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Il presepe e l’ecfrasi. Dal francescanesimo al fin de siècle

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Academic year: 2021

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Introduzione 8 J. Ponzo

Capitolo 1 16

Pandoremia. Consigli semiotici per il Natale del 2020.

M. Leone

Capitolo 2 28

Il Natale è servito. Miti, riti, traduzioni S. Stano

Capitolo 3 40

Il Natale, simbologia e riti natalizi nella cultura del Sud-Italia

R. Gramigna

Capitolo 4 56

Alla faccetta irritante di Mara Wilson ho sempre preferito il ghigno di Krampus. Per una semiotica grinchiana del Natale cinematografico

B. Surace

Capitolo 5 72

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G. Marino

Capitolo 6 102

Dagli abiti liturgici del Natale al look di Santa Claus. Appunti semiotici sul costume natalizio. E. Chiais

Capitolo 7 116

Guida galattica per astrologi digitali F. Biggio

Capitolo 8 130

Digital ritual. Searching for a sacred-space V. Dos Santos

Capitolo 9 142

Il presepe e l’ecfrasi. Dal francescanesimo al fin de siècle

M.M. Kubas

Capitolo 10 152

Riflessioni storico-antropologiche e agiografiche sul corpo di san Nicola

M. Papasidero

Gli Autori 176

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Introduzione

Jenny PONZO, Università di Torino

Che senso ha il Natale, specialmente in un anno come il 2020, segnato dalla pandemia da Covid-19 che ha profondamente stravolto abitudini e idee consolidate? Il cambiamento è stato sconvolgente, imprevisto, profondo e ha chiamato tutti e tutte a rimettere in questione pratiche, concetti e valori fondamentali ma forse dati un po’ per scontati. In altre parole, la pandemia ci ha costretti a compiere uno straordinario sforzo interpretativo che non è stato – e non è – solo un esercizio di speculazione teorica, ma una autentica necessità per ritrovare coordinate di senso in grado di orientarci nella nostra vita quotidiana.

L’urgenza di questo compito interpretativo è stata colta da tanti attori socio-culturali, tra cui i semiotici, la cui vocazione professionale e intellettuale è proprio lo studio dei fenomeni di costruzione e comunicazione del senso, l’indagine dei sistemi di valori, dei testi e degli stili interpretativi che caratterizzano le culture. I semiotici italiani sono stati particolarmente attivi e tempestivi nel fornire chiavi di lettura del mondo

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affetto dal Covid-191 e questo libro rappresenta un ulteriore contributo in tal senso: alcuni studiosi e studiose del gruppo semiotico torinese che fa capo al CIRCe (Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Comunicazione), nell’imminenza del Natale, si soffermano a riflettere sul significato e sulle pratiche legate a questa festività così diffusa e sentita e sul loro rapido cambiamento nell’inedita situazione in cui stiamo vivendo. Il primo impulso a una riflessione critica sul Natale è nato da una felice idea della curatrice di questo volume, Eleonora Chiais, nel contesto di NeMoSanctI, un progetto di ricerca finanziato dall’ERC (European Research Council) che si occupa specificamente di semiotica delle religioni e per il quale dunque tale riflessione rappresenta una specie di naturale vocazione. Presto però il dibattito ha coinvolto anche membri del team di ricerca del progetto ERC FACETS, il progetto Marie Curie Global COMFECTION di Simona

1 Mi riferisco in particolare alle riflessioni che numerosi

semiotici e semiotiche hanno presentato tra marzo e maggio 2020 nell’ambito del “Diario sul coronavirus” curato da Lorusso, Marrone e Jacoviello (2020) e anche al XLVIII convegno dell’AISS (Associazione Italiana Studi Semiotici) intitolato “Futuro Passato” (molti video-interventi del convegno sono disponibili sul canale YouTube dell’Associazione:

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Stano e alcuni dottorandi e dottorande del curriculum semiotico torinese. I risultati di questo dialogo, condotto con spirito proattivo e grande vivacità intellettuale sono esposti in queste pagine. Nei capitoli che compongono questo volume si possono cogliere alcune fondamentali linee di riflessione. La prima riguarda un ripensamento dei rituali natalizi: dal “com’erano” al “come sono”, spingendosi fino al difficile campo della previsione sul “come saranno”. In questa direzione vanno le riflessioni di Massimo Leone, Simona Stano, Remo Gramigna ed Eleonora Chiais, che partono da questo “diverso” Natale 2020 come cartina tornasole per osservare da un nuovo punto di vista pratiche tradizionali, come i rituali religiosi e quelli della convivialità intorno al tavolo natalizio. Con grande chiarezza di vedute, questi saggi mettono in luce come, al tempo dell’isolamento sociale, stanno cambiando le coordinate spazio-temporali e le dinamiche sociali alla base dell’idea stessa dello stare insieme. Naturalmente, come emerge dalla maggioranza degli interventi, ma specialmente dai saggi di Federico Biggio e di Victoria Dos Santos, un ruolo sempre più importante nella codifica della ritualità e del senso – non solo del Natale – è ricoperto dai media digitali, nuove “stelle comete” che guidano la conoscenza e forniscono spazi

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virtuali e forme di ritualità, di interazione e di spiritualità alternativi e senza precedenti.

Una seconda linea riguarda invece la riflessione sulle storie e sui testi che fanno parte dell’immaginario collettivo o, per dirlo con Umberto Eco (1979), dell’”enciclopedia” condivisa del Natale. È risaputo che l’essere umano ha un insopprimibile bisogno di storie e di testi che gli consentano di sperimentare nuove situazioni, confrontarsi con nuove idee, vivere almeno virtualmente nuove esperienze, e anche esercitare il suo senso estetico.2 Questo bisogno è

diventato ancora più acuto nella situazione attuale: testi e storie diventano compagni ancora più importanti quando la nostra libertà di movimento, di azione e di interazione è limitata, perché ci

forniscono modi per “evadere”, almeno

simbolicamente, dallo spazio ristretto del confinamento e della solitudine. Inoltre, le storie che circolano nella semiosfera hanno un’importanza fondamentale nel codificare significati condivisi. Forse proprio la consapevolezza della centralità di queste loro funzioni ha ispirato un insieme di saggi

2 Il grande scrittore Milan Kundera (1988), ad esempio, ha

scritto che le storie, specialmente grazie ai personaggi, con cui tendiamo ad identificarci, ci consentono di sperimentare infiniti “io possibili”, ossia di fare esperienza di nuovi modi di

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che esplorano temi, motivi, personaggi, codici estetici che caratterizzano molti dei testi, per lo più (ma non solo) a carattere narrativo, che compongono la cultura del Natale, con una attenzione particolare alle loro declinazioni intersemiotiche e ai loro rovesciamenti. Infatti, i testi che formano l’enciclopedia del Natale appaiono altamente codificati, e proprio questo li espone a rielaborazioni dettate da una gamma piuttosto vasta di intenti, dall’ironia al sarcasmo, dalla parodia al rifiuto radicale, dal desiderio di affermazione di un’identità alternativa e in controtendenza alla denuncia sociale (ad esempio nei confronti dell’ipocrisia di certo buonismo natalizio o delle derive capitalistiche della festa). Così Bruno Surace e Gabriele Marino portano alla nostra attenzione alcune rappresentazioni alternative e (a volte solo apparentemente) anticonformiste del Natale e dei suoi personaggi e temi tradizionali al cinema e in musica, mentre Magdalena Maria Kubas esplora i significati e la dimensione affettiva in testi verbali che, in diverse epoche, hanno descritto la tradizione del presepe e Marco Papasidero prende in esame il rapporto tra testi visivi e testi verbali che rappresentano la storia e il corpo-reliquia di San Nicola, ossia l’antenato del laico Babbo Natale che permea l’immaginario natalizio dell’occidente secolarizzato.

