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Memoria e rappresentazione del teatro classico a Torino fra il 1861 e il 1961

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Academic year: 2021

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Franco Perrelli

Memoria e rappresentazione del teatro classico a Torino

fra il 1861 e il 1961

1. Qual è stata la frequenza e soprattutto la percezione della drammaturgia classica nei teatri del capoluogo piemontese nei primi cent’anni dell’unità d’Italia? Questo l’obiettivo che si è prefissato la nostra ricerca, all’interno di una ricognizione più ampia, dal titolo Cultural

Heritage of Antiquity and its Influence from Piedmont of Risorgimento to Europe, from the Middle of the Nineteenth Century to 1961, diretta da

Giulio Guidorizzi, nell’ambito del Progetto San Paolo 2013.

Per conferire alla nostra indagine un orizzonte storico adeguato, abbiamo scelto di partire da una schedatura degli articoli on-line del prezioso Archivio del quotidiano «La Stampa» di Torino, nelle sue varie edizioni1, cercando di acquisire, con discernimento, dati specifici e

collaterali ovvero non solo notizie di rappresentazioni, ma anche di letture e conferenze, nonché di taluni riverberi nel campo delle arti, per esempio, della musica. La ricerca è stata, naturalmente, mirata sulle tre corone della tragedia greca (Eschilo, Sofocle, Euripide), su Aristofane e gli autori romani (Plauto, Terenzio e Seneca), aggiungendo, con preventivo scetticismo (ma qualcosa se n’è pur ricavato), Menandro e infine Platone, dal momento che è nota una certa tradizione interpretativa dei suoi

Dialoghi.

Coadiuvati da una schedatrice-archivista, la dr.ssa Simona Dinapoli, abbiamo predisposto dei fogli Excel, nei quali sono stati catalogati secondo un criterio cronologico i vari riferimenti individuati da un esteso spoglio di articoli, in seguito trasferiti in formato pdf. Nel complesso, sono stati esaminati 30.000 record, che hanno evidenziato circa 150 notizie rilevanti sugli spettacoli torinesi di carattere classico nell’arco di un secolo, venendo a comporre un quadro quantomeno attendibile degli eventi notevoli e delle tendenze in atto nelle varie epoche toccate. Il catalogo Excel è ora disponibile sul sito di Heritage of Antiquity:

http://apps.xenialab.com/demo/ch/; in questo saggio, cercheremo invece di trarre dal lavoro complessivo, puntualizzandoli, alcuni risultati storici.

Pur avendo mirato dapprincipio la ricerca sul Piemonte, almeno su «La Stampa», foglio largamente concentrato sul capoluogo, non abbiamo avuto modo di verificare consistenti dati a livello regionale. Di contro, ci è parso che il censimento effettuato su una piazza come Torino potesse offrire, con una certa approssimazione, indicazioni generali sulla fortuna del teatro classico in tutta la penisola. Torino, capitale fino al 1865 e comunque città di significative tradizioni sceniche e culturali, per di più 1 All’indirizzo http://www.archiviolastampa.it si può consultare, infatti, la copia digitale dell’intera collezione delle varie edizioni del quotidiano, dal primo numero del 9 febbraio 1867, allorché si denominava «Gazzetta Piemontese», fino al 2005.

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prossima alla Francia (nazione, a cavallo dei secoli XIX e XX, reputata ancora centro del teatro mondiale), appare, infatti, un luogo emblematico che, attraverso il dato locale, ci consente di leggere aspetti di quello nazionale e constatare, per esempio, il fermento rappresentato – nel periodo qui esaminato e per il genere che c’interessa – dalle rappresentazioni al teatro di Siracusa o sulle scene di altri importanti centri come Milano, Firenze e Napoli.

Del resto, l’esteso controllo degli articoli prodotti da varie chiavi di ricerca, tra gli anni Settanta e Novanta dell’Ottocento, ci ha consentito d’individuare anche un certo numero di rappresentazioni teatrali classiche in diversi teatri italiani, sebbene con un tendenziale declino al principio del nuovo secolo e qualche risveglio negli anni del fascismo. Un certo contributo alla diffusione dei classici lo avrebbe dato, infine, la radio dopo la guerra, grazie a una fitta programmazione di letture anche di autori antichi2.

I limiti cronologici della ricerca non toccano una stagione gloriosa del teatro piemontese, vale a dire i programmi della Compagnia Reale Sarda, attiva dal 1820-21 al 1854 e lambiscono appena un fenomeno, fra il 1857 e il 1870, come la Compagnia Drammatica Piemontese di Giovanni Toselli, che, in quanto «Reale dei poveri», dedita cioè a un teatro eminentemente regionale3, non riguarda i nostri temi d’indagine. Del resto,

la stessa Reale Sarda, così devota al repertorio italiano, non avrebbe potuto contribuire granché, nel regno sabaudo, all’affermazione del teatro classico, che se mai era filtrato attraverso la sensibilità alfieriana4. Sulle

tracce delle rappresentazioni antiche a Torino, ci si dovrà pertanto addentrare nell’intrico dell’erratica stagione grandattoriale e, passando per varie modulazioni, registico-novecentesca del teatro italiano, non trascurando alcune manifestazioni legate all’attività scenica e pedagogica in ambito universitario.

Nella nostra relazione storica, i dati estrapolati dalle varie edizioni de «La Stampa» saranno incrociati e integrati, quando possibile, con le notizie desumibili da «L’Arte Drammatica» (il più importante periodico teatrale italiano fra il 1871 e il 1934) e altre riviste specializzate, come la torinese «Il Dramma», nonché con materiali rintracciabili presso il Centro Studi del Teatro Stabile di Torino.

2. Di fronte al tentativo di riportare, sulla «Gazzetta Piemontese» del 2 gennaio 1883, «il vecchio tema dei fratelli nemici», sviluppato ne I

Rantzau di Erckmann-Chatrian, nientemeno che ai Sette a Tebe di Eschilo

(oltre che ad autori del peso di Schiller e Oehlenschläger), ci si chiede 2 Un curioso indice di tale attenzione potrebbe essere considerato pure la ricorrenza di quesiti a sfondo classico che si riscontrava nelle prime popolari trasmissioni televisive come Lascia o raddoppia, a partire dal 1955.

3 L. Gedda, Teatro piemontese dell'Ottocento. Il maestro e la ballerina, Torino, Crut/Regione Piemonte, s.d., p. 31.

4 Vedi i repertori in G. Costetti, La Compagnia Reale Sarda e il teatro italiano dal 1821 al 1855, Milano, M. Kantorowicz, 1893.

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quale fiacca idea del tragico potesse avere il pubblico teatrale del tempo. Il critico, del resto, che di quel pubblico rispecchiava evidentemente i gusti, si affrettava a compiacersi che «il vecchio tema [fosse] quasi ringiovanito dall’averlo i due autori spogliato di quanto poteva ricordare in qualche modo l’antico procedimento tragico e l’averlo ridotto a proporzioni di un dramma borghese, comune, semplice, vero, ma non meno doloroso per questo». Sarà pure per tale equivoco scambio del tragico col doloroso e con l’elemento borghese, ma non si può proprio affermare che il padre della tragedia greca abbia goduto sulle scene piemontesi di una particolare fortuna nell’Ottocento.

Anzi, questo esordio ci indica subito che l’oscillazione di quel secolo fra un gonfio romanticismo e un tendenziale realismo (e talora filisteismo) scenico rendeva tutt'altro che facile l’approccio agli autori antichi, perpetuando in definitiva una diffidenza già settecentesca, bene espressa da Jean-Jacques Rousseau, nella sua Lettera a d’Alembert: «Chi dubita che sui nostri palcoscenici una tragedia di Sofocle sarebbe un totale insuccesso? Non saremmo capaci di metterci al posto di gente con una mentalità tanto diversa dalla nostra»5.

