. L‟amore fra esseri umani è un‟immagine di quello

divino. C‟è lo stesso abbandono, lo stesso ricevere la propria vita, il senso della propria vita, l‟uno dall‟altro, la stessa fiducia che l‟altro non ci tradirà. E c‟è stima reciproca, consapevolezza del valore dell‟altro, di quanto l‟altro non possa venir meno a se stesso, così come non può venir meno a noi. Abramo: ma può Dio aver bisogno di me, che io lo riconosca, come un amante ha bisogno dell‟amata?»

66 Potremmo dire anche „sesta interpretazione‟, se contiamo anche Kierkegaard; o „settima‟ se contiamo

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