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L’intenzione di quest’opera è presentare un discorso caratterizzato da coerenza metodologica e serietà scientifica, ma espresso in un linguaggio scorrevole e rivolto a un pubblico composto anche da non specialisti. I fini di questa scelta sono due. Il primo è quello di condividere con lettori e lettrici alcune riflessioni che possono essere utili a ripensare criticamente tradizioni e testi che compongono un bagaglio culturale comune in fase di rapido cambiamento; il secondo è fornire loro un assaggio genuino – senza il peso di tecnicismi e dei tratti formali tipici delle pubblicazioni più strettamente accademiche – della freschezza e frizzantezza del dialogo tra menti aperte, che costituisce uno dei più grandi piaceri del nostro mestiere di ricercatori: questa la nostra strenna a tutti e tutte voi.

Jenny Ponzo Principal Investigator del Progetto NeMoSanctI Direttrice di CIRCe - Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Comunicazione

Riferimenti

Eco U. (1979) Lector in fabula, Bompiani, Milano. Kundera M.(1988) L’arte del romanzo, Adelphi,

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Lorusso A.M., Marrone G e Jacoviello S. (2020), “Diario semiotico sul Coronavirus”, Palermo, E|C, http://www.ec.aiss.it/includes/tng/pub/ tNG_download4.php?KT_download1=fc05a41f 02695937080ff50341c4ca01.

Ponzo J. (2019) “Adamo ladro a Ferragosto” in Ponzo, J. e Galofaro F. (a cura di), Semiotica e santità: prospettive interdisciplinari, Torino, CIRCe.

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Pandoremia.

Consigli semiotici per il

Natale del 2020

Massimo LEONE, Università di Torino; Università di Shanghai; FRIAS – Freiburg Institute of Advanced Studies.

“So this is Christmas and what have you done” John Lennon e Yoko Ono, Happy Xmas (War Is Over) (1971)

1. Routine e rituali nella pandemia.

Man mano che la pandemia di COVID-19 perdura, estendendo i suoi effetti e le sue conseguenze catastrofici lungo ondate distruttive dagli strascichi interminabili, se ne trovano investite e devastate tutte le pietre miliari dell’annata, quelle che normalmente sanciscono i momenti rituali delle diverse comunità. La pandemia àltera tutto, anche le routine individuali, ma più queste implicano una dimensione sociale, e dunque un’interazione faccia a faccia con altre persone, più ne vengono stravolte, e più duole. In realtà, è possibile svolgere come prima della pandemia solo quelle attività che, nello spazio pubblico come in quello privato aperto agli affetti e

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alle relazioni, si effettuavano abitualmente in solitudine, come fare una passeggiata solitaria o correre in un parco da soli (ma entro certi limiti: in caso di affollamento anche qui emergono difficoltà). Più le routine coinvolgono gli altri, necessitando la loro presenza fisica, più sono inceppate dalla diffusione del virus. Fare colazione al bar la mattina è, per molti cittadini e molte cittadine in Italia, un’abitudine individuale, tanto è vero che molti si rifiuterebbero di avere una conversazione in questa fase iniziale della giornata, o tuttalpiù interagirebbero con svogliato bofonchiare, eppure anche tale routine solitaria ha bisogno perlomeno di un o una barista, come pure del silenzioso coro degli altri muti avventori circostanti. Molti, poi, almeno coloro che sono nati da marzo a novembre, hanno già sperimentato che cosa comporti festeggiare un compleanno pandemico: spegnere le candeline da solo, di fronte a uno schermo, con parenti e amici intrappolati in minuscoli quadratini digitali, mentre il luogo fisico dal quale ci si collega è inesorabilmente solitario, destinato a ripiombare in un malinconico silenzio non appena terminata la videoconferenza.

A seconda dell’appartenenza etnica, religiosa, e culturale di ciascuno, poi, anche eventi sociali di tipo rituale sono caduti nel pozzo oscuro della pandemia; in Italia, si è appena fatto in tempo a

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celebrare l’evento laico più sacro del Paese, vale a dire il Festival di Sanremo, prima che il contagio deflagrasse con inusitata potenza. Né la Pasqua né la Pasquetta sono state risparmiate: si è avuto un primo assaggio drammatico di che cosa significhi vivere la liturgia di una società come quella italiana — molto attaccata all’idea e alle pratiche della comunità — nell’impedimento di ogni relazione faccia a faccia che sia spontanea e non regolata da mascherine, distanze, e altri divieti. Alcuni dei rituali civili della Nazione, come la celebrazione della Festa della Repubblica il 2 giugno del 2020, sono stati altresì sconvolti; le immagini del Presidente della Repubblica solo davanti all’Altare della Patria hanno fatto allora il paio con quelle del Papa solo davanti al sagrato di San Pietro. La folla, in effetti, la moltitudine, la massa, sono le vittime preferite della pandemia, e con esse di tutti quegli eventi nei quali compaiono come soggetti collettivi indispensabili, dalle commemorazioni alle messe, dai concerti ai festival, l’unica eccezione essendo le proteste, che seguitano ad aver luogo, sia pure sporadiche e tra mille difficoltà e contraddizioni.

Tuttavia, per chi è cresciuto in Italia in un ambiente più o meno influenzato dal cristianesimo, o perlomeno non impermeabile o apertamente ostile ad esso, ma anche per chi è cresciuto lontano da tale religione, ma risente dell’enorme impatto culturale

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che essa esercita a livello planetario, anche attraverso le sue ricadute strettamente commerciali, non vi è stato e forse non vi sarà momento più simbolicamente difficile del Natale. Per chi crede come per chi non crede, per chi si dedica ai festeggiamenti come per chi se ne astiene, o addirittura per chi li rifugge o li osteggia, il Natale, inteso come giorno ma anche come alone temporale dei giorni che lo precedono e che lo seguono, è di norma vissuto come una fase dell’anno in cui la componente rituale dell’esistenza improvvisamente s’ispessisce — a partire dai primi giorni di dicembre, o persino dagli ultimi di novembre — raggiunge un picco il 25 dicembre e poi sfuma lentamente verso il capodanno — altro picco ma laico e in qualche modo meno problematico perché più individualista — fino alla minore Epifania e poi, come dice il proverbio, più niente. Questo ispessimento comporta un assottigliamento parallelo e complementare della dimensione individuale: man mano che il 25 dicembre si avvicina, diventa psicologicamente e socialmente viepiù difficile, per esempio, mangiare e bere quando si vuole, con chi si vuole, quello che si vuole, fino a che, arrivato il 25, praticamente ciascuno di questi aspetti viene regolato da una tradizione, che si può certo ignorare, contraddire o financo sovvertire, ma in un gesto ribelle che trova la sua ragion d’essere soltanto in relazione alla liturgia

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sociale, in un certo senso confermandone la potenza. Vi è chi, a ridosso del Natale, afferma con orgoglio che il 25 dicembre lavorerà, o che passerà la serata da solo davanti a una serie televisiva, o che mangerà da una scatoletta, eppure è soltanto il 25 dicembre che si sente quasi la necessità di giustificare questo orgoglio, come implicitamente affermando che, sotto sotto, si sta facendo qualcosa di strano, d’insensato, o perlomeno che si sta compiendo un controsenso.

Quest’anno, tuttavia, quasi alla fine del 2020 pandemico da molti esecrato, ognuno vivrà questa sensazione di stranezza, l’amaro e malinconico straniamento di attraversare il momento liturgico e

celebrativo più importante dell’anno

nell’impossibilità di dar corso alla tradizione. In ognuno l’ispessimento della dimensione rituale avrà comunque luogo per riflesso, con un progressivo dilagare del sentimento liturgico sia religioso che laico fino al picco del 25, però in questo giorno cruciale inevitabilmente subentrerà l’amarezza, se non il dolore. Per alcuni sarà devastante: coloro che, durante questo anno terribile, hanno perduto qualcuno dei propri cari, vedranno tale dolore accresciuto dall’atmosfera natalizia. Purtroppo accade a chiunque nella vita, è accaduto anche a chi scrive, con il nodo alla gola che si forma quando si celebra una tradizione senza colui o colei con cui lo

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si era fatto sin dalla nascita, o durante una fase importante della vita; ma ancora più cocente è il dolore nel momento in cui ciò che lo ha causato perdura, e continua a mietere vittime.