Spesso, negli articoli ottocenteschi che esamineremo, ritorna questo pregiudizio: il salto di «mentalità» dei moderni rispetto ai classici greci è troppo ardito. Negli anni Settanta-Ottanta dell'Ottocento, peraltro, Torino era visitata da compagnie importanti e contava ben undici sale (un quinto più o meno di quelle parigine), ma i giornali dovevano pure ammonire: «Il pubblico a teatro cerca soprattutto uno svago alle occupazioni diuturne e perciò vuol ridere e divertirsi»6. Insomma, se il classicismo era concepibile,

il teatro tragico classico era spesso destinato ad essere avvertito come singolarmente remoto, sicché di Eschilo, a Torino, al di là di qualche lettura accademica7, si ricordano giusto un paio di spettacoli di un certo

rilievo. Fra questi, il 2 ottobre 1906, la trilogia dell’Orestea al Teatro Vittorio Emanuele, con la grande attrice Giacinta Pezzana, nel ruolo di Clitennestra. Sull’«Arte Drammatica» del 6 ottobre, leggiamo:

Teatro semivuoto, ma non pertanto animato. Il pubblico era venuto colla persuasione d’annoiarsi – oramai esso teme le tragedie, come il diavolo l’acqua santa – invece, poco a poco si sentì affascinato dalla potenza eschiliana… […] L’esecuzione e la messa in scena furono degni di una compagnia di prim’ordine: certo che il mio elogio non è scevro da qualche biasimo. Con tutto il rispetto che ho per la Pezzana, confesso che nel primo atto non mi soddisfece e molto meno mi soddisfece Viotti (Egisto). Ma la Pezzana mi risollevò negli atti rimanenti, e l’esecuzione di Garavaglia, della Paoli, della Pieri, del D’Annunzio, fu diligentissima. Da parecchi anni non avevo riudito il Garavaglia: l’altra sera mi parve efficacissimo nella difficile parte d’Oreste; nella famosa scena finale del

5 J.-J. Rousseau, Opere, a cura di P. Rossi, 1972, p. 209.

6 Cit. in L. Tamburini, Il teatro: compagnie e copioni, in AA. VV., Storia di Torino. VII. Da capitale politica a capitale industriale (1864-1915), a cura di U. Levra, Torino, Einaudi, 2001, p. 981, che offre un esauriente quadro storico della situazione teatrale torinese fra il Risorgimento e la Prima Guerra Mondiale.

7 Arturo Graf, professore di Letteratura Italiana, nel 1879, tiene delle conferenze sul mito di Prometeo, mettendo in relazione comparativa il primo tragico con Calderón de la Barca.

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second’atto persuase e commosse il pubblico che lo volle, coi compagni, ripetutamente alla ribalta. E un applauso finale meritatissimo ebbe la Paoli, una Cassandra davvero invasata dalla furia profetica.

Le cronache teatrali ottocentesche (e non solo) vanno sempre trattate con estrema cautela e, come minimo, se possibile, confrontate. Domenico Lanza (d.l.), critico raffinato, su «La Stampa»8, il giorno 2, non aveva

trovato particolarmente felice la traduzione (e riduzione) di Cippico e Marroni dall’«andatura pedestre», così lontana dallo splendore del greco antico. Per Lanza, se manca la forza linguistica, sono almeno necessari «interpreti eccellenti e un allestimento scenico eccezionale», ché «il nostro senso estetico non si accontenta più della povertà antica». Purtroppo, la pur valente Giacinta Pezzana «ha recitato blandamente, fiaccamente un brano di commedia» e Garavaglia non è stato un Oreste efficace. Meglio la Pieri come Elettra ed Evelina Paoli, Cassandra furente, ma non sempre misurata. Quanto all’allestimento, si presentava «notevole per gli scenari», ma «meschino per le comparse».

Patetica, grandattoriale e pittorica, ma poco attenta alla concertazione degli elementi scenici e prona alle consuetudini teatrali, così affiora, sui giornali, la tragedia greca ripensata per il pubblico dell’epoca (verosimilmente non solo torinese). Ne avremo altre conferme nel corso della nostra ricognizione.

Il secondo rilevante evento eschileo cade l’11 giugno 1914, in relazione alla costruzione di un teatro all’aperto al Valentino per ospitare una rappresentazione che arriva dagli allestimenti classici di Siracusa, l’Agamennone della compagnia Mariani-Zampieri. La direzione dello spettacolo è del grecista Ettore Romagnoli, le scene del famoso Duilio Cambellotti; grande cura era stata profusa anche nella ricostruzione dei costumi, ispirati all’epoca micenea e disegnati dal pittore Bruno Puozzo. L’evento viene annunciato all’insegna dell’imponenza realistica, con la promessa di sfoggio di corifei, oltre che di bighe, cavalli e buoi. Si cerca di sfruttare il più possibile l’atmosfera del paesaggio nel quale è inserito il teatro ligneo, «accanto al Po» – leggiamo su «La Stampa» del 5 giugno – «in faccia al meraviglioso scenario dei colli».

L’articolo su «La Stampa» del 12 giugno, considera «con rispetto» l’iniziativa, ma non nasconde che la realizzazione e la partecipazione stessa del pubblico hanno sofferto di diversi problemi, non ultimi il maltempo e l’inquietudine che attanagliava Torino dopo «le dolorose vicende cittadine» ovvero gli scontri della cosiddetta «Settimana Rossa». Neppure la concezione dello spazio scenico, però, alla prova dei fatti, sembrava opportuna: «Un teatro all’aperto ha bisogno di elementi naturali, di sfondi e di aspetti speciali ed adatti, senza i quali cessa una delle fonti più ricche di suggestione e di illusione poetica e scenica…». L’anfiteatro torinese pareva per contro «rudimentale» e, nonostante cogliesse qualche squarcio di natura in prossimità del fiume, non poteva nascondere case, 8 Sulla figura di Lanza come critico, vedi anche G. Davico Bonino, Il teatro, in AA. VV., Storia di Torino. IX. Gli anni della repubblica, a cura di N. Tranfaglia, Torino, Einaudi, 1999, p. 577.

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fabbriche e ciminiere d’una città di decisa vocazione industriale. Insomma, il Piemonte come surrogato della Grecia o della Magna Grecia non riusciva proprio a ingannare9.

Ottimi comunque tutti gli interpreti, anche se il loro impegno non era assecondato dalla cattiva acustica del luogo, che rimandava le voci a eco. Buoni gli effetti della musica, mentre «il movimento della folla [avrebbe potuto] essere più ricco e ampio data anche l’ampiezza dello spettacolo all’aperto». In definitiva, soprattutto,

la viva grande adesione del pubblico allo spettacolo non è venuta. La tragedia non l’ha conquistato né lo poteva conquistare nonostante la buona volontà di coloro che l’hanno allestita e fatta rivivere nelle sue arcaiche espressioni. In un solo momento l’attenzione e l’impressione dell’uditorio parvero più profonde e fu allorché Clitennestra narra al popolo suo l’uccisione di Agamennone e la ragione della sua vendetta. La tragedia qui aleggiò vera, con un rapido soffio. Ma prima e dopo la finzione della rappresentazione non poté tradurre l’altezza della sua poesia o adattare le forme primordiali della sua arte al senso moderno degli ascoltatori.

Su «L’arte Drammatica» del 20 giugno, Guglielmo E. Ronca si sofferma lungamente sullo spettacolo, annunciando che «Torino ha essa pure un teatro all’aperto», ma considerando pure lui che «il valore della tragedia in rapporto alla sua virtù emotiva» sarebbe «quasi nullo per le generazioni moderne», ormai incapaci di orientarsi sulla partitura mitica del testo. Si conviene, tuttavia, che sia un dovere la «riesumazione» di certe opere d’arte e questa riesumazione «se non offerse un ambiente reale (perché troppo modesta la sceneggiatura) avvenne con grande serenità e con grande perizia da parte dei migliori che rappresentarono mirabilmente i personaggi Eschilei». La grande attrice Teresa Mariani (Clitennestra) fu «veramente tragica», annunciando la morte di Agamennone e «invasata» apparve la Cassandra della Berti-Masi, «maestoso» l’Agamennone di Tumiati e ottime anche le altre parti maschili.

Se l’ultimo Eschilo era comparso a Torino alla vigilia della Grande Guerra ritroviamo l’Orestea al Carignano, data dalla Compagnia Nazionale Guf, nel ’42, nel cuore del secondo conflitto mondiale. Lo spettacolo aveva debuttato al Teatro Manzoni di Milano, il 7 maggio: «… per la prima volta, l’Orestiade è stata rappresentata tutta intera ed in un teatro chiuso» («Il Dramma», n. 378, 1942). Ecco una fotografia di questa memorabile edizione tratta dall’Archivio del Teatro Stabile di Torino:

9 Senza contare che, anche attorno alla Grande Guerra, non era affatto scemata l’inclinazione del pubblico torinese per l’evasione e, nel gennaio del 1919, uno sferzante Gramsci osservava: «Il buon umore fa buon sangue e, tra la guerra e la febbre spagnuola, il buon umore e il buon sangue sono articoli che nei bazar trovano compratori in abbondanza» (A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Roma, Editori Riuniti, 1971, pp. 417-8).

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L’atmosfera di guerra dovette giovare al corrusco clima eschileo perché questa volta – come leggiamo su «La Stampa» del 20 maggio – si parla almeno di un successo cordiale. La trilogia, ridotta a una sola serata da Stefano Landi e Cesare Vico Ludovici, dava adito a «scene [che] si sono susseguite con equilibrata armonia», grazie alla regia di Giorgio Venturini, che poteva avvalersi delle scenografie di Aldo Calvo, «talvolta di rara suggestione». Punto di forza dello spettacolo, certo, i giovani e futuri grandi attori del teatro italiano che si allenavano proficuamente nei Guf: nomi come Maria Melato, Paola Borboni e Salvo Randone.

