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Materie 'istoriate'. Per un'ecocritica delle cose

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Academic year: 2021

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9 maggio

2015 pag. 13

C

occi di vetro, pezzi di pla-stica, frammenti di cose e materiali eterogenei. Il solo pensare a questi oggetti sembra non evocare alcunché, se non il mutismo e l’inerzia delle cose inanimate, di tutto quello che, a prima vista, ci appare come privo di vita, destinato a sedimentarsi negli spazi reconditi dell’ambien-te: un continua stratificarsi, al pari delle ere geologiche, ognuna delle quali è pronta a restituire una storia.

Può, allora, la materia farsi nar-rante? È questo l’interrogativo che l’ecologia letteraria continua a porsi da un po’ di tempo a que-sta parte, sino a sfociare recen-temente in una nuova corrente teorica: il “Material Ecocritici-sm”, o ecocritica della materia, basato sulla concezione che le cose – viventi e non, animate e inanimate – vadano a istituire un insieme di tasselli entro un siste-ma più vasto di forze agenti, tali da essere lette e interpretate quali forme narranti. “Storied matter” o, volendo prendere in prestito un termine dalla miniaturistica medievale, materia ‘istoriata’, non più relegata a uno stato passivo e perciò attivabile solo per tramite di un agente esterno; ma dinamismo generativo, dove

a cadere una visione di una realtà divisa e parcellizzata, imputabile al dualismo cartesiano tra “res cogitans” e “res extensa”. In altri termini, il divisibile non esiste e lo spazio – stanti le teorie della fisica quantistica – è tutt’altro che vuoto: chi scrive, insomma, è già parte dei “collettivi” (per dirlo con le parole del sociologo francese Bruno Latour), calato in un sistema d’intrecci tra umano e non umano; materia e discorso; natura e cultura.

Più che di particelle, o atomi, dovremmo allora parlare di flussi, correnti nascoste, un sus-seguirsi incessante di narrazioni e materia, dove quei cocci di vetro vagheggiati all’inizio non restano immobili ai margini di una stra-da, ma iniziano anch’essi il loro racconto: una grafia dove, che ci piaccia o no, è invischiato anche l’essere umano. E, per quanto eccentrico possa apparire, riper-correre questi tragitti è forse uno dei modi per non sprofondare in una letale e supina acquiescenza. le forme materiali e discorsive

s’intrecciano in una rete di segni: una comunità di vere e proprie presenze espressive.

Stanti tali considerazioni – canonizzate nel recente volume “Material Ecocriticism”, curato da Serenella Iovino e Serpill Opperman per l’Indiana Uni-versity Press – il testo, ovverosia l’opera letteraria, vede mutare la sua connotazione originaria, per situarsi in una collettività estesa, non più antropocentrica ma bio-centrica, dove le ‘cose’ e l’umano condividono la stessa forza cre-ativa: per quanto la parola (cioè il mezzo espressivo) continui a essere il punto di partenza, viene

Materie

istoriate

per un’ecocritica

delle ‘cose’

di diego Salvadori diego.salvadori@unifi.it

“All’Accademia del Savini ci sono due sedute al giorno, quando non tre: all’ora di colazione, al ‘vermouth’ e dopo la chiusura dei teatri”.

L’atmosfera descritta da Sabatino Lopez, romanziere e critico tea-trale, si può rintracciare tutt’oggi soffermandosi al Cafè Bistrot Savi-ni, gioiello della restaurata Galleria Vittorio Emanuele II di Milano dove si affaccia l’elegante dehor. Ristorante, bistrot, boutique del cibo: oggi il locale, rilevato nel 2008 dalla famiglia Gatto, è una vera e propria impresa ma le sale ricche di marmi, affreschi, stucchi conservano un fascino senza tempo.

Perchè “il Savini è Milano come lo sono la Galleria e la Scala” come ha scritto Carlo Castellaneta. Tutto inizia nel 1867 quando in Galleria viene aperta la Birreria Stocker, locale innovativo che

diviene uno dei punti di riferimen-to della Belle Epoque meneghina. Letterati, giornalisti e altri perso-naggi di rilievo frequentano le sue sale allietati da concerti e spettacoli con orchestra e ballerine.

Virgilio Savini acquisisce il locale nel 1881 e lo trasforma con gusto e fantasia. Nel 1884 nasce il Savini, elegante mix di Caffè e Ristorante che, per la vicinanza al teatro Manzoni, diviene ben presto salotto principale dell’arte e della cultura tanto che Emilio Praga e gli “scapigliati” milanesi lo eleggono a loro “Parnaso”. Dagli inizi del ‘900 illustri personaggi del mondo delle Arti frequentano il Savini: Giuseppe Verdi, Giacomo Puccini, Pietro

Mascagni, Arturo Toscanini, Eleonora Duse a Sacha Guitry. E poi ancora Arrigo Boito, Gabriele D’Annunzio, Giovanni Verga, Mosè Bianchi, Luigi Capuana, Emilio Praga.

Tommaso Marinetti confidò a Remo Mannoni a proposito di un banchetto di cucina “futuri-sta” organizzato al Savini: “fu la nostra serata d’Ernani, anche se per l’occasione dovetti rinunciare al mio risotto giallo, indicibile

punta di diamante di un’astuzia gastronomica che lo stesso Montaigne c’invidiava”.

Dopo la II guerra mon-diale negli anni ‘50 il Savini torna a splendere e l’elenco dei personag-gi che lo frequentano si allunga ulteriormente: Maria Callas, Luchi-no Visconti, Charlie Chaplin, Ranieri e Grace di Monaco, Erich Maria Remarque, Lana Turner, Jean Ga-bin, Frank Sinatra, Ava Gardner, Carla Fracci, Henry Ford, Totò e Peppino de Filippo.

Eugenio Montale ha così descritto la “magia” del Savini: “La passione per la perfezione arriva sempre troppo tardi, a volte, per certe im-prese non bastano cento anni, ma si manifesta sempre come passione per la poesia. In questo locale ho incontrato quella della cucina”.

di STeFano vannuCChi svannn1170@gmail.com

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Caffè Letterario

La Scala

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