2. Uno strano Natale, un Natale estraneo.

Anche per chi ha avuto la fortuna di non essere toccato direttamente e drammaticamente dalla pandemia, però, questo Natale 2020 arriverà con connotati inconsueti, che è quanto di peggio può capitare a un rituale. I rituali, come sostiene tanta antropologia semiotica, nascono e si sviluppano proprio per rassicurare gli individui nella comunità e attraverso di essa, come pure per rassicurare reciprocamente la comunità attraverso i gesti individuali; quando interviene un incidente, e la liturgia s’incrina, allora il rituale non solo non funziona, e non rassicura più, ma diviene persino controproducente, perché inquieta, perché angoscia, perché diventa segno di forze misteriose che contrastano non solo il volere degli individui, ma anche quello d’intere comunità. Persino i bastian contrari del Natale, quelli che lo respingono o lo sbeffeggiano per motivi religiosi o politici, dovranno quest’anno rendersi conto che essere alternativi durante il Natale 2020 non sarà come esserlo durante un Natale qualunque, giacché non è facile

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essere ribelli contro il rituale in una società in cui ciascuno è costretto a non seguirlo.

In momenti come questo, che toccano negativamente la vita di ognuno, anche quella di chi è privilegiato o semplicemente fortunato, ciascuno deve fornire il proprio contributo nell’emergenza, nella difficoltà, nel dolore. Alcuni di questi apporti sono così essenziali da essere eroici: medici e infermieri, così come tutte le persone che dovranno continuare a rischiare la vita durante le feste, o che lavoreranno nei laboratori per cercare di perfezionare i vaccini che, forse, un giorno che si spera non troppo lontano, ci libereranno dalla pandemia, o almeno la renderanno più sopportabile. I semiotici e gli altri ricercatori e ricercatrici di scienze umane fortunatamente non rischieranno la vita sul lavoro durante il periodo natalizio, ma ciò non toglie che anch’essi potranno fornire un contributo importante, ognuno secondo le proprie competenze. La semiotica è la disciplina che studia i segni, i simboli, i sistemi di significazione, potrà dunque giovare in maniera determinante allo studio di come si trasformerà questo Natale pandemico 2020. L’ambizione di chi studia i fenomeni sociali, tuttavia, non è soltanto quella di comprenderli, ma anche di fornire nuovi spunti per alleviare il dolore del mondo, sia pure soltanto per soffrirne da una

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prospettiva diversa, da un’angolatura che ne riformuli e relativizzi la percezione.

3. Conclusioni: Rigenerare il Natale.

Una lettura semiotica del Natale pandemico andrà demandata a ricerche minuziose, analisi rigorose, e studi distaccati; qui ci si limiterà a offrire una serie di modesti consigli, sub specie semiotica, per vivere questo speciale momento rituale non nella felicità più immacolata, perché sarebbe impossibile, ma perlomeno riappropriandosi simbolicamente della malinconia che — sarà inevitabile — attraverserà tutte le comunità legate a questa festa.

In primo luogo, per chi è cristiano, per chi crede, o per chi aderisce più o meno implicitamente all’insieme dei valori di questa religione, non sarà superfluo ricordare che nel Natale essa celebra la nascita di un Dio fattosi uomo ma già destinato alla morte; il Natale è dunque intrinsecamente una festa malinconica, anche se lo si è dimenticato perché il suo aspetto celebrativo ha preso il sopravvento. In questo frangente pandemico, tuttavia, si ha forse l’opportunità di ricordare che questa morte non è fine a sé stessa. Si consuma atroce e solitaria, con un Cristo distanziato da tutti e da tutto sulla croce fuorché dagli altri due crocifissi, esattamente come un malato terminale di COVID oggi. Però in questa morte il pensiero cristiano propone anche l’idea di

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un Dio benevolente, di una prospettiva metafisica in cui la sofferenza e la morte non sono un termine ultimo, bensì sono seguite dalla salvezza.

In secondo luogo, anche chi non è cristiano, o è ateo, o comunque non si riconosce nella filosofia religiosa del cristianesimo, questo Natale diverso non dovrà necessariamente essere un Natale mancato, e sarà invece un’occasione irripetibile di poesia. Dal punto di vista semiotico, la poesia nasce da un lucido scardinamento degli abiti interpretativi di una comunità. “Le gambe di questo tavolo sono solide” è un enunciato che contiene una catacresi, ovvero una metafora poetica creata da qualcuno chissà quando ma poi addormentatasi nell’abito del modo di dire; se però un commensale, durante il prossimo Natale, pronuncerà la frase “quest’anno il tavolo al quale mangiamo ha due gambe in meno, dobbiamo sostenerlo tutti perché il nostro pasto insieme continui” allora la catacresi sarà ritrasformata, con atto poetico, in nuova metafora viva, che tenta di dire il dolore per una persona scomparsa e la necessità del coraggio condiviso per andare avanti. Trattasi di un gesto sublime, perché non solo crea, come nella semplice metafora, ma in qualche modo ricrea, risveglia il senso che si era addormentato. Risvegliare una catacresi attraverso la poesia è quasi come resuscitare. Gli esperti di semiotica non sanno resuscitare come lo fanno gli

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eroici rianimatori che lavoreranno negli ospedali durante le feste, però potranno dare un contributo significativo per risuscitare il senso di un Natale spesso addormentatosi in stanche catacresi sociali. Non è forse poi questo il significato teologico della festa, quello di segnalare come una vita è condannata a volgersi nel suo contrario di sofferenza e morte, ma che a risollevarla dal suo tragico destino resta comunque la speranza del linguaggio, nel quale la vita e il senso si addormentano ma nel quale al contempo la vita e il senso possono essere risvegliati, nella carne fattasi parola, nella cosa rifattasi senso?

Però non è questa l’occasione per un ricettario morale del Natale pandemico, anche perché, malgrado la ritualità dell’evento, ne esistono numerose tradizioni a seconda delle comunità, dei gruppi, delle famiglie. Si può suggerire, invece, in ciascuno di questi casi, un atteggiamento che sfrutti quanto appena detto a proposito della creazione e della rigenerazione del senso nelle comunità rituali. Durante queste strane festività inevitabilmente verrà a mancare qualcosa. Per chi crede forse non sarà possibile partecipare alla messa di Natale; o forse non sarà possibile farlo con le stesse modalità; per chi crede e per chi non crede, poi, sarà forse impossibile riunirsi con parenti e amici, condividere un pasto comune, scambiarsi doni. Tutto questo

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mancherà, e molto. Vi sarà chi, come chi scrive, passerà il Natale da solo, lontano dalle celebrazioni religiose, dalla famiglia, dagli amici di sempre, senza pasti rituali, né doni, né cerimonie. Non si sentirà nell’aria il profumo dei purceddhuzzi appena fritti, il tipico piatto salentino del Natale, non si scherzerà con gli amici d’infanzia per i vicoli dove si giocava a calcio da bambini, non si canteranno i canti di Natale, non si ammireranno l’albero o il presepe, non si farà nascere Gesù bambino, non si abbracceranno e baceranno i cari a mezzanotte. Sarà utile e forse in certi casi un sollievo cercare un succedaneo digitale di queste attività; la tecnologia, a volte, aiuta davvero. Eppure non sarà e non dovrà essere sufficiente. Per ognuna di queste mancanze, invece, la semiotica suggerisce di approfittare del rompersi dell’abito rituale per interrogarne e ricordarne l’origine, risalendo più che si può fino alle sue scaturigini ultime: perché sono importanti questi cibi, e questi canti, e questi doni, e questi abbracci? Come è nato il loro senso? E come vogliamo che rinasca, dopo la morte che la pandemia infligge al pianeta intero, con quale nuova, luminosa, risplendente resurrezione nel linguaggio, nei simboli, nel senso? In definitiva, se la semiotica può dare un contributo in questo drammatico frangente, si potrà riassumere in un’unica esortazione: non preoccupatevi per come

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festeggerete il Natale del 2020. Pensate piuttosto a come festeggerete quello del 2021, che sia di rinascita per tutti e per tutte.