La memoria dell’Orestea peraltro era già stata ravvivata, in piena guerra (anzi, nei giorni dell’attacco a Pearl Harbor), il 6 dicembre 1941, in uno spettacolo per certi versi storico anche per la sprovincializzazione della scena italiana: Il lutto si addice ad Elettra di O’Neill, presentato al Carignano, dopo il debutto a Roma, al Teatro delle Arti, diretto da Anton Giulio Bragaglia, il 28 marzo, con interpreti Salvo Randone, Lola Braccini, Diana Torrieri e scene di Enrico Prampolini:

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Caricature di Onorato su «Il Dramma», n. 360, 1941.

Sul n. 360, «Il Dramma» aveva già pubblicato stralci della positivissima recensione di Alberto Savinio (p. 45), che sarebbe stata bilanciata da una successiva analisi più critica di Ermanno Contini (nn. 361-2, 1941) su quest’opera definita «cupa e massiccia, laica e disumana»: «Quello che manca in questa grandiosa tragedia non è certo la terribilità: ne troviamo anche troppa nel groviglio degli eventi che trascinano e travolgono i protagonisti. Manca piuttosto la pietà, la misericordia, l’amore» (pp. 14-5)10.

Sulla stessa linea, la recensione di Francesco Bernardelli (f.b.), su «La Stampa» del 7 dicembre, è piena rispetto nei confronti della lunga rappresentazione, seguita con interesse da un «magnifico pubblico» e caratterizzata da una «molteplicità dei quadri, grigi, ma accesi interiormente da una demoniaca intensità», controllata dal «coraggioso, sicuro regista Giulio Pacuvio»11 e servita da ottimi attori, fra i quali

spiccava Diana Torrieri. Il giudizio sul testo, però, appare molto più riservato: «Non c’è sfondo arcano, infinito: v’è un tetto basso, v’è la demenza, l’assassinio, la lussuria, non v’è l’agitasi dell’ala di un dio»; manca, insomma, «l’idea religiosa del fato così lontana dalla mentalità dei moderni». Nel Lutto si addice ad Elettra, si constata solo la «tristezza desolata, [la] solitudine dell’uomo moderno, senza Dei, né benigni, né avversi, né giustizieri» e, oltre a confrontarsi con personaggi che sono «soggetti da polizia criminale», manca «il grande ritmo di quegli antichi» 10 Lo stesso numero de «Il Dramma» pubblicava il testo di O’Neill nella traduzione di Adelchi Moltedo.

11 Specie negli anni Cinquanta, Pacuvio (pseudonimo di Giulio Puppo, 1910-1963) sarebbe stato un regista particolarmente attivo sui classici greci e romani.

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tragici greci.

Il lutto si addice ad Elettra ritornerà nel marzo del 1949 con la

compagnia Torrieri-Carraro, diretta dal Sabbatini. Tocca ancora a Bernardelli di recensire lo spettacolo su «La Stampa» dell’8 marzo, riprendendo quasi letteralmente spunti dal suo vecchio articolo. Se il critico salva decisamente, anche in questa occasione, la qualità dello spettacolo e degli attori, non riesce a nascondere la diffidenza nei confronti del testo: più Freud con le sue innominabili passioni segrete che Eschilo con la sua tensione etico-religiosa. «Questa tragedia moderna non è un poema, non è un canto; è un addensarsi di azioni amare e avvilenti, di impulsi corrotti, è una tristezza desolata, senza musiche, senza sogni. Sono uomini che non attendono il giustiziere, ma il clinico (o il letterato connivente). A questo argomento eschileo, è mancato Eschilo. Ed il resto è letteratura».

Solo una curiosità su temi eschilei, infine, fu il Protée, «farsa lirica» di Paul Claudel che arrivò al Teatro Romano di Torino, il 28 aprile 1959, dal Théâtre Poëtique de Paris, per la briosa regia di Serge Ligier, con le musiche di scena di Milhaud.

Qui sotto un fotogramma dello spettacolo, recuperato presso il Centro Studi del Teatro Stabile di Torino:

La trama dell’«operina», «gaia parentesi nell’austera produzione di Paul Claudel», è così riassunta su «La Nuova Stampa» del 29 aprile 1959:

… il Protée ci presenta un Menelao in casco e stivaletti e un’Elena con occhiali neri e ventaglio che, di ritorno da Troia, approdano all’isola di Nasso dove il vecchio Proteo tiene prigionieri i satiri e la ninfa Brindosier. Costei, fattasi passare con Menelao per la vera Elena, convince quest’ultima a cederle il posto rivelandole gli ultimi segreti della moda, e fugge con il credulo re di Sparta, scortata dai satiri che a Menelao sono apparsi con le sembianze di incantevoli ninfe. La vera Elena è rapita da Giove, mentre l’isola sprofonda nel mare in fondo al quale Proteo si consolerà con una terza Elena sinteticamente fabbricata.

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3. Nel periodo che interessa la nostra ricerca, Sofocle è presente, nel capoluogo piemontese, sostanzialmente con una sola opera, l’Edipo re, che può almeno esibire una fitta lista d’interpretazioni, a quanto ci consta, a partire dal giugno 1870, allorché la tragedia fu data al Circo Milano12.

«La Gazzetta Piemontese» del 15 giugno ci conferma la refrattarietà degli spettatori ottocenteschi ai classici, ricordando puntigliosamente che «Gustavo Modena ebbe l’alto pensiero di far rivivere sulle scene italiane Sofocle ed Euripide: egli solo, l’illustre artista, avrebbe potuto esser da tanto di attuare l’alto concetto; il pubblico, schivo da tali classiche produzioni, non accettò di rivivere per qualche sera fra le gloriose memorie artistiche della Grecia drammatica e preferì Alfieri a Sofocle». Ora la coppia Sterni-Galletti riuscì dove Modena aveva fallito, nonostante l’interpretazione non apparisse di livello omogeneo e la voce del suggeritore, leggermente cantante, sovrastasse gli attori.

Dopo questa proposta, coraggiosa ma modesta, si salta al Novecento e

L’Edipo re tenta decisamente i grandi attori: nel 1909, Gustavo Salvini; nel

1913, il francese Mounet-Sully. Nel 1924, è la volta dell’«esumazione» (corrente espressione giornalistica, quando sono in gioco rappresentazioni classiche) da parte di Annibale Ninchi. Se, però, leggiamo la recensione su «La Stampa» del 9 gennaio, l’interpretazione di questo pur notevole attore apparve modesta: «In un solo momento, quando ha la rivelazione della straziante verità, Ninchi entra nell’anima del personaggio; prima, e poi, sotto la tunica e la truccatura del Re Tebano si intravvede la persona e si sente l’accento di Neri della Cena [delle beffe]». Per di più, avendo alle spalle uno «scenario di nessuna illusione, costumi meschini, movimento di popolo talmente limitato da dare l’impressione di essere, non a Tebe, ma in un piccolo borgo, presso una stamberga e non davanti una reggia». La recensione trova sempre nuova la poesia di Sofocle e aggiunge ‒ assai singolarmente, ma in coerenza con il gusto del tempo ‒, che il testo prospetta «una concatenazione e un crescendo come nei drammi tipo Sardou e Bernstein». La scarsa impressione di questa rappresentazione torinese è sostanzialmente confermata anche da «L’Arte Drammatica» del 12 gennaio, dove leggiamo che, «nonostante la buona interpretazione data da Ninchi, è riuscita una cosa ristretta, essendo un lavoro che avrebbe dovuto avere più grandiosità»13.

12 Sito su cui in seguito sarà eretto il Teatro Gerbino.

13 Nel 1932, andrebbe menzionato (pur senza immediati riferimenti a Sofocle) anche l’Oedipe di André Gide, rappresentato finemente a Torino da una famosa coppia di artisti francesi Georges (Edipo) e Ludmilla Pitoëff (Antigone). Su «La Stampa» del 20 gennaio, Francesco Bernardelli ne evidenzia il carattere cerebrale e il tono «molto chic, molto snob», ma concede pure che, «ai margini assurdi del vaudeville e della tragedia [l’autore] procede sicuro su misure e proporzioni che ben possono dirsi classiche», anche se «il mito antico è pretesto a un’interpretazione radicale della libertà umana, della colpa, della salvezza spirituale, nei termini gidiani». In questo quadro, «si bilanciano le due condizioni di Edipo ignaro e di Edipo che sa: non si potrebbe dire verso quale delle due Gide propenda realmente». Infine: «Di teatro, come si dice, qui non si può affermare ve ne sia molto: si tratta piuttosto di una squisita esercitazione che su temi dialogici sfiora, dialetticamente e drammaticamente, profonde zone della vita e dello spirito».