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Il Natale è servito.

Miti, riti, traduzioni

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Simona STANO, Università di Torino (UNITO); New York University (NYU)

“La tradizione, per come l’ho appresa io, vuole che a Natale le famiglie – allargate a parenti acquisiti e di vario grado – si riuniscano intorno al tavolo per rinsaldare e rinnovare i vincoli che legano i loro membri”. Antonino Cannavacciuolo, Il pasto di Natale (2019)

Antipasti

Rigorosamente al plurale. Perché, si sa, l’abbondanza e la varietà sono caratteristiche essenziali del banchetto natalizio: peperoni grigliati, caponata di melanzane, vol-au-vent ripieni di fonduta, bruschette al tartufo, ma anche le insalate più varie, funghi sott’olio, gamberi in salsa rosa, acciughe al verde. E via libera alla sperimentazione:

1 Questo progetto è stato finanziato dal programma di ricerca e

innovazione dell’Unione Europea Horizon 2020 nell’ambito delle azioni Marie Sklodowska-Curie, Grant Agreement n. 795025.

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sapori etnici, nuovi trend alimentari suggeriti da chef televisivi o blogger del momento, e persino un occhio di riguardo alle “mitologie” dell’homo dieteticus2, con piatti “senza” — zucchero, sale,

glutine, …— integrati a quelli tradizionali. Senza dimenticare la giusta dose di ritualità, ingrediente essenziale della liturgia conviviale, entro la cui cornice l’eccesso “spezz[a] la barriera fra uomo, società, natura e dei. […] Quel che era vuoto di sostanza si sazia; il frammentario si reintegra nell’unità; le cose isolate si fondono nella grande matrice universale”3.

È risaputo, infatti, che il cibo risponde a bisogni che vanno ben oltre la dimensione fisiologica, istituendosi come un sistema di segni, ovvero un “protocollo di usi, di situazioni e di comportamenti”, per riprendere le celebri parole di Roland Barthes4. Questo è particolarmente evidente nei pasti festivi come quelli natalizi (che si prediliga il cenone della vigilia oppure il pranzo del 25 dicembre), per una serie di fattori che si rendono evidenti sin dalle prime portate.

È proprio a questo livello, infatti, che inizia a prospettarsi con chiarezza la cornice dell’esperienza

2 Niola: 2015.

3 Eliade: 1976 [1949], p. 19. 4

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conviviale, insieme alla ritualità che la contraddistingue: conclusasi l’eventuale fase incoativa dell’aperitivo, caratterizzata da assaggi per lo più distratti di salatini e altri “stuzzichini” atti a predisporre il palato (e gli animi) a ciò che seguirà, i convitati prendono posto intorno alla tavola imbandita, che si offre loro in tutta la sua abbondanza e bellezza. Iniziano così a delinearsi i ruoli presupposti dalla commensalità5 , con i “padroni di casa” — e, sovente, le figure femminili (con evidente rimando alle questioni di genere) — in prossimità della cucina, bambine e bambini all’angolo opposto, e una fitta rete di legami parentali a gestire le zone intermedie. L’unica regola sembra essere dettata dagli occhi: ancor prima che buoni da mangiare, i piatti in tavola devono essere belli da vedere, in una estetizzazione del gusto portata anch’essa all’eccesso — più di quanto non accada nella vita quotidiana (e di questi tempi, verrebbe voglia di dire, ce ne vuole!).

A tanta varietà paradigmatica, corrisponde una certa indeterminatezza sintagmatica: non c’è più la disinvoltura dell’aperitivo, è vero, ma nemmeno ancora un ordine preciso e categorico di ingestione. I convitati si passano di mano in mano piatti e pirofile da cui prendere ognuno la propria porzione

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— “senza esagerare, ché siamo ancora all’inizio” (ed ecco che si fa sentire l’eco dell’incoatività dell’aperitivo). Non ci sono porzioni stabilite o mancanze in grado di offendere i/le cuochi/e, i piatti si riempiono e si svuotano — forchetta dopo forchetta, cucchiaio dopo cucchiaio, e anche mano dopo mano (giacché anche le cosiddette “buone maniere a tavola” ammettono qui qualche eccezione) — senza che nessuno vi presti troppa attenzione. E così si susseguono bocconi e chiacchiere, chiacchiere e bocconi.

Primo e/o Secondo e contorno

“Ma come” – si dirà – “primo, secondo e contorno accorpati insieme in un’unica voce?”. Ebbene sì. Non certo perché la dimensione sintagmatica sia irrilevante — anzi, ritirato l’ultimo piatto degli antipasti dalla tavola, è proprio questo livello a diventare protagonista, con portate scandite da un ordine ben preciso e difficilmente modificabile (nonostante le proteste dei più piccoli). Quanto perché, a seconda dei contesti culturali, può essere servito un primo piatto (o più), oppure un secondo con contorno (o più), o ancora tutti e tre (o più!). Se sulle nostre tavole, infatti, non mancano quasi mai lasagne, paste fresche e in alcuni casi anche risotti, altrove si preferisce invece iniziare con zuppe o minestre leggere, per poi lasciare spazio alla portata

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principale, spesso a base di carne, come il celebre tacchino descritto da Dickens6 e riproposto in

numerose rappresentazioni letterarie e

cinematografiche del Natale anglo-americano (inclusa la famosa scena del film A Christmas Story (1983), in cui si allude ironicamente alla difficoltà di operare traduzioni a questo livello).

Quel che è certo, come ci insegna Mary Douglas7, è che non si tratta mai di combinazioni casuali, bensì di banchetti che riproducono in scala più ampia e al tempo stesso complessificano la struttura dei pranzi e delle cene feriali, accostando piatti principali e secondari, elementi marcati (es. caldi, saporiti, …) e non marcati (freddi, insipidi, …), secondo modelli precisi e significativi.

E si tratta in genere di piatti “tradizionali”. Se gli antipasti erano il luogo della traduzione e della sperimentazione, con primi e/o secondi si torna in genere alle ricette della nonna, ai segreti tramandati di generazione in generazione — o, se proprio si vuole chiamare in causa qualche chef e/o star del momento, almeno alle preparazioni tipiche del territorio in cui ci si trova. Questo proietta una particolare importanza sulle pratiche e i rituali (e con essi anche i ruoli, ivi inclusi quelli di genere)

6 Dickens: 1835. 7 Douglas: 1972.

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legati alla preparazione del cibo, la cui funzione sociale non è troppo lontana — ci ricorda l’antropologia culturale — dai ritrovi dei nostri antenati intorno al fuoco. Parimenti, il momento del consumo del pasto si carica di una simbologia fortemente affettiva e identitaria, rinsaldando — attraverso i meccanismi del cosiddetto “principio di incorporazione”8— il senso di appartenenza non

solo al nucleo familiare ma anche alla comunità: mangiando incorporiamo noi stessi, ci integriamo in una determinata dimensione sociale e culturale, rinsaldiamo la nostra identità come membri di un gruppo. Emerge qui in pieno, in altri termini, la portata “utopica”9 del banchetto festivo: ancor più

che in altre occasioni, non si mangia tanto (o, meglio, non solo) ciò che è “buono da gustare”, quanto, come sottolineava con forza Lévi-Strauss già diverse decadi fa, ciò che è “buono da pensare” 10. Simili dinamiche, inoltre, non riguardano semplicemente il livello della materia-cibo, ma anche la convivialità stessa, con regole di inclusione ed esclusione a tavola oggi meno categoriche di un tempo, ma sempre modellate su legami forti e riconosciuti11, e il piano delle pratiche, con il

8 Fischler: 1990. 9 Floch: 1990. 10 Lévi-Strauss: 1962. 11

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cosiddetto “galateo” che acquisisce progressivamente importanza (seppur in un clima rilassato e giocoso…. Dopotutto, siamo sempre in famiglia!).

Dolci

Anche qui il plurale è d’obbligo — almeno per chi ha ancora spazio nello stomaco. Frutta, panettone (o pandoro? L’annosa questione… e ancora: con uvetta? canditi? mandorle? glassa? Ce n’è davvero per tutti i gusti!), torrone, ma anche torte fatte in casa, budini, tiramisù, biscotti, cioccolato… prima di passare ad arachidi, pistacchi e nocciole.

E non dimentichiamo le bevande, già presenti nelle fasi precedenti, ma qui di fondamentale importanza. Sin dall’antichità greca, infatti, il convito constava di due momenti: il δεῖπνον, o pasto principale, e le δεύτεραι, ovvero il dessert, a base di cacio, sale ed altri alimenti atti proprio a eccitar la sete e stimolare il consumo di vino, che scandiva la ritualità del simposio (συμπόσιον), tra canti, libazioni, brindisi, momenti di conversazione, recitazione e gioco. Anche oggi, in modo non troppo dissimile da quanto avveniva in epoca classica, il passaggio ai dolci segna uno stacco parziale con quanto lo precede e dà avvio alla fase terminativa del banchetto. Qui, sulla scia di ciò che accade durante la fase dell’“anti-pasto”, le grammatiche si allentano, le maglie sintattiche

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tornando ad allargarsi, l’etichetta si rilassa, e l’esperienza alimentare si apre a diverse pratiche, in genere con una forte connotazione ludica.

In questo senso, è molto significativo anche il ricorso ai dolci in diversi rituali che circondano la tavola natalizia, ampliandone gli spazi e i tempi, spesso in un tentativo di connessione tra il mondo terreno e quello ultraterreno: si pensi, ad esempio, all’usanza ancora oggi praticata in diverse regioni italiane di lasciare cibi (per lo più dolci, appunto) per i propri parenti defunti; o alla consuetudine di preparare un piattino di biscotti e un bicchiere di latte per ristorare Babbo Natale durante le faticose operazioni della notte tra il 24 e il 25 dicembre.

Avanzi

Sì, spesso ce ne sono. Come abbiamo scritto un po’ più in alto, infatti, l’eccesso è una caratteristica fondamentale del banchetto festivo, e in particolare di quello natalizio. Avanzare, tuttavia, non significa necessariamente sprecare. Oggi se ne parla molto, soprattutto in risposta al sempre più urgente problema della food security o “sicurezza alimentare”, che riguarda la possibilità per tutti di “accedere ad alimenti sufficienti, sicuri e nutrienti che garantiscano le loro necessità e preferenze

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alimentari per condurre una vita attiva e sana”12. Tant’è che, anche nei ricettari a firma di chef famosi, come il recente Il pranzo di Natale di Antonino Cannavacciuolo 13 , non è inconsueto trovare

suggerimenti su come riutilizzare ciò che rimane dopo le celebrazioni natalizie: “Nelle occasioni importanti […] ai fornelli tendiamo a strafare; è quasi inevitabile che sia così. Sprecare il cibo, però, è una cosa brutta, e non c’è bisogno di spiegare il perché. Perciò troverete qui dei consigli su come riutilizzare in maniera creativa quanto si è rivelato ‘di troppo’. Vi assicuro che i risultati vi sorprenderanno”14. E via di pasticci, quiche, peperoni ripieni e forme svariate di bricolage a prova di acquolina in bocca. Non che si tratti di una novità. Le cucine sono da sempre attivi laboratori del recupero. Ma, ancor prima delle operazioni di riconversione degli avanzi, vanno ricordate tutte quelle pratiche che ne iterano il consumo: chi non si è mai trovato, finito il pranzo del 25, a spartire ciò che restava in teglie e padelle, per portarlo a casa propria e riscoprirne il sapore la sera o il giorno successivo? Chi non è rimasto insieme a giocare e conversare fino a sera, ritrovandosi infine a mangiare ciò che avanzava dal

12 Definizione tratta dal report del World Food Summit 1996,

www.fao.org/3/w3548e/w3548e00.htm.

13 Cannavacciuolo: 2019. 14 Ibidem, p. 4.

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pranzo, magari in compagnia di parenti lontani e amici passati per saluti e auguri nel pomeriggio? È così che la liturgia della convivialità si durativizza, procrastinando il momento di chiusura sancito dai saluti, non di rado accompagnati dalla consapevolezza di dover attendere un altro anno prima di ritrovarsi, tutti insieme, a tavola (almeno in condizioni “normali”, ma per questa nota dolente rimandiamo al punto successivo).

Schermi

Se fino all’anno scorso ci si poteva fermare alla voce precedente, è ormai stato confermato che per il 2020, purtroppo, non sarà così. Sul desco, a sostituire i coperti che l’emergenza sanitaria impedirà di apparecchiare, ci toccherà probabilmente collocare nuovi utensili: non si tratta di piatti o stoviglie in grado di debellare il virus (magari esistessero!), bensì di “schermi”. Gli stessi che già usiamo per condividere su Instagram o Facebook le nostre creazioni culinarie, e che un tempo ci permettevano di vantarci con amici e/o follower delle meraviglie trovate al ristorante. Andranno però usati in modo diverso, sostituendo allo sguardo aptico del cosiddetto food porn15

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inquadrature fàtiche, ricche di sguardi, gesti, interazioni.

Si tratterà, in altri termini, di sperimentare nuove forme di traduzione, non tanto sul piano degli ingredienti e delle ricette, quanto a livello intersemiotico16, istituendo nuove modalità per una

“convivialità 2.0”. D’altronde, tra aperitivi con gli amici su Zoom e/o cene romantiche su Google Meet, un po’ di prove le abbiamo già fatte. Forse (anzi, sicuramente!) ci mancherà il sapore delle lasagne della nonna, ma almeno potremo deliziarci della sua compagnia. E non è poco. Insomma, sarà un Natale “ri-mediato”, probabilmente meno saporito, ma pur sempre Natale. E non è Natale senza una tavola — reale o virtuale che sia — intorno a cui celebrarlo.

Bibliografia

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Il Natale, simbologia e riti

natalizi nella cultura del

Sud-Italia

Remo GRAMIGNA, Università di Torino

L’arrivo del Natale è il periodo dell’anno più atteso, non solo perché è la festività cristiana più importante in tutta la Penisola, ma anche per la pratica di tradizioni e riti religiosi che la caratterizzano. Non dimentichiamo anche che il Natale rappresenta un momento di aggregazione sociale, di convivialità e di coesione familiare. Infatti, soprattutto nelle regioni del Centro-Sud, ci si ritrova insieme ai propri familiari il giorno di Natale, dopo mesi o addirittura qualche anno di lontananza.

Nonostante i cambiamenti dovuti all’evoluzione sociale e all’elevazione del grado culturale, sopravvivono in queste regioni, sia pure con qualche difficoltà, tradizioni molto antiche di derivazione pagana o romana su cui vorrei porre l’attenzione, essendo io un uomo del Sud.