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Nel marasma di quell’anno tragico per eccellenza che fu il 1945, il 12 aprile (a pochi giorni dalla Liberazione), spunta l’annuncio di un Edipo re della Compagnia 0.44, capitanata da Salvo Randone, al Carignano e, a tragedia storica compiuta, il 30 settembre, troviamo una recensione sull’Edipo interpretato da Renzo Ricci. Anche stavolta, però, l’esito (si suppone, tra l’altro, per le ristrettezze della guerra appena alle spalle) appare modesto e l’articolo denuncia un ulteriore limite, occasionalmente affiorato anche in altre recensioni: l’inadeguatezza dello spazio scenico all’italiana (siamo al Carignano) al fine di conferire rilievo e respiro alla tragedia greca. Così, ci

si raggela nel taglio di una ribalta, negli ori di un proscenio, nei ceroni e nelle voci di interpreti soliti a ben altri timbri. Unica giustificazione sarebbe forse la presenza di un grande, grandissimo attore, da seguire nell’eccezionale cimento. Renzo Ricci, regista e interprete, ha dato alla riesumazione ogni sua energia, ma i risultati sono apparsi in gran parte modesti. Si può indulgere al comparsame raccogliticcio, al coro bivocale su una predella, ad altri errori di rilievo o di gusto; ma è il tono complessivo e specialmente del protagonista, che doveva tentare di ammantarsi di un alone poetico, di uno stile.

Nell’ottobre del 1949, toccò a un altro mostro sacro, Annibale Ninchi, cimentarsi nell’Edipo, in una «serata d’onore», ma certo l’interpretazione più memorabile e meditata la si deve a Vittorio Gassman, nel 1960, all’Alfieri. Su «La Stampa» del 29 dicembre, Francesco Bernardelli osservava che «la tragedia delle tragedie» è stata affrontata da Gassman «con cavalleresca, generosa semplicità. Se esiste un tipo di “teatro popolare”, ossia genuino, nativo, tutto sincero, tutto vero, è ben questo»:

Con straordinaria prestanza fisica, magnifico di atteggiamenti, e sciolto e affabile, senza estetismi e sofisticazioni, egli ha detto quei grandi discorsi, li ha modellati con una specie di giovanile entusiasmo, con animo aperto e voce suadente o squillante. Non ha forse approfondito il mistero poetico di Edipo in tutte le intime strutture e sfumature […]. [Tuttavia, egli] è stato attore ardito e lucente, ci ha riportati a Sofocle, ha destato una commozione ampia e umana.

Immatura invece la Giocasta di Ilaria Occhini e almeno nobile il Creonte di Carlo D’Angelo; «eloquente con misura e patimento» il Tiresia di Giulio Girola. Lo spettacolo a Torino attirò un folto pubblico e, finalmente, si può leggere che si manifestò un’«attenzione colma di attesa» nel corso di tutta la rappresentazione.

Su «La Gazzetta del Popolo» dello stesso giorno, si lodava la fedele traduzione di Quasimodo e si affermava che Gassman aveva dato l’impressione di «un Edipo ineccepibile», stavolta «senza ricorrere ad una recitazione troppo marcata (difetto che gli fu riscontrato in una precedente edizione di Edipo re, quella che diede al Valle di Roma qualche anno fa)», anche se, occasionalmente, nei dialoghi, affiorava il mattatore. Comunque, «come interprete del teatro classico, dopo questa edizione torinese dell’Edipo, Gassman ha senza dubbio superato quei difetti che spesso la critica gli rimproverò: l’eccessiva passionalità in certi personaggi, la tendenza alla declamazione e una certa nostalgia per il gigantismo proprio della passata generazione teatrale».

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La seconda metà del Novecento mostra subito un’altra sensibilità verso i classici, che non sono più piegati a forza alle consuetudini, ai riti e agli stili scenici pressoché intoccabili del pubblico-cliente e dei grandi attori imperiosi, bensì interpretati e più armonizzati alle istanze di attenuazione retorica del momento. La stessa regia di Gassman si presentava «senza troppi effetti ma, viceversa, con un rigore ed una cura degni di plauso. Grandiosa la scena di Piero Zuffi (che ha anche ideato i costumi) e appropriate, se non originalissime, le musiche di Marinuzzi jr.».

E le altre grandi tragedie di Sofocle? Per il segmento temporale di cui ci occupiamo, possiamo solo menzionare, nel maggio del 1949, un’Antigone da camera, proposta dal Teatro dei Cento, con la traduzione di Camillo Sbarbaro e la regia di un giovane latinista appassionato di teatro, Vincenzo Ciaffi, nella Sala di Palazzo Carignano, e, forse di maggior momento, il 19 aprile 1951 al Teatro di Via Sacchi, l’Antigone nella rielaborazione però di Jean Anhouil, per la regia di Edoardo Maltese14.

Questa versione era stata realizzata nel 1944, ancora in una Francia sotto il tallone nazista e, su «La Nuova Stampa» del giorno 20, leggiamo che la tragedia, in tale luce, appare «suggestiva, è nobile, la contaminazione di antico e di moderno è fatta con abilità, incuriosisce e diverte: ma si tratta di un’opera sostanzialmente fredda… […] nuoce ad Antigone quel tono perennemente incerto tra il gioco ironico e il cupo dramma. Comunque, un lavoro inconsueto, suggestivo, da vedere». Edoardo Maltese (che interpretava anche Creonte) allestì l’opera con cura, «ritmo incalzante» e qualche inevitabile forzatura e frigidità stilistiche. Anna Bologna fu in compenso «un’Antigone veramente umana».

Infine, il 18 gennaio del 1952, arriva al Carignano, l’Elettra del Piccolo di Milano, con al regia di Giorgio Strehler e la traduzione di Salvatore Quasimodo. Ne scrive, su «La Nuova Stampa» del giorno 19, Francesco Bernardelli: «… la meravigliosa tragedia ha ritrovato per merito di questi interpreti, respiro, commozione, e quel suo incanto antico». Va da sé che la regia di uno spettacolo così lontano nei secoli implica sempre problemi insolubili (per esempio, l’utilizzo del coro) e che, in definitiva, anche questa rappresentazione «non è, non può essere che l’ombra, nobile e bella, del poema greco», ma ciò che conta, alla fine, è che «l’opera stupenda è venuta alla ribalta con una freschezza, un impeto, un’interior vigoria che ha conquistato il pubblico». Lilla Brignone era Elettra, capace di «contenere l’impetuoso fluire del sentimento in un equilibrio severo e puro; validi anche gli altri interpreti: Antonio Crast (Oreste), Lia Angeleri (Clitemnestra). La regia di Strehler parve «accorta, intelligente, densa di tragicità».

14 Il Teatro dei Cento («un piccolo teatro per testi difficili e rari»), animato da Vincenzo Ciaffi dal 1949 per tre spettacoli e quattro recite in due anni, e la più attiva Compagnia del Teatro di Via Sacchi, fondata nel 1951 e guidata dal napoletano Edoardo Maltese, con la moglie Anna Bologna prima attrice, erano gruppi di punta del rinnovamento del panorama teatrale torinese, prima dell'avvento di un Teatro Stabile nel 1955 (vedi G. Davico Bonino, Il teatro cit., p. 635 ss., nonché V. Santangelo, Le muse del popolo: storia dell’ARCI a Torino, Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 112-3).

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4. Curiosamente irrilevanti, nell’Ottocento, le rappresentazioni del più

borghese dei tragici, Euripide. Si comincia così nel XX secolo con Ippolito

(mai rappresentato a Torino e ridotto in tre atti) al Carignano, il 6 maggio 1908. Osserva Domenico Lanza che gli spettatori a 2300 anni di distanza, una volta tanto, restarono «avvinti» da una tragedia che pure, a suo parere, non è delle migliori di Euripide: «Pur dissentendo dal sistema di recitazione dell’interprete [Gustavo Salvini] io non posso non registrare con simpatia in questi tempi di moderne autentiche farse o di false tragedie, un tentativo che pone l’attore odierno al cimento con le prime basi superbe e venerabili del Teatro degli uomini civili». Concesso questo, il dissenso sull’interpretazione è piuttosto generalizzato: nonostante le sue indubbie qualità, infatti, il Salvini non riesce a rendere «un Teseo più semplice, più misurato, più profondamente espressivo» e resta appiattito sullo stile dell’antica scuola tragica del padre; a Ida Salvini (Fedra) fanno, invece, «difetto il tono, la misura, la semplicità della recitazione classica» e perlomeno discreto sarebbe l’Ippolito dell’Ulivieri.

Poi, ancora al Carignano, si salta addirittura al 1950 con uno pseudo-Euripide, La lunga notte di Medea di Corrado Alvaro, con la regia e, ancor più, la potente interpretazione di Tatiana Pavlova, nel ruolo protagonista «dalle intonazioni sorde, strane, barbariche» eppure umane. Ma quale il salto rispetto al modello greco?

… tutt’al più – scrive Bernardelli su «La Stampa» del 24 gennaio – si può notare una differenza, tra la remotissima opera euripidea e quella del nostro caro contemporaneo nella motivazione del delitto di Medea. Perché ha ucciso? […] Nella tragedia di Euripide Medea uccide i suoi bambini (di che razza di delinquenti è fatta la nostra cultura umanistica!) per vendicarsi dello sposo Giasone che sta per abbandonarla e convolare a nozze con la giovanissima figlia del re di Corinto; nella tragedia di Alvaro ella intende invece di salvare i figli dall’ira della folla corinzia.

La storia è semplice e più che nota. In Euripide, trageda psicologico, c’è soprattutto il disperato contrasto tra la tenerezza materna e la furia distruttrice, espresso in un monologo famoso; Seneca, che pur scrisse una Medea, accentua un certo aspetto magico e stregonesco di lei; ed anche Alvaro trae dalla misteriosa e quasi iettatrice aura delle prime scene, con quella luna che entra in casa tirata giù dal cielo a specchiare le cose che avvengono lontano, le cose che non si debbono sapere, trae un che di ansioso e truce ed enigmatico che pur riferendosi a superstizioni immemorabili è psicologicamente modernissimo.

La scrittura di Alvaro è «potente, raggrumata» non aliena da sfumature classiche.

Si trattava, comunque, di una delle messinscene più interessanti del periodo, già segnalata da E. Ferdinando Palmieri, su «Sipario», nn. 40-41 dell’agosto-settembre 1949, come «una tragedia vasta e compatta, incalzante e suggestiva. Per giunta uno spettacolo di prim’ordine», con scene e costumi di Giorgio De Chirico e musica di Ildebrando Pizzetti. Non stupisce così che, quando la vera Medea di Euripide apparve a Torino, in un testo «sfrondato e snellito», il 30 settembre dell’anno dopo, con la regia di Fantasio Piccoli, alla guida di giovani attori e protagonista Lalla Mauri, riscuotesse meno successo del suo remake. «La Stampa» del 2 ottobre osservava, infatti, che l’evento scenico, «pur con squilibri e ingenuità, […]

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lindo, decoroso», sebbene occasionalmente troppo enfatico, ebbe a Torino accoglienza assai fredda e fu disertato dagli «spettatori di tutte le sere, quelli che esigono uno spettacolo facile divertente digestivo».

5. Nel panorama teatrale dell’Ottocento torinese, Aristofane appare più che altro menzionato per una sua presunta influenza su drammaturghi come Cavallotti, Sardou (già messo in relazione con i tragici greci, come del resto capitava a Erckmann-Chatrian o a D’Annunzio), Donnay ecc.; una percezione critica che la dice lunga sulla visione alquanto generica della vis polemica che il secondo Ottocento, sino ai primi del Novecento, poteva avere della commedia antica.

Sotto il profilo storico, resta comunque interessante, il 27 giugno del 1898, la messinscena del Pluto da parte di Luigi Rasi al Carignano. Lo spettacolo proveniva da Firenze, dove una compagnia di studenti l’aveva recitato con successo al Politeama. Il 27 giugno, Giuseppe C. Molineri15

presentava Aristofane nel quadro delle «esumazioni archeologiche», tentate negli ultimi decenni – vedremo più in là – a Torino, con Menandro, soprattutto Plauto e le commedie del Cinquecento. Aristofane, rispetto a questo repertorio, presentava una difficoltà in più: la sua «grande arte si spense con lui» e, infatti, la commedia moderna derivava largamente dai latini e prima da Menandro, mentre la linea aristofanesca era stata poco seguita, con le eccezioni di Racine e di Alfieri e, in epoca moderna, dal solito Sardou, in alcune scene di Rabagas. Per di più, i testi di Aristofane dovevano essere depurati dalle molte scurrilità, ma «per fortuna», nel

Pluto, ce n’erano di meno e potevano essere rimosse senza troppi

problemi.

Le speranze per un felice esito torinese dello spettacolo proposto coraggiosamente dal Rasi naufragavano nella recensione del 28 giugno. La rappresentazione era stata «encomiabile» e «scenari e costumi appropriati»: «Gli attori sotto le maschere del Dio, del vecchio dabbene, del servo, di tutti, fecero quanto poterono; ma a nessuno degli spettatori io penso, balenò viva l’immagine delle rappresentazioni ateniesi, e, penso di più, che la satira, i frizzi, gli attici sali che cospargevano il dialogo siano stati vani per gli uni, sciupati per gli altri». Insomma, ancora una volta, era troppa la distanza che separava Aristofane dai moderni e, a conferma di ciò, si può menzionare una notazione marginale: «Prima del Pluto, la signorina Tilde Teldi recitò molto graziosamente un prologo in martelliani. Ah! I martelliani prima del Pluto! L’idea già altre volte messa in atto, non mi è mai parsa felice».

Venendo al XX secolo, nel novembre del 1903, al Teatro Alfieri, troviamo Lisistrata, ma rifatta (nel 1893) da un autore di cassetta come Maurice Donnay (1859-1945). Con questa «parigina aristofanesca commedia» non è tenero Domenico Lanza su «La Stampa» del giorno 22. Lo spettacolo, nel quale recitava Virginia Reiter, del resto, aveva sofferto 15 Su questa figura di «libero professore di critica letteraria all’Università» e drammaturgo, v. G. Drovetti, Storia del teatro piemontese, Torino, Lorenzo Battero, 1956, p. 178.

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assai dell’alternanza di applausi e di fischi da parte del folto, ma turbolento pubblico: «Se avessero recitato la Lisistrata di Aristofane le cose non sarebbero andate meglio; credo anzi che si sarebbero avviate alla peggio dal momento che duemilatrecento e più anni fa la greca commedia ebbe, come devo dire?, la virtù di scandalizzare gli uditori ateniesi e della Grecia tutta».

Dov’è invece lo scandalo a tanti secoli di distanza? Sebbene, in Donnay, di Aristofane resti solo «il fondo, la situazione» rielaborata da autentico «uomo di spirito», si perde, in ogni caso, il «significato politico» che lo sciopero del sesso di Lisistrata poteva avere durante le guerre che insanguinavano la Grecia. Tutto ciò «si presenta a noi ormai col puro semplice significato di una lega erotica di un’esposizione di situazioni scabrose o una filza di motti licenziosi, di doppi sensi, di sospensioni e di allusioni equivoche quando pur già non sono molto chiare e spiegate». All’epoca, questo genere di teatro non era consentito a Donnay, ma neppure allo stesso Aristofane.

Non fu eccezionale peraltro la fortuna torinese di Aristofane, per il segmento da noi indagato, se, segnatamente nel 1959, si deve registrare la sua resurrezione ‒ molto indiretta e assai libera ‒ grazie a Un trapezio

per Lisistrata, la popolare commedia musicale di Garinei e Giovannini al

Teatro Alfieri.

6. Se la fortuna di Aristofane è quella che abbiamo visto, può stupire, di contro, trovare nel nostro repertorio un Menandro con Fasma (o

L’apparizione).

In realtà, si tratta di uno pseudo-Menandro, tratto o, meglio, «interpretato» (come leggiamo sul frontespizio dell’edizione del 1863) dal patriota Francesco Dall’Ongaro (1808-1873), partendo cioè dall’«argomento come ce l’ha trasmesso Elio Donato ne’ suoi commenti a Terenzio» di una commedia menandrea16.

«Fasma è il titolo d’una commedia di Menandro, nella quale una donna sposata in seconde nozze [Diotima] ad un tale [Fedone, cittadino di Corinto] che aveva già un figlio adolescente [Glauco] da un primo letto, teneva nella casa attigua alla propria una sua figliuola naturale [Febe], e avea trovato modo di vederla sovente senza saputa del marito né d’altri. Avea perforato nascostamente il muro di communicazione fra le due case, e, disposta a mo’ d’Oratorio quella delle sue stanze dove si apriva la porta secreta, ne celava accortamente l’apertura con fiori e fronde votive; e così, col pretesto di celebrare i suoi riti sacri, chiamava a sé la figliuola, e conversava con lei.

Il giovanetto suo figliastro vide a caso la vergine, e sorpreso all’aspetto di tanta bellezza, ne restò sbigottito come alla vista di una apparizione soprannaturale. Di qui il nome della commedia. Ma poi, conosciuta a poco a poco la verità, il giovane arse di sì forte amore per la fanciulla, che non v’ebbe alcun rimedio a guarirlo che dargliela in moglie. Così con gran piacere della madre e dell’amante, e col consenso del padre di questi furono fatte le nozze, colle quali ha termine la commedia»17.

16 F. Dall’Ongaro, Fasma, Milano, Daelli, 1863, p. XXI. 17 Ivi, pp. XXI-XXII.

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Trattandosi effettivamente di poco, c’era il rischio «d’aver osato rifare Menandro, con ingegno impari all’ardire. Se avverrà mai che si scopra la vera Fasma di Menandro, brucieremo in espiazione la nostra»18. Così ci

spiega l’audace autore, nel Cenno storico-critico da cui fa precedere l’opera, precisando altresì che il suo lavoro si fondava sulle «dotte investigazioni di Meineke»19, anche se, alla fine, Menandro veniva

concepito, all’eccentrica maniera ottocentesca, come colui che «fece in Atene ciò che Goldoni [ha fatto] a Venezia»20.