Ora, senza dilungarmi sulla storia del Natale, vorrei solo accennare alle sue origini pagane. Scomodando Plinio il Vecchio, apprendiamo che, nella Storia

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Naturale, parla di solenni festeggiamenti, stabiliti dall’imperatore Aureliano nel 274 D.C., nel Dies Natalis Solis Invicti, dedicati alla nascita del sole (Mitra). Tale festività veniva fissata circa all’ottavo giorno delle Calende di gennaio (25 Dicembre), qualche giorno dopo il solstizio invernale. Il Natalis si festeggiava con banchetti, riti a giochi che si protraevano per diversi giorni e molti erano i Cristiani che vi prendevano parte. Durante tali festeggiamenti, si preparavano dolci di farina aventi la forma di serpente che si morde la coda. Ancora adesso, in alcune zone del Sud, per esempio, si preparano dolci che, nella loro simbologia, rimandano al rito del sole e del serpente.

La Chiesa Romana, preoccupata che quelle feste potessero distogliere dalla vera fede, tenne consiglio e stabilì che la Natività dovesse essere celebrata in quel giorno (25 Dicembre) e la festa dell’Epifania il 6 Gennaio. Furono dunque motivi di opportunità a far decidere di fissare la nascita di Cristo in quella data.

L’origine pagana della festività del Natale, è implicitamente riconosciuta da Sant’Agostino, quando esorta i fratelli Cristiani a non celebrare in quel giorno il sole, come facevano i pagani, bensì colui che il sole aveva creato. Fu così che il Dies Natalis Solis Invicti divenne il Dies Natalis Domini, sebbene dopo l’introduzione del Natale cristiano

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continuassero per molto tempo i riti pagani che celebravano il sole. Ma ritorniamo al tema delle tradizioni.

Se osserviamo bene il tessuto sociale di alcune zone del Sud-Italia, come la Calabria, ritroviamo in esse antiche usanze popolari avvolte nel magico alone del mito, del simbolo e della ritualità. Per esempio, per tutto il periodo antecedente il Natale, dalla Vigilia dell’Immacolata alla Vigilia dell’Epifania, estendendosi in alcune zone anche al giorno di Sant’Antonio Abate e di San Giuseppe, è tradizione accendere grandi falò di lentisco e rami di ginestra fatti essiccare in precedenza. Nel Cosentino, i falò sono chiamati “carcare”, nel reggino ionico “lumare”, nel catanzarese “fhocare”. Intorno al falò si dispongono le persone che suonano e cantano bevendo e offrendo del vino. Spesso accade di lanciare nelle fiamme ciò che è vecchio e che non serve mentre le faville si elevano al cielo e il crepitio “batteria” rallegra gli astanti.

Il falò è, dunque, un momento di aggregazione ma anche un modo con il quale la comunità rafforza la propria identità culturale. Il rito dell’accensione del falò, che rimanda ad una antica tradizione in uso presso i popoli celtici, simboleggia la rinascita della vita, il rinnovamento, un modo per scacciare le tenebre e propiziarsi felicità e buoni raccolti. Fino a qualche anno fa, sopravviveva la tradizione di

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bruciare nel caminetto della propria abitazione, la sera del 24 Dicembre, un grosso ceppo di quercia “’u zippuni” intorno al quale si posizionavano dodici pezzi di legno più piccoli, rappresentanti i dodici Apostoli. Mentre il ceppo bruciava, la famiglia sedeva a tavola e, nel tempo, veniva a sedersi a mensa un numero di poveri pari al numero dei defunti legati alla famiglia stessa. Il ceppo non sarebbe stato acceso se quella data famiglia avesse subito un lutto. L’accensione del falò è un rituale di origine antica che tiene insieme vari popoli e culture con significati molteplici e diversi. Presso alcune culture, per esempio, il fuoco rappresenta il mezzo con cui esorcizzare l’ignoto e dominare le forze della natura; in altre significava rompere il freddo dell’inverno, in altre ancora significava propiziarsi buoni raccolti.

- “Li hanno fatti quest’anno i falò? – Chiesi a Cinto –

- Noi li facevamo sempre – La notte di S. Giovanni tutta la collina era accesa. Poca roba, - disse lui – Lo fanno grosso alla stazione, ma di qui non si vede. Il Piola dice che una volta ci bruciavano delle fascine.

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- Chissà perché mai, - dissi, - si fanno questi fuochi. Si vede che fa bene alle campagne, - disse Cinto, - le ingrassa”1.

In questo strano intricarsi di tradizioni prede posto la “Strina”. Il termine, derivante dal latino Strena, significa “regalo di buon augurio” e risale ad una usanza romana, quella di scambiarsi dei doni duranti i Saturnalia, festività che si svolgevano tra il 17 e il 23 Dicembre in onore del dio Saturno. Gli “Strinari” sono un gruppo di persone che cantando (’i cantaturi) e suonando (’i sonaturi) strumenti musicali diversi (fisarmonica, chitarra, tamburelli, “ammaccasali”) si recano nei pressi delle abitazioni degli amici per augurare prosperità e buona salute, incitando il padrone di casa ad aprire la porta e farli entrare. Chi si rifiutava, riceveva in cambio un’offesa, cioè, una “strina di sdegno”. Una volta accolti in casa agli “Strinari” veniva offerto del vino e ogni ben di Dio. Il numero degli “Strinari”, poi, aumentava durante il tragitto in quanto si aggiungeva sempre qualche nuova persona e così si andava avanti fino all’alba.

“ ’A strina” è dunque un canto di questua diverso per ogni zona anche in virtù del dialetto parlato e degli strumenti musicali utilizzati. Nella Sila e nella

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Presila, per esempio, si usa lo “zugghi”, uno strumento a frizione fatto con un barattolo di latta o coccio con una canna di bambù al centro. Tra le “strine”, la più insolita è quella di Lago, paese a nord della Calabria, in provincia di Cosenza, la cui originalità consiste nei temi trattati che vanno dai temi sociali e politici a quelli della denuncia e della contestazione.

L’affascinu o ’u sfacinu

Facilmente rintracciabile in alcune zone della Calabria, è l’“affascinu” o “’u sfascinu”, una pratica utilizzata per togliere il malocchio. Legata a tale pratica è la locuzione “fora affascinu” utilizzata quando si vogliono fare dei complimenti allontanando l’invidia e il malocchio. Il rituale dello “sfascinu” è conosciuto da pochi, di solito da donne anziane e viene trasmesso la vigilia di Natale o dell’Immacolata. Ma vediamo in cosa consiste. La persona che ha un malore (si sente debole o ha forte mal di testa) viene accompagnata da un’esperta (una specie di maga buona) che facendo il segno di croce sulla fronte del malato, comincia a sbadigliare e a lacrimare. Ripete una formula per tre volte e alla fine recita un Pater Noster, un’Ave Maria e un Gloria. Le formule per tale pratica hanno una loro struttura: possono dire se il fatto magico sussiste o meno, in caso affermativo, anche chi è stato l’autore, se uomo

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o donna. Altre, più complesse, hanno strutture più articolate: nella prima parte si indicano i tre mezzi con cui la “sfascinatura” è stata esercitata (occhio, mente, mala volontà); nella seconda parte, a queste tre forze nemiche si contrappone la potenza magica della Trinità col compito di “sfascinare” la vittima. “U carmi”, dal latino carmen, era la magica formula recitata:

Chìni t’ha affascinatu ’u cori s’addallegrate, ccu’ cori e ccu’ la mente,

vatinne, sfascinu, che nun è nente. (Chi ti ha affascinato

il cuore gli si è rallegrato col cuore e con la mente

vattene affascino che non è niente). U’ vurzieddru

Tra i riti che risentono di antiche strutture magico-pagane, c’è poi “u’ vurzieddru”, una perfetta simbiosi tra sacro e profano. Doveva essere preparato la notte di Natale e consisteva in un sacchetto di colore rosso in cui venivano inseriti una immaginetta della Madonna, tre peli della coda di un cane e un piccolo rametto di ulivo. Il sacchetto così preparato veniva portato addosso per tutto l’anno

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come portafortuna, soddisfacendo l’esigenza di protezione dal male e dai pericoli. “U’ vurzieddru” veniva anche messo sotto il materassino della culla dei bambini piccoli per propiziargli buona salute. ’I novi cose (Le nove cose)

Connotazione simbolica assume il numero di pietanze della cena della vigilia di Natale. In alcune zone della Calabria, si preparano tredici piatti, tanti quanti sono gli Apostoli insieme a Gesù; in altre, sette, come le virtù. In varie zone dell’entroterra cosentino, si preparano “ ’i novi cose”, pietanze semplici legate all’economia del posto che utilizza i prodotti della campagna. Ecco dunque “’i novi cose”:

1. Le “grispelle” [fig. 1], pasta lievitata e fritta con acciughe. Bisogna farne qualcuna a forma di Bambinello, per augurio.

2. Zuppa di cavolo.

3. “Filatieddri”, pasta fatta in casa condita con un pesto di noci, passate in padella insieme a mollica di pane abbrustolita.

4. “Jaccatieddri”, zucca gialla essiccata fatta prima rinvenire nell’acqua con cui si preparano frittelle.

5. Broccoli neri e broccoli di rapa. 6. Baccalà in umido [fig. 2] e fritto.

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7. “Pipazzi garli” [fig. 3], peperoni rossi essiccati e fritti in olio bollente.

8. “Scapece”, melanzane sott’olio. 9. Dolci:

- “scaliddri” che, per la particolare forma, vogliono simboleggiare la scala cosmica, cioè l’ascesa mistica dell’uomo verso il divino.

- “turdiddri”, dolci a forma di grossi gnocchi, prima fritti e poi passati nel miele o di api o di fichi.

- “chinuliddri”, dolci a forma di mezzaluna ripieni di mostarda o di ricotta, fatti friggere e cosparsi poi di zucchero.

- “crocette”, fichi secchi ripieni di noci, a cui si dà la forma di una piccola croce, infornati e cosparsi di zucchero e cannella.

- Poteva capitare che per arrivare al numero delle nove pietanze bisognasse contare anche il pane e il vivo. Il pane di Natale, a forma di treccia o di corona, in alcune zone del Sud, è chiamata “u’ natalisi”.

Le “crocette”

L’usanza di preparare le crocette [fig. 4], è un’antica tradizione risalente all’epoca romana, quando i cittadini dell’Urbe si scambiavano fichi affinché l’anno cominciasse con buoni auspici. Il tutto veniva

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accompagnato da rami di alloro, le Strenae, staccati in un boschetto sulla via Sacra, consacrato a Strena, dea della fortuna e della felicità. Un altro motivo, questa volta più specificatamente cristiano, vuole che l’albero di fico abbia salvato la Madonna e il Bambino Gesù dall’inseguimento dei soldati del Tempio. La leggenda vuole che il tronco di un fico si sia aperto nascondendo nel suo interno la Madonna e il Bambino. Da allora S. Giuseppe benedì il fico dicendo: “tu darai frutti due volte l’anno, a maggio e in estate; da qui la tradizione, appunto, di conservare i fichi per Natale e consumarli anche la sera della vigilia.

A concludere il ciclo delle tradizioni del periodo natalizio, è la festa della Befana, corruzione lessicale di Epifania, dal greco epiphàneia (manifestarsi), festa molto attesa da tutti i bambini perché l’anziana signora dispensa regali e dolciumi.

Di origine pagana, furono i romani che “istituzionalizzarono” la festa della Befana. Essi infatti credevano che la dodicesima notte dopo il solstizio invernale si celebrasse la morte e la rinascita della natura e che figure femminili volassero sui campi coltivati per propiziare la ricchezza dei raccolti. La Chiesa Romana condanna questi riti e credenze pagane e solo lentamente la festa dell’Epifania viene accolta dal Cattolicesimo

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come festività cristiana che rappresenta la manifestazione di Gesù come essere umano e divino. Oggi, si è trasformata l’origine sacra della ricorrenza in un fenomeno di costume dando origine a diverse usanze come il dono della “Calza della Bafana” e l’accensione del falò per scacciare il male e propiziare la fecondità della terra e degli animali. Senza dubbio la storia della Befana ha diverse varianti a seconda dell’area geografica. In Sicilia, per esempio, era nota la “Vecchia di Natali” che si trasformava in uccello o in altri animali per portare regali ai bambini. Dunque, la funzione più importante della Befana è quella di portare doni, giocattoli e leccornie. Sempre nel Sud, c’è l’usanza delle “befanate”, gruppi di giovani che intonano canti davanti alle case ricevendo in cambio dei doni. Quanto all’aspetto della Befana, secondo alcuni, viene rappresentata vecchia e brutta perché incarna l’immagine dell’anno vecchio, perciò la sua bruttezza avrebbe una funzione apotropaica: raccoglie tutto il negativo dell’anno trascorso ma si riscatta portando i doni ai bambini buoni. In questo personaggio, dunque, coesistono elementi positivi e negativi con la prevalenza però delle azioni buone.

Conclusioni

Al termine di questo breve viaggio attraverso le tradizioni e i riti più ricorrenti del periodo natalizio

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nel Sud-Italia, vorrei fare delle riflessioni. La tradizione e la memoria sono interconnesse; la tradizione non può sopravvivere senza la memoria tangibile, ossia la memoria capace di fare rivivere fatti e circostanze che suscitino emozioni e sensazioni come se essi si riproponessero in quel momento. Vista in quest’ottica, acquista il significato di valore in quanto rivissuta come momento culturale di arricchimento sociale e come “auto-modello” o “autoritratto” di una cultura2.

Non da trascurare è poi il suo valore storico perché consente di conoscere le più svariate forme di espressione di una comunità trasmesse attraverso il succedersi dei tempi. La tradizione, inoltre, proponendo stili di vita più sani e naturali oltre che itinerari turistici, può fare da volano per lo sviluppo di un’area geografica o di una regione.

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Fig. 1 Grispelle

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Fig.3 Pipazzi garli

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Bibliografia

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Pavese C. (1950) La luna e i falò, Einaudi, Milano.

Ringraziamenti

Voglio ringraziare la professoressa Tina Sicoli, insegnante di italiano e latino presso il Liceo C. Scorza di Cosenza, per avermi fornito materiale utile alla realizzazione di questa ricerca.

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Alla faccetta irritante di Mara

Wilson ho sempre preferito il

ghigno di Krampus

Per una semiotica grinchiana del

Natale cinematografico

1

Bruno SURACE, Università di Torino

“È Natale!” (Qualsiasi bambino, scoprendo l’acqua calda, in qualsiasi film natalizio, la mattina di Natale)

Da Babbo Natale…

Come più o meno tutti sanno, senza scomodare apparati troppo complessi, Natale è discorsivamente due cose. Da un lato una festività cristiana (la più importante, assieme alla Pasqua); dall’altro una festività non cristiana. Forse l’aspetto più straordinario di questa festività è in effetti il riuscire a tenere armonicamente insieme – cioè velando

1Questo articolo è parte di FACETS - Face Aesthetics in

Contemporary E-Technological Societies, progetto finanziato

da ERC (European Research Council) nell’ambito del

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l’appariscente ipocrisia di fondo – le due dimensioni, apparentemente antitetiche fra di loro. Come possono convivere la retta frugalità consustanziale al cristianesimo con l’orgia consumistica dello scambio dei doni? Come possono co-abitare gli stessi spazi il presepio2, riproduzione in scala dell’episodio della natalità di Gesù, e l’albero di Natale, che è tecnicamente un feticcio pagano intriso in origine di animismo (le lucine colorate) e in cui ancora, se li si cercano bene, si intravedono elementi norreni? Per non parlare della più ipocrita delle coincidenze: proprio a mezzanotte, quando nasce per convenzione Gesù bambino (e così le mamme lo rimuovono dal suo nascondiglio per apporlo nella culla di paglia), quel vecchio di Babbo Natale gli ruba la scena volandosene in giro con una slitta trainata da renne, che sicuramente non sono autoctone della Galilea, e distribuendo cianfrusaglie a tutte le persone del mondo. Se una magia del Natale esiste, insomma, questa sembra essere il connubio sintetico fra sacro e profano, spirito e corpo, fra materialismo e idealismo. Così il fervente cristiano soprassiede sulla presenza dell’albero pagano in casa propria per far contenti i figliuoli, e questi ultimi sopportano la messa di Natale – anche

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se è un po’ una rottura – in attesa di spacchettare i doni. Insomma: un colpo al cerchio del presepe, uno alla botte dell’abete. In realtà, semioticamente, la feconda unione delle due semiosfere è retta anzitutto dalla dimensione rituale in quanto istanza di mediazione.