Pare che Dall’Ongaro avesse una vera passione per la commedia nuova e, infatti, sempre da un sunto rintracciato in Elio Donato e da «alcuni frammenti dell’antica Commedia, conservatici dagli scoliasti» e addirittura inseriti con devozione «in carattere corsivo» nel testo, aveva tratto un altro copione pseudomenandreo, Il tesoro21. I due lavori erano

stati sottoposti al grande attore Tommaso Salvini, cui l’autore scriveva, il 26 settembre 1863:

Il tuo giudizio intorno alla mia Fasma, mi è di sommo conforto; e le tue parole: “è nostro dovere tentare e tenteremo” non saranno dimenticate nella storia dell’arte. Essa saranno la nostra divisa, e vinceremo.

[…] Già prima di scrivere la Fasma, avevo sceneggiato Il tesoro a cui mi inviti a pensare. Per poco che la prima incontri, do mano alla seconda, e potrai tentarla a Firenze. È una commedia più sostanziosa e più varia: e il protagonista sarà tagliato sul tuo dosso.

Il 22 ottobre, Dall’Ongaro ringraziava Salvini per avere accettato, nella prima commedia, la parte di Fedone e già pensava alla messinscena:

Non ho alcun dubbio sull’esito, perché tu sei attore tale da saper rendere la celia faceta ed attica che è il sale di quel tipo. È in sostanza il burbero greco, ma scettico e fatalista; che non vuol essere sopraffatto, e quando si accorge che lo è, si acconcia di buona grazia al destino, e trova una buona ragione per giustificarsi.

[…] Non so come farai per far vedere la luna. Bisognerebbe far cadere sulla statua e su Febe, quando Glauco la vede, uno sprazzo di luce elettrica. Ma forse a Trieste non c’è apparato elettrico mobile; allora bisognerà lasciare la scena molto scura, e giovarsi di un becco di gaz, con un vetro verde.

18 Ivi, p. XXII.

19 Ivi, p. IX. Augustus Meineke (1790-1870), filologo tedesco, è curatore di un’accreditata raccolta di frammenti menandrei.

20 Ivi, p. XII.

21 P. Dall’Ongaro, Il tesoro. Commedia da alcuni frammenti di Menandro, Napoli, Stabilimento Tipografico dell’Italia, 1864, pp. 1-2.

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Illustrazione dell’edizione originale di Fasma, relativa all’atto II, scena 5. Nonostante i curiosi problemi d’illuminotecnica, il falso menandreo presentato da Salvini ebbe successo a Trieste e a Firenze22. Fasma passò

da Torino nei primi mesi del 186423; Tommaso Salvini l’avrebbe riproposta

al Teatro Gerbino nel dicembre del 1868. In merito, sulla «Gazzetta Piemontese», leggiamo questa nota (un po’ confusa):

Non è più una novità, ma ad ogni modo il nostro pubblico, che ieri non accorse numeroso a udir l’unica tragedia [sic!] di Menandro che ancor ci resti, salvo i pochi frammenti d’altri lavori, non fece certo il proprio interesse. Il Dall’Ongaro ha saputo ridurre la greca semplicità e, più che tutto, conservarla nel nostro idioma con tanta verità e con tanto senno che ieri noi stavamo pensando se altri capolavori greci non potessero farsi udir al pubblico e più che tutti, al pari, del Fasma, farsi applaudire.

Per esempio le commedie di Aristofane ed in ispecie quelle del secondo suo genere, purgate e ridotte non sarebbero per pubblico un divertimento e più che tutte un vero insegnamento?

«La Stampa-Gazzetta Piemontese» del 9 luglio 1899 ci conferma che il curioso copione era ancora nel repertorio di un altro grande attore, Ermete Novelli (che riesce a rappresentarlo comunque con qualche difficoltà) e che era un testo che aveva interessato persino la Ristori, che «vi interpretò qualche volta il personaggio di Diotima, e alcuno se la ricorda al nostro Carignano».

7. La fortuna scenica dei Dialoghi di Platone, per il periodo e l’area di nostra competenza, è un fenomeno soprattutto legato alla fervida vecchiaia artistica del grande attore Ermete Zacconi. Il progetto, di cui si comincia a parlare sui giornali torinesi nel 1936-37, quando Zacconi è 22 C. Salvini, Tommaso Salvini nella storia del teatro italiano e nella vita del suo tempo, Bologna, Cappelli, 1955, p. 217 ss.

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ottuagenario, aveva avuto una gestazione di decenni e si manifestava sostenuto da una precisa volontà dell’artista drammatico: «Non voglio lasciare le scene senza aver dato realizzazione ad un mio vecchio tenace proposito, quello di rappresentare il Fedone di Platone» («La Stampa Sera», 14 settembre 1936)24.

Il 10 aprile 1938, «La Stampa» dà ampio rilievo alla presentazione del

Critone e del Fedone come «azione drammatica in due atti», ridotta dallo

stesso Zacconi, al Teatro delle Arti di Roma, di fronte ai ministri Bottai, Alfieri e a molti esponenti dell'Accademia d’Italia25. Si parla di vivo

successo e di commozione per un’interpretazione di «potenza evocativa», «senza fronzoli, senza rimbombi», che, pur «dopo venti secoli di civiltà cristiana», riporta a un Platone in sintonia con la sensibilità contemporanea.

Nel maggio del 1939, «il Critone ovvero quel che si dee fare, il Fedone ovvero dell’immortalità dell’anima» arrivano al Carignano («La Stampa Sera», 13 maggio 1939). L’attenzione è alta e, il 9 maggio 1939, si pubblica, con rilievo, una fotografia dell’ottantaduenne Zacconi nel ruolo di Socrate, in Fedone e Critone. «L’illustre attore» – si ricorda – «sarà venerdì al Carignano di Torino».

L’evento sollecita altri interessi critici e, in un articolo di Corrado Alvaro, su «La Stampa» del 6 luglio 1939, si esprimeva gratitudine a Zacconi per questa operazione artistica, che legava sottilmente il mondo socratico alla sensibilità cristiana. Il 14 gennaio 1940, Mario Gromo (m.g.) recensirà con rispetto anche il film che Corrado D’Errico ha tratto dal lavoro di Zacconi con il titolo Processo e morte di Socrate, che collega Apologia di Socrate a

Critone e Fedone. Il critico concede che l'interpretazione zacconiana sia

«memorabile» e l’attore «incomparabilmente attento a colorirne ogni sfumatura», il film però resta divulgativo e subordinato all’evento teatrale: «il cinema qui rinuncia a essere cinema»26.

24 In questo articolo, si ricorda che, in passato, nel vasto e curioso repertorio zacconiano, c’erano stati addirittura i mimi di Eroda.

25 Un articolo della «Stampa Sera» del 20 giugno 1939 c’informa che Zacconi, al Quirino, sarebbe stato applaudito dallo stesso Mussolini e, il 4 luglio 1939, che, per celebrare la rappresentazione, era stata addirittura coniata una medaglia dello scultore Armando Giuffredi.

26 È peraltro noto che lo stesso Zacconi, pur riconoscendo al cinema un profilo artistico, dichiarava di preferire l’esperienza teatrale, in quanto consentiva di «vivere un personaggio secondo una completa sequenza di episodi tenuti insieme da una “curva” narrativa» (cfr. «Stampa Sera» del 20 giugno 1939).

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Ermete Zacconi come Socrate in un fotogramma del film di D’Errico.

La riflessione di Alvaro che tende a collegare il Platone zacconiano al cristianesimo, informa pure l'articolo di Francesco Bernardelli, allorché l’attore ritorna al Carignano, nell’aprile del 1940, con la sua Apologia di

Socrate.

Infatti, secondo il critico de «La Stampa», il Socrate di Zacconi asseconda l’immagine di un personaggio che «non esce mai da una sorta di soave e dolce malinconia, da una delicatezza di carità, che ben potrebbe dirsi cristiana» ovvero tutta concentrata sull’attesa di una «promessa del bene», che diventa il «momento drammatico dello stupendo poema». Zacconi sviluppa il personaggio all’insegna di una «letizia austera» e «nel ridurre ad azione drammatica le pagine di Platone – ed erano in scena l’Arconte Re, gli accusatori Meleto, Anito, Licone, i giudici, la folla – e nell’interpretarle, si è attenuto con mirabile aderenza a ciò che in esse è veramente immortale: singolarità più che umana, e così umana, di un ricercatore di Dio»27.

8. Se Seneca tragico e Terenzio, a Torino, hanno addirittura meno fortuna di Menandro e, nel 1875, il commediografo latino viene giusto menzionato perché la sua Andria pare il modello del Trionfo d’amore di Giacosa, di Plauto, a partire dal 1867, abbiamo invece varie notizie di letture studentesche in latino, nonché di allestimenti, sempre in ambito universitario, con scene e costumi arieggianti l’antichità. Si tratta di un fenomeno che muove un pubblico vivace e interessato, tanto da far parlare di un «Plauto redivivo».

La notevole sequenza torinese di spettacoli accademici plautini è precorsa a Napoli, nel 1875, da I captivi, e l’evento appare così significativo a livello nazionale – sia per la recitazione in latino da parte degli studenti universitari, capitanati dal prof. Mirabelli, sia per il tentativo di ricostruzione delle «vesti greche secondo che richiede il soggetto» – che la notizia rimbalza con evidenza su «La Gazzetta Piemontese» del 19 aprile. Il foglio precisa che Mirabelli sarebbe l’«iniziatore di questo erudito e civile spettacolo»28 – sostenuto dall’Università locale, ma anche dal

ministro napoletano Ruggiero Bonghi – «che ci par nuovo in Italia in questo secolo (non sarebbe nuovo ad Oxford né a Berlino)».

Torino non voleva essere da meno e, sulla scia di Napoli, dopo aver rappresentato con un certo interesse commedie rinascimentali, nel marzo del 1887, gli studenti della sua Università tentarono «l’impresa ardita ed arrischiata» di allestire Trinummus di Plauto al Teatro Scribe.

«La Gazzetta Piemontese» dà conto dei preparativi in un lungo articolo sin dal 20 gennaio, individuando in questo genere d’iniziative giovanili un impulso affinché «la nostra patria giunga finalmente a sollevarsi alquanto 27 Dopo L'apologia, Zacconi attingeva una «stupenda bellezza interpretativa» nel Fedone, che, come sappiamo, aveva già presentato a Torino insieme al Critone.

28 Il prelato Antonio Mirabelli (1812-1883) era professore di Letteratura Latina all’Università di Napoli.

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dalla bassura intellettuale nella quale è caduta», ponendosi cioè fuori dall’orbita – era auspicio di Giuseppe C. Molineri – della cultura e del naturalismo francesi. Ciò offriva l’opportunità per aprire un discorso sulla (tradizionale, diremmo) scarsa attenzione dei nostri governi nei confronti dell’istruzione superiore; all’estero, già Schlegel aveva parlato di un allestimento terenziano a Weimar, diretto da Goethe, ma, nel 1844, a Berlino, gli studenti universitari avevano perpetuato questa resurrezione dell’antico, in una chiave squisitamente archeologica, con i Captivi di Plauto, gli intermezzi appositamente musicati su odi di Orazio da Meyerbeer e soprattutto l’incondizionato appoggio del governo prussiano.

Torino ora costituisce un Comitato per questa iniziativa plautina, presieduto da un senatore latinista, Tommaso Vallauri29, mentre la parte

operativa resta affidata al prof. Ettore Stampini30, che parallelamente

comincia a preparare il pubblico con una serie di lezioni sul Trinummus in vista della rappresentazione. L’impegno di recitare in latino implicava una serie di ulteriori operazioni didattiche: approntare (come si era fatto a Napoli) un'edizione con testo a fronte e una conferenza introduttiva, anche se – almeno secondo l’ottimista Molineri – la lingua plautina era così popolare e l’azione così vivace che una certa comprensione degli eventi scenici non sarebbe dovuta sfuggire del tutto persino al pubblico meno colto. In questo senso, considerata l’abitudine di tale pubblico alle maschere carnevalesche della Commedia dell’Arte, si consigliava agli attori l’uso quantomeno di «una mezza maschera, che avvolgesse il capo, lasciando libera la bocca e la parte inferiore del volto». Si trattava di un accorgimento inscindibile da questo genere di spettacolo e anche a Weimar ci si era adeguati a tale criterio espressivo. Sullo sfondo di tanto entusiasmo e fervore, però, restava la consapevolezza che il teatro antico non poteva più essere riportato alle sue esatte convenzioni: si poteva tentare giusto «l’esumazione di un pezzo archeologico» per «un pubblico ristretto», restituendo comunque nuova vita ad autori, spesso solo avvertiti come «strumenti di tortura» scolastica.

La recensione dello spettacolo, dato allo Scribe, che sarà sostenuto anche in questo caso dal Ministero, si può leggere su «La Gazzetta Piemontese» del 16 marzo 1887: «Fu un trionfo!», attacca Molineri, che aveva collaborato alla rappresentazione. Certo la cornice restava largamente scolastica e le convenzioni venivano immancabilmente rispettate: dopo una lezione introduttiva di quasi un’ora del prof. Stampini, arrivava l’inevitabile prologo in martelliani recitato da «una cara speranza dell’arte», la signorina B. Guglielminetti, allieva del cav. Bassi e in odore di assunzione nell’illustre compagnia di Virginia Marini; oleografica, didattica e «di bell’effetto» era la scenografia «del pittore A. Bosio, rappresentante una via di Atene, collo sfondo dell’Acropoli, il Partenone e la statua di Minerva, che dominava la città; ricchi, corrispondenti all’esattezza storica, i vestiari allestiti dalla sartoria teatrale Magnani».

La chiave del successo di questo genere di spettacoli, s’intuisce, era in 29 Fu anche critico e letterato di una certa fama (1805-1897).

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particolare la condivisione del latino come koinè aggregante la ristretta élite di un predominante «elemento giovanile» presente in sala e proveniente dall’università ai principali licei cittadini, il «Gioberti» e il «D’Azeglio»; probabilmente, all’epoca, l’unico pubblico trainante per le rappresentazioni dei classici. Del resto, i giovani attori «parlavano il latino come lingua propria, si muovevano, gestivano come artisti». Leggiamo infine che «il punto culminante del successo fu alla fine del quarto atto, il migliore per vis comica; dopo le scene magistrali del Sicofante e di Stasimo, lo schiavo ubbriaco divenuto moralista e laudator temporis acti per l’azione di qualche bicchiere di vino caldo, il pubblico non si stancava di battere le mani…».

Stichus di Plauto fu ancora rappresentato dagli studenti universitari ai

primi del 1893, al Teatro Vittorio Emanuele, questa volta in italiano. La cronaca del 31 gennaio, su «La Gazzetta Piemontese», illustra la vivace cornice accademica dello spettacolo, curato dal prof. Cognetti De Martiis31,

ma diretto nei fatti da Valentino Carrera32, che lesse un prologo nel quale,

all’insegna dell’originalità e della secolare eccellenza del teatro italiano, si collegava, come prevedibile, Plauto a Goldoni. Per il resto, la recensione loda lo sforzo dell’adattamento di Cognetti di avvicinarsi alla comprensione del pubblico dell’epoca, quantunque qualche taglio e il dilettantismo degli attori potesse rendere un po’ oscura la rappresentazione, sostenuta almeno da tre allieve della scuola della signora Malfatti. Al termine, fu replicato il ballo Libertas.

Queste rappresentazioni accademiche plautine culminano, nel marzo del 1894, in occasione del Congresso Universitario, con il Miles gloriosus ovvero Il militare fanfarone, allestito al Carignano, affollatissimo e onorato dalla presenza della Duchessa d’Aosta. Il testo era tradotto in versi sempre dal Cognetti De Martiis, ma presentato sotto la direzione del cav. D. Bassi. Il prologo – secondo la cronaca de «La Gazzetta Piemontese» del 16 marzo – fu recitato dal senatore Desiderato Chiaves33, che, tra

l’altro, giustificò spiritosamente la traduzione al posto dell’originale anche con la presenza in sala del «gentil sesso» (che si dava per scontato meno istruito)34. D’altra parte, gli interpreti di estrazione studentesca erano tutti

maschi, coadiuvati, per le parti femminili, dalle allieve della scuola di recitazione del citato cav. Bassi: «L’esito della rappresentazione fu ottimo».

L’atmosfera di questi spettacoli giovanili, oltre che ineluttabilmente esuberante e festosa, non mancava di elementi goliardici (due studenti en 31 Salvatore Cognetti De Martiis (1844-1901) era autorevole professore di Economia a Torino dal 1878, ma pure dedito anche alle traduzioni e agli studi su Plauto, attraverso il quale esercitava ricerche specialistiche sull’economia antica. Le sue versioni plautine (1891, 1906) godettero della prefazione di Carducci.

32 Uno dei più noti drammaturghi piemontesi (1834-1895).

33 Drammaturgo e noto avvocato e patriota (1825-1895); cfr. ancora G. Drovetti, Storia del teatro piemontese cit., pp. 180-1.

34 Anche in occasione della messinscena plautina del Trinummus, su «La Gazzetta Piemontese» del 16 marzo 1887, si era reputata degna di particolare menzione la presenza di «forse una cinquantina di signore».