Per dirla fuori dal semiotichese: “A Natale si fa così”. Si fa così per tanti motivi, ma, almeno nell’ultimo centinaio di anni, si fa così perché il Natale è quello strano dispositivo aspettuale che si estrinseca anzitutto nella sua fase incoativa, cioè preparatoria (finanche ansiogena, come dimostra l’angoscia del regalo dell’ultimo minuto). Fuori dal semiotichese di nuovo: e se l’attesa del Natale non fosse essa stessa il Natale? Tant’è che de facto in questo paradossale mese dell’anno il confine fra verità e rappresentazione si fa più denso che mai. E nella fase preparatoria Natale prende forma come complesso immaginario, in cui un certo paradigma (pandoro vs panettone, presepio sì vs presepio no, regalo costoso vs pensierino, ecc.) si dispone sul sintagma giornaliero che va da fine novembre al 25 dicembre attraverso un collante simbolico in cui il cinema gioca un ruolo cardinale. Pensiamoci.

Natale è nel nostro immaginario un evento essenzialmente notturno. Nei film nevica la sera; il bianco candore dei cristalli gelati si sposa perfettamente con il blu lunare dell’ambiente

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metropolitano o naturale circostante. Le lucine assolvono al loro incanto kitsch nell’oscurità. Il caminetto mica lo si accende alle tre del pomeriggio (e se lo si fa, allora è per rendere pertinente non l’atmosfera che evoca, ma le sue proprietà da calorifero). Eppure non c’è Natale senza l’odore della cannella, i biscotti allo zenzero e lo zabaione caldo, il caminetto che crepita, il vischio, i canti alla porta. Sono questi, fra i tanti altri, gli elementi che ci danno il Natale come fatto autenticamente semiotico. Perché in realtà poi a Natale si fa il pranzo (salvo le famiglie meridionali, come quella dell’autore di queste righe, che usano fare anche la cena della vigilia). E perché statisticamente i possessori di caminetto sono una minoranza esigua rispetto ai festeggiatori del Natale. E perché il vischio, l’agrifoglio, e l’abete, se ci sono, allora sono di plastica e made in China. E perché è più facile che fuori dalla porta ci suoni il ragazzotto dell’agenzia immobiliare o l’ennesimo truffatore che si spaccia per addetto luce&gas, piuttosto che un angelico gruppetto di bambini che cantano “Bianco Natale”. E perché, manco a dirlo, le nevicate natalizie sono oramai una rarità, complice il riscaldamento globale, o, per essere più proverbiali, come vuole l’occasione, la scomparsa delle mezze stagioni. Il periodo natalizio è cioè il più vigoroso esercizio di sospensione dell’incredulità collettiva nell’arco

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dell’anno. Si tratta di un esercizio cognitivamente non poco dispendioso, per quanto ci sforziamo (fa parte dell’esercizio stesso) di far finta che non sia così. Prendiamo ad esempio due tipici requisiti natalizi: 1. A Natale siamo tutti più buoni; 2. C’è un signore che si chiama Babbo Natale e fa quello che tutti sappiamo.

Partiamo dal caso più serio, e cioè quello di Babbo Natale.

Ora, è pacifico che Babbo Natale non esista. Non perché non possa fare quello che è notoriamente il suo lavoro. È stato ampiamente dimostrato come girare il mondo in una sola notte consegnando regali a tutti i bambini che esistono sia tranquillamente possibile mettendo assieme un po’ di teoria della relatività, qualche ponte di Einstein-Rosen, e cose così. La dimostrazione dell’inesistenza di Babbo Natale su base scientifica è quindi da rigettarsi. Babbo Natale può esistere, anche se a condizioni un po’ difficili (ma ci sono cose più improbabili, e che pure esistono, come l’ornitorinco). E comunque è magico, quindi non gliene importa un fico secco di queste cose. L’inesistenza di Babbo Natale è più una questione definitoria. Lo specifico ontologico di Babbo Natale in quanto Gesù-vicario, padre di tutti quanti e benefattore, è di tipo modale. Egli esiste non perché può esistere, ma perché deve esistere (il bambino stesso non ci crede, ma vuole crederci,

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come il complottista con il poster “I want to believe”) – tant’è che protocollo assai comune del cinema natalizio è quello di un Babbo Natale indebolito o a rischio di estinzione perché nessuno crede più in lui, come la fata che muore ogni volta che qualcuno dice che le fate non esistono. E per gli adulti? Per gli adulti la sospensione dell’incredulità si attua nel momento in cui anche essi, per entrare nello “spirito natalizio”, si servono di Babbo Natale, e non lesinano ad assecondare i mondi inventati nel cinema in cui questi vive le sue avventure. Che sono di solito molto ideologicamente connotate: la bontà infatti viene sempre premiata, di solito con regali non di poco conto, come nel finale di Miracolo nella 34a strada (1994). Qui la piccola Susan, interpretata dall’attrice bambina Mara Wilson che negli anni Novanta costituiva il faccino vispo ma anche grazioso per eccellenza del cinema hollywoodiano, l’innocenza in tutta la sua vellutata meraviglia, vede avverarsi a Natale il desiderio che la mamma si sposi con il bellimbusto Bryan (un uomo, per definizione, da sposare), ma Babbo Natale, siccome è stata buona, le regala pure una villa, ché non si sa mai. Tutto diventa così magnifico nella mattina di Natale, perché “È Natale!” (“È il capitale!”). E da lì tutta una serie di altri babbi natali cinematografici più o meno smielati hanno contribuito a definire profondamente l’immaginario

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natalizio che costituisce a tutti gli effetti la nostra esperienza preparatoria del Natale, quella a cui miriamo, pur sapendo che egli è, “solamente”, un personaggio. Lo “spirito natalizio” è, in questi termini, un costrutto sociosemiotico piuttosto semplice da disinnescare; non vogliamo farlo qui, lasciateci divertire, è Natale!

Tutti quanti insomma, oltre a sperare di svegliarci il 25 Dicembre avendo ricevuto non un paio di guanti (che sono, sempre cinematograficamente, l’emblema del regalo brutto che ti fa la zia non proprio intelligentissima, la quale confonde la valorizzazione critico-pratica con quella utopica-ludica, quest’ultima regina indiscussa delle feste natalizie), ma una villa; tutti lavoriamo alacremente facendo finta che il mondo non sia quello che sia, così da poterci svegliare e guardare attorno esclamando, come la piccola Mara Wilson con i suoi occhietti catatonici, “È Natale!”. Ciò ci porta a cascata al punto meno serio, e cioè che a Natale siamo tutti più buoni. Senza divenire troppo tetri esplorando vicende come quella del Rapido 904, che basterebbe da sola a dimostrare che “tutti più buoni” un corno, pensate a quanta sospensione dell’incredulità dobbiamo attivare per auto-illuderci che quel nostro vicino di casa un po’ stronzo, con lo zerbino con le palline colorate sopra per l’occasione, si sia

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trasformato di colpo in un simpatico guascone solo perché è dicembre.

Miracolo sulla 34a strada

(Miracle on the 34th Street, Les Mayfield 1994) …a Babbo Bastardo

C’è un universo semantico contrario a quello sin qui tratteggiato, che è il contraltare dell’immaginario del Natale mieloso. Parliamo del Natale deviante. Quello

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