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travesti fingevano, infatti, tra il pubblico, il ruolo di procaci disponibili

fioraie), ma in particolare ‒ s’è già accennato ‒ mantenevano tutto un corredo di convenzioni e usi collaterali che lo spettacolo moderno ha smarrito. In questo caso, gli intermezzi musicali suonati dalla banda del 62º reggimento; i prologhi e i monologhi celebrativi (Plauto redivivo a

Torino s’intitolava quello scritto da prof. Cognetti e recitato da Ferruccio

Benini della Compagnia Goldoniana); gli acrostici nei programmi di sala, come il seguente (riportato sulla «Gazzetta Piemontese» del 16 marzo 1894), che tentava di restituire a suo modo il nocciolo del testo classico:

Se le rappresentazioni di carattere accademico scalfiscono appena la percezione ottocentesca del classico concepito prevalentemente in un’ottica scolastica, quando non archeologica, che non intacca comunque la sostanza del repertorio commerciale o d’attualità che dir si voglia, non mancano, per Plauto, ovviamente, neppure le consuete rappresentazioni professionali.

Anche in questi casi, si può affermare che il nome di Plauto corrisponda pressoché a due-tre titoli o forse a uno solo giacché decisamente (e pure stranamente) di non alto profilo appaiono le rappresentazioni sia de I

quattro simili (verosimilmente i Menecmi), dati al Teatro San Martiniano

nel dicembre del 1867 e seguiti da un famoso balletto (Le pillole del

diavolo di Luigi Astolfi), sia del solito Miles gloriosus. Infatti, Il soldato millantatore lo ritroviamo, al Teatro Balbo, il 30 marzo 1892 nella serata

d’onore del «brillante» della Compagnia Dominici, Antonio Bozzo, che – ci testimonia «L'Arte Drammatica» del 2 aprile 1892 – avvenne in una sala cordiale, ma (essendo fuori dell’ambito studentesco) non particolarmente affollata. La beneficiata incastonava Plauto in uno strano trittico, comprendente pure Il marito della vedova e La strega bianca e la strega

nera, rispettivamente di Alexandre Dumas père e August von Kotzebue.

Nel novembre 1919, il Miles Gloriosus riappare al Carignano, nell’adattamento di Gallieno Sinimberghi, con la Compagnia Eclettica, a cura di un attore di tradizione, comunque attento a un repertorio di

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classici, come Giuseppe Sterni (1883-1952), che avrebbe fatto fortuna in America. Lo recensisce Antonio Gramsci, che, affilato, mostra tutti i limiti delle rielaborazioni dei classici delle compagnie di giro, pur formate da buoni talenti buffoneschi:

Di Plauto, in questo adattamento, rimane nulla. Perché di Plauto, nella commedia latina, era il linguaggio, l’espressione particolare del dialogo, la ricchezza del dialogo popolaresco: tutto ciò che nell’adattamento è precisamente svanito. Il dialogo, come espressione del particolare, come varietà individuale, è pessimo in questo adattamento. La scoloritura comincia nella traduzione del titolo: gloriosus (millantatore, spaccone) viene reso con “vanaglorioso”. Si può immaginare la truculenza iperbolica di Pirgopolimice rappresentata come una “vanagloria” da studentello? Si può immaginare un tipo da commedia, che ha generato Falstaff e il capitan Fracassa e l’Ammazzasette (Pirgopolinice ne ammazza settemila in un giorno) qualificato come un “vanaglorioso”? La commedia è tutta “ridotta” in tal modo35.

Più consistente invece la storia scenica dell’Aulularia, che rintracciamo già nel 1876, il 20 dicembre, al Teatro Gerbino, come La pentola del

tesoro, interpretata dal capocomico Gaspare Lavaggi, nel corso di una beneficiata. «L’Arte Drammatica» del 30 dicembre si spinge a parlare, in

questo caso, addirittura di «grande avvenimento teatrale» e, una volta di più, di autentica «resurrezione» di un classico, per dilungarsi poi in un ritratto (invero piuttosto superficiale) di Plauto, che conferma in definitiva la netta impressione che si trattava di un autore avvertito come eccezionale sulle scene commerciali dell’epoca. In questo contesto, l’Aulularia viene giudicata tra le opere meno riuscite tra quelle in cui Plauto ha toccato il tema dell’avarizia e, con una comparazione al solito prospetticamente rovesciata, certo inferiore all’approccio di Molière al tema. L’articolo si sofferma anche sulla traduzione di V. Trambusti, che, «non potendo ritrarre la forma Plautina, non abbellì niente affatto il lavoro, ma ne lasciò a modo i difetti di composizione». Interessante la notazione sociologica relativa al pubblico: oltre ai soliti «habitues [sic!] erano convenuti, come a una lezione di letteratura antica, e professori, e studenti, e… e persino un bidello della seconda Università!». L’esito positivo della commedia plautina ‒ al di là della conferma di una sua preferibile fruizione scolastica ‒ spinge il critico a un’invocazione (che vieppiù certifica la difficile circolazione dei classici sulle scene ottocentesche): «… risusciti adunque il teatro latino, la fonte prima a cui il moderno ha attinto».

Il 25 ottobre 1886, l’Aulularia torna al Teatro Carignano, nell’interpretazione di Zorri della Compagnia Bonetti-Valvassura-Zorri, abbinando Plauto a Goldoni e Molière, in una impegnativa sequela di nove atti complessivi. L’Aulularia – a detta de «La Gazzetta Piemontese» del 26 ottobre – era ormai pronta per essere recepita nel maturo clima positivistico di quegli anni per la sua «freschezza quasi goldoniana ed un verismo quasi zoliano». In questa cornice, il protagonista della commedia si stagliava come un lombrosiano «mattoide pauroso e furioso», che, forse per questa sua marcata contemporaneità (ma, in queste recensioni, non si sa mai cosa appartenga all’attore e cosa al critico), riusciva a interessare il

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pubblico a un classico per altri versi remoto.

Il 10 giugno 1901, è il grande attore Ermete Novelli a riproporre l’Aulularia al Teatro Alfieri, in «tre atti, non separati da calar di sipario» e «con sapienti indovinatissimi tagli». «La Stampa-Gazzetta Piemontese» dell’11 giugno ne ricorda le occasionali riprese del passato, ma anche l’indubbia vitalità, pur ammettendo che non riusciva ad attirare il grande pubblico. La recensione loda, tuttavia, l’interpretazione di Novelli («Euclione mirabile»), ma anche l’allestimento dello spettacolo, che, s’intuisce, doveva essere particolarmente vivace in certe scene, come quelle «degli schiavi che portano a Euclione le provviste per le nozze della figlia sua con Megadoro» o di Euclione che «interroga e fruga lo schiavo che gli ha rubato la pentola».

La commedia tornerà al Carignano, con Novelli, ancora nell’ottobre del 1911.

9. Nel nostro catalogo, ci siamo giusto limitati ad alcuni cenni e davvero una ricerca a parte meriterebbe il contributo della musica al mantenimento della memoria dei classici. Anche a Torino, a prescindere dall’Elettra di Richard Strauss, al Regio nel 1930, una particolare importanza riveste, per esempio, l’esecuzione delle musiche di scena che Ildebrando Pizzetti dedica ai tragici greci (si veda in merito l’interessante recensione di Andrea della Corte (a.d.c.), su «La Nuova Stampa» del 12 marzo 1955), ma anche di altri maestri minori. Talora, si ha addirittura l’impressione che il melodramma o questa musica da concerto, non di rado ripresa, serbino lo spirito classico più di certi affannati spettacoli cosiddetti di prosa, infettati dal gigantismo attoriale a lungo imperante sulle scene italiane.

Di contro, possiamo affermare che la regia (che, nel nostro paese, s’impone notoriamente tardi nel XX secolo) faccia tendenzialmente bene al teatro classico. Dalle recensioni si avverte che quando sono in gioco i nomi di Gassman o di Strehler alla direzione di uno spettacolo non solo sono risollevate le sorti dell’autore antico, ma anche l’attenzione di un pubblico di norma avvertito ancora come ondivago o distratto. Dagli anni Cinquanta, con la ormai piena e consapevole affermazione della regia interpretativa, il teatro classico pare offrirsi peraltro non più a mere «esumazioni» accademico-attoriali, ma a ispirate occasioni di rappresentazione, essendo assimilato progressivamente come campo di esercizio artistico, nonché in peculiare sintonia con le problematiche moderne.

Un contributo notevole al mutamento di sensibilità viene anche dalla sperimentazione teatrale, negli anni Sessanta-Ottanta. Questa corrente si pone nei confronti del teatro greco o della mitologia classica in un’ottica del tutto particolare, rinvenendovi (certo ideologicamente) le radici e il modello di un teatro comunitario, rituale e di magica potenza. Dopo tutto, Jerzy Grotowski avvia la sua parabola sperimentale nel 1959 con un

Orfeo da Cocteau; Richard Schechner, nel 1968, trae dalle Baccanti di

Euripide Dionysus in 69; Eugenio Barba, nel 1969, porta all’affermazione internazionale l’Odin Teatret con Ferai dall’Alcesti di Euripide e, dal 1967

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